Dramma e teatro. Un frammento
Martin Buber, 1925
p. 237-241
Note de l’éditeur
Drama und Theater – Ein Fragment, «Masken, Zeitschrift für deutsche Theaterkultur», xviii, 1, ottobre 1925, pp. 3-5. La presente traduzione è di Charlotte Gschwandtner e Francesco Ferrari.
Il testo di Buber è stato pubblicato in lingua originale, prima in rivista poi in un’antologia dell’autore (Hinweise, 1953), sempre con l’indicazione che si trattasse di un frammento. Dramma e teatro è stato incluso nel programma di sala di un celebre spettacolo del Living Theatre di New York fondato nel 1947 da Julian Beck e Judith Malina. Lo spettacolo in questione inaugurava all’epoca il nuovo spazio tea-trale della compagnia americana, il Teatro della quattordicesima strada. Si tratta di Many Loves (1959), regia e scene di Julian Beck. Martin Buber è stato una figura chiave per la poetica del Living non solo se consideriamo le suggestioni chassidiche in Paradise Now (1968) ma anche alla luce della corrispondenza tra il filosofo e Judith Malina da cui nasce l’idea per il titolo del diario dell’attrice (J. Malina, The enormous despair. The diary of Judith Malina August 1968 to April 1969, Random House, New York 1972).
Texte intégral
1Il dramma, considerato come un genere della poesia, è qualcosa di molto diverso dal dramma del teatro; è il rendersi artisticamente autonomo di quell’elemento che l’epica tollera con riluttanza: il dialogo. Nel racconto, è concesso al dialogo soltanto lo spazio utile per portare avanti e fare evolvere l’intreccio; nel dramma, il dialogo porta avanti tutto l’intreccio. Quando leggiamo un dramma, se lo leggiamo veramente, dobbiamo cogliere lo scenario e le annotazioni di regia solo come una chiarificazione del dialogo (il loro abuso epicizzante, tipico del nostro tempo, è uno dei segni di dissoluzione della forma), altrimenti cadiamo in una sensazione ambigua. Considerato come un genere della poesia, il dramma è dunque il prendere forma della parola come qualcosa che si muove tra gli esseri, il prendere forma del mistero di parola e risposta. Essenziale è allora il fatto della tensione tra parola e risposta, e cioè il fatto che due esseri umani non intendono mai la stessa cosa con le parole che usano, che non esiste quindi una replica pura, e che in ogni momento del dialogo il capire e il non poter capire sono sempre quindi intrecciati; a questo si deve aggiungere il gioco reciproco di apertura e chiusura, di esternazione e reticenza. L’intreccio del dramma, che opera in maniera “tragica” se legato all’impenetrabilità del destino, e in maniera “comica” nel mondo troppo chiaro delle casualità e dei ghiribizzi, esiste attraverso il semplice fatto, che precede ogni trama e prende forma dialogicamente, della differenza tra gli esseri umani. Platone, nelle cui opere si trovano l’uno di fronte all’altro il suo maestro Socrate e il sofista dai molti nomi come i due caratteri della commedia attica – l’ironico (Eirôn), che tace ciò che sa, e lo sbruffone (Alazôn) che dice ciò che non sa – ci ha mostrato come entrambi, il tragico e il comico, si possano unire in un dialogo puro e privo d’intreccio; e ciò di cui noi veniamo a conoscenza alla fine è il destino dello spirito nel mondo. Il dramma è fondamentalmente già qui, con il semplice “essere così” dei personaggi che si annuncia nel dialogo; ogni intreccio non può fare altro che dispiegarlo.
