La Duse a Firenze
Martin Buber, 1905
p. 215-218
Note de l’éditeur
L’originale tedesco apparve in rivista nel 1906 (M. Buber, Die Duse in Florenz, «Die Schaubühne», i, 15, 14 dicembre 1905, pp. 422-424). La presente edizione del testo è una revisione, a cura di Francesco Ferrari, condotta a partire dalla traduzione italiana pubblicata da A. Attisani in Actoris Studium. Album #1. Processo e composizione nella recitazione da Stanislavskij a Grotowski e oltre cit., pp. 95-98.
Texte intégral
Il lettore è sempre consapevole che ogni traduzione in altri termini corre il rischio di essere indicata da Buber come un fraitendimento, e la ricorrente osservazione che egli faceva ai suoi critici era infatti che essi volevano trasformare le sue metafore poetiche in concetti. La straordinaria abilità di Buber e tradurre le sfumature dell’inesprimibile in linguaggio rende d’altronde i suoi scritti pressoché intraducibili, poiché ciò che vi è in fluido e d’indeterminato dovrebbe fare spazio, in tal caso, a una decina per un determinato contenuto significato.
G. Scholem, Martin Buber interprete dell’ebraismo
(cit., pp. 21-22)
1È qui che si deve vederla, nel suo ambiente naturale, a partire dal quale soltanto è possibile comprenderla appieno. Accade con lei come le figure dei grandi capolavori dell’arte italiana: per capire la sua vita motoria, per comprendere in profondità la sua dinamica psicofisica, si deve osservare il popolo da cui proviene. Lei innalza e illumina: come le figure femminili di Giotto, di Ghirlandaio, di Andrea [del Castagno, NdR], la Duse – la veneziana che incarna in sé l’essenza ideale dell’italiana – innalza fino al piano dell’estetica la gestualità che qui si vede diffusa tra la gente, nelle strade, nei mercati e nei cortili. Come vi sono pensatori che incarnano il divenire cosciente del popolo rappresentando in un istante la sua evoluzione, così lei rappresenta la conquista della vera bellezza da parte del popolo, perché accoglie in sé l’istante in cui dal popolo scaturisce una bellezza altrimenti fugace. Concentra in sé tutto ciò che nella vita di ogni giorno è parziale, corrotto e offuscato, per farne opera di rivelazione.
2Non l’avevo mai percepito con tanta forza fino a quando, recentemente, l’ho vista nel ruolo di Monna Vanna al Teatro della Pergola. Si tratta di un teatro composto da una platea e cinque ordini di palchi. Per questa occasione la platea e i tre livelli inferiori sono rimessi ai barbari che vi sono convenuti per mettere in mostra il loro sfarzo senza tradizione. Ma ciò che vi è sopra, il regno dei loggioni,2 appartiene intimamente a Firenze. Certo, anche qui si vede qualcuno e soprattutto qualcuna che vorrebbe imitare i modi europei; tuttavia vi domina una immediatezza di espressione che non dipende dal pensiero ma ha una propria forma derivante dalla vita-esperienza di molte generazioni. Laddove noi stiamo zitti, struggendoci nel nostro silenzio, questi uomini e queste donne si esprimono: e lo fanno con una naturalezza che viene loro dalle schiere degli avi, i quali molto pazientemente continuarono nella vita quotidiana a creare un loro linguaggio verbale e gestuale. Il tratto individuale agisce solo all’interno di questo contesto già dato come sfumatura del discorso, o meglio ancora come particolare ritmo del movimento, ma si tratta sempre di una piccola libertà che gioca intorno al grande potere delle epoche. Questi uomini non conoscono il fondale basso di una presunta unicità che resiste alla lingua terrena, basata su ciò che si ha in comune, però in loro gli elementi recettori dello stimolo sono legati in modo straordinariamente efficace a quelli che innescano e determinano il movimento.
3È questa l’impressione che si trova quando, nel vano stretto e buio della scalinata, in mezzo a una folla di persone che spingono e incalzano, si attende l’apertura dei loggioni; e quando, conquistata una buona posizione in prima fila, ci si prepara a un’attesa ulteriore di un’ora o due, mentre tutt’intorno moltissimi fiorentini ciarlano a voce alta. Infine appare la Duse nelle vesti di Monna Vanna. Il dramma che reca questo titolo è notoriamente costruito su concetti, più che su impulsi, a differenza delle precedenti opere in versi di Maeterlinck, è di scarso respiro, povero di stile e basato su una storia senza vero interesse. Teresina Gessner e Stella Hohenfels non hanno potuto salvarlo; Georgette Leblanc ce lo ha reso definitivamente inviso. La Duse lo purifica, lo trasforma, ne fa un’opera di grande arte.
