Lungo i passi della bellezza in riposo
p. 40-46
Texte intégral
1La suggestione di Jean Genet di creare uno spettacolo di estrema intensità all’interno di un cimitero, che si legge in Cet étrange mot d’urbanisme… del 1967, ha ispirato la composizione della seconda passeggiata urbana, Lungo i passi della bellezza in riposo, e stimolato il desiderio di suscitare, durante il percorso, sensazioni tali da ingenerare una comprensione empatica dell’opera teatrale, confrontata con le domande esistenziali addensate anche ne Il miracolo della rosa dell’autore francese.
2Abbiamo, dunque, immaginato un attraversamento commemorativo e festivo che, simile a un rito iniziatico, potesse produrre un cambiamento di sguardo nell’atto stesso di essere esperito. Dal senso quotidiano della morte al ricordo del passato, all’evocazione della memoria fino alla manifestazione di una brama esistenziale, abbiamo mosso passi che implicavano, innanzitutto, la ricomposizione di un silenzio rituale che anticipasse la voce; desiderato quel luogo ideale e invisibile dove paesaggio, arte popolare e colta si amalgamano quali forme di una cultura – talvolta residuale, talaltra sorgiva – che vive delle persone e delle loro azioni, e perciò nel cuore di ciascun individuo.
3Quattro le tappe del percorso: attraversamento del Gran Camposanto di Messina (cui fa da prologo necessario, ma poco rilevante, in questo caso, lo spostamento da Piazza Cairoli); sosta al parcheggio-discarica La Palmara, sullo sfondo del cimitero, nel quartiere popolare di Villaggio Santo, assieme al “cantastorie” Nunzio Croce; ingresso ai Magazzini del sale, attraverso uno stretto interstizio adornato da disegni di bambini che hanno immaginato la trasformazione del posteggio in un parco giochi; e, lì, spettacolo In veste di rosa di Domenico Cucinotta, seguito dall’incontro con il regista del Teatro dei Naviganti e gli attori Orazio Berenato e Pippo Venuto, in dialogo con Agnese Doria, Katia Trifirò e Vincenza Di Vita.
4Il tema principale di questa passeggiata non è stato, dunque, lo spazio in sé o la sua rigenerazione, che ne costituisce comunque un aspetto, bensì il rapporto tra passato e presente, tra morte e vita, tra realtà e necessaria immaginazione. Andare in un cimitero con altro scopo che non sia quello della commemorazione funebre o, trattandosi di un sito monumentale, dell’apprezzamento estetico delle sue architetture e statue, avrebbe, però, potuto suscitare una duplice perplessità: di mancanza di rispetto per un luogo demandato al rito religioso; di appiattimento della metafisica sul reale, come se la morte metaforica ed esistenziale cui allude il teatro rispecchiasse quella organica. Onde evitarlo, il tragitto è stato innanzitutto condotto quanto più nel silenzio, contando sulla relazione individuale che i partecipanti avrebbero potuto instaurare con immagini, suoni e odori del posto; ovvero, con un universo percettivo caotico che non andava filtrato e incanalato nei discorsi di una guida. La scelta del percorso, che si è limitato a una frazione specifica del cimitero, ha fatto il resto.
5Rivediamo ora le fasi della processione realizzata, perciò immaginando di entrare nel Gran Camposanto di Messina, fino ad arrivare all’ingresso dei Magazzini del sale, dove il testimone del racconto passerà, prima, a Vincenza Di Vita per un’introduzione al Teatro dei Naviganti e alla collaborazione con l’ex attore della Compagnia della Fortezza Pippo Venuto e, in seguito, a Katia Trifirò con cui ci spingeremo oltre la “botola” del teatro e dentro allo spettacolo In veste di rosa.1
Spirito romantico e desiderio di grandeur si percepiscono ancora oggi, passando dall’ingresso principale del cimitero monumentale di Messina. La progettazione ottocentesca dell’architetto Leone Savoja si era, difatti, posta l’obiettivo di eguagliare i più bei cimiteri europei, nonostante le limitate risorse del tempo. Oltre alle imponenti architetture neoclassiche, la costruzione su una collina che preservava la vista sullo Stretto e una vegetazione florida ed elegante, tra salici, cipressi, siepi, aiuole artisticamente ritagliate e fiori, trasformarono da subito il cimitero in un giardino nostalgico, piuttosto che in un triste campo di sepoltura. Ancora esterno alla zona abitata di Messina, di cui il piano urbanistico prevedeva, però, l’espansione nella zona, il cimitero era destinato sin dall’inizio a diventare una città parallela rispetto alla città dei vivi.
6Questo progetto celebrativo e proibitivo sul piano economico non venne, però, mai ultimato, con il risultato che la costruzione del Gran Camposanto si è stratificata nel tempo, lasciando ai messinesi la possibilità di proiettare dentro questo spazio aspettative e necessità condizionate da eventi storici e naturali. Il desiderio di grandezza che aveva mosso l’alta borghesia ad appoggiare Savoja venne, per esempio, seguito dalla commemorazione collettiva dei morti del terremoto del 1908 e dall’urgenza di dare, perciò, degna sepoltura a un terzo della popolazione cittadina rimasta uccisa nel sisma. Poi, dalla volontà di onorare le vittime della Grande Guerra, ricordate anche dal monumento al milite ignoto posto nel Gran Camposanto.
7Entrando dall’ingresso principale, incontriamo quindi un’imponente architettura neoclassica e, salendo per uno dei viali laterali, le cappelle delle ricche famiglie messinesi, che anticipano la camera mortuaria tutt’ora in uso. Eleganza e maestosità non sono, però, sufficienti a indurre il silenzio nel nostro gruppo di visitatori, se non su insistita richiesta, in considerazione dei riti che ivi sono ancora esercitati e, concretamente, del sarcofago che sfila lento vicino alla giovane processione umana e delle maschere nere dei parenti. Superata la camera mortuaria, saliamo, quindi, lungo un viale alberato e raggiungiamo una spianata dominata dal Famelio, un maestoso edificio neoclassico costruito da Savoja per ospitare le personalità illustri. Solenne e decadente, con statue ingrigite e scrostate sopra un campo di tombe, il Famelio sovrasta lo Stretto, preservando i resti dell’ottocentesco desiderio di gloria. Danneggiato dal terremoto del 1908, versa, al tempo stesso, in uno stato di abbandono che ne contraddice l’imponente architettura. In piedi e ormai distanti dalla quotidianità del cimitero, siamo, perciò, come a mezz’aria tra l’orizzontalità del mare e lo schiacciante colonnato che dall’alto lambisce la collina; tra il presente di un monumento che vive e ritrova la propria funzione nella quotidianità dei riti cui è destinato e un passato depositatosi in vestigia evocative, ma ormai spente.
