Persona, città e mente collettiva: un itinerario alla ricerca del genius loci perduto
p. 67-89
Texte intégral
1. Cornice
1Abitare non coincide con il risiedere, con quella relazione funzionalizzata con uno spazio nel quale l’individuo diventa utente generico di non-luoghi, come li chiama l’antropologo Marc Augè (aeroporti, centri commerciali, quartieri dormitorio, metropolitana, ecc). In essi, è l’assenza di legami storici, sociali e affettivi a renderli semplici snodi di passaggio in cui la relazione individuo-spazio non ha modo di radicarsi. Il senso dell’abitare, diversamente, è connotato da uno spessore di significato condiviso con altri, sia in termini semantici che emotivi. È muovendosi in questa profondità che prende forma l’esperienza dell’abitare, in cui lo spazio diventa luogo vissuto e l’individuo-utente, di conseguenza, persona. Come indica l’etimologia stessa del termine latino, la persōna altro non è, infatti, che una maschera in azione reciproca con altri attori in uno stesso luogo scenico: quello della polis.
2La città di Messina, purtroppo, è più vicina alla polarità del non-luogo che a quella della polis. Le dinamiche sociali, culturali ed economiche che l’hanno attraversata negli ultimi decenni sembrano, infatti, averla trasformata in una non-città, in uno spazio urbano di attraversamento in cui il senso dell’abitare non ha modo di mettere radici. Tale sradicamento non è solo circoscrivibile al flusso viario tra Calabria e Sicilia ma, drammaticamente, all’intera cittadinanza. Ne consegue la tipica condizione di non appartenenza del messinese, che fa di lui un residente e non un abitante.
3La cittadinanza, spesso, individua nel terremoto del 1908 la causa prima di questa condizione di sradicamento, dimenticando, ad esempio, come le attività portuali della città avessero in pochi anni ripreso, pienamente, il flusso dei commerci. Nella Messina contemporanea, infatti, l’ultimo grande sisma sembra svolgere la funzione di grande narrazione rivelativa di un destino fatale da assecondare, trascurando la vitale capacità di reazione mostrata, al tempo, dalla cittadinanza. Un mito metropolitano che narcotizza la coscienza collettiva su come, al contrario, non sia stato tanto il sisma del 1908 a far inginocchiare Messina, quanto il terremoto socio-politico che l’ha affogata nel cemento a partire dagli anni Settanta. Un vero e proprio terremoto permanente che, da allora, ha distrutto costruendo su colline e linee di costa in una distrazione collettiva sedotta dal rimpianto nostalgico della grande Messina, perduta per sempre a inizio secolo.
4È questa Fata Morgana prodotta dall’immaginario collettivo che sembra rendere difficile la riappropriazione di un’altra memoria urbana; riattivarla permetterebbe di illuminare la coscienza collettiva verso la consapevolezza di quel sisma sociale – prodotto dal legame malato tra politica e interessi privati – che ha devastato l’intero meridione d’Italia. Nel caso di Messina questo sisma si è manifestato con una serie d’interventi urbani scellerati che hanno progressivamente allontanato la città dalla sua relazione vitale con il mare: la stazione e la linea ferroviaria voluta da Mussolini, i recinti che delimitano gli approdi della compagnia di navigazione Caronte, le recenti cancellate poste dall’Autorità portuale alle banchine del porto, l’uso della linea di costa di Maregrosso come discarica. È lungo queste linee di separazione che i messinesi perdono quotidianamente il loro legame con il mare e, in particolare, con il caratteristico porto naturale disegnato dalle correnti dello Stretto che, da sempre, costituisce il genius loci di Messina, rendendola unica tra le città del Mediterraneo.
5Avendo come riferimento questa problematica cornice concettuale, l’intento dell’escursione urbana proposta è proprio quello di andare in direzione del genius loci sepolto nella memoria collettiva: la Falce Zanklea, significativamente individuata oggi con il nome di Zona Falcata.
