Per-formare nel tempo
p. 117-133
Texte intégral
Il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dove ci sono dei vuoti, delle differenze. È lì che qualcuno ha bisogno di stare ad ascoltare qualcosa che qualcun altro ha da dire a lui. (Fabrizio Cruciani)
1L’ultimo giorno del progetto Crescere nell’Assurdo. Uno sguardo dallo Stretto, artisti, studiosi, critici e studenti si sono ritrovati nei locali dell’Università all’interno di un incontro pensato come un’agorà in cui condividere le impressioni maturate nelle precedenti giornate ed estenderle, in modo libero, anche ad altri interlocutori presenti; oltre al drammaturgo Tino Caspanello, l’attrice e sua compagna di vita e d’arte Cinzia Muscolino, responsabile della creazione di due opere pittoriche per il progetto Distrart, e la pittrice Manuela Caruso, di cui le immagini di Mata e Grifone dipinte sulle pensiline di piazza Cairoli hanno rappresentato l’inizio concreto e simbolico delle tre passeggiate urbane.
2Lungi dall’essere solo lo scarto o il riflesso di un sogno arrugginito di sviluppo, lo Stretto si è così trasformato nel luogo eletto di un ripensamento critico e creativo che ha coinvolto persone abitualmente separate da settori disciplinari e ambiti professionali, mosse dalla complicità di un atteggiamento militante. Dall’intreccio tra il confronto multidisciplinare e le prospettive specialistiche dei singoli appuntamenti sono emerse parole chiave che canalizziamo ora in nuovi interrogativi, affinché possano fungere da veicolo di ulteriori azioni, pensieri e narrazioni.
3Esperienza è stato il termine più citato, mentre è variato, di voce in voce, il suo significato. «Come fare in modo che oggi l’opera d’arte risuoni nelle biografie degli adolescenti?»1 è la domanda inizialmente posta da Lorenzo Donati ascoltando la richiesta degli allievi delle scuole secondarie e il loro bisogno di riconoscersi nell’opera teatrale, per poterla comprendere attraverso un’esperienza soggettiva. Nelle sue, e nelle loro, parole ritroviamo, quindi, l’indicazione della soggettività dell’esperienza quale antidoto all’arretramento dell’interpretazione, ovvero a una cecità ampiamente denunciata da artisti e intellettuali. Strumento, peraltro, noto alle istituzioni (particolarmente museali), in cui un approccio fenomenologico è spesso alla base di progetti educativi fondati sull’idea che la consapevolezza e l’immaginazione creativa possano essere innescate dalla percezione dell’opera d’arte.2
4Alla comprensione fenomenologica si associa l’esperienza laboratoriale in cui la pratica è intesa quale base per la comprensione teorica, oltre che come acquisizione di un sapere tecnico professionalizzante. Ne parla Tino Caspanello, quando con riferimento all’arte visiva afferma che «la carne che comincia a dipingere, che sente il rosso, […] è l’unico modo per capire il significato di un rosso. Dentro la critica e la storia dell’arte ci sono dati necessari ma che non sono il corpo, le mani dell’artista». Se la pratica ritorna, dunque, a indicare una possibilità di penetrazione che l’artista più di ogni altro può fornire, resta, però, aperta la domanda su come sollecitare processi educativi che, senza distaccarsi dalla materia dell’arte, la attraversino per instillare capacità di pensiero e di azione non predeterminate. Pratiche di attraversamento, e non solo di avvicinamento alla maestria del teatro e di altre forme espressive.
