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Postfazione. Cosa sono le città, se non le persone?

p. 137-143


Texte intégral

1«What is the city, but the people?», si domanda Shakespeare nel Coriolano. La tragedia, ispirata alla vicenda del condottiero romano, ha una forte valenza politica che affascinò anche Bertolt Brecht, autore di un adattamento che non riuscì a finire. Generalmente la frase, che pronuncia Sicinio davanti alla plebe dell’Urbe, viene tradotta così: «Cos’è la città se non il popolo?». Ma il termine inglese people contiene una serie di sfumature diverse e allora, estendendo il significato e parafrasando un po’, potremmo anche chiederci: cosa sono le città se non le persone? È una possibilità che si ritrova pienamente nell’attraversamento della città di Messina che ci propone Crescere nell’assurdo. Uno sguardo dallo Stretto, anche grazie alla sua composizione plurale, fatta di prospettive e sguardi multipli, frutto del laboratorio immaginato da Agnese Doria e Lorenzo Donati (Altre Velocità) e voluto in Sicilia da Rossella Mazzaglia.

2Le città sono le persone che ci vivono dentro, quelle che ci hanno vissuto e se ne sono andate, quelle che le attraversano soltanto. Le città sono le loro storie e le tracce che quelle storie lasciano nel tessuto urbano, quelle visibili, sulle facciate dei palazzi, e quelle invisibili, nella testa della gente, nel sentire comune, nei modi di dire, nelle piccole leggende che si tramandano di generazione in generazione. Tutto questo insieme di elementi, e molti altri ancora, contribuiscono a dare senso a quell’organismo vivente che siamo soliti chiamare “città”. I luoghi da soli non bastano, ma i luoghi sono sempre dei meravigliosi punti di partenza, dei veri e propri dispositivi – per usare un termine caro alla scena contemporanea – in grado di far detonare l’immaginario che hanno assorbito lentamente nel corso degli anni e che restituiscono modificato, come fanno le piante che assorbono dall’ambiente anidride carbonica per restituire ossigeno.

3Ma che c’entra il teatro con tutto questo? C’entra perché teatro ha a che fare con le persone. Ne racconta le storie, ovviamente, anche se non lo fa per forza in modo lineare. Su quello la letteratura e il cinema hanno mezzi sicuramente più affilati e convincenti; ma poche cose come il teatro sanno scavare nel portato simbolico delle vicende umane, avventurandosi nella foresta di emblemi e simboli che abita la parte più recondita di noi stessi e delle nostre relazioni con gli altri.

4Il teatro ha a che fare con la città. Dirlo suona persino banale, vista la connessione che il teatro greco aveva con la vita della polis. Ogni forma teatrale, almeno in Occidente, deriva da quella connessione col tessuto cittadino che aveva il theatron, il luogo in cui si guarda: in modo esplicito quando si richiama alle forme della tragedia e al loro riverbero nelle epoche successive; o in modo implicito quando muta anche radicalmente le forme estetiche senza per questo smettere di invocarne la potenza. Il teatro “sogna” la città, e come il sogno restituisce alla realtà la sua immagine rovesciata, così il teatro restituisce alla città il suo animo più profondo, ctonio, il suo doppio distorto. Grazie allo spaesamento che nasce da tale distorsione, il teatro si tramuta in un potente strumento di coscienza e conoscenza. Una coscienza e una conoscenza che, anche qui, non seguono per forza i binari della razionalità (che per certi versi è il livello più riduttivo e deteriore del teatro), ma che si propagano come per un’illuminazione, esattamente come avviene per la poesia. Non a caso le pratiche teatrali sono quelle che con maggiore facilità e intensità sanno attivare quello stato di grazia tra gli spazi e le persone che generalmente chiamiamo “poesia dei luoghi”. @