8Oltre il Famelio, questa sensazione s’accresce e pare finanche d’essere nel delirante teatro sognato da Genet: «un pezzo di colonna, un frontone, un’ala d’angelo, un’urna spezzata, per indicare la vendetta indignata che ha voluto questo primo dramma perché la vegetazione, magari anche un’erba robusta, nata dal mucchio dei corpi in putrefazione, livellasse il campo dei morti».2 Vegetazione impossessatasi, qui, di una camera mortuaria sventrata dal terremoto e di cui resta intatta solo la facciata in pietra, mentre un albero possente si erge oltre le lastre spezzate del pavimento, riempiendo le rovine di rami e foglie. Né il silenzio né le conversazioni saranno le stesse ritornando alla vita profana, diceva Genet, immaginando il visitatore del suo teatro, e anche il nostro gruppo inizia spontaneamente a sgretolarsi, tra spaesamento e partecipazione empatica rispetto a nomi, figure, storie di vita raccontate o illustrate dalle lapidi tombali.
9Quanto più ci si allontana dalla parte vissuta del Gran Camposanto per andare a monte della collina, dove riposa il vecchio cimitero, tanto più sembra di entrare in una città extraterritoriale, adornata da statue antropomorfiche che inscenano la morte e bloccano, per l’eternità, l’immagine dei defunti lì seppelliti. Sono artigli di rapace che afferrano il cadetto assassinato; membra di un milite accasciato dinanzi a una nave in burrasca; raffigurazioni drammatiche che ricostruiscono, per frammenti, patetiche narrazioni rese ancora più dolorose dallo stato rovinoso in cui versano, come se una duplice morte fosse scesa su quelle ossa con il loro oblio.
10Ancora una volta, la realtà messinese rivela gli aspri contrasti della sua storia, affollata di desideri incompiuti di cui le tracce irrompono nell’indifferenza del presente, suscitando rabbia o rassegnato silenzio: lo stesso umanissimo bisogno di fissare il ricordo nelle icone perenni di queste lapidi, adornate da fregi gotici e neoclassici, cozza con il nerume e la vegetazione indistinti di una progressiva perdita di memoria. Eppure, la sovrapposizione temporale crea un’altra memoria nel singolo passante, costretto a ricomporre dentro di sé il senso di queste visioni. A immaginare volti, persone e azioni in un intreccio di storie solo percepite.
11Guadagnando l’uscita laterale, superiamo una strada attraversata dal traffico, attorniati dagli edifici popolari di Villaggio Santo. Non è passata molto più di mezz’ora dall’inizio della camminata che tanto il centro cittadino, quanto il cimitero, sono sostituiti da una realtà del tutto differente. Salendo per pochi metri lungo la leggera pendenza collinare, arriviamo dunque al parcheggio La Palmara, dove le automobili si contendono lo spazio con materassi, mobili e residui edili di una discarica abusiva, nonché con resti di recenti pasti consumati sui detriti. Alle spalle, e ancora perfettamente visibili, le tombe del cimitero.
Al parcheggio, ci attende Nunzio Croce con Domenico Cucinotta e Mariapia Rizzo. Operaio in pensione di 66 anni, Nunzio è «un po’ l’anima del quartiere», ci racconta in separata sede il regista, che nel 2017 l’ha voluto in scena come Zi Nicola ne Il fatto del sogno, tratto da Le voci di dentro di Eduardo Di Filippo. Da cantastorie designato, egli ci viene incontro e, presentandosi con tamburello in mano, ci invita a porci in cerchio: è lui a condurre le danze, a raccontarci del parcheggio che ora si vorrebbe trasformare in parco giochi e, poi, a intonare canti tradizionali siciliani, spronandoci a seguirlo con voce e battito di mani. Le espressioni smarrite e i volti seri dei giovani viaggiatori si distendono. Si ride e canta assieme, nuovamente uniti e più compatti per il bisogno di una vitalità condivisa di cui essere partecipi, oltre che testimoni, anche in quel luogo, dove il desiderio sopravanza ancora la realtà.
12Salutato Nunzio, i disegni dei bambini coinvolti nel ripensamento del parcheggio fanno da tramite tra la strada e il Teatro dei Naviganti. Sono stati realizzati proprio al suo interno, durante la terza tappa del laboratorio di democrazia partecipativa sfociato nel progetto “Microspazi urbani”, sostenuto dall’Assessorato ai Beni Comuni di Messina. L’indicazione degli abitanti di Villaggio Santo è stata, infatti, unanime e lo spazio ludico da loro richiesto trasformato, nell’immaginazione dei bambini, in scivoli, aiuole e altalene colorate che ora osserviamo, facendo il nostro ingresso ai Magazzini del sale.
13A distanza di un anno dalla nostra traversata, mentre consegniamo questo volume alle stampe, apprendiamo che quel desiderio è diventato azione collettiva, una progettualità in procinto di realizzarsi.3
1. Il cammino incrociato del Teatro dei Naviganti e di Pippo Venuto
14Arrivando al rione Palmara s’incontrano persone che lavorano nel bel mezzo di una strada a doppio senso di marcia, ma il teatro è invece collocato in una stradina laterale, protetta, che costituisce una difesa anche per chi vive nella zona. Il teatro che ci accoglie «viene riconosciuto come una sorta di istituzione»:
È un privilegio oggettivo per un teatro stare in un luogo non troppo rumoroso, tra la via del Santo e il cimitero. Chi viene qui compie un attraversamento e desidera venirci, sceglie di farlo. Non si arriva qui per caso. […] La gente del luogo non frequenta il teatro o gli spettacoli, tranne quelli in cui sono coinvolti Venuto o Croce, ma lo spazio viene usato per riunioni di quartiere.4
Con queste parole, Domenico Cucinotta descrive la falegnameria abbandonata che, con uno sforzo d’immaginazione non errato, nell’agosto del 2000, diventa per lui e per Mariapia Rizzo lo spazio dei “Magazzini del sale”, nome cucito da Rizzo mettendo insieme la sua vecchia funzione e scritte di frequente osservate durante alcuni viaggi in Veneto. L’appellativo, nato cercando una sede, risponde alla scelta di evocare il sale depositatosi sulla pelle delle persone che vanno in mare. Quando tornano in patria se lo scrollano di dosso ma in parte lo conservano, perché quella è la loro esperienza. Magazzini del sale, quindi, è come una casa artistica da cui allontanarsi e nella quale tornare per creare.