2. Dal centro verso la porta del mare
6Partiamo da Piazza Cairoli, centro simbolico del nostro percorso nella città. Dal cuore commerciale ci spingiamo verso la zona invisibile della Falce, importante non solo per capire storia e presente di Messina, ma anche per immaginare un futuro mosso da una consapevolezza sociale ed estetica.
7A Piazza Cairoli siamo in uno spazio segnato da una visione urbanistica moderna. La piazza, infatti, era funzionalizzata a una socializzazione destinata principalmente al consumo, prima dell’installazione dei grandi centri commerciali nella zona sud della città. Anche Piazza Cairoli è nata dopo il terremoto e presenta una struttura molto geometrica, a scacchi. Il tram che la attraversa costituisce uno degli ultimi interventi strutturali della città; costruito tra il 1995 e il 1996, è una delle tante linee di separazione dal mare, ovvero, una delle tante cicatrici urbane di Messina. Ritorneremo a più riprese su questo tema.
8Messina è nata, infatti, attraverso e per il mare e di questo ha voluto tenere conto il progetto Distrart al quale ho partecipato in qualità di esperto nel 2015. Sviluppato all’interno della linea di finanziamento PO-FESR 2007-2013, il progetto aveva come tema generico quello della «promozione dei nuovi linguaggi urbani e contemporanei (installazioni e Street art) e pubblicazioni artistico/culturali», che ho provato a orientare verso il tema della rigenerazione urbana, andando ad attaccare le linee di separazione che separano città e mare. Il tal modo, Distrart ha cercato di trasformare la ferita urbana della tramvia in una linea simbolica e immateriale di contatto tra città e mare, intervenendo sulle pensiline attraverso i linguaggi espressivi dell’arte urbana e invitando gli artisti a usare la scala cromatica dei colori tipici del Mediterraneo. Artisti di Messina e del territorio provinciale sono stati, inoltre, chiamati a interpretare liberamente temi storico-identitari provenienti dalle ricche stratificazioni sociali che, da millenni, si sono posate sulla memoria e sull’immaginario dello Stretto. A Piazza Cairoli, su due pensiline antistanti, Manuela Caruso ha dipinto Mata e Grifone, che rappresentano sia gli ideali fondatori della città, sia il momento in cui a Messina si è creata una società multiculturale, intorno all’anno 1000, quando i Mori, i Cristiani e gli Ebrei hanno convissuto in questa città.
9Camminando per pochi minuti verso l’area portuale, si arriva alla zona della stazione ferroviaria, composta dalla Stazione Marittima (dove arrivano i traghetti e gli aliscafi che collegano l’isola alla Calabria), e Messina Centrale, che collega la città al resto del territorio insulare. Nell’area circostante sono state realizzate diverse opere di Street art, compiute in modo spontaneo da artisti come Blu, Ema Jones e Desx, per citarne solo alcuni.
10Considerando le opere già esistenti, il progetto Distrart ha qui individuato un punto strategico di intervento da mettere in relazione alla rigenerazione della linea tranviaria, che consentisse un ulteriore sviluppo delle tracce artistiche presenti nel territorio, per trasformare la strada antistante il porto, via Alessio Valore, in un vero e proprio distretto d’arte urbana. La sua posizione, tra porto e centro urbano, la rende, infatti, una delle possibili porte marine della città, oggi preclusa dal suo stato di abbandono. Riaprirla attraverso la chiave dell’arte urbana è sembrato, dunque, un passo necessario a far ricircolare le energie rigenerative della città, attraverso opere di grandi dimensioni realizzate, su invito, da Street artist di fama nazionale e internazionale.