«Il primo passo per riscoprire il senso del luogo è stato mettersi in marcia; letteralmente camminare», ci dice Rossella Mazzaglia nella sua premessa al volume. L’attraversamento urbano è una delle forme classiche di rapporto performativo con la città, usato da diverse discipline alla fine del Ventesimo secolo, a partire dall’architettura e dall’urbanistica. In questa pratica si inserisce un meccanismo cognitivo che viene esplicitato fin da subito: «Piuttosto che limitarci alla condivisione di un oggetto mostrato, illustrato e trasmesso, abbiamo cercato di riportare gli studenti a fare esperienza dei luoghi e dell’arte, creando le condizioni per una loro partecipazione diretta». Ma camminare non è un’azione neutra. È il modo più immediato per immergersi in una realtà e l’immersione produce sempre e comunque un cambio di prospettiva. Allo stesso modo è un’azione dall’impatto quasi nullo sul territorio, che viene esperito per quello che è, senza l’intervento delle grandi rigenerazioni edilizie che oggi sembra essere una delle poche voci con cui le amministrazioni pubbliche “pensano” gli interventi culturali nelle città. Camminare non produce e quindi non consuma, se non energia ed emozioni. Camminare significa esplorare un panorama in movimento e aprirsi alla possibilità dell’incontro con l’altro. C’è una frase di Bruce Chatwin, grande divoratore di strade, che ho sentito citare diverse volte ma di cui non sono mai riuscito a recuperare la fonte, che recita all’incirca così: «Sono convito che camminare aiuti a migliorare il mondo». L’incertezza sulla natura spuria o pure autentica di questo pensiero che ha il gusto dell’aforisma non cambia in fondo il suo valore: camminare è un’attività senza impatto ma non senza conseguenze. E tali sue conseguenze hanno a che vedere con la manutenzione di quel tessuto di luoghi e relazioni che chiamiamo ambiente.

5Toccare con mano le ferite ancora visibili del terremoto che devastò la città del 1908 e che costituisce il sottotesto di quella presente; conoscere la geografia degli spazi teatrali che animano lo spazio urbano in una chiave di esplorazione delle estetiche contemporanee, andando oltre le leggi della domanda e dell’offerta di spettacolo; imbattersi nella città riscritta dall’arte, dalle opere di street art fino al “monumento spontaneo” realizzato da Giovanni Cammarata, detto «cavaliere», attraverso la decorazione della sua casa-baracca. Tutti questi percorsi, così come gli altri contenuti nel volume, ci restituiscono un’immagine della città che immediatamente è anche una lettura dei rapporti che la compongono: umani, sociali, economici. Passare, come scrive Lorenzo Donati, «dai grovigli urbani alle rovine marittime, dagli orizzonti occupati da insediamenti ferroviari a quelli aperti ma che comunque guardano alla sponda calabrese» non è solo guardare il panorama di una città stratificata e unica, perché parte di un territorio di attraversamento che tiene assieme la sponda calabrese e quella siciliana dello Stretto, ma è già leggere i segni dei rapporti che hanno provocato quell’assetto e delle relazioni umane che vi si sono edificate sopra. È già addentrarsi in quella foresta di emblemi e simboli a cui facevo riferimento prima, entrare nella grammatica delle cause profonde che stanno sotto a ogni lettura epidermica del mondo, che è – o dovrebbe essere – il nutrimento fondamentale del teatro.

6Il fatto che il laboratorio immaginato da Altre Velocità si richiami a Paul Goodman e tiri in ballo l’idea di “assurdo”, in questa esplorazione artistico-cognitiva della città di Messina, costituisce poi una combinazione felice. Perché l’assurdo è una dimensione italiana che il nostro Sud pratica in maniera unica e iperbolica. Non a caso diversi drammaturghi del Mezzogiorno hanno trovato naturale confrontarsi con Beckett in una chiave del tutto originale e autoctona, immersa in un’atmosfera che nulla c’entra con gli ambienti teatrali rarefatti del premio Nobel irlandese e che, tuttavia, creano con essi un ponte istintivo in cui gli immaginari si travasano in modo fulmineo. Anche se le coordinate sono ribaltate: se lo sguardo nell’abisso per Beckett è tutto interiore, qui è la realtà esteriore a fornire una sospensione della logica quotidiana. Tuttavia non di imitazione si tratta, ma di reinvenzione. Perché se da un lato l’assurdo è una chiave interpretativa che si adatta a una realtà di immobilismo, povertà e disoccupazione più alta che nel resto del paese, con episodi diffusi di malamministrazione, è pur vero che chi scrive di teatro oggi deve fare i conti con gli stereotipi che tutti questi “archetipi del Sud” non solo italiano finiscono fatalmente per costruire.

7La reinvenzione dell’assurdo passa anche per una sua autonomia poetica e di linguaggio, attraverso la quale gli autori messinesi si lasciano alle spalle i cliché più retrivi del Mezzogiorno per indagare sul rapporto tra isolamento e identità. È un filo costante, a volte visibile e a volte sotterraneo, che passa per la continua invenzione poetica della lingua di Spiro Scimone e per le ambientazioni apocalittiche di Saverio Tavano, per le geometrie sentimentali e i voli filosofici di Carullo-Minasi, per le drammaturgie di Tino Caspanello e per la scrittura di Guglielmo Pispisa, ma anche in chi – come la compagnia Maniaci D’Amore – a Messina ha soltanto un cinquanta per cento delle proprie radici.

