9. Cinema perverso
p. 61-71
Texte intégral
9.1
1In quanto attore e regista-autore, uomo di cinema e di teatro, di televisione e radio, nessuno come Orson Welles ha avuto la possibilità e il gusto di invecchiare se stesso prima del tempo (tramite il maquillage) e di mettere in scena la propria morte. Penso soprattutto al finale di Citizen Kane, al finale di Storia immortale, dove due oggetti (una sfera di vetro con dentro una casetta e un po’ di neve, e una conchiglia), cadono a terra sfuggendo di mano al moribondo Kane e al moribondo Clay: oggetti annunciatori di morte, segnali della fine, ma in qualche modo misteriosamente collegati a un inizio (come del resto Rosebud per Kane). Avviene dunque per Welles, al momento della morte, un folgorante corto-circuito temporale. Il tempo ha un’improvvisa sospensione, o meglio, si riavvolge su se stesso, e la vita singola, scomparendo, trascina il mondo con sé nell’annullamento (è la fine del mondo, ogni volta identica, di cui parla Derrida).
2Il gusto di travestirsi da vecchi, o da adulti, di indossare i vestiti dei “grandi”, di applicarsi baffi e barba finta, di procedere zoppicando, magari con l’appoggio di un bastone ecc., è del resto tipicamente infantile: in parte è ascrivibile alla voglia di acquisire un’autorità che ancora non si possiede, in parte tradisce un’inconscia preoccupazione, come se si trattasse di esorcizzare il passaggio del tempo, precorrendolo, finché la preoccupazione diventa auspicabile accettazione. In fondo, il mister Clay di Welles non avrebbe più bisogno di truccarsi da vecchio, perché già lo è, e nella sua ultima, impossibile impresa (rendere reale una storia mai accaduta) è già implicita l’accettazione della fine.
3Cosa può rendere reale, infatti, una storia mai accaduta come quella che tutti i marinai raccontano, del vecchio signore che paga uno di loro perché giaccia con sua moglie e gli dia il figlio che desidera? Ammesso che accada (e per una volta accade!), la storia diventerebbe reale solo se raccontata, ossia solo se passasse attraverso il filtro della simbolizzazione, ma questo è appunto impossibile, non solo perché il marinaio non la racconterà a nessuno, ma perché, se anche decidesse di raccontarla, nessuno la crederebbe!
4Situazione senza vie d’uscita, se non quella verso la morte. Ovvero, direbbe Žižek, situazione perversa per eccellenza (anche se i suoi esempi cinematografici sono per la maggior parte hitchcockiani).
9.2
5The Pervert’s Guide to Cinema è il titolo d’un film del 2006, scritto da Žižek e diretto da Sophie Fiennes, in cui si utilizzano (e si modificano), per scopi critici, sequenze famose di famosi film. Per esempio: Melanie si dirige in barca da Bodega Bay verso la casa di Mitch (negli Uccelli di Hitchcock), e viene attaccata all’improvviso da un uccello, che la ferisce alla fronte, ma al posto di Tippi Hedren, sulla barca, più volte appare Žižek in persona. Il filosofo-psicanalista si istalla di prepotenza al posto del personaggio e commenta il film dall’interno del film (o almeno, da una rivisitazione del suo set).
6È una guida al cinema a uso d’uno Spettatore Perverso, ma è anche una guida dello spettatore al Cinema Perverso, dove è sottinteso, però, che tutto il cinema (sia sottoposto o no a questo tipo di giochi) è perverso.
7Il cinema, affermava Lenin, è l’arte più potente. Žižek, invece, preferisce dire: è l’arte più perversa. Perché? E ha senso stilare graduatorie di perversione tra le arti, all’interno delle quali assegnare il primo posto?