15La via del Santo non è molto frequentata ed era sconosciuta ai due artisti prima di fondarvi il teatro, anche se appariva già parte di una zona deturpata dall’abbandono delle istituzioni. Si trattava di un luogo che altri colleghi di teatro avevano giudicato «scomodo, brutto, rischioso» (Cucinotta), ma che negli anni ha visto svilupparsi una cordialità con i vicini, un’infinità di storie con persone che non avevano mai visto un teatro.
16Prima di diventare il Teatro dei Naviganti, nel 1996, Rizzo e Cucinotta avevano lavorato insieme con Accademia Sarabanda, compagnia che ancora oggi si occupa di stagioni per teatro ragazzi a Messina. Giungono nei pressi di Villaggio Santo dopo un percorso nomadico, prove in spazi casalinghi, teatro di strada e l’uso, per un certo periodo, dello spazio di un oratorio.5 Da quando si trovano ai Magazzini del sale i due fondatori del teatro hanno prodotto una quarantina di spettacoli coinvolgendo attori professionisti e allievi. Dalla scuola dei Naviganti provengono, tra gli altri, gli attori e autori della Compagnia Carullo Minasi e Saverio Tavano, nuova generazione di artisti dello Stretto, pluripremiati e noti.
17Anche il nome Teatro dei Naviganti viene pensato durante un viaggio che i due fondatori fanno in Grecia negli anni Novanta, ed è legato proprio all’inquietudine che sta nel desiderio di viaggiare, di scoprire, sperimentando il cammino, prima ancora della destinazione. Riprende anche i «quattro elementi: coloro che viaggiano cullati dall’acqua, sospinti dal vento, bruciati dal sole alla ricerca di una terra che non è mai abbastanza lontana per essere la meta» (Mariapia Rizzo). “Teatro dei Naviganti” ricorda, inoltre, Il caffè dei Naviganti (1939) del calabrese Corrado Alvaro, cui è intuitivo associare gli studi di Cucinotta all’Accademia d’Arte Drammatica della Calabria. Ma è, piuttosto, Moby Dick di Melville che ritorna tra le parole del regista, quando cita il capitano Achab e s’immedesima nel marinaio in lotta contro la tempesta, mentre racconta la storia e la poetica dei Naviganti.
In una tempesta il porto, la terra, è il pericolo più terribile per una nave. Essa deve fuggire ogni ospitalità; un solo contatto della terra, anche solo una carezza alla chiglia, la farebbe rabbrividire da cima a fondo. Con tutte le sue forze, la nave spiega ogni vela per scostarsi. E nel farlo, combatte proprio contro quei venti che la vorrebbero spingere verso casa, va cercando di nuovo tutta la mancanza di terra di quel mare infuriato. Si getta nel pericolo disperatamente, per amore di un riparo. E il suo unico amico è il suo nemico più feroce.6
Questo passo – tratto da un libro di Melville contenuto nella libreria-archivio del teatro – si lega a un concetto teatrale sviluppato negli anni in cui i Naviganti collaborano con l’Odin Teatret, nel triennio tra il 1998 e il 2000, grazie alla mediazione artistica del Teatro Proskenion di Reggio Calabria.7 La strategia di sopravvivenza nel mestiere del teatro è, per il Teatro dei Naviganti, legata alla ricerca di un angolo di mare per rimanere necessariamente nella tempesta, ma con una possibilità di salvezza. Così, infatti, scrive Eugenio Barba:
un episodio minore della storia del Nuovo Mondo racconta di uomini che abbandonarono la sicurezza della terraferma per condurre una vita precaria su isole galleggianti. Per rimanere fedeli ai loro desideri, costruirono villaggi e città. Oppure misere dimore con un pugno di terra per orto, là dove sembrava impossibile costruire e coltivare qualcosa: sull’acqua e nelle correnti.8
«Noi alziamo la serranda tutti i giorni come tutti gli altri che lavorano qui», dice Cucinotta, che, pensando al suo lavoro d’attore, rivede in sé «un atteggiamento simile a quello che hanno gli artigiani e la gente che fa lavori manuali, i quali di fronte a un ostacolo rispondono con la perizia e l’esperienza, […] come un carpentiere che deve adattarsi all’architettura su cui lavora». Anche se riconosce nella regia e nell’insegnamento un importante momento di studio, è sulla scena che afferma di sentirsi maggiormente a suo agio, su un terreno noto e praticato. Diplomatosi all’Accademia d’Arte Drammatica della Calabria nel 1991, diretta in quegli anni da Alvaro Piccardi,9 si trasferisce a Mosca per l’allestimento di uno spettacolo che debutta nel 1993. Grazie alla partecipazione a un provino romano nel 1992, prende parte come attore allo spettacolo Ciascuno a suo modo coprodotto dal Teatro d’Arte moscovita e dal Teatro Ateneo dell’Università di Roma con attori russi e italiani diretti da Anatolij Vasiliev. Da Vasiliev sottolinea di essere stato «segnato artisticamente e pedagogicamente».