11Anche l’ambizione di quest’intervento è stata di ritessere legami perduti di significato tra gli abitanti e i loro luoghi, tanto più considerando che la Casa del portuale era stata, in precedenza, rigenerata da diverse iniziative culturali e artistiche in quanto sede dell’ex Teatro Pinelli Occupato. Sebbene oggi sgomberato, questo luogo resta come traccia sia di una fame di spazi sentita a Messina da numerosi artisti e attivisti, sia dell’assenza di risorse economiche per pagarli, da cui sono scaturite diverse esperienze di occupazione. La rivitalizzazione della Casa del Portuale, che ha avuto una durata di tre anni, presenta infatti una genealogia precisa: dalla previa occupazione del Teatro in Fiera, ribattezzato con il nome di Pinelli, all’occupazione, per una sola settimana, dell’area ex Sea Flight – una fabbrica di aliscafi oggi in disuso – nel quartiere di Torre Faro a nord della città. La Casa del portuale è, inoltre, da ricomprendere come il punto terminale di un processo più ampio che ha attirato diversi street artist nel periodo di occupazione del teatro. Accanto alla porta, Blu ha realizzato, illegalmente, un’interpretazione geniale dell’ibrido tra la Messina greca – l’antica Zankle, appunto – costruita in relazione al mare, e la Messina odierna, sedotta dal mito del consumo. In pratica, è come se Blu avesse preso la mitica polis del passato, rimpastandola con i dolori contemporanei prodotti dalla società del consumo. Non solo: Blu ha fatto questa ibridazione rielaborando il mito moderno del “buddace”, un pesce dalla bocca grande, simbolo del messinese di oggi che vanta meriti che in realtà riempiono solo la bocca, essendo assolutamente privo delle qualità di cui si glorifica. Nel murales, infatti, uomini-pesce (i messinesi) abboccano, a bocca aperta, a diverse esche – soldi, droghe, croci, ambizioni, ecc. – per essere raccolti dalle grandi navi guidate da politici e capitalisti che hanno sequestrato la città. Oggi il murales è, in parte, depotenziato dal blu del mare che va scolorendo.
12Con il murales di Blu chiudiamo il nostro percorso nella città e iniziamo a denudarci dell’urbano, andando verso la Stazione Marittima. Altra cicatrice urbana, forse la più marcata, è quella prodotta dall’enorme stazione ferroviaria che si scorge andando verso il mare, alla fine di via Valore. Mussolini la fece costruire nel 1937, creando un confine poderoso di divisione della città dal mare che ha sostituito una stazione di piccole dimensioni.
13Arrivando a Messina per bus o treno, dirimpetto alla piazza della Repubblica in cui si trova Messina Centrale, è stato collocato, quindi, un altro graffito, fatto dalla Street artist spagnola Julieta. La sua opera rappresenta una reinterpretazione delle sirene in chiave mitologica. Tuttavia, la sirena che domina il murales lacrima sangue, indicando una scelta non secondaria dell’artista che ricorda le tragedie del mare Mediterraneo.
14Scendendo in direzione del porto, a pochi metri di distanza, si trova Without name di NemO’s, ispirato all’atleta somala Samia Yusuf Omar, annegata a largo di Lampedusa nel 2012 nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Il murales interpreta la visione dei morti in mare, mostrando corpi raggrinziti, appesi con mollette come panni ad asciugare. L’opera è stata tuttavia criticata da alcuni messinesi, che non hanno amato l’esposizione delle parti intime.
Inserto. Transito performativo
15Dinanzi la Casa del Portuale, un parcheggio anticipa l’edificio fascista della stazione di Messina Marittima. Accanto all’ingresso, una scalinata conduce oltre la città finora conosciuta e dentro la Cittadella, costruita intorno al 1680. Impossibile, però, d’impatto cogliere tracce della sua storia. Quello che si apre alla vista è un paesaggio sorprendente, senza confini. Ritroviamo lo Stretto e la Calabria, al di là del mare. Come sospesi in uno spazio atemporale, entriamo, cioè, in una zona liminare tra il rumore urbano e l’assoluto silenzio di questo scenario naturale.
16Ai piedi dell’edificio scorrono i binari della ferrovia, oltre i quali una stradina asfaltata consente l’accesso al porto. Ancora oltre, riposano terre incolte, sormontate da un vecchio inceneritore solitario, protagonista della cronaca locale nei giorni in cui lo attraversiamo, per la volontà comunale di demolirlo e di ripristinare la passeggiata della Falce con i pochi resti dell’antica Cittadella spagnola.