8Ha senso, forse, avuto riguardo alla natura volatile del desiderio, sempre caratterizzabile come “in movimento”. Al contrario dello specchio, al contrario delle altre arti della Mimesi, che amano porre lo Stesso, nel nome di Narciso, di fronte alla sua immagine come Altro, il cinema, attraverso le multiple immagini dell’Altro e il gioco delle identificazioni, mette in gioco lo Stesso, e a un tempo, grazie a queste, lo costituisce. Il Soggetto, ci ricorda il cinema, non si forma al di fuori delle sue (cosiddette) perversioni, al di fuori della seduzione su di esso esercitata da quella mobile ragnatela di corpi e sguardi in cui si lascia volentieri irretire. A cominciare, prima d’ogni specchio, come d’ogni frequentazione cinematografica, dal seno materno.
9È una forma di decostruzione, insomma, ma anche, malgrado tutto, di costruzione dell’identità.
9.3
10Lo stadio-video si porrebbe peraltro come decostruzione molto più radicale, come perversione rispetto allo stadio dello specchio, e l’istallazione elettronica come turbamento del dispositivo-cinema: questi gli assunti che stanno alla base del libro di Marco Senaldi, Doppio sguardo. Cinema e arte contemporanea (Bompiani, Milano 2008), assunti che però assumono tutto il loro valore solo a patto di minimizzare il coefficiente di perversione che già il dispositivo-cinema può recare in sé, visto che mette già da subito il soggetto di fronte a uno specchio deformante (se di specchio proprio si vuole ancora parlare).
11Diciamo allora: l’identificazione (immaginaria) diventa (quasi) impossibile, se la sequenza iniziale dell’Infernale Quinlan viene rigirata e proiettata a macchina capovolta, in Upside Down Touch of Evil di Mark Lewis, o se lo stesso Lewis (in A Sense of the End) gira i finali di film inesistenti, secondo le regole e le convinzioni dei “generi”, con un’efficacia tale da renderne retrospettivamente plausibile l’esistenza.
12Diventa (quasi) impossibile, se un intero film viene rimontato mantenendo solo i primi piani del protagonista, come fa Candice Breitz con Clint Eastwood in Soliloquy Trilogy; o se, nella ripresa televisiva d’una partita di calcio, le telecamere si concentrano solo su un giocatore (tocchi o no il pallone, partecipi o meno all’azione, o si limiti vagare per il campo) come accade in Zidane di Huyghe e Parreno. Sono casi, questi, in cui l’insistenza esclusiva sul volto o sul corpo del protagonista, ha proprio l’effetto contrario: invece di un’identificazione, si attua un processo di straniamento.
13Diventa (quasi) impossibile, se cambiano i tempi di fruizione. Douglas Gordon, in Five Years Drive-By, fa rallentare Sentieri selvaggi fino a portarne la durata a cinque anni, tempo corrispondente all’azione diegetica del film di J. Ford – oppure dilata a ventiquattr’ore la visione di Psycho di Hitchcock (24 Hours Psycho). Altro che la slow-motion di Bill Viola…
14Diventa (quasi) impossibile, se cambiano le condizioni di fruizione. Per esempio, se siamo all’interno del “cinema su ruote” (Cinema on Wheels) di Job Koelewijn, in cui lo schermo è sostituito (letteralmente) da una “finestra aperta sul mondo”. Oppure, se pretendiamo di vedere Invisibile Film di Melik Ohanian, o ci aggiriamo per le istallazioni di On Otto (Tobias Rehberger). O ancora, se vediamo La verifica incerta di Barucchello e Grifi, o entriamo nel Cinema a luce solida di Fabio Mauri. Questi, in una performance del 1975, proiettava il Vangelo secondo Matteo, sul corpo del suo autore, Pasolini, che assumeva la funzione di schermo: strano schermo, in verità – schermo vivente, dove si incontra la superficie materiale della pelle con la dimensione immateriale della luce – esperienza spiazzante, per cui il regista stesso diventava schiavo delle sue immagini.
15Diventa invece impossibile (senza il quasi), nel caso di Live-Taped Video Corridor, istallazione di Bruce Nauman cui non a caso Senaldi sembra assegnare, per la sua radicalità, una specie di posto privilegiato. C’è uno stretto corridoio, in fondo al quale sono posizionati due monitor sovrapposti, di cui uno rimanda l’immagine fissa del corridoio vuoto, mentre l’altro è collegato a una videocamera posta all’inizio del corridoio stesso e che lo inquadra dall’alto. Quando un visitatore si inoltra nel corridoio, la videocamera lo inquadra di spalle, così, man mano che si avvicina al fondo, la sua immagine sul monitor appare sempre più piccola. Scrive Senaldi: «lo spettatore vede se stesso in maniera indiretta: vede sì sé, ma non si riconosce, perché la sua immagine è catturata da un apparato di ripresa con un punto di vista estraneo al proprio campo di visione» (p. 87).