18Nel 2014 conosce Giuseppe Venuto al bar Fontanazza, gestito dalla famiglia Casella. Il bar si trova tra il parcheggio La Palmara e la sede del teatro. A insistere perché si incontrino è proprio il barista, Massimo, che fa di tutto per stimolare una reciproca curiosità.10 Venuto lavora, al tempo, in un’officina di via del Santo. Nello stesso periodo, si esibisce nel Santo Genet (2013) della Compagnia della Fortezza, in cui Cucinotta lo vede recitare per la prima volta in occasione di una replica milanese dello spettacolo.11 Fuori di scena, l’attore porta al collo un ciondolo che ritrae Giuda Taddeo, «avvocato dei casi impossibili, da non confondere con Giuda Iscariota, che tradì Gesù», citato nei vangeli aprocrifi e riconosciuto dal Vaticano con il nome di Taddeo. Citato anche in due film che pare abbiano ispirato Venuto: ne Gli intoccabili di Brian De Palma è menzionato dal personaggio di Jimmy Malone, interpretato da Sean Connery, poliziotto onesto che combatte la malavita di Chicago negli anni Trenta;12 in Man of Fire da John Creasy / Denzel Washington, che morirà tenendo tra le mani la medaglietta del Taddeo donatagli da Pita, la bambina cui fa da guardia del corpo.13
19Quando chiediamo a Venuto come sia arrivato al teatro e prima che ai Naviganti, attraverso l’incontro con Cucinotta, a quello di Armando Punzo, ci mostra dei dipinti di cui è autore e che tiene con sé nel suo smartphone. Tutto è nato dalla volontà di ritrarre un giullare che ha visto a teatro, un uomo molto bello, a cui accostare un simbolo forte. Come chiunque si avvii all’arte, qualunque essa sia, anch’egli dapprima si ispira ad altri, imitandoli, imparando una tecnica, per poi improvvisare e superarla. A ispirare Venuto sono i Macchiaioli, Rembrandt, ma anche la fotografia. Omaggio alla fotografia è il ritratto che Venuto dedica al personaggio del clown, interpretato dallo stesso Punzo in Pinocchio. Lo spettacolo della Ragione.14
Un clown con un gallo è, dunque, ciò che Venuto decide di ritrarre per “omaggiare” un modello di bellezza, una “fotografia” visiva che gli appartiene e che diviene, così, un’opera pittorica. In seguito si cimenterà anche nella scrittura di monologhi teatrali. La simbologia legata all’animale simulacro è, peraltro, la motivazione per ritrarlo: vigilanza, rinascita, virilità e spirito combattivo.15
20Quando avviene il trasferimento in un’ala in cui è permesso fare teatro, stanco di occuparsi solo delle arti visive, Venuto comincia a frequentare il teatro all’interno del carcere della Fortezza: dal 2008 «m’interesso al teatro, o meglio – aggiunge Venuto – è il teatro a occuparsi di me». Il teatro diviene per Venuto uno spazio fisico e ideale, porta d’accesso verso un luogo ideale, «come un rifugio dove la percezione di tutto ciò che sta intorno cambia completamente».
21Durante la detenzione, dal teatro deriva anche la passione per la lettura e lo studio della storia, tanto che inizia a sostenere esami per una laurea in scienze storiche mai conseguita per ragioni logistiche e non più avvertita come una distrazione necessaria, dopo la scarcerazione. Scrive, inoltre, testi originali e monologhi e tutt’oggi non perde occasione di tornare su libri come il De Profundis di Wilde, lettera che lo scrittore rivolge al compagno Alfred Douglas durante il periodo di carcere per l’accusa di omosessualità. Ma è Albert Camus il suo autore preferito e il Mito di Sisifo il suo romanzo più amato, quel Saggio sull’assurdo che ricorda come «il maledetto viziaccio della conoscenza faccia vivere male» (Venuto).
22Il primo spettacolo cui ha preso parte con la Compagnia della Fortezza è stato Mercuzio non vuole morire con un coinvolgimento diverso nelle tre versioni sia per gli attori sia per il pubblico: all’interno del Festival di Volterra, in teatro e in piazza.16 Come per Santo Genet, l’opera si sposta dalla fortezza medicea alla sala teatrale, generando una diversa emozione nell’attore: «Tra gli specchi di Santo Genet mi sentivo molto a mio agio – racconta -, il festival aveva molto più senso. Dimenticavi il testo, perché ti distraeva l’immagine di te. Questo genere di esasperato narcisismo, poi, a teatro non rendeva. Ci veniva chiesta l’idealizzazione del personaggio perfetto che viene esagerato nella finzione, così da darne una immagine migliore: la purezza della finzione priva dell’umano» (Pippo Venuto).
23Eppure, Pippo Venuto confida di non sentirsi un attore:
Un attore è un tecnico e ha contenuti. Io sono un attore che si mette a parlare alla gente che ha di fronte. Che il contenuto o la tecnica espressiva siano fatti in maniera esatta o meno, non importa. Le cose migliori s’improvvisano quando non si pensa troppo a cosa dire. Si dovrebbe trovare un modo anche nel teatro, come è già stato per tutte le altre arti, di trovare un confine, una definizione esatta. A ogni modo io dico di non essere un attore così come Camus sosteneva di non essere un filosofo.
Anche la collaborazione con Cucinotta nasce dal confronto, seppure con modalità totalmente diverse da quelle conosciute con Punzo. I due si aggirano per il quartiere, divenendo inseparabili compagni di animati e continui dialoghi su Genet e il teatro. Il miracolo della rosa finisce per diventare il fulcro della discussione e un progetto teatrale ancora in divenire.
2. In veste di rosa tra biografia e scrittura scenica
Una data, gennaio 2015. E una citazione a matita: «La bruttezza è bellezza in riposo». Sono gli appunti tracciati da Domenico Cucinotta sul frontespizio del romanzo Miracolo della rosa di Genet.17 Le pagine sono disseminate di sottolineature, apparentemente senza un ordine, mentre gli angoli dei fogli ripiegati verso l’interno, in diversi punti del libro, suggeriscono una mappa ideale di visioni e parole che hanno distillato la loro potenza evocativa nell’immaginario del lettore, in una sorta di operazione preregistica. Questi segnali sparsi e la frase che campeggia sullo spazio bianco del frontespizio forniscono un indizio privilegiato, una chiave per penetrare dietro le quinte del lavoro scenico, ponendoci sulla soglia di quel luogo segreto, intimo, dove è avvenuto il primo incontro tra Genet e Cucinotta e, da qui, attraversare a ritroso anche la tappa conclusiva del viaggio che ci ha condotto dentro i Magazzini del sale, per assistere allo spettacolo In veste di rosa: movimento collettivo, fisico, condiviso, che ha trovato compimento nell’esperienza di spettatori.
24Dall’ingresso al Teatro dei Naviganti parte e ritorna, dunque, l’analisi del processo creativo che, accanto a Cucinotta, ha visto la partecipazione di Pippo Venuto come interprete protagonista e co-drammaturgo. All’origine dello spettacolo vi è il romanzo, alluso nel titolo ed esplorato dal doppio sguardo co-autoriale che, nel passaggio dalla pagina scritta ai linguaggi della scena, lo rigenera e trasforma, attraverso un lavoro di riscrittura estremamente stratificato, al quale contribuisce, come assistente alla regia, anche Mariapia Rizzo. Ipotesto dichiarato, Miracolo della rosa innesca, cioè, una fittissima partitura dialogica, fatta di riflessioni e improvvisazione tra i due autori della scrittura scenica, che si assumono la responsabilità del testo teatrale destinato a confluire nella voce monologante di Venuto. Ad accompagnarla, nella ricerca di ulteriori suggestioni, le fluttuazioni corporee dell’attore Orazio Berenato, aggiunto dal regista nella versione definitiva di In veste di rosa.18
L’occasione di una pièce liberamente tratta dal romanzo matura in Cucinotta dall’incontro con Venuto e, in particolare, dalla potente seduzione esercitata dalla storia sull’immaginario dell’attore, che cita spesso il libro durante le loro conversazioni. Attorno a Miracolo della rosa, che il regista scopre rimanendone a propria volta affascinato, prende così forma, definitivamente, il desiderio di lavorare insieme: è a partire dalle avventure di Harcamone che l’idea, ancora poco nitida, di una collaborazione – avvertita subito da entrambi come esigenza forte – assume dunque contorni sempre più concreti, generando il progetto di uno spettacolo ispirato all’ambiguo protagonista delle pagine di Genet.
