Il problema dello spazio scenico
Martin Buber, 1913
p. 229-236
Note de l’éditeur
Das Raumproblem der Bühne [Il problema dello spazio scenico] è stato pubblicato nel volume Aa. Vv., Programmbuch, Helleraurer Verlag, Hellerau 1913. La presente traduzione è di Charlotte Gschwandtner e Francesco Ferrari.
Texte intégral
1L’autentico sentimento dell’arte è, come tutti i sentimenti compiuti, un sentimento polare. Ci trasporta nel mezzo di un mondo in cui non siamo capaci di entrare. Siamo circondati da esso in modo talmente vivo che niente sembra potercene più separare; immersi, penetrati e confermati da questo mondo, tuttavia lo riconosciamo come una distanza eternamente remota. Questo mondo è realtà, unica e certa come nessun mondo naturale, questo mondo solo è realtà compiuta: ci abbandoniamo a esso, e respiriamo nella sua sfera. È anche immagine: per sua natura è a noi lontano e inaccessibile. Da questa polarità tra familiarità ed estraneità, piacere e rinuncia totale, deriva la sacralità dell’autentico sentimento dell’arte.
2Questo si rivela nell’esperienza vissuta dell’evento scenico allorché, indissolubilmente, siamo dentro l’evento stesso e, inestricabilmente, ne siamo contemporaneamente al di fuori, rapiti dall’incondizionato che accade di fronte a noi, e al tempo stesso fermi nel regno del condizionato, legge della nostra esistenza. Sopraffatti, eppure con lo sguardo attento, siamo abbandonati e protetti. Tutto questo, tuttavia, non accade come un essere diviso o come un’indecisione, e neppure come una contraddizione, ma come l’unità polare del sentimento. Tutto questo non ha nulla a che fare con la comune distinzione tra “apparenza” e “realtà”. Si potrebbe chiamare a ragione “apparenza” solo ciò che non è veramente arte; l’evento scenico autentico, che è arte, è realtà, ammesso che qualcosa sia realtà. Noi ne siamo avvolti, ma è un’immagine, e non possiamo entrarvi.2
3Vorrei trattare ora solo un elemento essenziale dell’esperienza scenica: il sentimento dello spazio. Quando l’esperienza scenica è autentica e compiuta, sentiamo di non poter accedere allo spazio della scena, nonostante viviamo in esso esperendolo. Il palco potrebbe essere diversi passi davanti a noi. Noi potremmo fare questi passi in avanti, e tuttavia sappiamo che ciò non porterebbe a nulla: anche se i nostri piedi potessero toccare le tavole del palco, noi non potremmo comunque toccare lo spazio scenico. Questo spazio è infatti di un’altra natura rispetto al nostro: esso è creato e riempito da una vita di un altro livello, di un’altra altezza, e di un’altra densità. Le nostre dimensioni, infatti, non sono valide al suo interno. Tale consapevolezza, intesa come sentimento, è il cuore dell’autentica esperienza della scena.3
4La scena moderna è il nemico acerrimo di questa consapevolezza, e tenta di annichilirla o di devastarla. Annichilirla, quando, per mezzo della sua tecnica “avanzata” la scena cerca di creare l’illusione di uno spazio dello stesso genere del nostro; devastarla, quando imita forme che, in tempi più puri, sorgevano spontaneamente dallo spirito, e permanevano, e che ora, spogliate dalla vita che le aveva create e riempite, degradano il teatro a una mera curiosità. Lungo entrambe le vie, la scena moderna è riuscita a depravare radicalmente il sentimento dello spazio dello spettatore, il suo sentimento di distanza.
