Scrivere nell’assurdo. Interventi di Tino Caspanello, Carullo Giuseppe e Cristiana Minasi, Saverio Tavano, Spiro Scimone e Guglielmo Pispisa
p. 93-116
Texte intégral
1Messina non è uno spazio drammaturgico come gli altri. Nel quadro persino pletorico di un rinascimento teatrale del Sud, segnalato tra gli altri da Renato Palazzi su «Il Sole 24 Ore» nel dicembre del 2006, la citta dello Stretto svolge un ruolo del tutto peculiare. Probabilmente, ciò si deve all’identità snervata o addirittura assente che la caratterizza. Lo scivolamento verso l’assurdo è una componente sempre possibile, latente o esplicita, in un territorio che, soprattutto sul versante dell’arte scenica, ha alimentato una mitografia spaesante e ha fatto della vertigine del confine il suo marchio di fabbrica. Dalla consuetudine di Carlo Quartucci, benemerito nella sapiente diffusione di Beckett in Italia, alla drammaturgia di Spiro Scimone e Tino Caspanello, questa direttrice non fa che trovare conferme continue (nelle prove più che promettenti di Carullo Minasi, i Maniaci d’Amore, Saverio Tavano). Sino al ribadimento letterario della narrativa di Guglielmo Pispisa che, a buon diritto, può testimoniare il dato inquietante che Voi non siete qui.
2A partire da queste considerazioni, e innestandole con le premesse teoriche del progetto Crescere spettatori, abbiamo convocato una tavola rotonda attorno alle scritture dello Stretto chiamando a raccolta scrittori, drammaturghi e teatranti appartenenti a un luogo geografico e metaforico spesso presente anche quando è tenuto a distanza nelle opere. Abbiamo dunque voluto indagare come le condizioni dell’isolamento, del passaggio e della cancellazione identitaria si facciano temi di poetica, in un microcosmo che forse più di altri è capace di parlarci di un contesto allargato e avendo a mente le giovani generazioni, quelle che oggi stanno crescendo e subendo l’assurdo che abbiamo costruito.1
3Lorenzo Donati. Per introdurre il colloquio vorrei ricordare il senso del progetto. Crescere nell’assurdo è il titolo letterale italiano di un testo del 1956, Growing Up Absurd di Paul Goodman, un classico del pensiero educativo che in italiano esce nel 1964 con il titolo La gioventù assurda. Vi si parla di una società che limita e blocca le potenzialità degli individui, anziché liberarle. Si analizza un sistema produttivo-consumistico che tutto pervade e al quale l’uomo si adatta, dove il dissenso è vissuto solo ed esclusivamente come problema e mai come occasione di costruzione. Gli elementi assurdi analizzati da Goodman sono anche i cardini della crescita: le relazioni interpersonali, l’iniziazione sessuale e il lavoro sono ingranaggi di un percorso descritto come “corsa dei topi”, come se fossimo dentro delle gabbie e dovessimo inseguire mete che ci vengono imposte. Questo punto di partenza ci riporta a un’attualità che spesso leggiamo col lavoro di Stefano Laffi, La congiura contro i giovani,2 in cui il sociologo milanese racconta una società dentro la quale si cresce in un’assenza totale di compiti generazionali.
4Come Altre Velocità da tempo lavoriamo nelle scuole e con i giovani, mettendo a punto anche una nuova funzione del lavoro giornalistico e critico. Nei laboratori di educazione allo sguardo che conduciamo, cerchiamo di capire quale posto occupi l’arte nel percorso di crescita dei ragazzi e delle ragazze e spesso facciamo i conti con lo spaesamento di chi non riesce a fornire risposte definite. Anche per questo, quando si creano le condizioni per un incontro vero, l’arte può lasciare un segno non previsto e magari duraturo nelle biografie di chi cresce.
5Nel 2015 a Pistoia è stato organizzato, da Associazione Teatrale Pistoiese e Il Funaro, il convegno Teatro della Critica, a cura di Piergiorgio Giacchè.3 In quell’occasione Daniele Giglioli rifletteva sull’immaginario odierno, rimarcando quanto siamo circondati da prodotti narrativi gassosi, iperveloci. L’interpretazione, in un contesto siffatto, perde mordente, quasi non serve, perché gli oggetti artistici sono speso fabbricati per essere surfati. Usando le parole di Guido Crainz, possiamo aggiungere che la rappresentazione ha sostituito la rappresentanza:4 il trentennio berlusconiano ci ha abituati a pensare alla delega politica come se fosse una rappresentazione, un grande artificio di cui non ci si può più fidare; quale deve essere, pertanto, il ruolo di chi costruisce rappresentazioni nell’arte?
6Un ulteriore ragionamento è legato alla consapevolezza di essere di fronte a una fine, quella dello spettatore per come lo abbiamo conosciuto finora. Già all’inizio degli anni duemila, sulla rivista «Prove di drammaturgia», Piergiorgio Giacchè sosteneva che lo spettatore fosse finito, dal momento che alcune vette artistiche ne prevedevano una sorta di incorporazione nell’attore (Carmelo Bene è l’esempio più alto di opere d’arte che si risolvono nel corpo dell’attore, quasi che chi guarda non fosse più ammesso).5 Assieme a questa fine c’è però anche un post, segnalato dal sociologo dei nuovi media Giovanni Boccia Artieri:6 la post-spettatorialità è il meccanismo che tutti conosciamo, nel quale oltre a guardare prendiamo la parola, commentiamo, ci sentiamo legittimati ad aggiungere, ad aggregare, a prendere posizione (smettendo però di interpretare, seguendo Giglioli).
7Negli incontri di Crescere nell’Assurdo cerchiamo allora di rimettere in discussione i punti di partenza che ho cercato di esporre, facendoli reagire con le risposte a una domanda che poniamo agli adolescenti: che cosa si cerca nell’opera d’arte? Le risposte segnalano una comune ricerca dell’emozione, di evasione e intrattenimento, sperando in un rispecchiamento. Questo ultimo dato ci pare fondamentale: l’idea che l’opera d’arte possa riguardarci da vicino, a livello biografico.
8In tale contesto assurdo, di fine dell’esperienza, di fine del passaggio generazionale, nel quale la rappresentazione ha sostituito la rappresentanza, nel quale lo spettatore è finito, come possiamo fare in modo che l’incontro con l’arte assolva a una simile richiesta di rispecchiamento? E queste questioni fungono da “assurdo tematico” per le scritture drammaturgiche?
9Spiro Scimone.7 Crescere nell’assurdo. Con l’arte, grazie all’arte noi possiamo crescere anche in questo assurdo. Tutta l’arte e la cultura ci aiutano a crescere, anche se ci tengo ad affermare che questo può avvenire soprattutto grazie al teatro. Nel teatro è indispensabile creare rapporto, relazione tra individui che hanno un’anima, che vibrano, che hanno corpo, sangue, carne; per potere creare una relazione quest’insieme di individui deve ascoltarsi; deve ascoltare la parola e soprattutto il silenzio.
10Ascoltare il silenzio non è semplice. Il silenzio non è una pausa vuota, un qualcosa di svuotato.
11Nel silenzio c’è soprattutto il pensiero.
12Il teatro c’insegna ad ascoltare il pensiero.
13Nel silenzio il pensiero non è mai finto, invece le parole che a volte diciamo possono comunicare, volutamente o inconsapevolmente, un pensiero diverso.