Dal romanzo alla scena
In veste di rosa esplicita la doppia condizione di prigionia esperita da Genet, che scrive il suo romanzo, esito di un progetto redazionale frastagliato, alternando al resoconto della vita carceraria di Fontevrault, durante l’inverno 1940-1941, le esperienze vissute nella colonia penale di Mettray, dove è stato rinchiuso ancora minorenne, e sovrappone all’autobiografismo del Miracolo quello di Venuto, invitato dal regista a contribuire alla drammaturgia con il racconto di sé e della propria detenzione. Nel novembre del 1943 è Genet stesso, in una lettera al suo futuro editore, a presentare il libro come la «meravigliosa avventura degli ultimi quarantacinque giorni di un condannato a morte», cui si aggiungono le memorie, «appena romanzate – forse anche per niente – su Mettray»,19 luogo da dove provengono i personaggi principali della storia. Duplice anche il ruolo assunto dal narratore, lo stesso Genet, contemporaneamente «fidanzato mistico» dell’assassino Harcamone e amante del suo traditore, Divers, responsabile della cattura e, quindi, della condanna a morte del giovane. Luoghi di «raffinate delizie e spietate torture»,20 Fontevrault e Mettray divengono teatro della «trasfigurazione dell’universo carcerario in una sorta di corte feudale fondata sul vassallaggio erotico o di comunità religiosa, ieratica e cerimoniosa»,21 al cui centro domina incontrastata la mistica solitudine di Harcamone, che si palesa tramite segni prodigiosi, sino all’apoteosi del miracolo compiuto nel tragitto verso la ghigliottina.
25Episodio centrale del romanzo di Genet e dello spettacolo, la morte del giovane assassino confluisce nella drammaturgia insieme ai testi originali prodotti da Venuto, fondendosi in un racconto teatrale che appartiene alla dimensione umana e artistica di entrambi: «La storia di Pippo in questo spettacolo è la storia di Genet nella sua cella in carcere. In uno spazio simile, ritrovano una botola. Ed entrambi vanno verso Harcamone. La situazione drammaturgica è presa dal romanzo, naturalmente sfrondata da tutti gli altri racconti. C’è un’attesa e c’è una veglia».22
26Metafora del salto perenne tra la crudezza quotidiana e la possibilità, forse salvifica, di raggiungere lo spazio dell’immaginazione, la “botola” che Genet crea sotto i propri piedi non è altro che, nella vicenda personale di Venuto, la scoperta di «una fuga dal reale verso la ribellione del possibile», come leggiamo nelle note di regia, attraverso l’arte e attraverso l’incontro con il teatro, avvenuto durante la detenzione. In questo punto esatto la sua storia si mescola al racconto ultraterreno di Genet, moltiplicando nello spettacolo i piani del racconto, poiché non solo l’attore in scena, ma anche l’autore – per primo – diviene personaggio di se stesso e della propria opera, nel momento in cui inizia il viaggio verso la mente e il cuore di Harcamone. Figura principale del romanzo, e doppio dell’attore in scena, il giovane condannato a morte è evocato da Genet come idolo mitico, nei termini di una mistica, perturbante apparizione che prelude al miracolo finale:
Era in piedi, in tutta la sua bellezza, al centro della cella. […] mi sentivo come la strega che invoca da tempo il prodigio, vive nella sua attesa, ne riconosce i segni premonitori, poi, tutt’a un tratto, lo vede compiersi di fronte a sé, e – cosa ancora più conturbante – lo vede quale lo aveva preannunciato. Esso è la prova del suo potere, della sua grazia, perché la carne è sempre la fonte più evidente di certezza. Harcamone “mi appariva”.23
Suggerite sulla scena da un perimetro di petali, le catene del prigioniero nelle pagine del romanzo si mutano in ghirlande di rose bianche, simbolo anch’esso di quella santità attribuita al personaggio, della quale Genet coglie i segni, da spettatore estatico: «La trasformazione cominciò al polso sinistro, che si ritrovò circondato da un braccialetto di fiori, e proseguì lungo la catena, di maglia in maglia, fino al polso destro. Harcamone continuava ad avanzare, incurante del prodigio».24 Nella versione definitiva dello spettacolo, Harcamone è presente figurativamente attraverso il corpo danzante di Berenato, che si aggira attorno allo spazio-cella di Venuto sino a incontrarlo, offrendo allo spettatore un elemento ulteriore per leggere il lavoro scenico. Non c’è, da parte del regista, alcun intento didascalico quanto, piuttosto, la ricerca di un’immagine evanescente e muta che, tracciando una coreografia irreale di movimenti lenti, in parte occultati al pubblico da una tenda trasparente, rafforzi sulla scena l’ossessione genettiana per il giovane assassino.
27Il racconto della sua morte è la suggestione che più potentemente penetra dal romanzo alla drammaturgia, rivelata con le stesse parole usate dall’autore francese per condurci letteralmente dentro il corpo di Harcamone, divenuto immenso e luminoso, alla ricerca del suo cuore, sino a giungere alla stanza più segreta. Al di là della porta di ingresso all’organo del cuore, in una camera «nuda, candida e fredda, senza aperture», si trova ritto su un ceppo di legno un giovane tamburino di sedici anni, che scandisce con le bacchette la quintessenza della vita del prigioniero. Oltre un’altra porta, ecco il cuore del cuore, il fiore mistico: «una rosa rossa, di dimensioni e bellezza mostruose», profanata dalle quattro figure nere – il giudice, l’avvocato, il cappellano e il boia – che, come Genet (e come noi attraverso il suo sguardo), hanno percorso i sentieri interni al corpo di Harcamone, sino a essere «posseduti dall’ebbrezza della profanazione»:
Con le tempie pulsanti e la fronte madida di sudore giunsero nel cuore della rosa: era una sorta di pozzo tenebroso. Stando sul bordo estremo di quel buco nero e profondo come un occhio, si sporsero e una sorta di vertigine li colse. Fecero tutti e quattro i gesti delle persone che perdono l’equilibrio e caddero in quello sguardo profondo. […] infine toccarono un fondo solido, sospirarono e, riaprendo gli occhi, si ritrovarono nella cella, di fronte ad Harcamone che li guardava sorridendo, vestito soltanto della sua camicia di tela bianca e dei suoi pantaloni di bigello...25
«Sono ancora stupito dal privilegio che mi consentiva di assistere alla vita interiore di Harcamone e di essere il testimone invisibile delle avventure segrete dei quattro uomini neri» scrive Genet, narrando della morte dell’assassino attraverso la visione della «Rosa mistica» del cuore, stropicciata, divorata e violentata da giudice, avvocato, cappellano e boia con la stessa insaziabile voracità di «un satiro a digiuno che frughi tra le gonne di una ragazza». Non è bastato a trattenerli, infatti, lo stupore per «tanta bellezza»: «Dapprima rimasero abbagliati dai raggi della rosa, ma si ripresero in fretta perché la gente di quella risma non si abbassa mai a mostrare segni di rispetto…».
