Prendi il mondo Habima!
Martin Buber, 1929
p. 242-245
Note de l’éditeur
Greif nach der Welt, Habima! (1929) fu originariamente pubblicato nel periodico «Jüdische Rundschau» (xxxiv, 97, 10 dicembre 1929) per poi essere raccolto in volume (M. Buber, Kampf um Israel. Reden und Schriften (1921-1932), Schocken Verlag, Berlin 1933). La presente traduzione è di Charlotte Gschwandtner e Francesco Ferrari.
Texte intégral
1Nella gioia per l’esistenza di Habima e del teatro ebraico, si mescola sempre e di nuovo il dolore che un dramma ebraico non esiste.
2Con questo, cadiamo facilmente nell’errore di ritenere che in primo luogo dovrebbe esistere un dramma che vuole essere rappresentato, e soltanto dopo un teatro che lo rappresenti.
3Lo sviluppo del dramma ci dice il contrario. In nessun caso, all’interno delle grandi culture, si è incominciato scrivendo delle pièce. In primo luogo vi è il teatro, vale a dire la sacra pantomima dei misteri. A suo fianco, in modo indipendente, il dialogo improvvisato si ridesta in modo simile nel lamento funebre, che originariamente è un dialogo tra il panegirista e un coro che grida di dolore. I due si fondono insieme, l’uno con l’altro; in un primo momento si recitano solamente sequenze di parole stabilite dalla tradizione, ossia improvvisazioni cristallizzate. Queste, tuttavia, non resistono alla differenziazione letteraria del materiale mitico: gradualmente vengono stesi testi da recitare su commissione, gli “attori” si lasciano suggerire dai “poeti” ciò che devono dire. Tuttavia, l’esistenza del dramma è pur sempre identica all’irripetibile rappresentazione, la cui ripetizione costituisce la rivoluzione decisiva con cui il dramma “durevole” comincia a separarsi dal teatro “transitorio”: solamente adesso esiste una “letteratura drammatica”. Il teatro chiama il dramma alla ribalta.2
4Che noi ebrei abbiamo una predisposizione originaria verso il teatro – dunque verso la presentazione diretta e corporea di qualcosa che ci rappresentiamo – è indubbio, nonostante noi conosciamo dall’antichità biblica il solo dialogo improvvisato, e non la pantomima (questo si collega chiaramente alla lotta della religione biblica contro il culto pantomimico di Baal). Che noi non abbiamo una predisposizione originaria verso il dramma pare altrettanto certo. Questo è stato ricondotto alla nostra scarsa capacità di oggettivazione. Conviene ora esprimersi in modo meno generico. Anzitutto, noi non possediamo quel grande sguardo capace di cogliere la contrapposizione oggettiva delle forze e delle modalità nel mondo; per noi uno deve sempre avere ragione e l’altro torto. Questo avere ragione cessa però nel dramma: uno è fatto così e l’altro è fatto diversamente; uno ha una determinata volontà e l’altro ne ha una contrapposta; uno si fa portavoce di una legge fondamentale e l’altro ne incarna una avversa; li si porti in una situazione condivisa e il dramma è pronto. Prometeo non ha ragione rispetto a Zeus, e neppure Zeus ha ragione rispetto a Prometeo; Antigone non ha torto nei confronti di Creonte, ma neppure Creonte rispetto ad Antigone; Agamennone ha tanto ragione quanto torto, e così anche Clitennestra e Oreste. E se consideriamo i drammi di Shakespeare senza partire da una teoria ma dalla loro realtà, notiamo che nemmeno Macbeth e la Lady, nemmeno la madre di Amleto e il suo patrigno, nemmeno le cattive figlie di Lear hanno “torto”. Sono troppo qui per aver torto. Questo stato di cose è stato messo in ombra anzitutto dalla “teoria della colpa” (Schuldtheorie), che concepiva l’uomo che parla (che sa tenere testa agli eventi) in contrapposizione all’uomo tragico (che fa esperienza del non riuscire a tenere testa a essi). Anche Eschilo conosce la colpa, ma questa è per lui essenza e destino: la persona stessa è la colpa.
5Adesso però le cose stanno diversamente, e non basta che noi semplicemente “cambiamo” per ottenere un dramma: un tale cambiamento sarebbe impossibile, e anche sbagliato. Poiché la mancanza di cui parlavo è collegata a quanto di più grande possediamo noi ebrei: il nostro sapere che la contrapposizione di forze e modalità non può essere l’ultima risposta, e che esiste un avere ragione, qualcuno che ha ragione, un Dio che ha ragione. Questo si collega inoltre al nostro insegnamento, secondo il quale questo Dio si è rivelato e si rivela a noi, e si rivela proprio anche in questa contrapposizione. Per questo cadiamo così facilmente nel fatale errore di credere che saremmo proprio noi ad avere ragione. Tuttavia quell’avere ragione “dimora” solo tra di noi, «nel mezzo delle nostre impurità» (Levitico 16,16): noi non lo abbiamo veramente. E noi siamo veramente noi stessi, Israele, se sappiamo anche questo. Ma allora abbiamo anche una possibilità di conquistare il “grande sguardo”, e precisamente nel modo che ci compete – non con il cambiamento, ma con il portare a compimento il nostro essere. Se siamo veramente noi stessi, allora ci occorre soltanto una cosa, qualcosa di certamente immane, per poter dare alla luce un dramma, e precisamente un autentico dramma ebraico, un dramma di Israele: noi dobbiamo fare esperienza del mondo come esso è a partire da qui, dal nostro vero essere, nelle sue profonde e sostanziali contrapposizioni e contraddizioni che non si possono superare mediante le categorie della ragione e del torto – ovvero, nella sua drammaticità. In questo modo, come “noi stessi”, non abbiamo ancora esperito il mondo. Se lo facciamo e se riusciamo a dare forma in opera alla nostra esperienza, allora io credo che il nostro dramma riceverà un respiro che dovette mancare a quello greco e a quello cristiano: a quello dei greci perché essi ignoravano il Dio dell’aver ragione e la sua rivelazione; a quello dei cristiani perché per loro rivelazione e redenzione coincidono. La redenzione è avvenuta, ed esistono quindi due mondi, quello redento, in cui non esiste più né contrapposizione né contraddizione (e dunque nessuna drammaticità), e quello non redento, il mondo dietro alle spalle di Dio, che non consiste in nient’altro se non nella contrapposizione e nella contraddizione. Se un giorno avremo un vero dramma, esso renderà presente quella parola del Dio che «dimora in mezzo alle loro impurità» all’intera realtà della vita.
6Per questo consiglio a Habima di uscire con determinazione sempre maggiore dal particolarismo della sua rosa di soggetti e di rappresentare tanto i miei amici Beer-Hofmann e Moritz Heimann quanto Eschilo e Sofocle, Shakespeare e Calderón, Schiller e Kleist (i soggetti biblici possono attendere). Poiché si tratta di mostrare all’ebreo nella propria lingua, ovvero nella forma in cui si è formato, il dramma della letteratura mondiale, e, a partire da questo, la drammaticità dell’esistenza del mondo, per estrarre ciò che egli, l’ebreo, può aggiungervi: l’annuncio della Shekinà. In esso, il teatro chiama il dramma alla ribalta.
Notes de bas de page
2 Hervorrufen, verbo usato nell’originale da Buber, è proprio il verbo che in tedesco è impiegato per indicare il “chiamare alla ribalta” in teatro [NdT].
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