Tre ruoli di Novelli
Martin Buber, 1906
p. 219-228
Note de l’éditeur
L’originale tedesco apparve in rivista nel 1906 (M. Buber, Drei Rollen Novellis, «Die Schaubühne», ii, 2, 11 gennaio 1906, pp. 42-48). La presente edizione del testo è una revisione, a cura di Francesco Ferrari, condotta a partire dalla traduzione italiana pubblicata da A. Attisani in Actoris Studium. Album #1. Processo e composizione nella recitazione da Stanislavskij a Grotowski e oltre cit., pp. 98-105.
Texte intégral
1«Ci sono due generi di spiriti», dice l’ultimo dei mistici ebrei, rabbi Nachman di Bratzlav, «che sono come rivolti uno all’indietro e uno in avanti. C’è uno spirito che l’uomo ottiene nel corso dei tempi. Ma c’è uno spirito che scende sull’uomo in grande pienezza, in grande fretta, più veloce dell’attimo, poiché è al di sopra del tempo, e del tempo non ha bisogno alcuno».
2Si tratta di una distinzione che non deve essere necessariamente intesa come un giudizio. E se il nome di Ermete Novelli significa gloria, ciò che ho da dire su di lui non sarà inteso a sminuirla, bensì a definirla meglio. Non è mia intenzione biasimare il pubblico per i suoi entusiastici applausi né la stampa per l’entusiasmo delle recensioni. Voglio semplicemente fare alcune distinzioni; distinguere tra due modi e forse tra due generazioni.
3Scelgo tre personaggi di Novelli. Il Rabagas, dal Rabagas, ben costruita commedia (di Sardou). Lo Scarron, dallo Scarron, dramma in versi di elevate ambizioni poetiche (opera di Catulle Mendès). E Shylock.
4Del rapporto tra il teatro e il dramma, potremmo dire che il teatro realizzi (o “interpreti”) il dramma, dicendo ciò che deve essere detto e mostrando ciò che deve esser mostrato; il teatro andrebbe quindi inteso come poesia espressa in forma di vivo movimento. Oppure potremmo dire che il teatro completi il dramma, portando a compimento ciò che vi compare solo in forma di abbozzo, e conducendo quindi il processo creativo al suo fine ultimo. O infine potremmo dire che il teatro rielabori il dramma, che se ne serva come proprio materiale o come spunto, e che innesti un organismo di natura mimica su uno di natura verbale.
5Potremmo allora affermare che Novelli realizzi Rabagas, porti Scarron a compimento, rielabori Shylock. L’artista si pone completamente al servizio del maestro Sardou. Ne segue ogni intenzione con devoto rispetto. Interpreta la figura farsesca del capopartito democratico che si batte contro il privilegio dei potenti, sposando del tutto lo spirito del suo creatore. Non osa apportare alcun miglioramento. Quando Rabagas salta sul tavolo e declama la sua stolta e patetica orazione, egli, in piedi sul tavolo, la ripete con scrupolosa e monocorde ottusità, rimettendosi in tutto alla volontà del poeta. Quando Rabagas si inchina al cospetto del principe, egli esegue la sua appariscente riverenza, con tutta la leggerezza di Sardou, di cui è completamente e piattamente devoto. Vi chiedete come declami l’orazione? In modo grandioso. Come fa la riverenza? In modo magistrale. Ma anche in modo estremamente inumano: in perfetto stile Sardou. Invece di rielaborare l’opera affidata alle sue mani, facendone risaltare un uomo che crede in sé con fervore religioso, che da questa fede trae tutto il suo mondo, un uomo per il quale l’ambizione è culto del sacrificio e danza sacerdotale, egli ci consegna l’idiota che il poeta, Sardou, gli aveva affidato. In questo caso poteva e addirittura doveva rielaborare il dramma: ma preferisce invece realizzarlo,2 grato a Sardou di avergli offerto la preziosa occasione di esprimere tutta la sua padronanza mimica e gestuale.