5La proposta di ragionare dalla prospettiva dello Stretto ha avuto, in tal senso, l’effetto di traslare il focus su un’altra dimensione della soggettività, attraverso la rielaborazione dell’esperienza del luogo, della città stessa, da sondare come viatico per toccare la sfera emozionale e coniugare il logos all’ethos. Il primo a pensarsi nel luogo è Guglielmo Pispisa, che nella tavola rotonda Scrivere nell’assurdo ha raccontato del tempo necessario a ritrovare la sua città nella stesura dei propri testi, della sua stessa mancanza percepita nella giovinezza, consegnata anche alle pagine dell’ultimo romanzo, Voi non siete qui (2014):
A Messina non si stava mai, se non per lavorare un lavoro mediocre. Messina era solo la tappa dimenticabile di un viaggio la cui meta era un’altra. Da Messina si passa. Sei stato a Messina? Sì, ci sono passato mentre andavo a Palermo, mentre andavo a Catania, mentre andavo a Noto. Messina è il Ferribotte, l’arancino della Tourist, la Madonnina, l’iscrizione latina che si guarda distratti dal traghetto. Vos et ipsam civitatem benedicimus (se chiedi che significa, manco lo sanno). Messina è lo Stretto, un passaggio fatto d’acqua, non una città. È l’A18 e l’A20, il viale Boccetta che porta all’autostrada. Messina è il ponte. Che non c’è. L’opera faraonica che non serve, tanto più imponente quanto assente. Il collegamento da un posto che non è Messina a un altro appena fuori Messina. Il monumento alla fanfaronaggine, alla cialtroneria, all’essere buddaci, come diciamo qui, sbruffoni. Sulle mappe dei radi pannelli per turisti buttati a casaccio in centro, accanto al circoletto rosso che indica la posizione, la scritta dovrebbe essere Voi non siete qui. Noi non siamo qui. E anche se ci siamo, la testa è altrove.3
Mentre nel testo passa dall’imperfetto all’indicativo e trasforma la propria memoria nell’eco di una percezione diffusa e senza tempo, Pispisa ricorda, nel confronto con i drammaturghi, l’importanza del luogo e di una collocazione concreta, corporea, indispensabile a produrre un’immagine iniziale nel lettore. Un’indicazione di metodo che, in questo caso, racconta anche la necessità di un recupero e, più in generale, un processo indirizzato allo sviluppo di una narrazione immaginaria.
6Siamo così indotti a chiederci se l’oggettivazione del luogo, che può essere “ri-conosciuto” nella finzione e nella realtà, non fornisca uno strumento primario per suscitare riflessioni, costruire memoria o anche solo, inizialmente, partecipazione. L’interrogativo sul rapporto tra educazione ed esperienza si precisa in tal modo, inevitabilmente, in relazione alla dimensione pubblica della percezione soggettiva, che può essere interpretata secondo un’accezione «postmoderna», come una soggettività non «più antropocentrica ma aperta all’ibridazione con l’alterità»4. La stessa necessità di intervenire sui processi educativi tenendo conto del cambiamento intercorso nella concezione dell’individuo è, pertanto, declinata usando il luogo come fosse una maschera, il mezzo per compiere un’esperienza dell’alterità in cui riconoscersi, «perché la città ha questo di straordinario e di pericoloso: è il fuori, ma io vi sto dentro! E sono al suo interno».5 Percezione dell’alterità che non si annulla nel momento in cui ci si pone lontano dal centro culturale e politico, con cui stabilire, piuttosto, un rapporto dialettico, per arrivare a scoprire, di riflesso, la propria “postura deterritorializzata”.
7Il luogo è pertanto quello concreto, ma anche quello evocato, che ritroviamo nei silenzi tipici di questa terra, cui allude Spiro Scimone, invitando a insegnare ad ascoltare il silenzio, per uscire dall’incomunicabilità, vero limite delle relazioni umane. Luogo che, in quest’ottica, non coincide con l’identificazione di una presunta essenza e che, piuttosto, impone di interrogare la realtà visibile e il paesaggio umano, le storie e le memorie, come le azioni ripetute e indotte dalla spazialità urbana che, nella loro rituale quotidianità, costruiscono nuove architetture umane ed edificano ulteriori possibilità di rispecchiamento e di sguardo.