17Ad attenderci, all’apice della scalinata, l’attrice Monia Alfieri ci fa da Caronte.1
18La terrazza bianca sopraelevata che percorre il retro della stazione è il condotto verso questo spazio extraurbano, cui la performer ci introduce per congedarsi dal gruppo alla fine, invitandoci a proseguire senza di lei, oltre la scalinata, attraverso un parcheggio, accanto a un piccolo bar, oltre i binari, la strada, la terra che, superato quel che resta della Cittadella, diventa spiaggia e mare. La vediamo inizialmente di spalle, con tuta e cappuccio neri, affacciata e protesa oltre il muretto che dà sul mare, poi arrampicata sulle grate che guardano alla città.
19Chiama insistentemente Damien.
20Lo avevamo conosciuto durante un sopralluogo, Damien, migrante di origine tunisina. Assieme forse ad altri irregolari, aveva trasformato le rovine della Cittadella nella sua casa. Non avevamo parlato molto, ma avremmo voluto ci facesse da Cicerone, ricordando con la sua presenza la vita che si consuma ogni giorno oltre i confini della città nota.
Lo immaginiamo, senza chiederglielo, arrivato come tanti altri sulla sponda che solo a qualche centinaio di metri accoglie le barche della guardia costiera. Traversate e sbarchi cui allude anche il disegno sulla pensilina del tram antistante all’area portuale: un gommone con uomini e donne che scrutano l’orizzonte. Durante il nostro primo incontro, ci aveva spontaneamente protetto dai cani randagi. Ora vorremmo ancora la sua protezione, ma non lo scorgiamo. Damien resta per tutti un nome o un fantasma evocato dal richiamo reiterato della performer che abbiamo dinanzi. Cambieremo strada, dunque, girando al largo delle mura antiche ora adibite a casa e circondate dai cani che lì trovano cibo e riparo. E, intanto, seguiamo questa figura nera lungo il corridoio sopraelevato, al confine tra la città e la Falce.
Personaggio anonimo, con le sue pause ben localizzate, l’attrice ci invita a scorgere la vita perlopiù notturna che anche in questo lembo d’aria si muove. Con movimenti compatti del corpo doppia gli scarabocchi sul muro o dà voce, leggendo, al messaggio sgrammaticato che sulla parete invita ad appuntamenti proibiti.
Pare urlare, senza emettere suoni, quando si accosta alla parete con la bocca aperta in una smorfia, quasi volesse farsi eco di una ferita silente, di cui queste architetture portano i segni. Intanto, e mentre cammina fissando a momenti il paesaggio o stendendosi sul muretto, sentiamo le parole che fuoriescono da un registratore che tiene con sé, assieme a una vecchia valigia di cuoio marrone.
Ascoltiamo Pasolini osservare la città di Sabaudia e dare un senso anche al nostro stare lì, su questo edificio fascista, dinanzi a una natura prorompente di cui l’azzurro del mare spezza il grigiore del cielo invernale, entrambi tagliati alla vista dalla ruggine dell’inceneritore abbandonato.
Scendiamo la scalinata, attraversiamo parcheggio e strada. Siamo nella zona della Capitaneria di porto. Scavalchiamo il guard-rail, immettendoci su un selciato sconnesso e stretto da erbacce. Arriviamo all’Inceneritore.
È ancora “lui” il protagonista che combatterà tra breve con i residui di altre epoche, con il sincretismo anomalo degli scarti abbandonati su questa fascia di terra. Lo scrutiamo e, aiutati dalla nostra guida, notiamo i resti dell’antica Cittadella seicentesca. Da lì raggiungeremo, poi, la spiaggia.
Ci accoglie ancora una figura di donna, stavolta vestita di un abito bianco d’altri tempi e che, portando con sé una colonna purpurea, ci inviterà a bere un tè caldo da un vassoio poggiato su un sasso e da tazzine di porcellana. È ancora Monia Alfieri che, senza proferire parola, si congeda lasciando le tazze sulla spiaggia, per scomparire dentro una grotta che degrada sul mare.