6Più indipendente si mostra da Mendès. Il signor Catulle Mendès – com’è noto, un vecchio parnassiano dalle indistruttibili ambizioni liriche – ha scritto lo Scarron, dramma indicibilmente inutile e falso. Dei sei atti totali, il primo gli serve a mostrare come il canonico e satirico Scarron partecipi, con una maschera di scimmia, a una festa popolare, dove suscita scandalo e viene gettato in acqua; nel secondo atto Scarron – nel frattempo invecchiato e paralitico – sposa la giovane Françoise d’Aubigné; nel terzo, quarto e quinto rischia di essere ingannato e abbindolato; e nel sesto muore, dopo essersi fatto giurare fedeltà eterna dalla vergine vedova (che poi diventerà Madame de Maintenon). Questa tragedia è la grande tribuna di Novelli: passo dopo passo, colpo dopo colpo, egli vi porta a compimento ciò che il poeta Mendès, vi aveva delineato. “Rielaborare” significherebbe, forse, ridurre o affinare la ricchezza della gestualità: Novelli amplia e intensifica tale pienezza portandola a completamento. Nel primo atto la scimmia: che potrebbe essere enfatizzata fino a diventare una figura demoniaca, ingigantita in una maschera mostruosa che prorompe in una possente risata. Novelli non solo interpreta la scimmia, fa qualcosa di più: trasforma la scimmia parziale di Mendès in una scimmia perfetta; si piega su se stesso in modo impeccabilmente realistico, avanza con inimitabile autenticità. Caduto in acqua, ne esce strisciando e si spinge fino al centro del palcoscenico deserto; ma non lo sfiora il terribile riconoscimento della propria solitudine, non mostra coscienza del fatto di essere respinto da una folla che acclama le sue smorfie ma disdegna i suoi ardimenti; egli si agita, girandosi e rigirandosi, ma il suo patire il freddo è privo d’anima, è solo una reazione fisiologica, presentataci con grande completezza di particolari, di un corpo umano fradicio e infreddolito. Con il secondo atto si dà vita a una nuova serie di immagini (Erscheinungsreihe): viene narrata la storia della poltrona da invalido. Nel secondo, terzo e quarto atto Novelli interpreta il suo personaggio immobilizzato in una poltrona, in tutto simile a una gabbia; essa è l’elemento centrale intorno a cui l’attore stringe il cerchio della sua azione. Nel secondo atto, Mendès accenna all’impotente bramosia del personaggio e Novelli la porta a compimento; interpreta la malattia con clinica precisione; arricchisce la sua fiacca concupiscenza con tutti i dettagli di una sistematica raffinatezza. Non ci mostra nulla del vecchio dal cuore addolorato (che Mendès non accenna, ma che emerge come una possibilità del testo), del vegliardo che ha pena di sé e della ragazza – che tuttavia sposa – e che non sa sottrarsi ai propri desideri; ancora una volta, sia la brama che l’impotenza fisica del personaggio vengono presentati in modo freddo, incentrato soltanto sugli aspetti fisiologici. Terzo atto: Mendès delinea un mellifluo sentimentalismo, Novelli lo inzucchera ulteriormente rendendo il sentimento ancor più lacrimoso. Declama teneri madrigali, allunga le braccia oltre la sua prigione per sfiorare, con il gesto idilliaco di un pastorello, i rami in fiore; ma gli rimane estranea la silenziosa poesia interiore che sgorga dai recessi dell’animo di un vecchio malconcio e grottesco; ciò gli sembra troppo a caro prezzo, visti i limiti imposti dalla poltrona alla sua possibilità di movimento. Quarto atto: è sera; la poltrona (con il suo occupante) si trova in giardino. Scarron viene a sapere che, durante la notte, sua moglie incontrerà un cavaliere amico (nel palazzo di Ninon de Lenclos, ovviamente); si porta allora sotto la finestra di lei e la chiama a gran voce, ma la giovane donna non risponde; la manda a cercare, ma risulta irreperibile; allora si ribella, si avventa contro la sbarra della sua prigione e la squassa in due, mentre i frammenti volano a terra e la poltrona si rovescia con fragore; poi impugna la spada, vendicatrice del suo onore macchiato, e si precipita a Parigi. Questa