Per farla finita
p. 205-209
Note de l’éditeur
Questo titolo, destinato alle conclusioni, rimanda all’ultima opera di Antonin Artaud (Per farla finita col giudizio di dio, 1948), autore alle cui parole consegniamo il significato globale di questa ricerca. Per Artaud, “farla finita col giudizio di dio” significava farla finita con le istanze del potere, con la religione e tutto ciò che impedisce all’uomo l’azione reale nel mondo e quindi la sua trasformazione.
Texte intégral
The dove descending breaks the air
With flame of incandescent terror
Of which the tongues declare
The one discharge from sin and error.
The only hope, or else despair
Lies in the choice of pyre of pyre –
To be redeemed from fire by fire.
Who then devised the torment? Love.
Love is the unfamiliar Name
Behind the hands that wove
The intolerable shirt of flame
Which human power cannot remove.
We only live, only suspire
Consumed by either fire or fire.
[…]
Quick now, here, now, always –
A condition of complete simplicity
(Costing not less than everything)
And all shall be well and
All manner of thing shall be well
When the tongues of flames are in-folded
Into the crowned knot of fire
And the fire and the rose are one.
T. S. Eliot, Quattro quartetti
(cit., pp. 76-81)
1Fuoco: spinta cosmica e appetito d’amore.
2Per Martin Buber, il teatro è una scatola meravigliosa dalle pareti di specchio. Gli uomini che vivono all’interno, l’attore e lo spettatore, contemplano la propria immagine di esseri umani, quella primigenia ed essenziale che solo il teatro può restituire, per riconoscersi poi uniti nella differenza. Per il filosofo il teatro è anche la fucina di Dio, il luogo dove si forgiano gli uomini. La fiamma, con la sua capacità di trattenere la vita entro un perimetro definito, entro una forma triangolare che punta dritta al cielo, tiene dentro sé un numero infinito di tensioni sotterranee senza unificarle in un’immagine fissa data una volta per tutte.
3Il teatro è un fuoco inestinguibile, un fuoco che non consuma.
4Mai uguale a se stessa eppure sempre così familiare, la fiamma è il teatro stesso: tutto avvolge e scalda, ma non la si può toccare. Per Buber, il sentimento proprio dell’arte è il sentimento della fiamma: «un sentimento polare. Ci trasporta nel mezzo di un mondo in cui non possiamo entrare».2 Il mondo cui conduce la fiamma è segnato dalla possibilità di un pericolo mortale. Avere timore della fiamma, di restarne bruciati, è un atteggiamento che non trova posto in teatro ma appartiene al mondo quotidiano legato a ciò che Buber chiama “orientamento” e successivamente Io-Esso. Sentirsi al sicuro dalla potenza del fuoco significa proteggersi dentro «pensieri finemente precisi»3 e mettersi al riparo dall’incontro con l’uomo, luogo dove, secondo Buber, è possibile avvertire il soffio dell’Eterno.
5Il nostro coraggio di svelarci, di riconoscerci deve, come prescrive l’etica chassidica, superare la dicotomia bene-male proprio attraverso la forza del fuoco. Occorre ardere di più e dunque «amare di più» per sollevare e redimere il mondo. Il male non esiste se non come gradino infimo della scala del bene. Il teatro è allora il ring dove gli stereotipi e i cliché – Grotowski parlava di «maschera quotidiana» – sono messi al tappeto dal pugile-attore. Il regista polacco scriveva che «non è il teatro che è indispensabile ma: attraversare le frontiere tra te e me; farsi avanti a incontrarti così da non perderci nella folla».4 Non è il teatro, con le sue forme esteticamente piacevoli e seducenti, a essere importante, ma lo è il luogo dove esso conduce, oltre le forme, verso l’uomo. Nella fiamma, scriveva Gaston Bachelard, l’uomo si contempla e nel suo contemplarsi si riscrive, si rinnova alla luce di un riconoscimento.5
6In questo teatro alchemico, una vera e propria ampolla dalle pareti di vetro, la materia vile sottoposta al regime del fuoco ha sempre due aspetti: da una parte l’uomo e dall’altra la tradizione. Uno affianco all’altro nel riconoscimento di una appartenenza vitale: non vi è remora alcuna a bruciare tutti i libri del mondo se si pensa che non esista uomo capace di “incendiarli” per bene. Può anche darsi che nella piccola ampolla di Jerzy Grotowski la miccia adibita a innescare la meravigliosa trasformazione che è stata il suo teatro, non sia stata nient’altro che l’amore di una madre. Una madre come Emilia Grotowski che ebbe l’ardire di salvare i libri in un momento in cui troppo semplicemente ci fu chi pensava che bastasse bruciarli nella pubblica piazza affinché smettessero di ardere. Emilia esprime così tutto il coraggio della madre che salva i libri e preserva la possibilità che i figli li incendino con le proprie vicende esistenziali. Tuttavia, come sostenne Grotowski a Danzica, la madre va anche cercata e saputa riconoscere, come nella cabbalà si cercano le scintille divine sparse sulla Terra, nel mondo quotidiano e soprattutto tra i tanti fuochi fatui che ci impediscono di vedere.6 Stretti nell’abbraccio della fiamma, si arde insieme e furiosamente: libri e uomini non possono incendiarsi l’uno senza l’altro affinché ci sia un cambiamento nel mondo e forse una luce che selvaggiamente lo possa rischiarare. Il caso di Buber da una parte, e quello di Grotowski dall’altra, testimoniano che accendendo in sé questa fiamma è possibile accendere altre fiamme. Se l’idea di un fuoco eterno e inestinguibile può apparire utopica e poco praticabile, è pur vero che ciò che questo luminosissimo fuoco mostra non è certo una meta, ma una strada che si può (e forse si deve) percorrere. Non ci sono ideologie o dogmi nel fuoco, ma soltanto un lavoro da fare. Questa è la grande eredità di pensatori come Buber e Grotowski: niente formule o terre promesse, dietro la vita di questi uomini solo l’esempio di una ricerca autentica e necessaria affinché l’uomo possa riconquistare la dose di libertà cui è destinato e soprattutto una faticosa ma impagabile consapevolezza esistenziale. Accettare e riconoscere, vivere e non sopravvivere: un atto di coraggio, come quello di una madre polacca in tempo di guerra, di fronte ai piccoli insospettabili olocausti che rendono la vita invivibile.