 

8Torniamo alla città. Il teatro contemporaneo ha reinventato lo spazio in molti modi. Ha pescato nell’immaginario del postmodernismo, che predicava la fuoriuscita dai luoghi formalmente pensati per l’arte – le sale teatrali, i musei – per invadere lo spazio della vita. E trasbordare nelle città. Per alcuni filoni di pensiero, come quello che ha connesso la ricerca antropologica e quella teatrale, sulla falsariga dell’indagine sui rituali, semplicemente ogni confine tra spazi e pratiche era privo di senso se non per il telos connesso al suo superamento, alla pratica dello sconfinamento. Oggi, che la sbornia ideologica che accompagnava quelle stagioni sembra essersi esaurita, e molte delle forme sperimentate nel secondo Novecento ci appaiono giustamente obsolete, il rapporto tra il teatro contemporaneo e la città torna a farsi leggere nel suo valore più politico. Depurato dall’estremismo, malattia infantile di ogni rivoluzione di pensiero, oggi il rapporto della scena contemporanea rispetto alla dimensione urbana torna a delinearsi per quello che è strutturalmente: un problema di pratiche artistiche, visioni della città e stili di vita.

9Le pratiche artistiche, oggi, sono pratiche resistenziali. Attilio Scarpellini ha dato una lettura del teatro contemporaneo come di un luogo privilegiato dove è possibile smontare le retoriche mainstream, da quelle politiche a quelle televisive; una pratica estetica che ha radici lontane, ma che in un contesto come quello attuale, dove impera la retorica thatcheriana del there is no alternative, diventa quasi sovversivo1. È bizzarro che sia proprio una forma comunicativa arcaica come quella teatrale a ricoprire questo ruolo, ma forse neanche tanto. Il teatro è marginale, invisibile, secondario in un mondo dove si misura la potenzialità dei media e delle loro narrazioni di arrivare a audience globali; ma proprio per questo è libero di parlare altri linguaggi. Che, tuttavia, sono spesso tutt’altro che secondari, perché nell’ambito della polis, la dimensione a cui il teatro parla, possono diventare riconoscibili e significativi.

10Buona parte del teatro contemporaneo italiano degli scorsi decenni si è formato soprattutto in luoghi non istituzionali: associazioni, centri sociali, piccoli teatri. Spesso gli artisti hanno dovuto inventare i propri luoghi. Tutto questo ha contribuito a ridisegnare la geografia teatrale delle nostre città. Una geografia che oggi è già quasi scomparsa, vista la chiusura di tanti spazi e l’esaurirsi della spinta propulsiva degli spazi sociali, ma che non per questo si esaurisce: quando i potenziali creativi trovano luoghi per potersi esprimere – e amministrazioni in grado di supportare, o almeno non ostacolare, tale movimento – quella geografia è pronta a riemergere in una nuova conformazione. E dare spazio, dunque, a nuove esplorazioni.

11Per questo, credo, il rapporto tra il teatro e la città ha a che vedere con la visione dello spazio urbano. Una città fatta di una moltitudine di teatri, di spazi culturali autonomi, dove è possibile provare e sbagliare, dove la sperimentazione e le nuove generazioni hanno diritto di cittadinanza non per occupare la casella di un bando, ma perché sono in grado di riscrivere attraverso l’arte la relazione che i cittadini hanno coi propri luoghi di appartenenza, quella è una città viva. Ovvero, un tessuto urbano in grado di dare spazio a modelli relazionali e stili di vita non orientati soltanto al consumo. Una città di luoghi vivi è una città di persone e relazioni vive. Qualcosa che può essere costruito in accordo con le istituzioni cittadine, quando si dimostrano lungimiranti, oppure in alternativa e aperto contrasto a esse, quando si trincerano in un immobilismo di conservazione. Una città, e per riflesso la sua comunità, può oscillare nel tempo da un atteggiamento all’altro, ma in ogni caso lo spazio che la creatività diffusa occupa all’interno della sua mappa resta sempre e comunque un valido termometro per capire il suo grado di vitalità, la sua apertura culturale e la sua capacità di vivere al ritmo delle relazioni umane anziché a quello dei bilanci economici.

Notes de bas de page

1 A. Scarpellini, Per un teatro minore, voce teatro in Enciclopedia delle arti contemporanee. I portatori del tempo. Il tempo inclinato, a cura di Achille Bonito Oliva, Electa, Roma 2015.

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