volgare scena di bravura è il punto culminante dell’interpretazione di Novelli; neanche per un istante egli viene sfiorato dall’idea di rappresentare un uomo la cui fede, la cui vita intera ha perduto ogni significato, un uomo che usa le sue ultime forze per vendicare l’offesa subita; piuttosto esprime, portandolo a magistrale completamento e perfezione, lo sforzo titanico, l’atto del concertarsi di tutte le energie fisiche del personaggio: ciò su cui si concentra è l’aspetto fisiologico della scena. E siamo al quinto atto: il vendicatore sorprende gli “amanti” nel bel mezzo di un dialogo (e quanto meschino!); brandendo la spada, lancia la sfida a colui che ha offeso il suo onore; ma la moglie lo chiama “scimmia” (è così che il signor Mendès si immagina la Nemesi!): lui sobbalza, viene colto da un tremito, la spada gli sfugge di mano e cade stridendo per terra. Siamo ancora una volta di fronte a una grandiosa interpretazione non solo di un’anima cui è stato inferto il colpo mortale ma di un vecchio tremante e spaventato. Non mi è possibile paragonare tale interpretazione a altri risultati dell’arte drammatica, ma solo a un’opera grafica che conosciamo dal Simplizissimus, la mucca di Thomas Theodor Heine cui viene strappata una mammella: non più un corpo nella sua tridimensionalità ma una linea a zig-zag. (Questa osservazione non venga intesa come uno scherno: considero un’alta forma d’arte quando un corpo umano manifesta una tale facoltà e una mente umana una tale padronanza di sé). Sul sesto atto non c’è molto da dire: la morte è rappresentata con estrema precisione, mentre la richiesta del voto di fedeltà ripropone tutte le bramosie del secondo atto; un singolare trionfo al cospetto della morte.
7Dopo aver realizzato il Rabagas e portato a compimento lo Scarron, qual è l’atteggiamento di Novelli di fronte allo Shylock?
8Vediamo innanzitutto il Novelli drammaturgo. Egli taglia il Mercante di Venezia e ne rammenda insieme, in un povero intreccio, le scene incentrate su Shylock. Non ha bisogno di Shakespeare: gli servono solo i personaggi e le sue battute. Tutte le scene in cui emerge il carattere di Porzia, la sua indole cristallina e vivace, in opposizione alla quale si precisa la figura di Shylock, che risulterebbe altrimenti parziale e incompleta, sono scomparse o accorciate, fatta eccezione per ciò che è richiesto dalla salvaguardia della trama; al punto che nella scelta dello scrigno da parte di Bassanio, così come nel travestimento di Porzia, appaiono rispettivamente l’una priva di risalto, l’altro del tutto privo di senso. Sono tagliati via tutti gli episodi che servono a confezionare quel leggero, spensierato tono di fondo la cui funzione è circondare e accompagnare la tragica figura di Shylock; eliminate tutte le scene del Lancillotto, cancellato il Principe d’Aragona; solo il Principe del Marocco è incomprensibilmente risparmiato anche se trasformato in una figura farsesca. Ma eccoci all’aspetto peggiore: il Mercante di Novelli conta quattro atti; il quinto, in cui Shylock non compare, per Novelli non esiste, e quindi non lo fa rappresentare. Ma senza l’atto finale, l’opera che Shakespeare aveva in mente scompare del tutto: l’aspetto della commedia gaia e leggera, che va oltre la figura drammatica di Shylock, è svanito nel nulla. Ma non basta: in mancanza del quinto atto neanche il destino di Shylock può giungere a compimento; esso infatti si realizza pienamente proprio nelle scene in cui il mercante ebreo non compare, in cui non viene neanche nominato ma in cui d’altro canto, la sua figura è sempre presente, impossibile da dimenticare anche solo per un istante: come nell’atmosfera della notte di luna che avvolge il giardino di Belmonte, nei sussurri d’amore di Jessica, nell’inno dei musici, nella consegna degli anelli, nella felicità dei personaggi gioiosi, sereni e leggeri, che non hanno nulla a che fare con il destino del personaggio cupo, greve e sofferente, e da esso non sono offuscati. Ma quest’atto Novelli lo taglia.