«La bruttezza è bellezza in riposo»
Il contrasto tra la durezza della principale materia del romanzo, il carcere, e il continuo slittamento della narrazione verso il piano del fantastico, del sacro, del “religioso” – così come l’autore lo intende – contiene per il regista «il mistero del “diritto che incontra il rovescio” o della “bruttezza che è bellezza in riposo”», appunto: «Nel momento della morte trasfigurata – annota Cucinotta – un sorriso distante, che sovrasta ogni cosa, appare sul volto di Harcamone. Di fronte a questa immagine non rimane che un silenzio per il mistero che si svela». A questo punto si chiarisce ulteriormente il senso dell’appunto che campeggia sul frontespizio della copia di Miracolo della rosa presente nella biblioteca del regista, che esprime «l’impossibilità a definire cosa è brutto e cosa è bello, poiché entrambe le qualità possono coesistere, convivere, scambiarsi», secondo un principio che si ritrova sia nel romanzo che nello spettacolo.
28L’immagine quasi iniziatica, “mariana”, imperscrutabile, del cuore dell’assassino in forma di rosa mistica viene assunta dalla drammaturgia quale simbolo dell’insondabilità propria della natura umana:
Genet ci dice che, se siamo disposti a superare i pregiudizi, gli uomini sono tutti insondabili e, nel profondo, si appartengono e si assomigliano. Il sorriso finale di Harcamone, quando i quattro uomini che ne hanno stropicciato e violentato il cuore, come una vergine, sprofondano nell’abisso e si ritrovano nella sua cella, è il centro dello spettacolo. Harcamone è distante, quieto, comprensivo della propria morte e del gesto degli assassini. Ha superato tutto e sorride. È un’immagine santa, un’immagine sacra, un’immagine religiosa. Su questa parte del romanzo, presa per intero, si chiude In veste di rosa.26
L’atto creativo che si compie quando Genet, nel racconto, si avvicina ad Harcamone è il limite che marca la distanza tra la storia autobiografica, appuntata dall’autore su fogli di fortuna, e l’astrazione, ovvero la trasfigurazione fantastica del reale che presiede alla nascita del personaggio, proiettato verso un altrove che sfugge alle memorie tormentate della detenzione. L’atrocità del tempo presente, esasperata della tensione tra concretezza e redenzione (Harcamone come capro espiatorio che irradia dalla sua cella una luce salvifica), e l’attraversamento della soglia onirica che consente all’autore, divenuto personaggio, di incontrarlo, informano la scelta registica della doppia dimensione all’origine di In veste di rosa:
Abbiamo sempre cercato di camminare sulla corda di un funambolo, – osserva Cucinotta, citando Genet – perché come l’autore racconta di sé, travalicando il limite del reale, lo stesso processo avviene con Pippo, che scivola dai dati autobiografici verso la “botola” destinata a salvarlo. È qui che incontra se stesso come l’essere-personaggio, al quale è dato poter incontrare l’altro essere-personaggio, cioè Harcamone. I due, a questo punto, possono dialogare.
Dopo essersi presentato al pubblico con la propria reale identità, e quindi con il cognome e il nome pronunciati ad altra voce, come davanti a una guardia carceraria durante l’identificazione di rito, Pippo Venuto s’immerge sulla scena interpretando la condizione di carcerato recuperata da frammenti personalissimi di vissuto.
Ho trovato estremamente forti le connessioni, le coincidenze tra le due storie, anche per la vicenda di Pippo, che attraverso l’arte e i suoi linguaggi – ha dipinto, ha scritto, ha scoperto il teatro – ha davvero creato in sé una “botola” che gli ha permesso di andare oltre. Connessioni, coincidenze che non potevano non essere utilizzate. Anzi, a volte è stato difficile per Pippo superare questa perfetta unione, è stato necessario fare uno sforzo per mantenersi dentro i confini dell’esperienza reale ma senza risvegliarla del tutto, per non allontanarsi, distrarsi dal suo essere attore, che richiede una certa dose di lucidità. @
Oscillando sul limite
Dal punto di vista linguistico, il testo teatrale tiene conto del doppio repertorio di crudezza e poesia che caratterizza la prosa di Genet, accogliendone l’andamento per immagini e mescolandone la potenza con la concretezza linguistica propria dell’attore-personaggio, che ha lavorato prima sull’improvvisazione, guidato dal regista, e poi sulla produzione di parti scritte, fecondamente contaminate dai residui del parlato. L’alternanza musicale di dialetto e italiano espressa da Venuto con naturalezza nella vita quotidiana, per una precisa richiesta di Cucinotta, è stata liberamente utilizzata nello spettacolo, nel tentativo, a lungo ricercato, di rendere fluidi i passaggi tra lingue, codici e registri. Sebbene il copione venga rispettato abbastanza fedelmente sulla scena, è quando l’attore racconta di se stesso che l’equilibrio tende a spostarsi verso il dialetto, derogando a quella «certa dose di lucidità» che controlla il confine tra la materia autobiografica e la sua trasfigurazione drammaturgica.