8Il senso perduto del luogo che artisti, letterati, storici e sociologi denunciano a Messina è stato, dunque, il limite dal quale partire, come soglia e, perciò, potenziale risorsa per un avanzamento di metodi e domande. La percezione del vuoto che qui si respira ha consentito, infatti, di amplificare anche l’eco di interrogativi che esulano da qualsiasi localismo e che sono conseguenza della cultura globale in cui siamo immersi ad ogni latitudine. Come ricorda Cecilia Guida, oggi
aumenta il numero di coloro i quali abitano in una città che non è la stessa nella quale vivono, lavorano e passano il tempo libero. Proprio questa differenza fa sì che la figura tradizionale del cittadino si dissolva a poco a poco e sia sostituita da una pluralità di modi di esserlo. Vivendo in un luogo, lavorando in un altro e avendo delle relazioni sociali in un altro ancora, entra in crisi il cittadino classico, ovvero colui che, all’interno di uno spazio pubblico, discute collettivamente temi comuni riguardanti l’economia, la politica e la cultura.6
Implicito nel modo di vivere attuale è il rischio di una schizofrenia, se non di una scissione percettiva che ingenera distacco e insofferenza e che, perciò, rende indispensabile sviluppare forme alternative di contatto, di riconoscimento e relazione tra l’estraneità percepita in sé e negli altri.
9Una prospettiva ribaltata di sguardo (che potrebbe ben prestarsi a leggere anche i meccanismi della spettatorialità) appartiene, in particolare, al vissuto dello Stretto, di cui ricalca il dinamismo, il “tira e molla” tra costa sicula e calabra citato da Tavano e descritto anche da Carullo Minasi. Peppe Carullo è di Reggio Calabria, Cristiana Minasi di Messina, assieme fanno la compagnia Carullo Minasi, di base a Messina. «Prima di vivere a Messina stavo a Reggio e guardavo Messina come se fosse uno specchio […] al mare come a una possibilità, piuttosto che a un limite», ci dice Carullo con parole che indicano una soglia-mare diventata risorsa, uno scoglio da varcare per sconfinare sul piano creativo e andare a fondo, oltre il moto beckettiano che unisce e divide le due sponde: «andare a fondo, per noi – ribadisce Minasi nell’incontro conclusivo –, a volte significa avere a che fare con l’orizzonte. È, quindi, un po’ come volare: la nostra profondità diventa evanescenza».
10In una città confinata dentro barriere visive che ne negano l’origine stessa, varcare il limite conoscitivo presuppone, in particolare, un’esperienza del limite densa di implicazioni, sul piano pedagogico e artistico, che si possono estendere oltre la specificità locale.
Siamo stati nella Chernobyl messinese, la zona falcata, che è stata completamente asportata dalla geografia mentale di questa città. Eppure, la città è sorta proprio grazie a questo luogo, che a un certo punto ha smesso di essere ascoltato. Il sito dove è nato il nodo della relazione urbana oggi è il luogo dell’assenza e, quindi, anche dell’assurdo. Come riprendere allora il filo della storia, da cui questa città è appesantita? Bisognerebbe riprendere da Baudelaire il concetto di bello, la capacità di estrarre l’eterno dal presente e, mettendo da parte il bello estetizzante, immergersi in situazioni drammatiche, finanche tragiche, come può essere la zona falcata, che è tanto sublime quanto terribile. Non è una questione politica, né economica; concerne la trasformazione dell’immaginario urbano, il processo di risemantizzazione dello spazio in luogo. E l’arte può provocare questo spostamento, non l’arte museificata, bensì l’arte intesa come fatto sociale (Pier Luca Marzo).
Il richiamo di Marzo ad addentrarsi nelle zone buie, per illuminarle con nuovi processi semantici che trovano nell’arte un bacino privilegiato di azione – sia essa pittorica, letteraria o performativa – mostra l’altra faccia, l’aspetto creativo della pedagogia delle catastrofi teorizzata dall’economista e filosofo Serge Latouche:7 porsi dinanzi a un luogo terribile, come la zona falcata, è un po’ come entrare dentro lo scenario di una catastrofe, immergersi dentro lo shock, per dilatarne il tempo, costruirne una durata in un intuitivo, seppur fugace, percorso di consapevolezza. Vale in generale e vale in questo lembo di terra, perché «Messina è la sua catastrofe: questo continuo essere all’erta offre una grande possibilità» (Cristiana Minasi).