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5La spazio della scena antica è illuminato allo stesso modo dello spazio destinato allo spettatore, tuttavia se ne separa nettamente in virtù del suo carattere rituale intrinseco e costitutivo. Come la tragedia antica deriva dal sacrificio, divenuto spettacolo per la prima volta con l’uomo visivo greco – al contrario dell’asiatico, per il quale il sacrificio non è mai un oggetto – così la scena antica è nata da una processione, il cui contenuto è il destino sacramentale, l’immolazione e la liberazione del dio, del demone o dell’eroe, una processione che si edifica nel ritmo di un quadruplice movimento di lotta, dolore, lamento e rivelazione. Essa non è mai solamente ricordo, indipendentemente dall’avvenimento mitico o storico cui rispettivamente si lega, ma è vita posta sullo stesso piano di quell’avvenimento, vita che nasce eternamente nuova e che è operante a partire da se stessa. Il demone e il suo destino non sono per il greco un passato concluso, bensì un ridestarsi possibile in ogni tempo. Questa processione è il principio più visibile, che nel suo dispiegarsi dà forma allo spazio della scena antica, dal bordo dell’orchestra fino alla parete posteriore della skené. Lo spettatore, investito dal respiro del coro, si lascia irresistibilmente portare via dal brivido di fronte al dramma che si svolge in quello spazio di fronte, in quello spazio in cui non può entrare, in modo sacramentale e vero.
6Quest’attualità è necessariamente estranea al palco medievale. Per il cristiano antico il fatto decisivo non sta accadendo, bensì è accaduto: il sacrificio non è eternamente nuovo, bensì è stato compiuto, cosicché quell’evento unico può solo essere ripetuto e rappresentato. La scena del mistero non è più un altare, bensì un palcoscenico. Certo, anch’essa si sviluppa a partire dal cultuale, ma questo culto non è una prosecuzione o un rinnovamento, bensì soltanto un’adorazione e una “imitazione”. Così l’evento diventa spettacolo; la sua sacralità è quella della ripetizione e la sua forza quella della rappresentazione. Ma affinché questo diventi spettacolo, deve trasformarsi nella sua essenza, proprio come l’essenza del sacrificio si trasformava nella tragedia greca. Nel suo significato elementare, lo spettacolo non esiste per il suo spettatore, né si definisce in virtù del suo essere guardato; esso è definito unicamente dall’emozione suscitata dall’attore e dalla regola che ritmicamente la domina e la governa. In tutti i suoi momenti, tuttavia, lo spettacolo è pervaso e riplasmato dall’effetto percettivo voluto, senza che però, nella trasformazione, nasca una nuova regola creatrice, come accadde allorché il sacrificio divenne processione tragica. Finché lo spettacolo è legato alle caratteristiche tramandate del processo storico-religioso che rappresenta, riceve da queste una legge, che è una legge apparente e sterile, come sempre, quando qualcosa di fisso può essere solo ricalcato. Ma lo spettacolo se ne separa: spezza il legame che non può più essere veritiero e fecondo, poiché il religioso può attestarsi come creatore di forme in senso artistico soltanto quando – in Oriente, così come in Egitto, in Grecia e ancora a Bisanzio – la libera potenza dell’attualità operante, il magico, la spontanea continuazione e l’autonomo rinnovamento del processo storico del mondo sono aperti. Il dramma prende le distanze, e ottiene la sua smisurata libertà, la libertà dello spettacolo sciolto da qualsivoglia legame, che fa suo un mondo parimenti senza freni. Lo spettacolo universale, che vuole essere percepito, si dà una propria legge. Lo spazio scenico prende forma nei misteri attraverso il legame, così come in Shakespeare attraverso lo spettacolo sovrano. Là sorgono le mansiones sulla piazza libera, e l’azione procede dall’una all’altra come se fossero le stazioni del Calvario, erette appositamente per lo spettacolo e smontate dopo lo spettacolo. In Shakespeare, invece, esiste una scatola permanente con pareti nude o tappezzate, al cui centro sta l’altana supportata da pilastri e dotata di gradini, trasformabile e capace di rappresentare ogni luogo, aspettando le indicazioni che saranno annunciate attraverso il prologo o il foglio con il nome delle città. Mansiones e scatola sono resi viventi dalla grazia dello spettacolo, che esercita la sua potenza trasformatrice sulle nude tavole e ha la sua grandezza nella trasformazione (questo non si può attribuire alla tecnica imperfetta; la tecnica imperfetta è sempre e solo una manifestazione parallela). E lo spettatore, che si accalca davanti alle mansiones, addirittura seduto sul palco, ha di fronte a sé uno spazio scenico tuttavia inaccessibile, che non è lo spazio all’interno del quale egli può muoversi, ma uno spazio creato, formato e riempito dallo spettacolo, attraverso l’ingegno del poeta, che è quindi poeta dello spazio, e attraverso il talento dell’attore, abile esecutore dello spazio, e attraverso la fantasia, capace di adattarsi, dello spettatore.