21Riapparirà di nuovo alla fine, chiuso il momento performativo, per raccontarci la sua esperienza di questo luogo, mentre ci raccogliamo sulla spiaggia, circondati dal mare, dalle rovine della Cittadella e da una nave cisterna petrolifera semi-affondata. Racconterà degli oggetti che le ha restituito lo Stretto, dalla colonna al servizio da tè arenati sulla spiaggia. Di avere raccolto l’abito bianco che giaceva appeso a un muro del Settecento, di resti di una vita riattivata nelle sue creazioni performative. Ricorderà le suggestioni e le ferite di un luogo per lei familiare e doloroso, un luogo che si fa amare, oggetto di mille denunce e di altrettante poesie:
mi dispiace che non abbiate conosciuto i ragazzi che abitano qui, nelle grotte, che tante volte ci hanno fatto da tramite fra questo posto e la città. Alcuni ci dormono soltanto, altri invece ci vivono; c’è una popolazione variegata che abita qui in maniera fissa, altri invece vi transitano o vi alloggiano in maniera sporadica. E in questa grotta ogni volta ritroviamo suppellettili diverse, perché in estate è molto abitata, meno d’inverno. Non sono passati solo i secoli da questo luogo, ma continuano a passarci persone che lasciano le loro tracce.
Verso la scoperta di questi sedimenti, oltre che della storia conservata nei manuali, ci conduce ancora Pier Luca Marzo. Come in un flash-back torniamo dunque all’ingresso della zona militare, superata la strada retrostante la stazione, oltre i binari, in quella che fu la Cittadella spagnola.
3. Dal deserto post-industriale della Zona Falcata al luogo terraqueo della Falce Zanklea
Dal punto di vista architettonico la Cittadella ha una pianta a stella costituita da diverse mura, in cui, all’interno di ciascuna sezione, originariamente, si trovavano fossati. La sua storia è ambigua. La Cittadella è, infatti, un’arma contro la città, costruita a seguito della rivolta antispagnola dei messinesi, che si allearono con la corona francese tra il 1674 e il 1678. Dopo la repressione, gli spagnoli reagirono realizzando, appunto, una sorta di cannone puntato verso terra. La Cittadella nasce, quindi, per controllare e, all’occorrenza, colpire la città; in tal senso, la stella rappresenta anche un’offesa per Messina, che aveva reagito ribellandosi, come poche altre volte nella sua storia.
22Se si osserva dall’alto, si può notare, inoltre, come la Cittadella amputi la Falce, perché rompe la continuità della terra e la sua congiunzione con la città. In altri termini, impedisce di raggiungere la punta e di andare proprio nella parte della falce che è considerata il genius loci, cioè lo spirito del luogo, laddove le architetture della città si sedimentano, si caratterizzano e si diversificano. A fine Seicento, la Falce Zanklea si trasforma, dunque, in un presidio militare e smette di essere un luogo fruibile dalle persone, per la presenza dell’artiglieria pesante e dell’esercito permanente in città. In realtà, con il tempo questa ferita si è cicatrizzata e dopo il Settecento si è ritornati a passeggiare nella zona falcata, che prima della repressione spagnola aveva visto la costruzione di un monastero e della chiesetta del monaco Ranieri. Dopo la smilitarizzazione, tra Ottocento e inizio Novecento, la penisola S. Ranieri (nome, appunto, che le viene dato prima del Seicento), torna dunque a essere frequentata attraverso la piccola stazione e come spazio ricreativo. Il sisma del 1908 ne lascia quasi del tutto intatte le architetture, che contemplavano anche la Lanterna del Montorsoli, costruita alla fine del Cinquecento con la funzione simbolica di occhio della città.
23Più incisivo è, invece, il cambiamento indotto dalla costruzione della stazione, progettata dall’architetto futurista Mazzoni e che separa la città dal mare. Sarà, tuttavia, lo sviluppo industriale che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta a trasformare S. Ranieri nella Zona Falcata. Noi oggi osserviamo quello che resta della demolizione di ampia parte della Cittadella e del processo di pianificazione voluto dal Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale nell’area del porto dal 1953 al 1976. Il luogo prende, infatti, il nome di zona negli anni Settanta, quando l’immaginario del progresso che viene dal Partito Comunista e dalla Democrazia Cristiana inizia a pensare lo spazio come un ente geometrico e non come un luogo dotato di una sua corporeità.