14In teatro la finzione esiste ma nulla è finto, perché c’è l’autenticità del rapporto; non dobbiamo avere paura, in teatro, di stare dentro la finzione, perché sappiamo che nel teatro la finzione va rappresentata davvero, in modo autentico. Nel teatro che è finzione siamo spinti a cercare l’autenticità, mentre nella vita che è realtà tutto ci appare finto. Perché ci capita di sentirci autentici nel teatro e non nella vita? Nel teatro non possiamo far finta di relazionarci, se vogliamo creare un rapporto questo deve essere vero.
15Come ho già detto, l’elemento fondamentale per creare relazione è l’ascolto, il teatro educa all’ascolto. Come possiamo iniziare un percorso di educazione, non solo a livello teatrale? Qui entrano in gioco i corpi fatti di anime, sangue, carne, è fondamentale che questa relazione non si arresti alle parole ma cerchi di andare oltre, per ascoltare il silenzio. Ascoltando il silenzio si potrebbero evitare tanti drammi. Spesso è il silenzio che ci comunica le cose più importanti e difficili da dire.
16Mi capita spesso, quando faccio incontri di drammaturgia, che gli studenti mi chiedano da dove iniziare per scrivere un testo. Che cosa è difficile nella scrittura? La cosa più difficile da scrivere è proprio il silenzio; non sto parlando di scrivere “silenzio” fra parentesi. Nel silenzio c’è il pensiero ma ci sono anche dei corpi, c’è l’energia del movimento. A teatro la vita nel silenzio la danno gli attori, che con i loro corpi, durante la rappresentazione, comunicano anche nel silenzio, anche col silenzio. Bastano gli occhi, un movimento, uno stato d’animo. Quando parlo di movimento e di energia parlo di vita... Nel silenzio, l’ho già detto, non c’è il vuoto. É difficile scrivere il silenzio, ma il silenzio si scrive! Prima c’è un suono, dunque ci sono delle parole; dopo vengono altre parole, quindi tra una parola e un’altra c’è uno spazio fatto di miliardi di parole e di miliardi di pensieri. Lì nel mezzo ci sono i pensieri di chi parla ma anche quelli di chi sta ad ascoltare. Per far vivere il silenzio, durante il processo creativo, bisogna sempre pensare al significato e al suono delle parole da scrivere.
17Come cercare di far amare l’arte soprattutto ai giovani, e come creare nuovi spettatori? È un lavoro che va fatto dagli educatori! Non è colpa dei giovani. La colpa è di chi dovrebbe cercare di educare, stimolare l’attenzione, eliminare le distanze. Ci si riferisce al pubblico come insieme di individui, ma bisogna stimolare gli individui nelle loro specificità, piano piano, attraverso la cura del particolare, delle piccole cose; una volta eliminate le distanze si può puntare a un insieme di persone, ma non si può partire dalla massa.
18L’educazione di una sola persona al teatro è già una conquista, saranno poi le persone stesse che inizieranno un processo di educazione con chi sta loro accanto. Porto un esempio pratico, un fatto realmente accaduto. Siamo in scena a Roma alla fine degli anni Novanta con il nostro spettacolo La Festa,8 una professoressa di liceo chiede a me e a Francesco Sframeli un incontro con i ragazzi la mattina presto. Gli attori, si sa, preferiscono dormire fino a tardi… Ma io e Francesco gli inviti a incontrare gli studenti a scuola li abbiamo sempre accettati con piacere, anche a costo di presentarci con le borse sotto gli occhi. Due giorni dopo l’incontro, quasi tutti gli alunni della classe sono venuti a teatro per assistere al nostro spettacolo e al termine della rappresentazione si sono presentati nei camerini contentissimi con la professoressa. Dopo qualche giorno, alla fine dell’ultima replica, notiamo nei camerini una ragazza che aveva già visto La Festa due giorni prima. «Sono tornata perché ho portato i miei genitori», ci ha detto. In questo episodio risiede la forza educativa dell’arte del teatro, non è soltanto un discorso di età ma è qualcosa che ha a che fare con la verità, con l’autenticità. Questa ragazza aveva fatto quello che avrebbero dovuto pensare i genitori, è stata la figlia a impostare un percorso educativo.
19Concludo dicendo qualcosa rispetto al rapporto con lo Stretto. Io parlerei anche e soprattutto del “mare dello Stretto”, di questa forza di cui non si può fare a meno. Il mare rappresenta il conflitto: lo amo, a volte mi basta solo guardarlo e respirare quell’aria che mi dà la vita, l’amore; ma il mare dà anche la morte: la distruzione di Messina e di Reggio è avvenuta anche per il maremoto. Il mio mare, il mare dello Stretto scatena questa energia doppia, una forza che amo anche se ha causato la morte. Il doppio, il conflitto sono elementi fondamentali per il teatro.
20Dario Tomasello. In realtà, se i quesiti sull’educazione sono di ordine generale, ricordiamo che parte del senso dell’esplorazione che ci accingiamo a intraprendere è inscritto in questo territorio, oltre che nel rapporto con le nuove generazioni. Rispetto alla fine dell’interpretazione e dell’esperienza, io credo che si tratti di una categoria discutibile del nostro tempo. Secondo me, l’esperienza è sempre possibile nel teatro, così come nel rito e nel gioco. Rito gioco e teatro che, come ci hanno insegnato i grandi maestri degli studi sulla performance, sono tre aspetti non necessariamente scindibili, in cui l’esperienza continua a funzionare con efficacia, dimostrando come sia ancora concepibile, giusta, la presenza di questi concetti, l’attivazione di un circuito virtuoso relativo alle possibilità di partecipazione.
21Per quanto riguarda il territorio, ci troviamo in una città che parla anche attraverso le zone silenziose, le aree tenebrose, anzi forse parla in quelle aree sommerse più che nella sua apparente solarità, nel chiacchiericcio reale o virtuale delle persone; occorre imparare a riconoscere questo discorso umbratile. Quando Pascoli insegnò a Messina, ebbe a dire, in un momento in cui ancora il grande terremoto del 1908 non c’era stato (ma quello del 1783, sì): «Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia».9 Pascoli era riuscito con la sua sensibilità a scorgere il cupio dissolvi di un luogo ancora non definitivamente devastato, a più riprese, dal terremoto, dalla Seconda guerra mondiale, dalla speculazione edilizia, dall’incuria dei suoi abitanti. Ma, soprattutto, Pascoli aveva indovinato, a queste latitudini, un tratto legato al suo lirismo capace di fare a meno persino di tangibili vestigia, laddove evidentemente vengano cancellate dalla natura, dalla storia, dalla cultura. Per questo si tratta di un luogo del Sud apparentemente come tanti altri, ma, a differenza di altri, è un luogo che si costruisce sulla rimozione identitaria, non sull’accumulo di identità; penso a città come Palermo o Napoli, città talmente identitarie da rasentare la nevrosi.