9Pensiamo ora al Novelli inscenatore. Il dramma del Mercante di Venezia è tutto incentrato sulla coralità; esso non ha eroi né monologhi (fatta eccezione per un monologo di Lancillotto); è tutto dialogo, tutto un essere-assieme e un essere-in-opposizione; è tutto atmosfera, per richiamare l’espressione straordinariamente esatta di Hofmannstahl. La compagnia di Novelli non esprime alcuna coralità; quando gli attori non si limitano a fungere da coro al monologo del loro maestro, si spostano e parlano rivolti al pubblico. Antonio non si rivolge ai suoi amici, né Porzia alla corte di giustizia. Nulla accade tra le persone; le parole non stabiliscono un contatto tra un’anima e l’altra, ma muovono dalle labbra e si perdono nel vuoto: non hanno efficacia alcuna.
10Con bonaria tranquillità, Tubal sopporta la disperazione di Shylock, mentre nella scena del tribunale Graziano se ne sta inebetito e grida “Un secondo Daniele!” con indescrivibile indifferenza. A Berlino neanche un teatro di periferia oserebbe presentare una cosa del genere, e in tutta la Germania sarebbero pochissimi i tea-trini di provincia che si spingerebbero a tanto. Ma ciò non ha nulla a che fare con l’Italia. La compagnia siciliana Grasso, che sa poco di cultura e poco dell’Europa, è un insieme nobile e naturale, quale Reinhardt non potrebbe rendere più bello. Del resto, la stessa compagnia di Novelli ha mostrato di conoscere molto meglio la natura del teatro (per esempio nello Scarron o nel Rabagas); ma qui è stata evidentemente trascurata dal suo direttore, che non ha bisogno di Shakespeare.
11Dal disastro e dalla salvezza di Antonio, dalla proposta di nozze di Bassanio, dal travestimento e la comparsa in vesti maschili di Porzia, dal fortunato rapimento di Jessica, Novelli ricava un dramma incentrato su Shylock; un’operazione già tentata più volte, ma mai con tanta radicale coerenza.
12Non avevo mai percepito con tanta forza l’interpretazione dell’attore come una guerra contro Shakespeare. Il Mercante di Venezia ha venti scene; Shylock compare in cinque di esse (circa tre decimi del tutto); poche delle scene restanti lo riguardano direttamente; ai personaggi che agiscono sulla scena egli è indifferente o ripugnante; persino per Jessica egli esiste solo in quanto ebreo. Per quanto riguarda l’azione del dramma, formalmente essa non si incentra su di lui, ma sul “passivo” galantuomo Antonio; e se poi vogliamo citare la figura che tiene insieme il dramma nelle sue tre vicende, allora si tratta della brillante Porzia. Novelli non può che imporre la propria volontà al prezzo della mutilazione di tutte le parti dell’opera.
13Ma ora sorge spontaneo chiedersi: come interpreta lo Shylock? Questo lo sappiamo già: lo interpreta in modo geniale. Ma è la genialità di un tecnico consumato.
14Lo Shylock di Novelli emerge da un misto di sete di denaro e di vendetta, il tutto tenuto a freno dal contegno. Indossa un fastoso travestimento fatto di abiti sgargianti, e cammina con maestà. Questo giudeo è tutto concentrato sul suo rapporto con i cristiani: è avido di denaro e assetato di vendetta.
15È questo lo Shylock di Shakespeare?