11E, allora, sentire l’ansia indotta dall’abbandono – abbaiare di cani, fragore del mare, vento impetuoso, piedi che calcano il selciato sconnesso, cavi ruggine e vetri rotti – avvertire su di sé il peso di uno scenario rovinoso aiuta a impadronirsi d’ogni attimo riposto su quel che resta di uno sconcertante patrimonio emozionale. A sentirsi attraversati dalla pressione che Benjamin riconosce nell’impeto dell’Angelus Novus:
Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata sulle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo.8
La conoscenza del luogo funziona, pertanto, da specchio ribaltato per modificare la percezione di sé rispetto alla storia depositatasi nelle macerie. Noi «abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia. Questa potrebbe essere oggi la vocazione pedagogica delle rovine».9
12Una diversa esperienza del limite è quella che, invece, pone l’accento proprio sulla barriera, insistendo sul gesto stesso dell’attraversamento rispetto all’approdo concreto e metaforico rintracciabile oltre il confine della più immediata visione. L’abbiamo riconosciuta e commentata assieme a Federico Vitella nel laboratorio “Visioni”, in cui ha presentato L’Avventura (1960) di Michelangelo Antonioni e Tutto Bianco (2015) di Morena Campani e Caroline Agrati. Come le parole dei drammaturghi, così l’incontro con l’opera cinematografica insiste sul limite della visione da una prospettiva non antropocentrica che funziona da dispositivo percettivo.
13Antonioni mostra un paesaggio disorientante dato dalla trasformazione dello sfondo in figura e da tempi diradati. Morena Campani ne ripercorre le locations in un racconto autobiografico che va dal luogo della propria nascita, nella Ravenna disumanizzata di Deserto Rosso (1964), fino alla Sicilia preindustriale de L’Avventura. Alla fine del film dice: «la presa di coscienza parte dalla perdita di riferimenti». Il nomadismo esposto, simile al vagabondare senza meta già conosciuto in Antonioni, e la nebbia che ricopre i paesaggi ricordano un’altra parola chiave ricorrente nelle tappe del progetto: spaesamento.
14Il disorientamento percepito come un limite dagli adolescenti incontrati da Altre Velocità nelle scuole si profila, ora, come uno strumento di sguardo. Ricercato dagli artisti, ci interroga sui dispositivi alternativi alla ricerca della profondità interpretativa che ha mosso i nostri primi passi, indicando la soglia come medium da attraversare, piuttosto che da oltrepassare. «Toccare, vedere, sentire» scorgiamo tra appunti di un quaderno ripreso da Campani quasi marginalmente in Tutto bianco: laddove la luce ovattata della nebbia oscura la visione, la tattilità sembra porsi come tramite per la comprensione, sollevando una riflessione sul meccanismo metatestuale utile a stimolare e compiere, innanzitutto, un esercizio della percezione.
15Su questo aspetto hanno lavorato gli studenti-fotografi, cercando di sperimentare una transizione dalla passività dell’esposizione alla pratica attiva dei mezzi rappresentativi impiegati. Come spiega Francesco Parisi, l’obiettivo della fotografia non è stato tanto di lasciare una traccia, quanto di «addestrare lo sguardo» attraverso il medium fotografico, di sviluppare la «capacità di cercare collegamenti all’interno di uno scenario e tra questo e le interazioni che le persone vi mettono in atto», di «selezionare gli elementi da mettere in evidenza […] calandosi in una necessità di rappresentazione. La zona falcata, in particolare, ha costretto i partecipanti ad andare oltre quello che convenzionalmente consideriamo bello, brutto, utile e inutile, oltre i giudizi di valore diffusi e oltre la visibilità consueta, per rielaborare con la pratica fotografica ciò che stavano guardando, che lì presentava un incredibile stridore». Il mezzo tecnico, in questo caso, è stato il dispositivo per discernere e selezionare, prendendo consapevolezza del confine tra realtà e rappresentazione. Da spettatori emancipati, nell’accezione data a questo termine da Jacques Rancière, gli studenti sono entrati in dialogo con la “scena osservata”, l’hanno fatta propria e riprodotta. Accogliendo la proposta di Altre Velocità, sin dai sopralluoghi si sono posti come pionieri dello sguardo.10
16Pensando alla co-esperienza estetica, piuttosto che all’opera compiuta, il filtro mediale cede, invece, il passo alla relazione che si attiva tra artista e fruitori. Nel merito, Dario Tomasello ha sottolineato l’opportunità di trasformare l’esperienza in promiscuità con il proprio oggetto di studio. Da un diverso punto di vista, Scimone ha ribadito la necessità di creare una relazione che vada oltre lo spettacolo e possa incidere anche su poche persone, affinché si facciano a loro volta canali di un avvicinamento al teatro. Nel contesto dell’arte pubblica, questa relazione corrisponde spesso a una reciprocità di contatto che scompare quando l’opera è ultimata, ma che resta di vitale importanza nell’ambito performativo, dove la relazione è sempre in presenza.