22A Messina, la rimozione identitaria manda spesso in scacco i tentativi di una rigorosa perlustrazione. Spesso ci si confronta con l’oblio al di là dei danni della storia, al di là dell’offesa della natura. Laddove un luogo vive nella rimozione continua di sé, ciò che si produce è una cancellazione che non risparmia nemmeno chi ha trasmesso o voglia trasmettere un retaggio a chi rimane. Messina è una città che presenta il problema del vuoto, ha un buco al centro. Questo è il primo nodo che vorrei porre all’attenzione. Non sono stato il primo a dirlo né sarò l’ultimo, l’ha fatto per esempio anche Guglielmo Pispisa in un romanzo che si intitola Voi non siete qui, in cui la crudezza del linguaggio della rappresentazione racconta benissimo i processi di rimozione identitaria, l’evanescenza, l’inconsistenza del luogo in cui viviamo, la porosità di una città tramata di attraversamenti, dove non resta nulla e quello che potrebbe restare svanisce lentamente, se ne va in una nuvola di fumo, in una giornata caliginosa. Dunque, prima di parlare in astratto di fine dell’interpretazione, farei i conti con questa tendenza all’astrazione che qui è così pervasiva.
Guglielmo Pispisa.10 Io, come credo molti della mia generazione, sono davvero cresciuto nell’assurdo. Messina lo è probabilmente ancora oggi ma una trentina d’anni fa era davvero un posto assurdo. Era un luogo poco stimolante da un punto di vista artistico, non è che non succedesse niente, in tutti i posti succedono cose, il punto è che non succedevano mai le cose che interessavano a me o a noi. Sembrava l’esatto opposto: tutto quello che era interessante accadeva altrove. Tutti i momenti cruciali e fondamentali della vita di una persona, i momenti del mio essere ragazzo in fase di crescita e di apertura al mondo non sono avvenuti qui. Si andava a studiare a Milano o a Roma, si andava a fare shopping altrove, si andava perfino al mare via dalla città.
23Messina ha un rapporto controverso con l’elemento fondamentale che dovrebbe essere portante, il mare. C’è stato come un rifiuto del mare, si andava in spiaggia nelle località limitrofe oppure a Rimini o alle Seychelles; a Messina non succedeva mai nulla, non c’era qualcosa di cui essere fieri e di cui fare esperienza. Probabilmente, guardando a ritroso, è forse anche per questo che ho impiegato cinque libri prima di scrivere della città, prima cioè di usare delle parole che rappresentassero la mia esperienza.
24Il primo libro era ambientato in un luogo immaginario non connotato geograficamente, il secondo in luoghi che assomigliavano a città esistenti ma che non erano Messina, il terzo è ambientato a Parigi e in una città fra Genova e Barcellona, il quarto si svolge a Roma, solo al quinto sono riuscito a parlare di Messina. Proprio non mi veniva, non riuscivo a trovare qualcosa da dire. Dovrebbe essere abnorme, si dovrebbe riuscire a parlare soprattutto della propria esperienza; ai corsi di scrittura americani, prima di tutto insegnano a parlare di quello che si sa: «Parla della tua esperienza, poi la tecnica arriverà!» Se non parti da ciò che sai non riuscirai a essere sufficientemente vero per potere interessare chi ti legge o ascolta. Io ho proceduto al contrario, mi sono avvicinato ai luoghi che conosco proprio nel momento in cui mi sono sentito più sicuro da un punto di vista tecnico; fossi nato a Napoli avrei avvertito quel surplus, quella ricchezza identitaria che mi avrebbe consentito di pescare nelle radici.
25Qua siamo sullo Stretto, indubbiamente una struttura nel senso dello strutturalismo storiografico di Braudel, una conformazione geografica oggettiva che influisce in maniera pesante sulla vita sociale e culturale di un luogo. Lo Stretto è un posto che non c’è, è un luogo di passaggio. Torniamo sempre allo stesso discorso: non si sta a Messina, non si va a Messina, si passa da Messina per andare altrove.
26Questa città ha un rapporto controverso e di negazione col mare, per le tragedie del terremoto e del maremoto: andando verso sud il mare proprio non si vede, ci passa la ferrovia messa lì quasi per schermare il cittadino e rifiutare il mare; la statua di Nettuno prima era rivolta verso la città poi è stata girata per tenere a bada le acque. Quando avevo quindici anni a Messina c’erano solo tre lidi in venti chilometri di costa, sempre gli stessi dagli anni Sessanta. Oggi ce ne sono molti di più. Non c’erano ristoranti sul mare, oggi ce ne sono quanti ne vogliamo. Si tratta di banalità che danno la misura di come chi vive qui sta cominciando davvero a “sentire” il luogo, a valersene e non a subirlo; noi subivamo Messina: non c’era mai niente da fare e anche le cose potenzialmente semplici non accadevano. Dunque una qualche forma di recupero non può che avvenire per via simbolica ma anche vivendo il luogo. Mi piace molto l’idea della passeggiata nella zona Falcata, una delle aree negate di Messina e che si spera verrà in futuro recuperata. In ogni caso, in piccola parte, la passeggiata inizia già a recuperare il luogo, dato che l’educazione non può che passare dall’esperienza fisica, diretta e immediata.
27L’educazione è un campo che mi sta parecchio a cuore, ho una bambina e mi sto confrontando quotidianamente con la crescita. L’esempio è una delle questioni fondamentali, per educare alla lettura occorre leggere, ogni giorno leggendo a mia figlia imparo qualche cosa. Mia figlia parla moltissimo e quando la storia le piace non parla, è attenta, non pensa a quello che deve dire lei stessa, è attratta da quanto sente. Una delle prime domande che mi rivolge è dove sia ambientata la storia, dove accada; anche se non ci pensiamo, il «c’era una volta» che definisce il tempo è immediatamente seguito da «in un regno lontano»: la connotazione del luogo è fondamentale per la scrittura e per l’educazione alla lettura, ma io direi in generale, è l’oggettivizzazione di quello di cui si sta parlando. Se inseriamo un concetto generale in un posto fisico stiamo dando un’immagine, raccontare una storia significa creare delle immagini nella mente di chi ci sta di fronte, far apparire e balenare un luogo. Spero che i messinesi abbiano compreso che la crescita e lo sviluppo di questo luogo non possono che passare dall’appropriazione di chi ci vive, luoghi fisici e geografici che vanno resi “corporei”, vanno utilizzati, sfruttati e conosciuti. Personalmente la zona Falcata l’ho conosciuta intorno ai diciotto anni, è a cento metri dal centro della città ma se non si conosce qualcosa lo si subisce solamente.
28Tomasello. A mio avviso, un modo possibile di stimolare l’interpretazione è la promiscuità con gli artisti, quindi con gli oggetti di studio che non sono mai oggetti, ma soggetti. Gli artisti sono “soggetti” alla nostra interpretazione e ai nostri malumori e noi, a nostra volta, soggetti al loro estro e alle loro paturnie. L’unico modo per interferire effettivamente con la realtà è quello di non essere più oggetti, di essere soggetti di studio. Così, persino esplorare Messina può diventare non un giro a vuoto, ma parlare di persone e cose che conosciamo e vivono questa città, non più ancorata alle proprie origini, eppure mai proiettata al futuro: votata all’assurdo, appunto.