La coppia oppositiva dentro/fuori separa idealmente il perimetro della cella dallo spazio circostante attraverso un rettangolo in diagonale di petali di rosa variopinti: dentro la cella è collocato Venuto, vestito semplicemente, in piedi vicino a uno sgabello; fuori si muove Berenato, a petto nudo, indossando nella parte inferiore del corpo muscoloso una vistosa veste bianca che evoca una rosa con i lembi della sua stoffa. Il confine, nella penombra in cui è immersa la scena, indica le mura della fortezza che dividono Genet/Venuto da Harcamone/Berenato, pur in una prossimità così estrema da consentire alle due figure di potersi quasi raggiungere, sino a sfiorarsi. In fondo a destra è posta poi una parete di plastica trasparente sovrastata da una lampadina, traccia simbolica che rimanda semanticamente alla luce nella quale Harcamone è costretto a stare per tutti i quarantacinque giorni di prigionia precedenti all’esecuzione della condanna e che viene spenta quando egli muore.
29L’idea di un limite che istituisca una separazione topografica, ma anche cronologica (il prima della libertà e il dopo della detenzione), è suggerita da un altro potente segno grafico, il cerchio, che Venuto forma sul proprio viso percorrendolo con la punta di un rossetto: un espediente, collocato drammaturgicamente nel momento dell’identificazione che prepara l’ingresso del detenuto in carcere, volto a creare l’illusione di una maschera, il marchio di un rito, la solennità di un travisamento, oscillando tra il dentro e il fuori dell’identità e delle sue caleidoscopiche significanze e trasfigurazioni: «Pippo traccia il cerchio quando parla di sé. Ed è un segno che rimane per tutto il resto dello spettacolo», dice Cucinotta. Siamo dentro e fuori l’autobiografia, dentro e fuori la finzione, ancora una volta. Per abitare il territorio in cui si muove Genet, sembra dirci in definitiva il regista, bisogna camminare, funambolicamente, sulle sabbie mobili del confine, lungo un bordo vertiginoso che distanzia e unisce, ed è per tale ragione che il movimento richiesto al pubblico appare più simile a un attraversamento che a un approdo.
30Il titolo stesso scelto per l’opera teatrale, In veste di rosa, invita come formula sonora a un moto in avanti, poiché allude a un mutamento di stato e più precisamente all’atto di accingersi – “in-vestimento” in quanto “gioco” iniziatico – di dirigersi verso quel paesaggio del tutto interiore di sfumature e di chiaroscuri che lo spettacolo mette in scena, a partire dal viaggio nel cuore mistico del giovane assassino. «In una situazione dura, cruda, atroce come quella della detenzione, di un carcere (come può essere quello di allora e quello di adesso), i personaggi “in veste di rosa” raccontano del cuore di Harcamone, si avvicinano alla bellezza o si vestono di essa». C’è molto amore in Genet, prosegue Cucinotta:
Si è occupato di un’umanità nei confronti della quale non è facile prendere una posizione. Se il confine della mia mente è il giudizio, non posso penetrare nell’umanità. Harcamone è uno stupratore, ha commesso un delitto terribile come può essere quello di ammazzare una bambina, ma è lo stesso personaggio che appare enorme e luminoso, del quale vediamo la rosa mistica e l’abisso del cuore. Ancora una volta, è il continuo movimento del “diritto che incontra il rovescio”.
Ed è questa la zona che Genet frequenta.
Per me è stata una grande esperienza incontrare l’autore, conoscere Pippo e lavorare su questi temi – conclude il regista –. Umanamente è stato molto utile, come tutto quello che ci aiuta a non giudicare e a non avere paura di ciò che non si conosce. Ci siamo incontrati oltre la “botola”. Ed è quello che dovremmo fare sempre entrando in un teatro (Domenico Cucinotta).
Bibliographie
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Notes de bas de page
1 Il percorso complessivo di Lungo i passi della bellezza è stato concepito e coordinato da chi scrive con l’indispensabile contributo ideativo e organizzativo di Domenico Cucinotta e l’affiancamento di Mariapia Rizzo e Agnese Doria, la consulenza di Pier Paolo Zampieri e la generosa partecipazione di Nunzio Croce. La scelta del tragitto interno al cimitero monumentale è da attribuire a Katia Trifirò, che, avvalendosi anche della consulenza dello storico dell’arte Mosé Previti e dell’apporto concreto delle tutor Adriana Faciano e Venera Santoro, ha perlustrato il cimitero, misurato tempi e distanze dell’attraversamento, alternandosi, in seguito, alla guida del gruppo con Faciano e Santoro.
2 J. Genet, La strana parola di… in G. Manzella (a cura di), Magazzini Criminali 7. Quaderni dei Magazzini – Teatro di Scandicci, Ubulibri, Milano 1984, p. 52.
3 Per il processo di riqualificazione urbana in questione, cfr. P. P. Zampieri, Quartieri in movimento. Appunti etnografici di un processo di architettura partecipata, in F. Mostaccio, M. Musolino, (a cura di), Le aree marginali tra politiche istituzionali e pratiche di innovazione sociale, Aracne, Roma 2017, pp. 155-175.
4 Domenico Cucinotta. Tutte le citazioni sono tratte dall’intervista inedita a cura di chi scrive, cui hanno partecipato anche Mariapia Rizzo e Giuseppe Venuto, presso il Teatro dei Naviganti in data 29 settembre 2017.
5 Lo spazio che ospitava il convento di San Domenico intorno alla seconda metà del Diciassettesimo secolo, oggi è noto nella città di Messina, perché dal 1932 la sua nuova edificazione ospita le “Barette” – simulacri votivi – e da questo luogo ha inizio, ancora oggi, l’annuale processione del cattolico Venerdì Santo lungo le vie del centro cittadino.
6 H. Melville, Moby Dick, Utet, Torino 2010, p. 170.
7 Il primo incontro con la compagnia calabrese e l’ISTA è avvenuto a Scilla e, tra il 1995 e il 1996, si è consolidato grazie al progetto “Asgard-Università del Teatro”, alla presenza di studiosi e artisti del teatro eurasiano e allo studio dell’antropologia teatrale.
8 Cfr. E. Barba, Aldilà delle isole galleggianti, Ubulibri, Milano 1990², p. 8.
9 Suoi colleghi di Accademia sono stati, tra gli altri, i più noti Fortunato Cerlino, Max Mazzotta, Peppino Mazzotta, Francesco Saponaro.
10 Anche il barista Massimo, incontrato assieme a Pippo Venuto e Domenico Cucinotta, ha contribuito al racconto qui riportato.