17Parlando della creazione delle due pensiline Mata e Grifone, realizzate per il progetto Distrart nel 2015, Manuela Caruso ha insistito, in particolare, sul rapporto tra accessibilità all’opera e reciprocità tra artista e osservatori come strumenti preziosi di educazione, tipici dell’arte pubblica:
ho reinterpretato il mito di Mata e Grifone in chiave contemporanea. Tutti lo conoscono e sanno che Grifone ha la pelle nera e che Mata ha la pelle bianca e vive a Messina. Tutti sanno che sono i fondatori di questa città e io ho immaginato i ragazzi che, ai giorni nostri, sbarcano a Messina nel tentativo di trovare una casa e sperano in un’accoglienza, esattamente in quell’accoglienza che Mata diede a Grifone. Per circa 10 giorni, ho dipinto dividendomi tra una pensilina e l’altra e mi è capitato di dialogare con molte persone diverse tra loro, con cui non avrei mai pensato di potere parlare d’arte. Questo avviene sempre quando operi per strada. È emozionante e una fonte di arricchimento sia per me che per chi pone le domande. L’esperienza non può, quindi, che andare di pari passo con l’educazione e la formazione, perché al confronto mette in campo un elemento in più: il sentimento, l’emozione. Nei dieci giorni di creazione io ho provato diverse emozioni e ho cercato di condividerle con tutte le persone sconosciute che si fermavano a parlare e che, spessissimo, mi restituivano un riscontro emozionale. Un gruppo di sette o otto ragazzi passava quasi ogni giorno per prendere il tram e, fermandosi, faceva domande, si informava. Un giorno chiesi se conoscessero qualche pittore e la risposta fu negativa, tranne che per uno di loro che ricordava le ballerine di Degas. Mi sono chiesta se fosse mai possibile che non avessero mai visto un quadro, neanche a casa loro, e mi sono detta che forse il problema era piuttosto che non si erano mai chiesti chi l’avesse fatto e perché. Quindi, secondo me, il merito dell’arte che si può fare in strada è proprio quello di sollevare delle domande che in altri contesti non ci si pone. Vedi una persona che sta dipingendo e ti domandi perché lo fa, cosa sta dipingendo. Questo è il valore alto dell’arte che si può fare in strada: lo scambio continuo di emozioni.
L’esposizione al processo e al gesto artistico consente, nelle parole di Caruso, un’esperienza estetica condivisa che ha per fondamento l’imprevedibilità del contatto non preannunciato, l’emozione e la possibilità di interrogarsi sulla relazione tra l’opera e la contemporaneità che la ispira. Che mette, inoltre, in luce un tipo di relazionalità che definisce anche lo spazio dinamico tra chi agisce in scena e chi fruisce dell’opera, precedente all’attivazione di modelli interpretativi e fenomenologici di ricezione; uno spazio di aspettative non riassumibile nella dualità dialogica e che comprende le condizioni ambientali; ovvero, anche il silenzio del luogo inscritto nell’opera: l’alterità da riscoprire attraverso e oltre l’individualità.