29Carlo Quartucci parla da anni di “paesaggio drammaturgico siciliano” e il suo lavoro su Tamerlano (1991) inscriveva questa intuizione, con precisione, sulle coste orientali dell’Isola. È solo un caso che uno dei più autorevoli artefici della fortuna beckettiana in Italia sia un siciliano d’Oriente consapevole di quanto l’assurdo sia, per antonomasia, il coefficiente antropologico dello Stretto? Ed è sempre un caso che questo assurdo trovi nuova spinta nella strategia drammaturgica di Spiro Scimone, capace, proprio a partire da un adattamento in messinese di Aspettando Godot, di generare Nunzio11 (1994) come scaturigine di un momento epocale, di svolta nella storia del teatro italiano contemporaneo? Spiro insieme a Francesco Sframeli è tornato, da qualche anno, a Messina per esercitarvi un magistero teatrale, anche se fino ad ora la possibilità di installarvi una casa d’arte non ha trovato alcun seguito. Siamo in una città anomala, dove chi sarebbe pronto a mettere generosamente a disposizione altrui il proprio patrimonio non sempre viene messo nelle condizioni giuste per farlo. Il lavoro di Scimone e Sframeli ha aperto traiettorie possibili anche per chi viene dopo, come la compagnia Carullo-Minasi, i Maniaci d’Amore, Saverio Tavano.
30Parallelamente, un’altra linea, tramata di inquietudini sapienti circa l’idea vertiginosa del limite, si ritrova, sin da Mari12 (vincitore del Premio Riccione del 2003) in Tino Caspanello e la compagnia Pubblico Incanto, capace di segnare, su un panorama anche internazionale, un’allure drammaturgica dello Stretto. Molti altri nomi si potrebbero fare nella direzione di un’esperienza laboriosa in questo spazio complesso. Domenico Cucinotta (con il Teatro dei Naviganti), per esempio, fa da anni un lavoro encomiabile in città, in una zona tra l’altro specificamente borderline. Roberto Bonaventura e il “Castello di Sancio Panza” esplorano con molto rigore, anche su un piano pedagogico, la misura di un anelito teatrale del territorio. Ma, al di là della campionatura che possiamo proporre, tutto ciò cui qui si assiste ribadisce come ci sia, da una parte, un’inesorabile rimozione identitaria, mentre dall’altra paradossalmente esista una fioritura straordinaria di artisti teatrali. Lo abbiamo constatato nel 2015, nel corso del decennale di UniversiTeatrali (Centro Internazionale di Studi sulle Arti Performative).
31Quanto succede qui contrasta straordinariamente con l’assunto di Richard Schechner: «La trasformazione dello spazio in un luogo culturale è anche il momento culminante della costruzione di un teatro».13 A Messina, nonostante tutto, questa affermazione non può trovare conferma. Qui ci sono tanti spazi teatrali che non necessariamente (e non certo per loro colpa) testimoniano di un processo di maturazione culturale della città, della cosiddetta società civile. A Messina gli spazi culturali sono sempre a rischio, sempre precari, nonostante l’impegno encomiabile di alcune realtà coraggiose (penso al Clan degli Attori di Giovanni Maria Currò e Mauro Failla o al Teatro dei 3 Mestieri), perché a Messina non esiste uno spazio sociale realmente condiviso. Si tratta di una realtà profondamente antisociale, come accade spesso al Sud, ma con un primato del tutto peculiare: qui gli assenti valgono più dei presenti, e siamo invitati ad ascoltarli. Ci accorgiamo, in tal modo, che gli assenti hanno a volte più cose da dire dei presenti.
32Da questo punto di vista, vorrei ricordare un’assente illustre (presente, tuttavia, più che mai): Jolanda Insana, una delle più grandi voci italiane del Novecento, scomparsa il 27 ottobre 2016 a Roma. Jolanda non viveva più a Messina da cinquant’anni ed è stata spesso testimone dello straordinario cortocircuito di un luogo paradossale, destinato a una memoria stratificata e densissima che viene però continuamente rimossa. Ci sarebbe tanto da imparare da coloro che sono assenti, per chi volesse ascoltarli, anche e soprattutto a partire dal particolarismo di un luogo capace di intercettare comunque una condizione universale.
33Cito, allora, un passo di Jolanda Insana, capace di riferire con efficacia lo spaesamento dello Stretto:
C’era e non c’è Messina, c’è e non c’era […] I messinesi soprannominati buddaci come il pesce dello Stretto che sta con la bocca aperta cominciano un discorso e lo girano in lungo e in largo come per inconcludenza ma il fatto è che temono di essere zittiti dai boati e dagli scoppi della terra quando la voce si strozza in gola e nessuno fiata finché non finisce il silenzio di uomini e bestie e scoprono che il terremoto gli è passato sulla testa e sotto i piedi e pallidi riprendono fiato e hanno la voce che trema e soltanto allora urlano e pregano e imprecano, ringraziano i santi o li bestemmiano e il sonno non è più lo stesso, la sensazione del sangue che si ghiaccia nelle vene è incancellabile e anche quando l’abitudine a vivere in tali sconvolgimenti sembra saldamente radicata, è vero che non è così perché la morte è sempre presente.14
Saverio Tavano.15 La condizione in cui nasciamo, cresciamo e viviamo possiede un valore notevole per la sua stessa unicità, per un artista tutto diventa possibilità, basta solo vedere e ascoltare. Mi ricordo una frase di Rilke: «Non vi arrabbiate con la vita se la vostra vita è povera, arrabbiatevi con voi stessi che non riuscite a vedere la ricchezza della povertà della vostra vita, quello che c’è al di là del della povertà»; la ricchezza è anche il senso della resilienza di chi riesce a guardare oltre i suoi orizzonti e trovare la bellezza. La drammaturgia messinese calza proprio a pennello con i tempi che stiamo vivendo: in questo momento storico abbiamo perso il contatto con quella dualità che è sempre stata presente nella storia dell’uomo, la relazione biunivoca tra realtà e immaginazione è stata interrotta dal virtuale, o meglio ancora il virtuale si è coattivamente interposto, accolto come elemento del progresso che di progressista non ha nulla, ma che al contrario favorisce la distruzione del sogno. L’arte ha il compito di ristabilire il Kairos e svegliarci da quella bolla di Hall costruita da noi stessi, dentro la quale preferiamo vivere nella ristrettezza della nostra solitudine e nella contemplazione narcisistica dell’Io.
34Anche io mi son chiesto quanto abbia influito Messina nel mio modo di vedere il teatro. Ricollegandomi a quanto dicevano Scimone e Pispisa, quello che manca al messinese è il rapporto con l’orizzonte. Uno dei motivi antropologici è strettamente legato al terremoto del 1908, nel quale il maggior numero di vittime fu causato dal maremoto, per questo Messina è una città che ha completamente chiuso con il mare, qui non sembra di stare in riviera, per quanto si senta l’odore della salsedine. Messina è una città assurda anche perché vive l’impasse di intravedere il mare senza viverlo, qui si è mossi dalla spinta a oltrepassare lo Stretto ma alla fine si preferisce restare. Ho avuto la fortuna di abitare fin dalla nascita in una casa su un punto panoramico, e tornare a casa era per me come salire su una torre da dove potevo finalmente vedere l’orizzonte, allungare la mia prospettiva visiva e mentale. Quando una persona è protesa verso l’orizzonte è portata a sognare, sicuramente questo ha spinto i grandi conquistatori ad andare alla ricerca delle nuove terre: immaginare in un’erranza sognante altri luoghi. Il messinese invece vede la Calabria come al di là della sponda di un fiume, sentendosi al contempo un isolano; l’isola lo tiene legato alla sua terra, non è spinto ad andare oltre, non è un grande navigatore, al massimo fa avanti e indietro tra una sponda e l’altra. Una condizione assurda, un tira e molla, un andare per restare che comunque crea un dinamismo assurdo. Qualcosa che si legge molto nella drammaturgia di Spiro Scimone e di tutti i messinesi dove i personaggi stanno, vogliono andare ma poi rimangono, e così via, una dinamica che mi pare sostanzi il teatro in generale ma è peculiare dei messinesi.