4Più volte si è parlato della sua pittorica forza espressiva, che si mostra qui come non mai. Nel primo atto, la figura sembra scaturire insieme dal pennello di Lorenzo Lotto e di Carlo Crivelli: ha riccioli biondi da giovinetto e un lungo strascico blu, di straordinaria e arcaica severità, che conferisce ai suoi movimenti un accento rituale. E come si muove, così parla: in perfetta sintonia con la tradizione, con piena naturalezza. Ma ciò che ella riproduce non è semplicemente una figura del Rinascimento, bensì l’essere umano rinascimentale. Dimentichiamo pure lo scialbo Maeterlinck, ciò cui la Duse dà vita è l’uomo del Rinascimento. Si tratta di una creatura su cui si è molto favoleggiato. Qui lo vediamo nella forma dell’italiano assoluto, vale a dire dell’essere umano che naturalmente esprime se stesso nella forma che gli è offerta dalle generazioni che l’hanno preceduto. Ciò che lo differenzia dall’italiano di oggi è la forza delle sue emozioni, l’intensità delle sue azioni, la perfetta coerenza delle sue reazioni. Questa è la Madonna Giovanna che la Duse rappresenta. Ma l’attrice fa ancora di più, conferisce un senso anche a ciò che le sta intorno; interpreta un essere umano il cui ambiente, che gli crede, garantisce una naturale espressione di sé, una espressione non deformata o priva di conflitti: questo le permette di interpretare la più pura e nobile figura femminile del Quattrocento. Così si svolge dinanzi ai nostri occhi il primo atto: la donna a confronto con il popolo. Segue il secondo atto, intimo, dominato dal senso di un leonardesco e vitale segreto. Quindi comincia il terzo. Ora accade qualcosa di orribile: l’ambiente improvvisamente si sottrae, rinuncia, non crede più. Si spalanca l’abisso (Abgrund), tra uomo e uomo si scatena una forza cosmica (Weltenkraft) perché la parola non è mai qualcosa per o in se stessa, ma giunge a realtà compiuta solo attraverso il suo destinatario. Il destinatario di ora si chiude in sé, non crede più, non la riconosce più e la parola cade a terra priva di energia, privata della sua sacralità. Questa è l’autentica situazione rinascimentale, l’ora in cui il combattente si desta. E Eleonora Duse combatte, va oltre ciò che è dato. Si sveste del Crivelli e del Lotto del primo atto, si sveste di Leonardo del secondo. Getta in avanti il corpo, si scioglie i capelli, brandisce il ramo fiorito come fosse una spada. Ogni tradizione svanisce e l’individuo è consapevole che può difendersi e lottare ma non più parlare. La sua parola non è più comunicazione ma lotta: sibila nell’aria un giavellotto, si sentono i colpi delle lame sullo scudo. Così lei conduce la propria guerra giusta e sorprendentemente pura, la guerra del singolo contro una potenza sovrastante, rigida e sorda; così combatte nella sua disperazione, si difende ancora, quasi cieca di sdegno e terrore, ancora, ancora e ancora. Finché le forze le vengono meno, e stremata si arrende. E ora…
5Ora che non può più combattere con la propria parola, ora che su di lei si abbattono i flutti, che intravede improvvisamente l’abisso eterno e sceglie la menzogna, ora si trasforma. Si trasforma improvvisamente, in un colpo, in un solo istante. Non si piega alla menzogna, non tratta con essa ma la sceglie. E nell’istante della scelta si trasforma completamente. La fronte si tende, lo sguardo impietrisce, il viso scolora, gli zigomi affiorano, il mento si fa sporgente e affilato, la bocca assume una piega amara, il volto intero diventa spigoloso e scarno. Le mani smagrite tremano, in gola sussulta un muto singhiozzo, tutto il volto scavato è scosso da un tremito. Le sue labbra sono sigillate, le membra come legate e immobilizzate. È diventata l’essere umano gotico.
6Dove si è mai vista una figura simile? Forse nei quadri di Rogier van der Weyden, ma nemmeno perché la Duse ci dà qualcosa di più. Di fronte ai nostri occhi abbiamo l’essere umano gotico: un essere umano che è solo fin dalla nascita, che si strugge di desiderio per la parola e che di tale desiderio si vergogna. L’uomo il cui destino è il baratro mondano, l’uomo che non sa dirsi all’uomo e che costruisce cattedrali al suo Dio per innalzarsi alla sua altezza. Possiamo comprendere la Duse solo tramite il suo popolo, si è detto, tuttavia non possiamo comprenderla del tutto a partire da esso. Osserviamo la Monna Vanna. Nel primo e nel secondo atto, Eleonora Duse crea il suo personaggio a partire dalla vita e dall’arte italiane. Ma per creare il conflitto del terzo atto, ella attinge più in profondità, alle epoche dei grandi conflitti italiani, delle guerre che non hanno prodotto opere d’arte, ma solo storia. Ma alla fine, ecco la trasformazione (Verwandlung)? Qui l’Italia è finita. Qui tutto il materiale è finito. Qui l’artista, fonte di forze che pure gli sono ignote, sa portare alla vita anche ciò di cui non ha mai fatto esperienza.
Notes de bas de page
2 I termini in corsivo sono in italiano nel testo originale [NdR].
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