18Anche Cinzia Muscolino sottolinea, al riguardo, l’esigenza di andare verso il proprio interlocutore quando descrive Cumpari, fotoritocco fatto qualche anno prima e riproposto per Distrart nel 2015:
Cumpari è una foto scattata dal ponte della nave all’attracco di Messina e che avevo ritoccato. Per noi messinesi l’approdo a Messina era legato all’insegna Campari, che, per me, insieme alla Madonnina, rappresentava la Sicilia, quando ritornavo nella mia terra. E l’idea era di poter sostituire la “A” con la “U” e ricordare l’appellativo “Cumpari”, non in termini mafiosi, ma secondo l’uso messinese, con un’accezione positiva. La mia idea era quella di creare un’istallazione permanente. Quando ho scattato la foto c’erano ancora le lettere. Erano spente, ma c’erano e io avevo fatto richiesta all’allora sindaco di Messina di sostituire la “A” con la “U” e di accendere quest’istallazione permanente sullo Stretto, ma l’idea non venne accolta. E, in definitiva, anche per me, come si diceva prima, l’arte in strada è uno dei mezzi più immediati per arrivare alla gente, visto che sempre meno si ha la possibilità di recarsi in luoghi artistici, ma anche a teatro. Manca spesso la voglia o la curiosità nelle persone. Scendere nelle strade o trovare dei luoghi alternativi, purtroppo o per fortuna, è, perciò, al momento, un’operazione necessaria.
La mancanza di esperienze estetiche emerge come contraltare della difficoltà di cogliere nello spazio quotidiano le possibilità di osservazione, che sono condizione e conseguenza di un atteggiamento selettivo e critico da stimolare. Sempre Muscolino invita a inforcare la lente di ingrandimento (come, in altro modo, con la propria azione fisica aveva fatto Monia Alfieri sul confine della zona falcata). Muscolino descrive, in particolare, il processo messo in atto per La grande nave, opera realizzata alla fermata dell’Orione in un tentativo di orientare lo sguardo in due direzioni: il mare (che ormai sappiamo essere il genius loci dimenticato di Messina) e la memoria culturale della città. Il murales disegna, in tal senso, una mappa alternativa e altamente simbolica che non illustra lo spazio, bensì scava nel tempo.
La grande nave non è un progetto pittorico, ma interamente grafico, che si trova sulla passeggiata al mare. Mi sono guardata intorno prima di progettarla. Qui siamo in uno dei pochi punti di Messina in cui si vede interamente il mare, ma spesso si dimentica di guardarlo e, allora, ho pensato di aiutare chi sostava alla fermata del tram a rivolgere lo sguardo al mare, creando degli oblò. Sulla pensilina, ho ritratto un pezzo di nave, di cui l’esterno è rivolto al mare e l’interno è simile all’interno di una cabina. Gli oblò avrebbero dovuto essere bucati, ma non è stato possibile e, allora, ho dovuto fare io il mare, che purtroppo anche lì è finto. L’idea era, però, di mettere delle lenti d’ingrandimento sul mare. La nave all’esterno porta la scritta “Sicilia” e, mentre la dipingevo, molti passanti mi hanno chiesto: «Ma affonda o emerge?». Ed era proprio questo il gioco che volevo innescare: «chiedetevelo voi se questa terra affonda o emerge!» Ogni tanto affonda e ogni tanto emerge. Dovremmo bilanciare un po’ di più.