35Tomasello. Nella scrittura di Patres estendi questa visione dello Stretto al lamentino, altra terra di contraddizioni mortifere.
36Tavano. Patres è uno dei lavori che amo di più, è scritto in calabrese, avendo io per metà origini calabresi, ma sento che questa drammaturgia è autenticamente messinese nella sua essenza e struttura.16 Si tratta di un testo che ho scritto per mio padre, è un inno ai padri, è la volontà spasmodica di recuperare un rapporto tra un padre e un figlio, molto diversi anche nelle loro origini. Io siciliano lui calabrese: due terre diversissime per lingua e cultura, due regioni che hanno in comune solo lo stesso meridiano. Facendo la spola tra Messina e Villa San Giovanni mi sentivo come Telemaco che aspetta il padre Ulisse, aderivo coerentemente alla sua erranza nell’andare in cerca del padre. In quel momento mi sono reso conto che la mia generazione vive in maniera generale quello che io percepivo nel particolare: una sorta di sindrome di Telemaco, tutti ad aspettare che il padre ritorni. Anche quando i padri sono presenti fisicamente si è persa la loro funzione di trasmissione della conoscenza. Siamo un po’ come Telemaco ma forse è come se aspettassimo Godot, qualcuno che non tornerà mai.
37Tomasello. La paternità, il silenzio, lo spaesamento sono proprio gli elementi che aspettavamo al varco e che stanno puntualmente emergendo. Vorrei che Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo ci raccontassero il loro, di spaesamento.
38Cristiana Minasi.17 La giornata di oggi ci affascina; noi artisti messinesi non ci ritroviamo quasi mai tutti insieme. Sono contenta perché le amicizie, gli allontanamenti, le maestrie e le relazioni che nel corso del tempo si sono sviluppati hanno la sostanza della vera crescita. L’esperienza teatrale, per quanto ci riguarda, è un’esperienza umana, dato che noi siamo una coppia anche nella vita. Giuseppe Carullo è di Reggio Calabria e io di Messina, ci siamo conosciuti in un momento florido in cui le compagnie si guardavano l’un l’altra, con la sensazione che alcuni temi ricorressero in uno scambio fertile e autonomo di eredità e rimandi. Abbiamo avuto la fortuna di collaborare con dei maestri che sono stati più dei pedagoghi, delle persone che hanno creduto nell’improvvisazione teatrale e che di questa ne hanno fatto un motivo di ricerca e di proposta, riflettendo sul concetto di “verità”.
39Pensando all’educazione rispetto all’arte, possiamo rispondere ritornando su un nostro spettacolo, T/Empio, critica della ragion giusta,18 in cui abbiamo rielaborato l’Eutifrone di Platone, considerando il teatro uno strumento di pensiero e di democrazia. Se il teatro accontenta e tace può diventare strumento di regime e propaganda. Invece, la scena può essere la democrazia dello stare insieme attraversata dall’educazione come domanda in atto. Quando ci negano i punti di aggregazione e gli spazi li dobbiamo reclamare, recuperare, per questo crediamo che l’approfondimento sia fondamentale. Bisogna approfondire, anche se nessuno ci invita a farlo e nonostante questo ci venga, anzi, negato, perché la cultura che oggigiorno avanza è legata all’omologazione e all’acriticità del pensiero. È difficilissimo venirne fuori anche per noi artisti: ti chiedono qualcosa e subito pare impossibile approfondire, ma è più semplice di come appare! L’approfondimento non è complicazione, è semplicità, tutti i più grandi maestri sostengono che la cosa più difficile sia arrivare alla semplicità. Abbiate quindi fiducia nell’amore, la cosa più semplice e anche più complessa da elaborare.
40Donati. Il rapporto tra approfondimento negato e azione richiama il tema del limite, che è ricorrente nelle vostre scritture e nuovamente legato allo Stretto come spazio metaforico e di vita.
41Giuseppe Carullo. Nel nostro lavoro ci siamo concentrati sul concetto di limite, sviluppato partendo da Messina. Messina e Reggio Calabria e lo Stretto ci invitano a mettere a fuoco un linguaggio che abbiamo solo noi, e con questo nuovo linguaggio ci rivolgiamo all’Italia. In città credo stia accadendo qualcosa di importante e unico: qui non si stanno creando “narrazioni”. Almeno per quanto riguarda la drammaturgia, non si tratta di raccontare delle storie ma di sviluppare dei concetti, lasciando lo spettatore libero di interpretare. Prima di vivere a Messina stavo a Reggio e guardavo Messina come se fosse uno specchio. Ho sempre pensato al mare come a una possibilità, piuttosto che a un limite. Lo Ionio è molto profondo e quindi più vai giù, più diventa intrigante, stimolante, anche pericoloso, dato che ci sono le correnti. Ho vissuto anche a Palermo, città dove si trovano risposte, mentre noi nello Stretto poniamo sempre delle domande.
Minasi. Il discorso del limite ha caratterizzato i primi tre spettacoli e lo abbiamo sempre visto come risorsa, come scoglio drammaturgico e creativo. Quando ci chiamano scrittori sinceramente ci imbarazziamo, sentiamo di essere degli attori che improvvisano. Solo in un secondo momento rielaboriamo a livello letterario, non ci definiamo propriamente dei drammaturghi e lo diciamo con grande felicità, è la nostra soglia o limite. Abbiamo lavorato su Leopardi, siamo entrati in un mondo che pensavamo non potesse appartenerci e che in verità abbiamo scoperto di tutti. In De revolutionibus sulla miseria del genere umano,19 nonostante non mettiamo in scena l’Infinito di Leopardi ma due Operette Morali (Il Copernico e Galantuomo e Mondo), lavoriamo nella narrazione del “confine” che lo scrittore propone quale elemento non di pessimismo ma di potenza, di fantasia e di immaginario. Leopardi possedeva un piccolo teatrino che usava costantemente e noi da lui abbiamo appreso che l’immaginazione è strumento di valorizzazione della miseria del genere umano. Questo è lo Stretto. L’uomo deve riconoscere di essere piccolo, infinitesimale, anche se, come racconta Il Copernico, pensa di essere al centro del mondo. Vedendo lo Stretto scorgevamo una possibilità che è diventata il teatro; non avremmo mai immaginato di poter vivere lavorando nel teatro. Il nostro incontro qui oggi non vuole essere un confronto tra drammaturghi e studenti, ma tra persone che dicono «niente è vero e vero può essere tutto», usando parole di Pirandello. Se vi negano di poter fare una cosa, fatela! A Messina ci piace pensare che tutto è impossibile ma non è vero. Si può tutto. Anzi, si possono fare soprattutto le cose difficili.
42Carullo. Noi abbiamo cercato sempre di portare a teatro dei luogi “emarginati”, nei nostri spettacoli abbiamo parlato di malattia, di morte, di isolamento; nel primo lavoro, Due passi sono,20 partivamo da una malattia, capovolgendo l’assioma: la malattia diventa prendersi cura dell’altro.
43Minasi. L’opera prende forma dal limite. Questo è un principio che riprendiamo da Tadeusz Kantor. La condizione dell’artista viene spesso definita dai limiti in cui si muove ed è in tale angustia che emerge la verità.