Questa zona viene ripulita geometricamente dall’immaginario dell’epoca e interamente funzionalizzata. Tra il 1974 e il 1976, con il piano Tekne, la falce viene, in particolare, studiata sulle carte e divisa in zona militare, zona industriale (dove troviamo anche i cantieri navali Smeb e Rodriquez e i depositi petroliferi) e zona ferroviaria; prende forma, così, quello che nelle intenzioni doveva essere il rilancio del Sud: una zona funzionale alle attività economiche.
24Davanti alla Torre del Montorsoli vediamo, dunque, cisterne adesso in disuso, funzionali a pulire le petroliere che ovviamente scaricavano in acqua; oggi, quel tratto di mare è il più inquinato che ci sia nell’arco di chilometri. Siamo nella Cernobyl di Messina, dinanzi a uno sviluppo che ha tagliato la storia, creando sottosviluppo. Ne risultano moltissimi contrasti. Dal punto di vista percettivo, sensoriale, notiamo una differenza notevole fra suoni e odori, andando dalla stazione fino alla Zona Falcata. Sembra di entrare in un’altra galassia. E i contrasti continuano se ci si guarda attorno: una porta del Seicento murata con mattoni anni Novanta; una ciminiera dei primi del Novecento; un inceneritore comunale, costruito negli anni Settanta per lo smaltimento dei rifiuti urbani e ampliato negli anni Ottanta, ma mai collaudato, né utilizzato. Paesaggio, architetture e funzioni diverse che convivono nello stesso spazio.
La prima volta che sono giunto in questo luogo, all’incirca nel 2000, ho dovuto scalare una piramide di televisori e di frigoriferi rotti. Eppure, c’era una grazia maestosa che dominava questo spazio e, cioè, un ulteriore contrasto dato dalla vita quotidiana: panni stesi, la mamma che chiamava il figlio e tutto questo in un ritmo lento della vita quotidiana a noi oramai sconosciuto. Insomma, qui c’era una sorta di micro-quartiere e, accanto, l’accampamento dei Rom, che poi è stato sgomberato, perché anch’esso considerato un’offesa per la città. Convivevano inquietudine e serenità; ancora un contrasto, dunque. E, poi, chi dormiva in uffici costruiti durante il processo di industrializzazione e ora abbattuti, chi nell’inceneritore e chi ancora tra le arcate e gli antri delle mura della Cittadella spagnola del Seicento. Antri prima occupati da meccanici, lattonieri, cavalli per le scommesse clandestine.
Adesso, troviamo abitazioni di senzatetto, per lo più di origine magrebina, che abitano questi posti con una grazia architettonica notevole. Non si limitano a dormire qui, ma hanno dato un’estetica alle loro case, che non sono solo uno spazio funzionale, bensì uno spazio di espressione. Troviamo anche il pescatore messinese “deviante”, che invece di andare alla frequentata passeggiata a mare viene qua e, infine, i sub. Uno spazio vissuto da persone differenti, che magari non si relazionano tra di loro e che, però, esistono, sono co-presenti.
Qui si trova, cioè, un deserto postindustriale. Non è un non-luogo iperfunzionale in cui sono assenti i legami sociali, come possono essere i centri commerciali o gli aeroporti, ma non è neanche un luogo: è uno spazio disfunzionale, uno spazio vissuto al quale non è assegnata una funzione. Naturalmente, non era stato originariamente pensato così. La fortezza, l’inceneritore, erano spazi iperfunzionalizzati ma, com’è tipico dei luoghi del Sud, si è sviluppato un immaginario dello sviluppo e del progresso che ha prodotto una sorta di santuario postindustriale, per il riascolto di un altrove, di una dimensione altra, che è quasi sovra-storica.