2Se dunque lo spettacolo inteso come poesia è fondato sul fatto che l’uomo cerca di comunicare con un altro uomo parlando, e comunica veramente, anche nella tensione, superando tutti gli ostacoli dell’individuazione, lo spettacolo come teatro appartiene invece a un livello più naturale. Esso deriva dall’impulso elementare a superare, attraverso la trasformazione, l’abisso tra l’Io e il Tu, che trova un ponte nel discorso. Lo spettacolo deriva dalla fede dell’uomo primitivo di poter divenire, assumendo l’aspetto e i gesti di un altro essere – un animale, un eroe, un demone – quest’altro essere. Ancora di più, lo spettacolo non deriva tanto dal credere, quanto dall’esperire: e come l’australiano danza come il canguro, animale totem della sua tribù, così anche il tracio danza come il satiro nella schiera di Dioniso, nella certezza corporea di essere identico all’essere rappresentato. Questa certezza non è “recitata”, sebbene sia una recita che svanisce non appena quella maschera e quel comportamento vengono deposti. Tale certezza può perdurare fino a un accasciarsi del corpo, fino a un affievolirsi della consapevolezza, diventando a ogni ripetizione più saputa, più voluta, più recitata. Tuttavia, questo non è ancora spettacolo; lo diventerà solo con l’aggiungersi dello spettatore. Questo aggiungersi non deve essere compreso come un qualcosa di univoco e accaduto una volta, bensì come un lungo sviluppo o, meglio ancora, come una realizzazione. Ogni azione trasformativa avveniva originariamente non tanto per se stessa, quanto con lo scopo magico di operare, nella forma assunta, ciò di cui la comunità aveva bisogno: si celebrava il matrimonio e l’accoppiamento del dio Cielo con la madre Terra, poiché questa azione significava, provocava e includeva il riversarsi della pioggia nel grembo del campo. Quando furono ammessi gli “spettatori” alla sacra celebrazione, partecipavano alla violenza e al terrore dello svolgersi dell’evento, nella certezza della loro fede nella sua magia, dal cui successo dipendeva la loro felicità, talvolta la loro stessa vita. E così gli attori non sapevano ancora di essere “guardati”; erano attori, ma non attori di uno spettacolo; essi recitavano a beneficio della folla che osservava, ma non per compiacerla. Erano in uno “stato di innocenza”, proprio come l’uomo che vive secondo il suo impulso e non secondo l’immagine che produce negli occhi dell’altro. (Si ricordi qui che da questa distinzione, tra uomini mediati e uomini immediati, si distinguono anche le due modalità, diverse a livello fondamentale, di essere attori). Questo muta con la medesima intensità con cui la fede si dissolve: lo spettatore, per il quale l’azione scenica non è più una realtà che penetra la sua vita e che determina il suo destino, e l’attore, che non è più sopraffatto dalla trasformazione, ma ormai la conosce e sa come approfittarsene, si corrispondono l’un l’altro. Quest’attore sa, del resto, di essere guardato, senza brivido e senza pudore: egli recita senza brivido e senza pudore per fare mostra di sé. Certamente, la fede magica può tradursi nella fede nell’importanza del carattere salvifico dello spettacolo, e con questo preservare la sua potenza, o parte di essa. Nel teatro di Eschilo sembra che regnasse ancora, sopra l’orchestra come sopra le fila, qualcosa della sacralità dei dromena eleusini: ciò che succedeva sulla scena, gesti e cose dette, il canto e l’incedere del coro, non era un’imitazione illusoria di un qualcosa fatto un tempo, e men che meno la presentazione ingannevole di un qualcosa di concepito un tempo, bensì una realtà sacra che riguardava tutti quelli che, nelle assiepate fila, guardavano e ascoltavano, nella verità delle loro vite, in modo indeterminabile, inconcepibile, e con una forza primordiale. Là quindi esistevano ancora brivido e pudore tra coloro che guardavano e coloro che erano guardati.
3Ho già fatto cenno all’esempio della tragedia greca. I due principi, la componente spirituale del dialogo e quella naturale del gioco mimico della trasformazione, sono già qui legati. Essi stanno l’uno all’altro come l’amore sta alla sessualità, e hanno bisogno l’uno dell’altro come l’amore ha bisogno della sessualità per ottenere un corpo, e la sessualità ha bisogno dell’amore per ottenere un’anima. Si deve però comprendere come l’amore, nonostante subentri successivamente nella storia dell’uomo, non può essere fatto derivare dalla sessualità, dal momento che, nella verità dell’essere, esso è la potenza eterna e cosmica, che inviò il sesso come segno e mezzo, e che se ne serve affinché, proprio da questo, l’amore mondano rinasca sulla Terra. Così la via dello spirito è in tutte le cose. Anche per questo, il teatro ha bisogno del dramma ancora di più rispetto a quanto il dramma abbia bisogno del teatro: poiché il dramma, che non può farsi immagine nel teatro, esiste disincarnato nello spirito solitario; il teatro invece, che non obbedisce al dramma, porta la maledizione dell’assenza di anima, riuscendo a malapena a camuffarla, con tutta la sua ricca e abile varietà, per l’ora del suo ingannevole spettacolo. Un’epoca in cui il dramma non viene rappresentato può avere i tratti di un Eirôn eroico, ma un’epoca in cui il teatro si esalta da sé e tratta tutto il dramma come materiale e occasione per le sue fantasmagorie è un miserevole Alazôn. Affinché un pubblico senza fede che si lascia sobillare dalla “distrazione” perché teme la concentrazione, venga liberato dal suo timore verso il timore reverenziale e sia innalzato alla fede nella realtà dello spirito, sono necessari un lavoro, un’educazione e un insegnamento enormi. Il teatro deve per primo partecipare a questo lavoro, sottomettendosi alla legge della parola. La parola che attraversa l’intero corpo di colui che parla, la parola alla quale ogni gesto, servendola e sostenendola, si piega, la parola intorno alla quale, come una cornice, si costruisce e ricostruisce tutto ciò che di visivo c’è nella scena, la parola che è il severo stare di fronte di Io e Tu, che si staglia sul miracolo della lingua, e che governa tutto il gioco delle trasformazioni, tessendo il mistero dello spirito in tutti gli elementi, lei sola può determinare il rapporto legittimo tra dramma e teatro.
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