44Mi rivolgo particolarmente ai messinesi: spesso ci portano a credere che la verità sia una e una soltanto, ma è proprio nell’attimo della catastrofe che emerge il segreto più profondo del fare arte. Messina è la sua catastrofe: un essere all’erta costante che offre una grande possibilità.
45Tomasello. Le questioni che stiamo esplorando mostrano, a più riprese, una vocazione antropologica all’attorialità del messinese. Al tempo stesso, il carattere materico dei luoghi emerso dalle vostre testimonianze mi ricorda un esperimento di dieci anni fa all’ex Facoltà di Lettere. In un’aula gremita ho chiesto ai ragazzi di riconoscere dei brani criptati chiedendo autore, titolo dell’opera, luogo. Erano tutti autori messinesi, le cui opere parlavano di Messina e dello Stretto (D’Arrigo, Cattafi, Insana), ma non sono stati riconosciuti né autore, né titolo dell’opera, né luogo; l’immaginario letterario si è alimentato di questo luogo, senza riuscire a nutrirlo: sintomo gravissimo di una depressione generale, ma anche di una mancanza di rispecchiamento che ci riporta alla domanda iniziale sulla funzione dell’arte in relazione a questo luogo.
46Tino Caspanello.21 Io non sono di Messina, sono un osservatore della città perché vivo a trenta chilometri. Non amo le citazioni, anche se ogni tanto vanno fatte. Penso a Euripide nelle Fenicie che utilizza per la prima volta il termine “Teicoscopia”, la vista della città dalle mura, dunque dall’alto. La vista dall’alto diventa quel muro, le mura di cinta diventano un discrimine non soltanto spaziale ma anche temporale. Dall’alto delle mura è possibile vedere e prevedere, capire cosa sta succedendo fuori e che cosa succederà. Il punto di vista privilegiato sta proprio nel mettersi sempre al di fuori di un centro che oggi, purtroppo, è ormai colluso con il potere. Siamo obbligati a stare fuori da un centro e recuperare quel punto di vista laterale. E se il mio è privilegiato rispetto a Messina, il punto di vista da Messina è privilegiato rispetto a un centro ancora più grande, penso all’Italia, all’Europa, al Mondo.
47Rispetto alla scrittura, l’intuizione immediata di uno spazio ci porta alla scoperta di una storia. Per me funziona così: la scrittura drammaturgica ha all’origine l’intuizione di uno spazio non fisico. Quando tengo dei corsi all’università, di scenografia o scrittura, per prima cosa affermo: «Cerchiamo di capire dentro quale angolo della nostra anima accade questa storia, dentro quale angolo della nostra anima sentiamo l’urgenza e il bisogno di un cambiamento, perché senza quello non abbiamo l’input principale alla scrittura, ma anche all’arte in genere». Per vent’anni ho fatto anche un altro mestiere, insegnavo storia dell’arte nei licei; capivo benissimo la difficoltà dei giovani a guardare l’opera perché spesso si ritrovavano di fronte a un semplice discorso di parole scritte su un libro. Vedevo quanto fosse difficile recuperare un contatto vero con l’opera d’arte, un contatto fisico... qui apriremmo una grande ferita sulla didattica oggi in Italia, e sui suoi canali divenuti molto stretti. Allora apriamo le scuole, apriamo l’università, facciamo tornare gli artisti nelle scuole e pensiamole come botteghe! Si è persa l’idea che l’arte sia trasmissione di sapere e che questa non possa avvenire soltanto ed esclusivamente attraverso i libri. I libri sono necessari come strumenti, sono i punti di partenza dopo i quali servono documenti vivi: la carne che comincia a dipingere, che sente il rosso, che è l’unico modo per capire il significato di un rosso. Dentro la critica e la storia dell’arte ci sono dati necessari ma che non sono il corpo, le mani dell’artista... uso questa parola perché troppe volte si fa confusione tra artista e artigiano. Apro una piccola parentesi. «L’arte è artigianato» è una frase non vera, «il teatro è artigianato» lo è ancora meno. Il teatro è arte perché non ripete una formula sterile nel tempo, ma la reinventa. L’artigianato invece ripete formule. L’artigianato non va confuso con la creazione artistica! Chiudo la parentesi e ripeto: riapriamo le scuole affinché queste possano accogliere l’esempio vivente e possano rientrare in contatto con chi crea le opere.
48Molte volte con gli alunni, durante i miei anni di insegnamento di storia dell’arte, si aprivano dibattiti sulla loro incapacità di accedere ai codici dell’opera contemporanea. Ci siamo così inventati qualcosa che saltava i percorsi ministeriali, cercando degli accordi, delle unioni che operassero accostamenti anche improbabili come vie per la comprensione. Prendiamo un Mondrian, un Pistoletto o un Cattelan e allo stesso tempo un graffito dal preistorico e Michelangelo e cerchiamo di capire cosa è successo nel mezzo. E se lo facessimo fra Shakespeare e Tennessee Williams? Dovremmo imparare a ricreare queste relazioni perché è proprio nello storicizzare l’opera che riusciamo a capire, a ricostruire realmente lo spazio in cui accade il teatro e l’opera d’arte.
49Se non ci storicizziamo finiremo per non avere più relazioni con la vecchiaia, producendo una separazione netta tra le generazioni che è il danno maggiore che possiamo fare a noi stessi. Gli anziani sono un compartimento stagno ormai inutilizzato e che non deve più esistere nel nostro sistema economico; noi siamo quelli che dobbiamo produrre, i bambini ancora stanno lì, non hanno diritto perché sono i cittadini del futuro, una bella bugia. Dovremmo ritornare a storicizzare l’essere umano, a ritrovare il suo percorso di anima che non è fatto solo di presente, ma anche di quel passato che si scorge sulle mura.
50Per concludere, vorrei raccontare qualcosa dell’esperienza bellissima fatta a Hong Kong, dove abbiamo rappresentato il nostro Mari [nel novembre 2016].22 Lo spettacolo racconta un mare ma non si tratta della Sicilia. Non mi è mai interessato raccontare una mentalità e descriverne altarini ed esotismi, anche se a volte utilizzo un linguaggio che è la nostra lingua. Hong Kong è una città terribile, è un carnaio, un tritacarne in cui non ho avuto la possibilità di intuire lo spazio, anche se è tutta giocata su questo. È una città verticale dove si ammassano nei grattacieli dieci milioni di persone che non hanno il tempo di capire chi sono, dove vanno, se muoiono o se vivono. Immaginate se sia possibile in questa città inventarsi un teatro, e il teatro difatti non esiste. Gli spettatori del nostro Mari vedevano il teatro per la prima volta, sono abituati a grandi eventi commerciali o ai musical, ma non avevano mai visto il teatro con la sua scena scarna, priva di tutti i segni che il sistema produce... gli spettatori non avevano mai visto due personaggi che non producono nulla, non si erano mai trovati di fronte a un’azione da scoprire.
51Donati. Pensando ai testi degli autori qui presenti e rileggendo i lavori di Dario Tomasello,23 mi piacerebbe sottoporre a tutti il nodo tematico della reticenza. Non è possibile tracciare i contorni di un contesto generale dentro il quale si muovono i personaggi, c’è sempre qualcosa che sfugge e manca. La risposta a questo “assurdo” produce però un avvicinamento: chi legge non può far altro che andare verso i personaggi, approssimarsi a loro per capirli, per cercare quello che manca. Allora i principi formali e quelli contenutistici qui s’incontrano in un “prendersi cura”: il lettore si prende cura dei personaggi.