16Shylock reca in sé tutta la sofferenza della sua gente. La reca in sé non tanto come un’esperienza vissuta, quanto come sangue e viscere, come qualcosa di innato, come ciò che ha ereditato fin dalla nascita. Egli la conosce e la vive come ciò che gli spetta in eredità, come ciò che di più intimo e incondizionato possiede; come il destino che tocca a ogni bambino ebreo fin dal momento del concepimento e della nascita. Tale sofferenza non gli viene dall’esterno, non scaturisce dal conflitto con altri esseri; essa è ciò che arde nell’intimo della creatura: «suffrance is the badge of all our tribe».
17Ma nei confronti della sofferenza e il destino egli ha ricevuto due poteri: il suo Dio e la sua casa. Nella sofferenza, egli sta rispetto a Dio come occhio a occhio, bocca a orecchio; di fronte a lui giura di vendicarsi dei suoi ottusi persecutori, e lo fa con mistica enfasi: «Ho giurato al cielo». Nella sua casa egli chiude il proprio destino, la propria anima, così come un diamante acquistato a prezzo del sangue viene riposto in uno scrigno prezioso; vi chiude sua figlia, vi chiude i ricordi della sua vita personale, come se volesse difendere la purezza della casa con sette sigilli: «Let not the sound of shallow foppery enter my sober house».
18Quante cose meritavano di essere dette, rappresentate, realizzate qui! Novelli le trascura tutte. Non dà voce a questo sentimento di fondo; del dolore di Shylock non resta che un senso di smacco, un sentimento d’orgoglio tradito, come quando esclama: “Il nostro santo popolo!”. Novelli non sa nulla del valore mistico del giuramento, e il suo grido “Signore Iddio!” non può sostituire il silenzioso dialogo del personaggio con la dimensione sovrapersonale. Quando cita il turchese, non pensa alla defunta Leah che un giorno, con un ardore più forte del tempo, gliene fece dono; non è dall’esperienza del proprio matrimonio che vomita ingiurie sui christian husbands; il suo ruolo di padre è fiacco e angusto. Questo Shylock disprezza chi è povero di grande gestualità ma ricco di anima.
19E tuttavia Novelli è grande nella parte di Shylock, per quanto poco shakespeariano; anzi è tanto più grande, quanto più decisamente rinnega Shakespeare.
20Chi lo ha visto, non potrà mai dimenticare questi tre momenti: il ritorno a casa; la danza di fronte a Tubal; il crollo dopo la scena del processo. In Shakespeare non ve n’è traccia. Ma sono grandi momenti e come tali destinati a sopravvivere.
21Shylock fa ritorno a casa: il portone è aperto. Assalito da una paura indistinta, esita a lungo, infine entra. Qui Novelli ci presenta tre diversi stadi: Shylock cerca, non trova, precipita nella disperazione. Non lo vediamo, ma lo udiamo spalancare le porte, correre attraverso le stanze, avanti e di nuovo indietro, nonostante abbia già intuito la verità; poi lo sentiamo scaraventare a terra tutto ciò che lo trattiene, picchiare i pugni sui muri, quei muri che hanno tollerato un simile evento, e strapparsi le vesti di dosso, le vesti della festa che aveva indossato all’esterno. Poi, come colto da un malessere, Shylock rimane per un istante muto, insicuro sulle gambe. Viviamo tutto ciò nel profondo silenzio che regna sulla scena; alla fine lo vediamo in piedi, sul balcone, ansante, impetuoso; cerca di parlare, con le dita adunche si graffia le labbra, farfuglia qualcosa, infine esce.