16Si tratta, è ovvio, d’una sensazione che deve essere provata direttamente, inoltrandosi di persona in questo Shock Corridor. Se si pensa a certi tentativi cinematografici di soggettiva integrale, tipo Lady in the Lake, la differenza salta agli occhi: qui il soggetto vede se stesso, ma senza potersi riconoscere, da una prospettiva assimilabile a quella dell’Altro lacaniano. Afferma Nauman: è come essere doppiamente rimossi da se stessi.
17La pratica di certe video-istallazioni, insomma, andrebbe concettualmente molto oltre gli esiti raggiungibili dalla video-arte, che spesso, malgrado le apparenze, rimane nei territori già circoscritti dalle esperienze cinematografiche (sia pure d’avanguardia).
9.4
18Il libro di Senaldi, così attento e informato sui dispositivi che cercano di “superare” lo stadio dello specchio, dovrebbe però spingerci a interrogarci, quasi di rimbalzo, sulla effettiva validità dell’analogia, spesso troppo facilmente evocata, tra quello stadio e il cinema stesso.
19Su questo piano, si potrebbe anche risalire a certe esperienze letterarie, tipo L’uomo del passaggio coperto di G. K. Chesterton o Uno, nessuno e centomila di Pirandello (si pensi al cap. i, quando Vitangelo Moscarda si imbatte casualmente in uno specchio, senza riconoscersi), ma rimaniamo pure nel campo dell’immagine, o meglio, dello sguardo come oggetto a lacaniano.
20È vero: il cinema è stato anche definito “specchio della vita”, avuto riguardo, in specie, al suo versante realistico o dichiaratamente documentario. Ma, almeno dal Surrealismo in poi, come possiamo ancora fidarci degli specchi?
21A teatro, non se ne fidava più neppure Pirandello, quando (a parte Vitangelo Moscarda) metteva in scena Sogno (ma forse no) e descriveva minuziosamente (nel 1929) un dispositivo scenico che somiglia a un’odierna istallazione, con uno specchio che sembra una finestra e una finestra che sembra uno specchio.
22D’altra parte, per il solo fatto di inquadrare, contornare, isolare, evidenziare, una porzione di “realtà” (ammesso che di realtà davvero si tratti) all’interno d’un contesto più vasto, l’inquadratura è in grado, come una cornice, di mutarne la natura e di alterare il carattere della percezione che ne abbiamo. Al limite, basta anche una cornice vuota a ottenere tale effetto, una cornice senza tela, né specchio. Le cose cambiano aspetto, osservate tramite l’occhio della mdp, così come cambiano aspetto se viste attraverso il mirino d’una macchina fotografica, di un cannocchiale, di un’arma. O dall’occhio di un pittore. Magritte lo sapeva bene. Non a caso Marcel Broadthaers si era ispirato a lui già alla fine degli anni 1970 (ricorda Senaldi), con due film, La pipe e Ceci ne serait pas une pipe.
23Attorno a suggestioni magrittiane, ha lavorato ad esempio, anche il Robbe-Grillet della Belle captive (1983). Cos’è, dopo tutto, la belle captive, se non la realtà stessa, catturata in una cornice senza quadro, che ne cambia la natura senza (apparentemente) cambiarne niente? Una cornice vuota, posta davanti al mare, ritaglia lo spazio d’una scena; può essere sostituita, eventualmente, da due quinte di velluto rosso, senza che, all’interno, la spiaggia e il mare cessino di essere tali, al tempo stesso rivelando, però, la loro natura improvvisamente estranea: porzioni di spiaggia e di mare all’interno della cornice, in assoluta continuità con la spiaggia e il mare al di fuori di essa, eppure rese irrimediabilmente altre, proiettate all’improvviso nell’incertezza, anzi, nell’ambiguità, tra veduta, specchio, quadro, inquadratura. Il vuoto, incorniciato, come falsa trasparenza.