52Scimone. Il non detto è probabilmente un modo per creare un’attenzione. Ed è forse tipico del modo di comunicare siciliano; non può esistere un sottotesto senza un testo. In teatro il rapporto tra i personaggi, l’attore e lo spettatore si crea anche attraverso l’ascolto del non detto perché non dire non significa non aver nulla da dire. Nel non detto c’è sempre un pensiero interiore che sostanzia la relazione; proprio per questo, spesso, quello che non viene detto (sottotesto) è molto più importante di quello che viene detto (testo). Io, ad esempio, adesso: «Ho detto delle cose ma, credetemi, volevo dire altro».
53Minasi. Credo sia una caratteristica che riguarda la nostra terra, penso all’immagine del mare che va avanti e indietro, al dire una cosa ma poi tornare indietro, anche meccanicamente. Noi la traduciamo in scena in un gioco tra realtà e finzione, rompendo la quarta parete. Nella creazione di Delirio bizzarro,24 questo tema è stato elaborato in maniera un po’ più evidente. Un personaggio femminile racconta il dramma di una società caratterizzata dalla finzione dove chi si fa carico di affrontare tale nodo si ammala. I personaggi sono all’interno di un Centro Diurno di Salute Mentale, abbiamo creato una scenografia che marca una frattura, una soglia fra l’entrare e l’uscire. Lì Sofia racconta la sua finzione: finge di essere quello che non è e chi guarda lo scopre solo alla fine grazie a un movimento anche interiore innescato dalle domande di Mimmo, una persona semplicemente pura che può mettere in discussione il vaniloquio della società. Si arriva dunque a un finale con un delirio bizzarro, un titolo che pare comico ma in realtà è tragico. I bizzarri sono gli strani, i non convenzionali, quelli che rompono le consuetudini e che a un certo punto smascherano le nostre finzioni.
54Carullo. Il Dottore Allone è un personaggio scritto a partire da una persona che realmente esiste. Nello spettacolo viene nominato ma non si vede, non entra, ha sempre altro da fare. La possibilità che l’istituzione ci possa aiutare semplicemente non è data, è qualcosa che avvertiamo molto come messinesi, reggini e meridionali in genere. Noi stessi dobbiamo curarci l’un l’altro.
55Minasi. Allone è ispirato al direttore del Centro Diurno di Salute Mentale di Messina, il Camelot, lui è felicissimo di questo gioco ed è, in realtà, strepitosamente sempre presente. Il centro diurno di salute mentale sta in periferia, luogo dove ci si può dimenticare di quello che sembra non riguardarci.
56Tomasello. Quella che segnalate è la contraddizione, più che istituzionale, ontologica di un certo Sud. Penso al Pirandello che Cristiana ama tanto, come me.
57Pispisa. Sono d’accordo sul fatto che il giocare col non detto sia interiore e intimo e direi insito nel modo di comunicare della gente del Sud. Per quanto mi riguarda ho declinato il tema spesso attraverso l’ironia: dire qualcosa per intenderne un’altra oppure intenderne l’esatto contrario. L’ironia è un modo per educare a interpretare la realtà: ascolta quello che ti sto dicendo, ma capisci un’altra cosa... quando parlo sto dicendo quello che taccio, oppure il contrario di quello che intendo. Si tratta di un allenamento a una comprensione complessa che in tempi di sovraccarico informativo può diventare utile. Ci sono tantissimi siti specializzati nella confezione di rappresentazioni fasulle e di informazioni palesemente false, costruite semplicemente per attirare click e clienti. Occorre abituarsi a soppesare ciò che ci viene buttato addosso, imparare a discernere, a togliere il troppo, l’inutile o a interpretare ciò che sembra possedere una sola dimensione quando invece ne esistono molte altre. Non vorrei però apparire reazionario, il mondo cambia e questo non è né giusto né sbagliato, è così e basta e va interpretato con nuovi strumenti o riadattando i vecchi. Non possiamo chiedere ai ventenni di interpretare la realtà come accadeva trenta o quarant’anni fa. Quel tipo di approfondimento non è più possibile oggi, oggi occorre educare a un discernimento, per sviluppare all’ennesima potenza la capacità di separare quello che vale da quello che non merita. Il confronto, il conflitto, il silenzio e la comprensione del valore del silenzio sono strumenti necessari per tale educazione.
58Tomasello. La scrittura teatrale che stiamo esaminando ci ricorda che la figura retorica più usata nel dialetto messinese in generale è la litote: dire non dicendo, anche attraverso l’ironia, come afferma Pispisa, attraverso il rovesciamento continuo.
59Tavano. Mi viene da aggiungere soltanto che in un momento nel quale il vaniloquio è costante subentra la necessità di starci zitti un attimo. L’uomo è diventato trasparente, abbiamo perso la nostra consistenza e di conseguenza anche l’ombra, l’ombra della negatività. Come Peter Pan abbiamo perso l’ombra perché non ci siamo più. In questo momento l’arte dovrebbe darsi il compito di ricreare un vitalismo dell’immaginazione. Ho portato qui con me un giocattolo, un cilindro cavo. In un certo senso il teatro dev’essere come questo contenitore, lo spettatore dovrebbe entrare nel cilindro, riempirlo. Ho riempito il teatro con il suo spettatore, ma come posso ora toglierlo dal cilindro cavo senza toccarlo? Con il soffio! Il soffio dell’anima, il soffio dell’anima che muove.
60Donati. Più che tentare delle conclusioni, penso sia il caso di annotare le domande emerse e utilizzarle come strumenti per orientarsi nel prosieguo del progetto. Grazie a tutti.
Notes de bas de page
1 Dato il carattere dialogico dell’incontro si è preferito mantenere un italiano che tende al parlato, nel tentativo di dare conto delle differenze stilistiche di ciascun autore.
2 S. Laffi, La congiura contro i giovani cit.
3 Il Teatro della critica, convegno a cura di Piergiorgio Gacchè, presso il Funaro Centro Culturale e Piccolo Teatro Mauro Bolognini, Pistoia, 14 e 15 novembre 2015.
4 G. Crainz, Autobiografia di una repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Roma, Donzelli 2009.
5 P. Giacchè, La fine dello spettatore, in “Prove di drammaturgia”, VI (2000), n. 1, pp. 13 sgg.
6 G. Boccia Artieri, Stati di connessione cit.
7 Spiro Scimone è regista, drammaturgo, attore e sceneggiatore. Con Francesco Sframeli fonda nel 1994 la Compagnia Scimone Sframeli e nello stesso anno debutta l’opera prima Nunzio. Nel 1994 vince il Premio I di “Autori Nuovi”, nel 1995 la Medaglia d’oro Idi per la nuova drammaturgia e nel 1997 il Premio Ubu come nuovo autore. La festa, Bar, Il cortile, fino al recente Amore (2015) sono alcuni dei titoli degli spettacoli rappresentati in prestigiosi festival e rassegne in Europa e nel mondo e degli omonimi testi, pubblicati in Italia da Ubulibri e tradotti in numerose lingue. Con il film Due Amici, ispirato a Nunzio, Scimone partecipa alla 59ª Mostra Internazionale d’arte Cinematrografia di Venezia, nel 2002.
