“Uno sguardo dallo Stretto”: prospettiva e metodo
p. 9-16
Texte intégral
Messina è, per molti, una città di transito. È, notoriamente, la prima città italiana a essere stata distrutta da un evento naturale a inizio Novecento. Per alcuni, se non per tutti, questo trauma è anche all’origine di una perdita di memoria e d’identità. Messina è, perciò, apparsa subito prestarsi a un esperimento didattico e progettuale che affrontasse le domande di Crescere nell’assurdo, quasi esse nascessero da questo luogo ed esprimessero un’urgenza che qui attendeva di formularsi in un percorso sperimentale condiviso. Dall’assurdità del vivere descritta da Goodman siamo dunque partiti, dinanzi all’assurdo che lo Stretto per molti versi tematizza, ipotizzando un’alternativa metodologica che, fuori di norma, consentisse di andare a fondo nelle contraddizioni locali per escogitare modalità inedite di “ricerca in azione” e di trasmissione.
1Se la domanda di partenza è come addestrare lo sguardo e come essere cittadini consapevoli, questa sponda di terra, che nel fluire dello Stretto identifica l’originario genius loci, richiedeva, infatti, un gesto primario di devianza dello sguardo. Dopo il primo incontro del progetto Crescere nell’assurdo, tenutosi a Bologna nel mese di maggio 2016 (e, cioè, in un esemplare epicentro culturale), pensarne una declinazione messinese ha implicato che si riconoscesse una differenza di prospettiva e che si provasse a esercitare uno sguardo dallo Stretto, piuttosto che sullo Stretto.
2Adottando un punto di vista decoloniale alla situazione messinese, si è perciò ritenuto di non trasferire esperienze nate altrove, di cui immaginare l’adozione all’interno del più marginale ambito locale, bensì di stimolare il dialogo a partire dalla testimonianza e dall’esposizione diretta al luogo e alle sue forme di produzione e resilienza culturale, per rilanciare parole chiave e quesiti fuori dall’originario contesto di riferimento. Di trasformare, cioè, la periferia in “centro”, attraverso la scelta consapevole del particolarismo, per la comprensione di un passato mortificato dallo sviluppo produttivo ma che ha indotto, nel tempo, meccanismi contrastanti di simbolizzazione di cui individuare ora le potenziali ricadute sui processi educativi, non solo a livello locale.
3La volontà di tematizzare lo Stretto, piuttosto che la città metropolitana di Messina, nasce invece dal confronto con i sociologi Pier Luca Marzo e Pier Paolo Zampieri, che ha fatto da premessa alla costruzione del progetto, al punto da portare all’adozione della passeggiata urbana (già impiegata da Zampieri nei corsi di Sociologia del territorio). Deriva, anche, dalla ricollocazione simbolica del centro di Messina nel mare, alla luce di un rapporto tra Calabria e Sicilia negato dalle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno e qui recuperato, per attivare un immaginario fedele all’originario genius loci:
Anche lo stesso antagonismo fra le due coste – che trova la massima espressione nella tifoseria calcistica – è una rivalità non fra le città di Messina e Reggio, ma fra due grandi quartieri divisi non da strade ma da mari. Stessi infatti sono i problemi di attraversamento fra il quartiere calabro e siculo, stessa è la popolazione che quotidianamente si sposta per lavorare e studiare da un lato all’altro e stessa è stata la tragica sorte nell’alternarsi dei sismi che l’hanno attraversata.
La Polis dello Stretto è dunque quella città che non è interconnessa da una piazza terrestre, piuttosto essa comunica dalle sue periferie costiere dei suoi due grandi quartieri proprio in verità della sua agorà marina.1
La sperimentazione ha esplorato un processo di delocalizzazione, peraltro radicato nel cambiamento novecentesco della concezione teatrale e connesso a recenti tipologie didattiche, seppure derivanti da altri contesti universitari e disciplinari rispetto alla tradizione italiana più consolidata di studi teatrologici. Alla consueta formula del confronto-convegno è stata sostituita una pratica composta tanto da incontri di parola, da visioni cinematografiche e di spettacolo, quanto (e in maggior misura) dal disorientamento strutturato di passeggiate urbane che hanno implicato un duplice processo di decontestualizzazione: dei metodi (sociologici e di arte pubblica), trasposti ora su una prospettiva performativa, e delle finalità, condizionate dalle esigenze pedagogiche del progetto.