24Forse, vero specchio deformante è già quello che, filtro invisibile, ci rimanda la nostra immagine, costituzionalmente altra.
9.5
25Per tornare alla Guida di Žižek, essa ci sembra talora, in verità, molto meno perversa del suo oggetto, nel senso che opera sugli spezzoni di film prescelti, senza che l’intrusione del pur invadente psicanalista riesca sempre ad assumere un senso che vada oltre l’illustrazione di quanto era già stato elaborato nei saggi sul cinema da lui scritti in precedenza.
26Da questo punto di vista, crediamo che il reperto più prezioso sia quello iniziale: una sequenza da un film del 1931, Possessed (diretto da Clarence Brown), in cui la protagonista, una giovanissima Joan Crawford in veste di modesta operaia, assiste al passaggio d’un treno (di lusso), i cui finestrini scorrono lentamente davanti a lei.
27Ogni finestrino sembra un’inquadratura cinematografica, prospettando scene d’un mondo lussuoso e (almeno per l’operaia) del tutto irreale. Si succedono: cuochi di colore che, in cucina, stanno preparandosi a cuocere polli; altri inservienti che apparecchiano i tavoli del vagone ristorante; una cameriera che sta stirando indumenti di seta; una signora che indossa sofisticata biancheria intima; l’ombra d’un uomo che si fa la barba; una coppia che balla, alla fine allacciandosi in un bacio appassionato. Più che un treno, sia pure di lusso, sembra un grand-hotel o una sfilata di luoghi deputati del dispositivo/cinema come fabbrica dei sogni, tanto è vero che infine il treno si ferma, e un passeggero elegantissimo, affacciandosi di fronte a Joan Crawford, la invita a salire, offrendole una coppa di champagne.
28Al mondo reale (quello della Grande Depressione, dopo il 1929) si contrappone dunque lo scenario edulcorato e fittizio del cinema. Il mondo reale non risulterebbe sopportabile, senza lo scenario del sogno, ma questo assume un ruolo che va oltre quello del mero inganno illusorio, a beneficio delle classi privilegiate: non è solo un treno che si ferma per puro caso (in realtà, “per illudere”) sul binario del Reale, è l’epifania dell’”Immaginario reale”, la fantasy, legata dialetticamente, per Žižek, al Reale, con la funzione di suturarne i vuoti e le incoerenze.
29Analogamente, quando Morfeo, in Matrix, offre a Neo la scelta tra la pastiglia blu (quella dell’illusione) e la pastiglia rossa (quella del Deserto del Reale), sembra (nota Žižek) che i fratelli Wachowski vogliano davvero convincerci dell’esistenza d’un Grande Altro (la Matrice) che offusca la “vera natura” della realtà. Come un’anestesia al cloroformio che, secondo quanto pensava nell’Ottocento il fisiologo Flourens, non eliminava il dolore dell’operazione, ma faceva sì che, una volta svegli, «non ce ne ricordassimo»
30In realtà, la pastiglia blu e quella rossa “vanno insieme”, come quelle macchie di Rorschach che non a caso, ogni tanto, si vedono nel film di Žižek /Fiennes.
9.6
31Dove Žižek trova (letteralmente) il suo posto è, come ci si aspettava, all’interno della filmografia di Hitchcock. Così, come abbiamo detto all’inizio, prende posto, negli Uccelli, sulla barca di Melanie diretta in casa di Mitch, per parlare del rapporto edipico di questi con la madre, o lo si scopre seduto in un angolo della cantina di Psycho, mentre discetta sul legame di Norman Bates con il cadavere mummificato di sua madre. Oppure, nella stanza di Judy in Vertigo, assiste alla trasformazione di costei in una nuova Madeleine: una nuova Madeleine che è esattamente la vecchia. La copia, insomma, è in realtà l’originale, o meglio, dice Žižek, l’originale è già una copia.