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7Al posto del sacrificio che rinnova il mondo e dello spettacolo che avvolge il mondo, un’epoca che ignora entrambi, la nostra, non è stata in grado di istituire un nuovo spirito, da cui il dramma si potrebbe nuovamente realizzare nel popolo. Lo spazio della scena moderna non è organizzato dal principio della vita e dell’arte, ma è costruito con mezzi volti a produrre un’illusione nei minimi dettagli e un arcaismo raffigurato.
8La scena dell’illusione vuole superare il sentimento di distanza dello spettatore, che è il motivo più forte dell’efficacia artistica del teatro, aspirando a convertire il suo spazio in uno dello stesso genere del nostro.
9La creazione dell’illusione sembra essere appartenuta, in ogni epoca e in misure diverse, agli elementi della rappresentazione scenica, e già la scena greca aveva i suoi telari. Quest’arte dell’illusione non voleva però generare l’apparenza di uno spazio scenico della stessa natura del nostro, quanto renderci chiare le sue relazioni contenutistiche, facendo riferimento ai luoghi e al cambiamento di luoghi; le quinte consistevano in un foglio disegnato. Ovvero, dal punto di vista dei mezzi: quest’arte dell’illusione non operava attraverso i particolari, ma attraverso la totalità; al nostro spazio, fatto di dettagli, contrapponeva lo spazio di una totalità significativa; non permetteva che l’impressione di uno spazio localmente determinato si costruisse a partire da frammenti, ma la destava con poche unità di forma o di colore semplici, rappresentative e di valore simbolico. L’odierna arte dell’illusione non può fare a meno, tuttavia, dei dettagli bi- e tridimensionali volti a fare sembrare, ad ogni costo, lo spazio come uno spazio “reale”, derubando così l’esperienza dell’evento scenico di quella sua necessaria polarità di autentico sentimento di distanza e autentico legame, possibile solo nell’attività. La scena moderna, di contro, lascia lo spettatore ad ammirare, passivo e privo di fantasia, la tecnica perfetta della sua “arte dello spazio”.
10Dal desiderio di ripristinare quella totalità efficace e quel sentimento di distanza sono scaturiti alcuni esperimenti arcaicizzanti, che hanno tentato di raffigurare la scena di un’epoca precedente (quella antica, medievale, o elisabettiana) e di copiarne le forme, come se queste potessero continuare a esistere e avere un significato senza il principio vitale che una volta abitava in esse, generandone la vita. In questo modo, infatti, il sentimento di distanza non emerge per nulla o risulta solo artificiale e mediato, come nel caso di un sentimento di distanza “colto” tipico dell’osservatore mosso dalla propria curiosità. E non si è arrivati a nient’altro che a quel carattere museale tipico del nostro tempo, che ha così, anche in questo ambito, una dignitosa rappresentanza.
11Un altro tipo di reazione è costituito dai tentativi di dare forma a uno spazio di tutt’altra natura, traendone il principio dal mondo pittorico o ornamentale: anche questi tentativi devono rimanere infecondi, poiché al posto del sentimento di distanza scenica introducono il sentimento di un’arte estranea nell’esperienza dell’evento scenico, spezzandola e distruggendola.
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12Noi contemporanei non possiamo sapere se nel nostro tempo nascerà un nuovo spirito capace di generare un nuovo principio scenico. Anche se crediamo di presagire un tale spirito, non possiamo avere l’ardire di essere nè coloro che lo vivono nè coloro che lo riconoscono come tale, ossia di ricevere il nuovo e allo stesso tempo di definirlo. Tutto ciò che possiamo fare è lavorare, a partire dal luogo e dal momento in cui siamo, secondo le loro esigenze e le loro possibilità, e sperare che il nostro lavoro, posto che risulti fedele alla nostra volontà, sia benedetto dallo spirito. Non si tratta di trovare un nuovo principio che dia forma allo spazio, quanto una soluzione che corrisponda alle forme della nostra vita e che sfrutti i mezzi tecnici a nostra disposizione in modo sensato, per creare uno spazio che porti a compimento l’esigenza fondamentale del dramma sulla scena: uno spazio che dovrebbe essere al tempo stesso assolutamente unitario e assolutamente trasformabile. Qualora vi riesca, ci si potrà aspettare che garantirà nuovamente all’esperienza scenica la sua piena polarità tra legame e separazione. Perché solo uno spazio racchiuso nella sua essenza, immediatamente unitario nel mezzo della trasformazione, può, attraverso il suo modo diverso dal nostro, annunciare questo suo modo con una simile purezza e forza, così che noi percepiamo la sua forma attraverso tutti i flussi del legame come un nostro “di fronte” solo e intoccabile. E può essere assolutamente trasformabile nel mezzo dell’unità solamente se le sue metamorfosi vengono integrate e completate dall’attività della nostra anima percettiva, se questo legame attivo, l’unico vero, non è, quindi, bloccato, come accade sulla scena moderna, ma è invece ridestato e nutrito.