Anche se non è questa la sede per un approfondimento, va rimarcato come le strategie estetiche e operative che hanno portato l’arte fuori dai luoghi demandati (i musei per l’arte visiva e gli edifici teatrali per le discipline dello spettacolo) non siano state sufficientemente sondate e rielaborate all’interno delle istituzioni educative, nonostante la necessità di uscire fuori dall’isolamento, investendo sul territorio, avvertita in ambito accademico da Nord a Sud. Questa discrasia ci ha interrogato sull’opportunità di uno smarginamento multidisciplinare radicato nei luoghi, nei precisi contesti storico-culturali e sociali, per sviluppare percorsi educativi site-specific di cui gli strumenti acquisiti potessero, poi, essere esteti oltre il senso specifico del luogo. Sull’opportunità stessa di uscire fuori dall’autoreferenzialità tipica anche della teatrologia (improntata, infatti, a un’idea modernista del soggetto dedito a un approccio specifico o a una sintesi teorica di tipo interdisciplinare di cui egli è il perno), dislocando il punto di vista individuale nelle zone di confine e margine, a partire dalle proprie mancanze non meno che dalle proprie competenze, per costruire una rete che tenesse assieme materie-angolazioni-soggetti differenti.2
4Le discipline sociologiche, artistiche e teatrali hanno perciò fornito il medium per pensare modelli educativi improntati a pratiche di azione condivisa attraverso un laboratorio disposto ad andare in strada alla ricerca delle proprie risposte o di ulteriori domande. Un laboratorio ispirato dall’efficacia di modelli passati e anomali di insegnamento, transitati nell’istituzione universitaria (quali i gioiosi viaggi di Giuliano Scabia con gli studenti del Dams bolognese negli anni Settanta), declinati in modo tale da traghettare le dinamiche novecentesche di sostituzione dell’opera con l’esperienza estetica dentro un meccanismo partecipativo di co-esperienza estetica. Per consentire anche a relazionalità e reciprocità di penetrare nelle forme d’insegnamento, modificandole.
5Piuttosto che limitarci alla condivisione di un oggetto mostrato, illustrato e trasmesso, abbiamo, dunque, cercato di riportare gli studenti a fare esperienza dei luoghi e dell’arte, creando le condizioni per una loro partecipazione diretta. Le discipline dello spettacolo hanno, perciò, avuto una funzione strumentale di collante e di chiave interpretativa, in linea con la richiesta del progetto Crescere nell’assurdo di pensare la crescita del soggetto attraverso l’arte, e non il contrario. La capacità analitica solitamente riservata all’opera teatrale è stata rapportata direttamente alla realtà, usando lo stesso scenario urbano come fosse un’opera creata e costruita, di cui riscoprire i meccanismi di funzionamento, saldando logos ed ethos, contro l’indolenza e prevedibilità di visione che domina la percezione quotidiana del già noto. Proprio l’aspetto itinerante di molte performance, che vanno a recuperare una relazionalità rituale del teatro, eclissata dagli sviluppi storici borghesi, indica, infatti, un modello: la possibilità di muovere il discente dentro un percorso diegetico semi-strutturato – sancito da momenti epifanici e rappresentativi – che possa sollecitare un bisogno di comprensione indotto dalla partecipazione empatica e dalla consapevolezza così acquisita.
6Il primo passo per riscoprire il senso del luogo è stato mettersi in marcia; letteralmente, camminare. Il movimento stesso ha fatto da tramite verso un’estraneità in cui i singoli partecipanti potessero rispecchiarsi, procedendo come parti di una carovana a ogni soglia più coesa: oltre il guard-rail che impedisce l’accesso a sentieri incolti e in cerca della spiaggia; oltre le rovine di un cimitero, dentro a quartieri popolari e ad altri dormitorio. Dentro il silenzio apparentemente spento di aree poco o affatto transitate.
Bisogna mettersi fuori dal centro, ci deve essere l’obbligo di mettersi fuori, perché questo significherebbe recuperare un punto privilegiato. Attraverso l’intuizione immediata di uno spazio possiamo immergerci all’interno di una storia.
Così, Tino Caspanello, intervenuto nelle fasi conclusive del progetto, descrive la poetica dello spazio in relazione alla scrittura drammaturgica. E il suo punto di vista può essere esteso al camminare come forma pre-espressiva di una narrazione che si delinea nel corso del tragitto, una volta predisposto il corpo all’azione.
Almeno in parte, la caratteristica che rende le strade, le piste e i sentieri unici in quanto strutture costruite è che un osservatore sedentario non li può percepire immediatamente nella loro interezza. Essi si dipanano nel tempo a mano a mano che li si percorre, esattamente come una storia si dipana a mano a mano che la si ascolta o la si legge, e una curva secca corrisponde a uno scarto nella trama; una salita ripida alla costruzione della suspense fino al panorama che si apre in cima; un bivio all’introduzione di una nuova linea narrativa e l’arrivo alla fine del racconto.3
Nei giorni di Crescere nell’assurdo, docenti e studenti hanno così innescato un corpo a corpo con la città e con le sue suggestioni, indotte in parte dalla morfologia dei luoghi, in parte da una scrittura performativa orchestrata nella definizione di itinerari e soste. Pensando al bambino, che innanzitutto vive e da lì impara, abbiamo immaginato l’investimento fisico, l’esperienza che passa dagli occhi ingenerando sorpresa e, successivamente, elaborazione critica.