32In realtà, la situazione ci sembra un poco più complicata. C’è una serie di quattro donne in Vertigo: Carlotta Valdes, che vediamo solo in un quadro; la vera Madeleine, che vediamo solo cadavere; la falsa Madeleine; Judy. Ma la falsa Madeleine e Judy sono in realtà la stessa donna: le donne diventano tre, le pseudo-Madeleine due (Carlotta e Judy). Madeleine (la moglie uccisa) vive due volte, come Carlotta e come Judy, e muore due volte, come se stessa e come Judy, visto che Carlotta si è suicidata da molto tempo. Resta viva solo una donna estranea alla serie, Midge, ex-fidanzata di Scottie.
33Judy, in effetti, non è Madeleine, è solo la donna che faceva la parte di Madeleine. Scottie è dunque innamorato d’un’attrice, della donna che faceva Madeleine, che fingeva manie suicide, si incantava davanti all’immagine di Carlotta Valdes e meditava sul passare del tempo accanto alla corteccia d’una sequoia.
9.7
34Ma Žižek, piuttosto invadente, si intrufola anche in altri film, o in altri set. Viaggia sulla navicella spaziale di Solaris, parla davanti al sipario rosso di Mulholland Drive, dove la cantante svenuta ha appena abbandonato il microfono (ma la canzone continua), innaffia il giardino di Blue Velvet o siede sul divano di Dennis Hopper, si aggira per i corridoi e le stanze dell’hotel della Conversazione, sedendo poi sulla tazza del water dalla quale, nel film di Coppola, traboccava, al di là di qualunque realismo, il sangue d’un delitto appena avvenuto. Buco rosso opposto e corrispondente a quello nero dello scarico nella doccia di Psycho, nel quale invece scomparivano insieme il sangue e l’acqua, a seguito della diligente ripulitura effettuata da Norman, figlio devoto, per cancellare le tracce del delitto della “madre”…
9.8
35Il Reale, nell’approfondimento che Žižek effettua sul termine lacaniano, è la Cosa orripilante, il trauma, lo spaventoso oggetto primordiale, l’alterità irriducibile, come l’appendice fallica che spunta all’improvviso, del tutto inaspettata, dal torace di uno degli astronauti, in Alien (personalmente, aggiungerei le metamorfosi mostruose della Cosa di Carpenter). Ma non c’è bisogno che un film appartenga al genere horror o splatter, perché essa si manifesti. La Cosa è anche il sangue che deborda dal coperchio del water nella Conversazione. È l’improvvisa irruzione degli uccelli dal caminetto, nella casa di Mitch. È il pupazzo del ventriloquo, nell’episodio di Cavalcanti in Dea of Night.
36È anche il ritorno testardo, in Solaris, della moglie morta di Kris Kelvin, dove l’orrore è suscitato proprio da queste “continue resurrezioni”, propiziate dall’Oceano del pianeta misterioso. Qui tuttavia Žižek coglie nel segno, nell’addebitare a Tarkovskij una «mistificazione idealista», quando nel cuore dell’Alterità più radicale pretende di scoprire l’oggetto dei desideri più intimi di Kelvin, la dacia, la casa dell’infanzia russa, che più tardi, significativamente, ricomparirà nella campagna italiana, tra i resti d’una cattedrale romanica, in Nostalghia.
37La Cosa è anche Harpo, il muto sublime dei fratelli Marx, spesso, nella triade, assimilato a rappresentante dell’Es, che non si sa se sia un bruto deficiente o un angelico suonatore d’arpa. O può essere il volto bianco, colore della morte, di Mystery Man, che in Strade perdute invita Fred a chiamare casa sua al telefono, per sentirsi rispondere da un altro Fred.
9.9
38La Guida al Cinema Perverso non ha ovviamente nulla a che fare con il cinema delle perversioni sessuali, del porno, delle orge o delle psicopatologie esplicite. È situabile semmai, anche se Žižek non ne fa mai cenno, sul versante della “crudeltà” lucida, della sottomissione alla necessità, del “rigido controllo”, di cui parlava Artaud, anche se Crudeltà non coincide del tutto con Perversione, e lo stesso Artaud, da questo punto di vista, aveva smesso di sperare nel cinema. Che poi Von Trier e Haneke entrino a farne parte, è fonte, per noi, d’una certa meraviglia.