11 Santo Genet Commediante e Martire – primo movimento, drammaturgia e regia di Armando Punzo debutta a Volterra il 25 luglio 2013 e verrà ripreso l’anno successivo, quando Cucinotta e Venuto s’incontrano. Di seguito i crediti principali della prima edizione. Scene: Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo. Costumi: Emanuela Dall’Aglio. Musiche originali e sound design: Andrea Salvadori. Nel 2014 lo spettacolo riceve i seguenti riconoscimenti: Premio UBU per il miglior allestimento scenico ad Armando Punzo, Alessandro Marzetti e Silvia Bertoni per Santo Genet Commediante e Martire. Premio ReteCritica 2014 al Festival VolterraTeatro per la miglior strategia di comunicazione virale.
12 The Untochables, regia di Brian De Palma; soggetto e sceneggiatura di David Mamet; musiche di Ennio Morricone. Usa 1987.
13 Regia di Tony Scott; sceneggiatura di Brian Helgeland; musiche di Harry Gregson-Williams e Lisa Gerrard. Regno Unito, Usa, Messico 2004.
14 Spettacolo rappresentato per la prima volta al carcere di Volterra il 21 luglio 2008. Drammaturgia e regia di Armando Punzo. Scene di Alessandro Marzetti. Costumi di Emanuela Dall’Aglio. Assistenti alla regia: Laura Cleri, Stefano Cenci. Movimenti di Pasquale Piscina. Video di Lavinia Baroni. Collaborazione artistica di Manuela Capece, Andrea Salvadori, Giacomo Trinci.
15 E. Urech, Dizionario dei simboli cristiani, Edizioni Mediterranee Arkeios, Roma 1995, p. 68, 105-106. Marc Chagall, tra gli altri, ben esemplifica lo spirito della tela di Venuto: nel 1925, ritrae L’uomo-gallo travestito da clown che vola sul paesaggio innevato di Vitebsk, sua città d’origine, mentre più tardi, lavorando all’Aleko (1892) di Rachmaninov e all’Uccello di fuoco (1910) di Stravinskij, ritrae il gallo con vivace decisione sulla tela.
16 Mercuzio non vuole morire-la vera tragedia di Romeo e Giulietta, progetto e direzione artistica di Armando Punzo (2012). Ideazione, scene e ambientazioni di Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo. Costumi di Emanuela Dall’Aglio. Assistenti alla regia: Laura Cleri, Stefano Cenci. Movimenti di Pasquale Piscina. Video di Lavinia Baroni. Musiche originali e sound design di Andrea Salvadori.
17 L’edizione del romanzo consultata da Domenico Cucinotta è stata pubblicata dalla casa editrice Il Saggiatore, collana “Narrativa”, nel 2006, a cura di Alberto Capatti, traduzione di Dario Gibelli. Dopo la pubblicazione di un frammento sulla rivista «L’Arbalète», n. 10, 1945, che ospita l’anno successivo il testo completo, in versione originale, in un’edizione limitata ai sottoscrittori, Miracle de la rose è compreso nel secondo volume delle opere complete di Jean Genet (testo ridotto, versione riveduta), in uscita nel 1951 per le edizioni parigine Gallimard.
18 In veste di rosa, atto unico della durata di 45 minuti, ha debuttato nella primavera del 2015 ai Magazzini del sale, in forma di studio. È stato poi replicato al Forte San Jachiddu, nell’estate dello stesso anno. La versione definitiva, rielaborata, è quella presentata come prova aperta in uno degli appuntamenti del progetto Crescere nell’assurdo il 15 novembre 2016 al Teatro dei Naviganti.
19 La lettera è riportata nell’Introduzione a J. Genet, Opere narrative, a cura di D. Gibelli, M. Fumagalli, Il Saggiatore, Milano 2010, p. 23.
20 Ivi, p. 30.
21 Ivi, p. 28.
22 Domenico Cucinotta. Tutte le citazioni senza riferimento in nota sono esito di un’intervista inedita al regista, registrata da chi scrive presso la sede del Teatro dei Naviganti il 4 ottobre 2017.
23 J. Genet, Miracolo della rosa, in Opere narrative cit., p. 299.
24 Ivi, p. 300.
25 Ivi, p. 576.
26 Nulla vi è di più insopprimibile nell’uomo, scrive Genet, della sua «solitudine di essere esattamente equivalente a qualsiasi altro», L’atelier di Alberto Giacometti (1957), in Il funambolo e altri scritti, a cura di G. Pinotti, Adelphi, Milano 1997, p. 151.
Auteurs
Insegna all’Università di Bologna e all’Università di Messina, dove è ricercatrice senior. È autrice dei seguenti libri: Virgilio Sieni. Archeologia di un pensiero coreografico, Spoleto, Editoria e Spettacolo, 2015; Danza e Spazio. Le metamorfosi dell’esperienza artistica contemporanea, Modena, Mucchi Editore, 2012 (Seconda edizione: 2015); Judson Dance Theater. Danza e controcultura nell’America degli anni Sessanta, Macerata, Ephemeria, 2010; (con Adriana Polveroni), Trisha Brown. L’invenzione dello spazio, Pistoia, Gli Ori (edizione bilingue: italiano/inglese); Trisha Brown, Palermo, L’Epos, 2007. Per il 2017 e il 2018, è co-direttrice del Bologna Social Practice Lab con l’artista visivo Pedro Lasch (Duke University) presso la Summer School in Global Studies and Critical Theory (Università di Bologna, Duke University, University of Virginia)
Vincenza Di Vita è poeta, critico teatrale, studioso, responsabile ufficio stampa, dramaturg e giornalista. Dottore di ricerca in Scienze Cognitive, discute una tesi sul femminile in Carmelo Bene. Nel 2012 ottiene una borsa di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Niccolò Copernico di Toruń. Nel 2015 vince una borsa semestrale per attività di ricerca in seno al comitato internazionale SabirFest-cultura e cittadinanza mediterranea. Dal 2006 pubblica contributi scientifici nell’ambito degli studi culturali e prende parte a convegni internazionali. Dal 2013 è docente a contratto in discipline teatrali presso atenei e istituti di alta formazione
Katia Trifirò è dottore di ricerca e docente a contratto presso l’Università di Messina, dove collabora con le cattedre di Storia dello spettacolo e Letteratura italiana contemporanea. Si è occupata, tra gli altri, di Buzzati, Svevo, D’Annunzio, Pirandello e dell’intera opera di Beniamino Joppolo, oggetto d’indagine in svariati saggi e nel volume Dal Futurismo all’assurdo. L’arte totale di Beniamino Joppolo (Le Lettere, 2012). Ha pubblicato saggi e articoli sul teatro grottesco, l’avanguardia futurista in Sicilia, la drammaturgia italiana contemporanea, la letteratura migrante, i performance studies. Attualmente sta lavorando a una monografia sul teatro di Juan Rodolfo Wilcock
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