22Ma per quanto la sua arte sia in grado di colpire lo spettatore, essa non riesce a evocare in lui un’emozione semplice, silenziosa e decisiva: «Come acqua sono versato»3 e «Signore, tu hai visto, non tacere; Dio, da me non stare lontano. Destati, svegliati per il mio giudizio, per la mia causa, Signore mio Dio».4
23Segue la scena di Tubal, che confusamente annuncia a Shylock la notizia delle spese folli di Jessica e del naufragio della nave di Antonio. La gioia prevale, e Novelli danza, in piccoli passi tronfi, un bizzarro girotondo orientale, saltellando estatico tutto in cerchio. È l’espressione originaria e trascinante di un trionfo, un intimo complesso dinamico dall’immediata forza di comunicazione. Ma dietro non v’è altro che un trionfo nudo. Eppure, il dolore della perdita e il desiderio di vendetta devono aver spirato ancora, in volo alterno, sull’animo del personaggio; nel percorso che porta alla disfatta, nessuno di questi due sentimenti può aver dominato da solo sul suo cuore.
24Il fatto che Novelli rappresenti tale disperazione in modo puro, il fatto che ci presenti la disfatta di Shylock in modo sincero e dettagliato (una disfatta che non è autenticamente shakespeariana, anche se ne ha l’aspetto), rappresenta la parte migliore del suo successo. Ora l’uomo la cui casa è stata disonorata a causa dell’amore e il cui Dio è stato derubato a causa del diritto, si accascia su di sé e crolla al suolo; egli precipita sulla soglia oscura.
25Meravigliosi dettagli: l’intero, quell’unità irrazionale della personalità che è impossibile ricomporre da mille volte mille elementi, rimane inaccessibile. Attimi magistralmente osservati: ma l’organismo umano nelle sue naturali proprietà non è presente; esso non può essere progettato e composto, ma solo esperito in modo primariamente organico. Il quadro dinamico, spesso di mirabile suggestività, non è in grado di garantirci l’impressione dell’impulso unitario centrale: vediamo ciò che Shylock fa, ma non il fatto che è costretto a farlo; non percepiamo l’imperativo interiore; non esperiamo che l’intimo vincolo di ciò che è visibile, di ciò che si dà nello spazio che ci è proprio, dipende dall’invisibile, da ciò che scorre secondo una inaccessibile sequenza temporale. Riceviamo una pienezza di doni: ma non il dono che solo può scaturire dall’esperienza organica e che ne costituisce il simbolo, e che può essere elargito solo a partire dal più intimo atto creativo.
26Ci sono due generi di grandi attori.
27Quelli che, per il loro talento assoluto nell’assimilare e riprodurre, fondono nella “figura” i moti espressivi osservati e, dopo l’osservazione, riprodotti.
28E quelli che, sulla base della loro capacità di esperire con straordinaria profondità la natura e l’essenza di organismi a sé affini (siano essi reali o fittizi), di entrare per così dire “nella loro pelle”, sanno produrre, a partire soltanto da sé, il moto espressivo che necessariamente pertiene a ognuno di essi.
29Ai secondi appartiene lo spirito che viene acquisito nel corso del tempo, lo spirito le cui ali sono veloci come un istante e il cui nome è “esperienza vissuta” [Erlebnis].
30Novelli appartiene ai primi.
Notes de bas de page
2 È curioso come Buber adoperi qui, e non con accezione pienamente positiva, un termine (Verwirklichung) che avrà una pregnanza decisiva nella sua opera. Può darsi che al momento cui risalgono queste recensioni tea-trali il filosofo non avesse ancora formulato, del tutto o in modo linguisticamente coerente, il grande invito alla realizzazione che fa da padrone nelle opere di pochi anni dopo come Daniel. Dialoghi sulla realizzazione (1913). Potremmo sostenere che nei primi anni del secolo il termine realizzazione fosse presso il filosofo ancora legato alla sfera del realismo (e non a quella della creazione continua come compito etico e religioso). Non è un caso infatti che nel breve articolo sulla Duse si parli piuttosto di trasformazione (Verwandlung), termine che invece sembra indicare ciò che solo più tardi Buber chiamerà realizzazione [NdC].
3 Salmi, 22, 15 [NdR].
4 Salmi, 35, 22-24 [NdR].
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