39Meraviglia pure, ma fino a un certo punto, che la Guida si chiuda addirittura con il riconoscimento di Charlot da parte della fioraia cieca attraverso il tocco delle mani, nel finale di City Lights. Cosa di più patetico e commovente, cosa di meno perverso (apparentemente)?
40Quando la fioraia, tornata a vedere, incontra Charlot uscito di prigione, ovviamente, dato che non l’ha mai visto, non può riconoscerlo. Charlot invece la riconosce, e le sorride silenzioso, come un vecchio barbone un po’ fuori di testa, attraverso la lastra di cristallo che separa il negozio di fiori dalla strada. Lei si stupisce, risponde divertita, senza capire («Ho fatto una conquista», dice). La lastra di cristallo permette la visione reciproca, dunque un riconoscimento a senso unico, ma non il tatto. Dalla parte della ragazza, l’acquisizione della vista non serve a vedere, perché, pur vedendo, non può riconoscere. Per stabilire finalmente la comunicazione nei due sensi, bisognerà che lei varchi la soglia del visibile, aggiri la lastra di cristallo e tocchi con mano.
41Ma Žižek rovescia il senso di questo riconoscimento, di questo toccare con mano: nota che Charlot cerca di allontanarsi, ne ha quasi paura. Non è un lieto fine. Infatti il film termina con i due protagonisti che si guardano come smarriti, immersi nella più totale confusione. La fioraia sembra costernata di scoprire che il suo benefattore è un mendicante scalcinato. Charlot avrebbe preferito lasciarla alle sue illusioni.
42Il Reale ha fatto irruzione nell’Immaginario, con tutto il suo carico traumatico. Non si sa cosa succederà, adesso. Non si sa se i due protagonisti saranno in grado di sopportare il brutto tiro che il Reale sta loro giocando. Ma qui termina Luci della città e termina anche la Guida di Žižek e Fiennes.
9.10
43Sei anni dopo, nel 2012, Žižek (ancora con la Fiennes) gira The Pervert’s Guide to Ideology. Come centro del discorso, qui, si può assumere il film di Carpenter, They Live, il cui protagonista (di nome John Nada), grazie a uno speciale tipo di occhiali, è in grado di decifrare i messaggi subliminali nascosti dietro innocui messaggi pubblicitari e di scoprire la natura aliena di molte persone che presentano aspetto umano.
44Se ciò che scoprono gli occhiali di John Nada è fin troppo chiaro (gli inganni e le lusinghe del Capitalismo, la mercificazione, l’appello al conformismo, che include una certa dose di innocua trasgressione), gli occhiali cinematografici di Žižek rivelano qualcosa di meno scontato: il potere allucinatorio dei messaggi del Capitale si basa sulla loro capacità di suscitare un flusso inesauribile di Desideri, indipendentemente dalla loro realizzazione. In questo senso, l’umanità si trova nelle stesse condizioni illusorie di Joan Crawford in Possessed, ma queste illusioni, in fondo, le permettono di vivere, o almeno di tirare avanti, fino alla catastrofe finale, considerato che il pugno chiuso di Žižek, sommerso dalle acque gelide del naufragio (Titanic), somiglia troppo a un ultimo gesto disperato di orgogliosa, testarda, inutile opposizione.
45Walter Siti ha scritto resistere non serve a niente, con riferimento a una realtà ancora più degradata, dove non resiste neppure il potere delle illusioni. Sia Žižek che Siti, però, sanno bene che non è vero. Resistere serve all’unica cosa che conta: tenere in vita almeno il sogno della ribellione, non fosse che per l’attimo di un gesto.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Teorie e visioni dell'esperienza "teatrale"
L'arte performativa tra natura e culture
Edoardo Giovanni Carlotti
2014
La nascita del teatro ebraico
Persone, testi e spettacoli dai primi esperimenti al 1948
Raffaele Esposito
2016
Le jardin
Récits et réflexions sur le travail para-théâtral de Jerzy Grotowski entre 1973 et 1985
François Kahn
2016