8 Lo spettacolo debutta nel 1999 con la regia di Gianfelice Imparato, è prodotto dalla Compagnia Scimone Sframeli in collaborazione con Fondazione Orestiadi di Gibellina. Per il testo, cfr. Spiro Scimone, Teatro, cit.
9 G. Pascoli, Pensieri e discorsi, Zanichelli, Bologna 1907, p. 196.
10 Guglielmo Pispisa è uno scrittore messinese, fa parte dell’ensemble narrativo Kai Zen con cui ha scritto il romanzo La strategia dell’ariete (Mondadori 2007). A proprio nome ha pubblicato Città perfetta (Einaudi, 2005), La terza metà (Marsilio, 2008) Il Cristo ricaricabile (Meridiano Zero, 2012) e Voi non siete qui (Il Saggiatore, 2014).
11 Nunzio debutta nel 1994 con la regia di Carlo Cecchi, produzione Compagna Scimone-Sframeli. Per il testo drammaturgico cfr. Spiro Scimone, Teatro, Ubulibri, Milano 2000.
12 Lo spettacolo del Teatro Pubblico Incanto debutta nel 2003. Cfr. T. Caspanello, Teatro, Editoria & Spettacolo, Roma 2012.
13 R. Schechner, La teoria della Performance 1970-1983, Bulzoni, Roma 1984, p. 115.
14 J. Insana, Le città dei poeti/Messina (Aprile 1992), in Satura di cartuscelle, Giulio Perrone Editore, Roma 2009, pp. 29-30.
15 Saverio Tavano è autore, regista, attore e sceneggiatore, partecipa come attore a diverse produzioni televisive. Del 2013 è il testo Formiche, Patres debutta al Festival Primavera dei Teatri nel 2014 e vince il Premio contro le mafie del MEI 2014. Con Scintille (2015) è semifinalista al Premio Scenario e nello stesso anno Tavano fonda Nastro di Mobius, centro di produzione cinematografica.
16 Patres debutta nel 2014 per la produzione di Scenari Visibili e con la regia dello stesso autore. Per il testo scritto cfr. Saverio Tavano, Patres, La Mongolfiera, Cassano Jonico 2015.
17 Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi hanno alle spalle un percorso di formazione articolato, dove figurano nomi come Domenico Cucinotta, Emma Dante, Michele Perriera e Anatolij Vasiliev. Debuttano come autori, attori e registi delle loro produzioni con Due passi sono, vincendo il Premio Scenario per Ustica nel 2011, Premio Inbox 2013. Nel 2013 si aggiudicano la vittoria ai Teatri del Sacro con T/Empio, critica della ragion giusta. Segue Conferenza tragicheffimera, sui concetti ingannevoli dell’arte, ultima tappa di una trilogia dedicata al tema del Limite. De revolutionibus - sulla miseria del genere umano debutta nel 2015 mentre Delirio Bizzarro è la produzione del 2016.
18 T/Empio, critica della ragion giusta, produzione Carullo Minasi e I Teatri del Sacro, 2013
19 Lo spettacolo debutta a Lucca a I Teatri del Sacro nel 2015 con la regia e l’interpretazione degli autori.
20 Scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi lo spettacolo debutta nel 2011 e vince il Premio Scenario per Ustica 2011, Premio In Box 2012 e il Premio Internazionale Teresa Pomodoro 2013, oltre ad essere finalista al Premio Museo Cervi 2012 e al Premio Le Voci dell’Anima 2013. Cfr. G. Carullo e C. Minasi, Due passi sono, Caracò, Bologna 2013.
21 Tino Caspanello è attore, drammaturgo e regista. Nel 1993 fonda la Compagnia Teatro Pubblico Incanto con cui allestisce e interpreta più di trenta spettacoli di diversi autori. Parallelamente, inizia la sua attività di drammaturgo. Fra i molti testi scrive e mette in scena: Mari (2003, Premio speciale della Giuria – Premio Riccione Teatro 2003),‘Nta ll’aria (2007), Malastrada (2010), 1952 a Danilo Dolci (2012), Quadri di una rivoluzione (2015), Blues (2017). A maggio del 2011, insieme ad altri drammaturghi provenienti dal Belgio, dalla Turchia, dal Canada e dalla Polonia, è ospite del Troisième Bureau di Grenoble al Festival Regards Croisés, durante il quale viene presentato in francese A l’air libre (Nta ll’aria). Nel 2016 fonda e dirige la residenza internazionale drammaturgica Write, con una seconda edizione nel 2017, ospitata a Mandanici (Me). A novembre 2016 Tino Caspanello e Cinzia Muscolino hanno portato in scena Mari all’Università di Hong Kong. I suoi testi sono pubblicati da Editoria & Spettacolo e tradotti in numerose lingue europee.
22 Mari è un testo del 2003, premio speciale della giuria – Premio Riccione Teatro 2003; pubblicato sulla rivista “Hystrio”, 2005, n. 2; tradotto in francese da Frank e Bruno La Brasca, è stato pubblicato in Francia nel 2010 da Editions Espaces 34, presentato a Marsiglia, Lione, Tolosa e Strasburgo nell’ambito di Parole in anteprima (2008 e 2009) a cura di Antonella Amirante e messo in scena a Parigi al Théâtre de l’Atelier con la regia di Jean-Luis Benoît nel 2011. Per la versione del testo italiana cfr. Tino Caspanello, Teatro cit.
23 In particolare, cfr. «Prove di drammaturgia», XV (2009), n. 2, p. 22 sgg, numero curato da Tomasello con Gerardo Guccini dove si discute del ritorno dell’autore teatrale con focus sul Sud.
24 Delirio Bizzarro debutta nel 2016 ed è risultato vincitore del premio di produzione e circuitazione Forever Young 2015/2016. Prodotto da Compagnia Carullo Minasi e da La Corte Ospitale di Rubiera.
Auteurs
Giornalista e critico teatrale, si laurea con una tesi sul teatro argentino di Buenos Aires e i suoi studi vertono in particolare sullo spettatore a teatro in ottica interdisciplinare. È tra i fondatori di Altre Velocità, gruppo attivo fra giornalismo, radiofonia ed educazione dello sguardo. Collabora e ha collaborato con riviste specialistiche a livello nazionale, settimanali e radio locali e fa parte della giuria dei Premi Ubu. Ha svolto attività di progettazione culturale per istituzioni pubbliche, come dal 2010 al 2014 quando ha lavorato per il Comune di Ravenna per la candidatura a Capitale Europea della Cultura. Si occupa sul campo di educazione allo sguardo attraverso laboratori per spettatori, percorsi di divulgazione e workshop di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. È fra i coordinatori di Crescere spettatori, progetto di Altre Velocità che punta a creare un modello sperimentale di formazione del giovane pubblico. Dal novembre 2017 sta svolgendo un dottorato di ricerca in arti visive performative e mediali all’Università di Bologna attorno all’identità e all’avventura dello spettatore teatrale
Insegna Letteratura Italiana contemporanea e Drammaturgia presso l’Università di Messina, dove coordina il DAMS. È Coordinatore scientifico del Centro Internazionale di Studi sulla Performatività delle Arti (UNIVERSITEATRALI) dell’Università di Messina. Dirige per Editoria & Spettacolo la collana FARETESTO, dedicata ad un repertorio di testi della drammaturgia italiana contemporanea. Il suo ultimo volume è: La drammaturgia italiana contemporanea. Da Pirandello al futuro (Carocci, 2016)
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