13A tutti coloro che non si perdono nell’“abbondanza” della scena contemporanea deve essere chiaro che uno spazio può rimanere unitario anche nella trasformazione solamente attraverso l’impiego di una struttura semplice, armonica e agente come totalità. L’unico elemento che può infondere mutevolezza assoluta a uno spazio costituito in maniera unitaria è la luce, cosa che alla nostra epoca, in cui lo spirito di Rembrandt parla come mai prima, non poteva rimanere un segreto. Il tentativo, di cui le rappresentazioni tea-trali dell’anno prossimo a Hellerau costituiranno una parte sperimentale, è nato dall’incontro di queste due nozioni.
14La “sala grande” di Tessenow ha proporzioni semplici e significative, linee rette e non deformate, che ridestano e mantengono l’impressione di una vita essenziale. Dal punto di vista architettonico, la sala costituisce un’unità; la scena non è distanziata dal pubblico – che ne condivide la luce e non siede nel buio che lo separerebbe – dalla propria costruzione, ma solamente da ciò che se ne fa: la scena non è altro che ciò che accade in essa; ma tutto ciò che accade in essa è strettamente e chiaramente interconnesso, così come è strettamente e chiaramente separato da noi, attraverso il modo in cui accade: non simula uno spazio della stessa essenza del nostro, bensì ci rappresenta uno spazio che è di un’essenza diversa dal nostro, ossia lo spazio del dramma. Dal punto di vista tecnico, questo spazio è composto da due elementi: dal substrato della trasformazione e dall’agente trasformatore. Il substrato consiste in numerose superfici e strisce di materiali, semplici e grigie, che delimitano e articolano la scena. L’agente è la luce diffusa, che opera non in modo episodico e selettivo come un normale proiettore, ma nell’uniformità di grandi superfici e di lunghi periodi. Attraverso la variabilità dell’illuminazione si può rendere ogni grado di materialità del substrato: i materiali possono apparire ora morbidi ora solidi, ora piatti e ora rotondi, e con la loro trasformazione si trasforma anche l’immagine dello spazio creato dalla luce: da uno spazio limitato a uno che apre all’infinito, da uno determinato in tutti i suoi punti a uno che ondeggia nel mistero, da uno che mostra solo se stesso a uno che accenna l’innominabile. Innominabile è tuttavia questo spazio, quest’opera della luce. Uno spazio, questo, formato da un principio di cui ancora non conosciamo il nome, e di cui conosciamo solo la manifestazione sensoriale: la luce creatrice.
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15L’obiettivo che si pone questo tentativo è il seguente: portare a compimento l’esigenza fondamentale del dramma sulla scena. Se una simile sfida provenisse da una riflessione sul dramma e non dal dramma stesso, questo lavoro sarebbe inconsistente e sterile. La figura di Claudel ci incoraggia a considerarla come una sfida lanciata dal dramma stesso. Come tutti gli artisti d’importanza decisiva, egli è colui che è a partire da una sfera che è più che arte (o meglio: non è nient’altro che arte). È da questa sfera che le epoche vengono rinnovate, anche se gli artisti credono di stare ancora in quella vecchia.
Notes de bas de page
2 La problematica kantiana-schopenhaueriana dell’accesso alla realtà, cifra saliente dell’intera stagione del Buber predialogico, è qui pienamente percepibile. [NdC].
3 Spazio scenico e spettatore s’implicano vicendevolmente ma giammai si fondono. In questo essere l’uno di fronte all’altro che non viola il principio d’individuazione, il pensiero buberiano compie un significativo passo in avanti in vista della propria svolta dialogica [NdC].
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