25Devastata da questo processo, la Zona Falcata è diventata un posto evocativo, pieno di significato, talmente pieno da arrivare al silenzio: un luogo che ti fa vedere il futuro possibile. Questo è ciò che aveva capito Pasolini, da poeta e non da intellettuale. Mentre gli intellettuali parlavano di progresso, Pasolini aveva colto che quel che non aveva fatto il fascismo l’aveva fatto la società dei consumi, cioè trasformare antropologicamente l’immaginario. Il deserto postindustriale in cui ci troviamo blocca, invece, il pensiero e permette di riossigenare la mente e l’immaginario, inteso come capacità dell’uomo di pensare alla possibilità. Perché non immaginare, per esempio, l’inceneritore come un luogo che possa essere rifunzionalizzato in chiave artistica? Lasciando un segno di ciò che c’è stato, senza rimuoverlo, ma cambiandone il senso, per tenere il passato, trasformarlo, dare forma a un luogo che, seppur qualificato, resti disfunzionale: un vuoto in grado di accogliere pensieri, e non di dare risposte.
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Notes de bas de page
1 Monia Alfieri nasce a Messina. Si diploma presso l’Accademia d’Arte Drammatica della Calabria, diretta da Luciano Lucignani e si forma con coreografi quali Daniela Bonsch, Albert Albert, Aleksandra Konnikova, Bernard Estrabaut, Giovanna Tedesco e Pucci Romeo. In particolare, studia danza classica, contemporanea e teatro-danza. Dal 2003 lavora con il regista-pedagogo Anton Milenin e fonda, con Roberto Bonaventura, la compagnia Il castello di Sancio Panza. Lavora, inoltre, con Alfonso Santagata, Lamberto Puggelli, Domenico Cucinotta, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, Ninni Bruschetta, Antonio Lo Presti, Umberto Ceriani, Euan Smith, Mamadu Dioume, Micha Van Hoecke e Giovanni Boncoddo. Realizza spettacoli di Teatro Ragazzi, dei quali cura la regia. Debutta come attrice nel film Corpo celeste (2011), diretto da Alice Rohwacher. Fa parte di vari collettivi, tra i quali Teatro Pinelli Occupato e Space Donkeys, con cui realizza documentari, cortometraggi, videoclip con Alessandro Turchi e Morgan Maugeri.
Auteurs
Ricercatore e docente di Sociologia generale presso l’Università di Messina. Attraverso l’approccio della morfologia sociale, le sue ricerche si rivolgono prevalentemente al rapporto tra tecnica e mutamento sociale. A questo rapporto ha dedicato molti contributi in riviste nazionali e internazionali e, in particolare, due lavori monografici Le metamorfosi: natura, artificio e tecnica (Franco Angeli, 2007) e La natura tecnica del tempo. L’epoca del post-umano tra storia e vita quotidiana (Mimesis, 2012). Negli ultimi anni i suoi interessi di ricerca lo hanno portato ad esplorare i fenomeni collettivi attraverso la prospettiva dell’immaginario sociale portandolo a fondare, nel 2012, la rivista internazionale Im@go. A journal of the social imaginary (Mimesis) e a collaborare con il Department of Arts and Humanities della Nottingham Trent University e con il Département de Sociologie de l’Université Paul-Valéry di Montpellier
Insegna all’Università di Bologna e all’Università di Messina, dove è ricercatrice senior. È autrice dei seguenti libri: Virgilio Sieni. Archeologia di un pensiero coreografico, Spoleto, Editoria e Spettacolo, 2015; Danza e Spazio. Le metamorfosi dell’esperienza artistica contemporanea, Modena, Mucchi Editore, 2012 (Seconda edizione: 2015); Judson Dance Theater. Danza e controcultura nell’America degli anni Sessanta, Macerata, Ephemeria, 2010; (con Adriana Polveroni), Trisha Brown. L’invenzione dello spazio, Pistoia, Gli Ori (edizione bilingue: italiano/inglese); Trisha Brown, Palermo, L’Epos, 2007. Per il 2017 e il 2018, è co-direttrice del Bologna Social Practice Lab con l’artista visivo Pedro Lasch (Duke University) presso la Summer School in Global Studies and Critical Theory (Università di Bologna, Duke University, University of Virginia)
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