All’interno, i riferimenti alla storia di Messina sono tantissimi, alcuni molto nascosti, altri palesi, dalle immagini dei simboli di Messina, dei suoi fondatori, alla Madonnina, a dettagli che non si riescono a scorgere, come la testa di un uomo col basilico, ripresa dal racconto di Lisabetta da Messina del Decameron di Boccaccio, o una scatola ritratta su uno scaffale con Don Cisciotte e Sancio Panza. Ma anche un guanto di Cervantes, che aveva perso l’uso del braccio sinistro nella Battaglia di Lepanto ed era stato ricoverato a Messina. Dall’alto, una lancetta di un orologio punta verso il guanto e tutti i giri che lì ho dipinto sono ispirati all’iconografia di Antonello da Messina. Dietro l’orologio un cartiglio riporta le iniziali di Don Giovanni d’Austria e l’anno della partenza per la Battaglia di Lepanto. Inoltre, l’orologio è di venticinque ore, perché un’altra leggenda narra che Don Giovanni d’Austria avesse un giorno chiesto a Dio un’ora in più, per riuscire a uccidere il padre. E l’ora in più fu data. E tante altre piccole presenze possono essere rintracciate dentro la pensilina. Provate a cercarle.
Attraverso un processo citazionale o ponendo una lente d’ingrandimento, Muscolino sollecita direttamente l’attenzione di un pubblico volutamente generico, non elitario, di passanti. Indica, però, anche strumenti segnici che forniscono indicazioni di metodo: processi di detournement, di decontestualizzazione e ricollocazione di referenti culturali, una rielaborazione del mito e della storia che si associano alla dialettica dei contrasti sottolineata da Marzo e Alfieri (attraverso il discorso diegetico e la performance, quali strumenti di una costruzione della durata andata oltre il sincretismo segnico del luogo). Ricordata anche da Zampieri nella coniugazione di materiali e memoria di un percorso retroattivo nel paesaggio, oltre che con la produzione di micro-azioni rituali e partecipative.
19Storicizzare è la parola che impiega Caspanello, pensando a un antidoto contro la mancata comprensione dell’arte; memoria potrebbe essere un’altra, pensando agli enigmi ereditati dalla contemporaneità, nella misura in cui il bisogno della memoria è anche un bisogno di storia, di un «tempo perduto che l’arte talvolta riesce a ritrovare»11. Memoria non celebrativa, né consolatoria, né necessariamente effettiva, che, resistendo all’oblio (testimoniato e percepito calcando i passi della bellezza in riposo), consenta al tempo di riprendere spazio con l’accrescimento del desiderio e della consapevolezza individuale e collettiva.
Notes de bas de page
1 Dove non diversamente precisato, le citazioni di studiosi, critici e artisti sono tratte dai materiali originali del progetto Crescere nell’Assurdo. Uno sguardo dallo Stretto.
2 Anche nelle diverse articolazioni, questi metodi sono fortemente informati dall’approccio pragmatico di John Dewey. Si veda, al riguardo, J. Dewey, Art as Experience (1930), Penguin Books, New York 2005.
3 G. Pispisa, Voi non siete qui, Il Saggiatore, Milano 2014, pp. 151-152.
4 L. Gobbi e F. Zanetti, Teatro e educazione alla cittadinanza, in Teatri re-esistenti. Confronti su teatro e cittadinanza, Titivillus, Corazzano (PI) 2011, p. 1.
5 H. Maldiney, Mises en perspectives philosophiques, in C. Yournès, P. Nys e M. Mangematin (a cura di), L’Architecture au corps, Ousia, Bruxelles 1997, p. 11.
6 C. Guida, Spatial Practices. Funzione pubblica e politica dell’arte nella società delle reti, Franco Angeli, Milano 2012, p. 23.
7 Cfr. S. Latouche, Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo, Emi Editore, Bologna 2014.
8 W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995, p. 80.
9 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 43.
10 Dal punto di vista didattico, la fotografia è stata solo un mezzo di restituzione dell’esperienza. Anche gli altri partecipanti sono stati, infatti, chiamati a una riflessione, sfociata in brevi dossier e relazioni, che non trovano spazio dentro questo volume, ma che sono stati parte del processo di emancipazione dello sguardo tentato durante il percorso formativo. Alcuni hanno, inoltre, partecipato alle scelte con la supervisione dei curatori o degli artisti (rispetto all’itinerario interno al cimitero monumentale, suggerendo soste impreviste per l’intero gruppo nel corso delle passeggiate, valutando come affiggere i disegni della mostra dei bambini).
11 M. Augé, Rovine e macerie cit., p. 8.
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Crescere nell’Assurdo
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