7Pari nell’orizzontalità del percorso, eppure consapevoli che la proposta di questo semplice atto implicava la trasmissione di un modello di comportamento, le guide hanno intenzionalmente ammesso le modulazioni agogiche dei singoli partecipanti, senza forzarle. Camminando, qualcuno tra gli studenti ha preso la parola per inscrivere nel tragitto condiviso la trama personale del proprio vissuto, altri hanno spronato il gruppo a seguirli dentro i cortili privati delle loro abitazioni (coincidenti, per pura casualità, con gli itinerari dei percorsi didattici); tutti hanno sostato, osservato in silenzio, commentato. Qualcuno ha anche, spontaneamente, ricercato con il proprio corpo i gesti dipinti sui murales. I partecipanti sono così diventati un gruppo, come spesso avviene nelle circostanze laboratoriali, in cui l’assenza di giudizio libera comportamenti e parole. Solitamente, questa sicurezza è data dalla separazione e dall’isolamento dei luoghi di studio dalla vita quotidiana, che è stata invece investita dal «coro» di corpi, metafora esso stesso di uno sberleffo all’idiosincrasia dell’assurdo: né «esercito-ebete-felice (un “noi” di consumatori di massa mai realmente appagati)», né «monadi-disperate-incomunicanti (un “io” spezzato tra esibizionismo e depressione), piuttosto, coro come «possibilità dell’incontro con l’altro».4
8La duplice dimensione sociale e performativa ha costituito, pertanto, la base di un approccio in cui le forme del discorso hanno annullato la distinzione tra rappresentazione e azione, per-formando la ricerca. Il progetto ha, pertanto, assunto un formato alternativo anche alle lezioni in aula con l’intento di non insegnare una tecnica, come solitamente avviene nell’affiancamento della pratica alla teoria, ma di uscire fuori dalla referenzialità settoriale. Questa, dunque, la proposta didattica: sperimentare forme d’interazione tra pratica e teoria che non finalizzassero l’una all’altra, ma che le compenetrassero per stimolare una consapevolezza dei rapporti tra realtà e immaginario, a partire dalla funzione che l’arte può assolvere nell’attivazione di pensieri, azioni e desideri.
9Tra settembre e novembre 2016, tre laboratori preparatori, coordinati da chi scrive, sono serviti a preparare gli studenti alla ricezione della proposta multidisciplinare di Crescere nell’Assurdo. Uno sguardo dallo Stretto (14-17 novembre 2016) a partire da riferimenti culturali legati alle discipline dello spettacolo: “Pratiche di cambiamento” sulle forme di teatro sociale e di narrazione connesse a temi di impegno civile, a cura di Rossella Mazzaglia. “Visioni”, laboratorio di cinema a cura di Federico Vitella, che ha compreso la proiezione in anteprima nazionale del film di Morena Campani e Caroline Agrati Tutto bianco (2015), co-produzione italo-francese realizzata anche con la partecipazione di studenti del Dams messinese ora laureati. “Ti vedo”, laboratorio fotografico a cura di Francesco Parisi, articolatosi in tre fasi: introduzione teorica, sopralluoghi negli spazi del progetto, realizzazione degli scatti in coincidenza con le passeggiate urbane e le performance.
Notes de bas de page
1 P.L. Marzo, Le de-formazioni coloniali dello sviluppo: il caso della Zona Falcata, in A. Cammarota, M. Meo (a cura di), Governance e sviluppo locale, Franco Angeli, Milano 2007, p. 5.
2 Questo punto di vista, derivante dalla domanda su come attivarsi rispetto alla capacità del teatro di stimolare un pensiero critico, non è in contraddizione con lo studio specialistico (di tipo storiografico o analitico) che, anzi, presuppone come premessa necessaria a una progettualità multidisciplinare capace di raccogliere i singoli saperi, senza sminuirli.
3 R. Solnit, Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 81.
4 Cfr. Marco Martinelli a proposito dei metodi e degli obiettivi della non scuola in M. Martinelli, Primavera Eretica. Scritti e interviste (1983-2013), Titivillus, Corazzano (PI) 2014, p. 213.
Auteur
Insegna all’Università di Bologna e all’Università di Messina, dove è ricercatrice senior. È autrice dei seguenti libri: Virgilio Sieni. Archeologia di un pensiero coreografico, Spoleto, Editoria e Spettacolo, 2015; Danza e Spazio. Le metamorfosi dell’esperienza artistica contemporanea, Modena, Mucchi Editore, 2012 (Seconda edizione: 2015); Judson Dance Theater. Danza e controcultura nell’America degli anni Sessanta, Macerata, Ephemeria, 2010; (con Adriana Polveroni), Trisha Brown. L’invenzione dello spazio, Pistoia, Gli Ori (edizione bilingue: italiano/inglese); Trisha Brown, Palermo, L’Epos, 2007. Per il 2017 e il 2018, è co-direttrice del Bologna Social Practice Lab con l’artista visivo Pedro Lasch (Duke University) presso la Summer School in Global Studies and Critical Theory (Università di Bologna, Duke University, University of Virginia)
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