7Il fuoco è anche cenere e distruzione. Buber, di fronte allo sterminio nazista, scrive al Mahatma Gandhi chiedendo: «Lei non sa nulla, Mahatma, dell’incendio di sinagoghe e di rotoli della Torah? Non sa che sono andati in fiamme i beni sacri, molti antichissimi, della comunità? […] Di certo Lei non sa, Mahatma, che cosa sia un campo di concentramento».7 Carta e ossa, un olocausto inutile. Lo sapeva bene René Daumal che scrisse che «i libri bruciano molto male, molto lentamente, facendo più cenere che fiamma. Bisogna sfogliarli, per l’ultima volta, con la punta dell’attizzatoio, pagina per pagina, nel cuore del fuoco; altrimenti si carbonizzano in superficie, si spengono e soffocano le fiamme».8
8Insomma l’uomo, a differenza dei libri, sa come bruciare. E i libri, e con essi la tradizione, bisognerebbe saperli incendiare per bene, forse incontrandoli per poi poterli finalmente tradire, e liberare. L’uomo, per come lo intende Buber, attraverso il fuoco si trasforma poiché «il ferro che lo compone, e che si nasconde anche nella più misera delle anime, si trasforma in acciaio sulla fiamma. […] E in lui l’elemento vitale riposa accanto alla morte, solo che la forza solare dello sguardo racchiuso nella vita riduce l’elemento morto in polvere».9
9Non brucia per consumarsi ma per forgiarsi, attraverso un gioco fatale, per trasformarsi. Se «mentre si bruciano i libri, non si può certo parlare», mentre si gioca tra le fiamme si deve, come il suppliziato al rogo secondo Artaud, «fare segni».10 L’artista, il prototipo dell’uomo, non deve «attardarsi artisticamente sulle forme» bensì ardere come una fiamma: iscriversi addosso la vita. Questo atto di estremo coraggio – «ogni creare è audacia»11 – è l’unico dovere e sacrosanto diritto dell’uomo.
Notes de bas de page
2 M. Buber, Il problema dello spazio scenico, infra, p. 229.
3 J. Grotowski, Holiday: il giorno che è santo, in Id., Holiday e Teatro delle fonti cit., p. 59.
4 Ibid.
5 «Il fuoco è per l’uomo che lo contempla un esempio di divenire rapido e un esempio di divenire circostanziato. Meno monotono e meno astratto dell’acqua che scorre, più pronto a crescere e mutare dell’uccello nel proprio nido, sorvegliato ogni giorno, il fuoco suggerisce il desiderio di cambiare, di affrettare il tempo, di portare tutta la vita al proprio compimento, al proprio superamento. Allora l’immaginazione è veramente parsuasiva e drammatica; amplia il destino umano; unisce il piccolo al grande, il focolare al vulcano, la vita di un ceppo e la vita di un mondo. L’essere affascinato sente il richiamo dei ceppi. Per lui la distruzione è più di un cambiamento, è un rinnovamento» (G. Bachelard, L’intuizione dell’istante – La psicoanalisi del fuoco, Dedalo, Bari 1993, p. 140).
6 «La Shekinà è la Madre di Dio. È parte integrante di Dio, è il suo pezzo staccato. Una vecchia donna che cammina per strade di campagna, a cui spesso sputiamo in faccia. Lei è tutta la nostra sofferenza sulla Terra, e noi non la vediamo. Eppure lei aspetta il nostro aiuto. […] È la Madre afflitta dalle disgrazie. […] Se cammini nel bosco, di notte, puoi sentire che ci sono luoghi affollati, particolarmente e intensamente vivi: la Madre è là, ma si trova estremamente sperduta» (Il testo di Grotowski è tratto da Grotowski powtórzony. Słowa, słowa, słowa [Grotowski ripetuto. Parole, parole, parole], «Maski», 1986, i, p. 378, citato in traduzione italiana in L. Kolankiewicz, Grotowski alla ricerca dell’essenza cit., p. 218.
7 M. Buber, Lettera a Gandhi (1939) cit., p. 152.
8 R. Daumal, La grande bevuta, Adelphi, Milano 1970, p. 168.
9 M. Buber, Della Realtà. Dialogo da sopra la città cit., p. 47. Si noti come questa descrizione dell’artista somigli alla definizione che Buber offre di preghiera: «Come il fumo si leva da ceppi accesi, ma le parti pesanti restano al suolo e diventano cenere, così dalla preghiera si leva solo la volontà e l’ardore, ma le parole esteriori si disfano in cenere» (M. Buber, Le storie di Rabbi Nachman cit., p. 49).
10 «Et s’il est encore quelque chose d’infernal et de véritablement maudit dans ce temps, c’est de s’attarder artistiquement sur des formes, au lieu d’être comme des suppliciés que l’on brûle et qui font des signes sur leurs bûchers» (A. Artaud, Le théâtre et son double (1938), in Id., Œuvres complètes, vii, Gallimard, Paris 1978, p. 14). Preferiamo tradurre questa citazione in modo letterale così da recuperarne un senso nuovo: «E se c’è ancora qualche cosa di infernale e autenticamente maledetto nella nostra epoca, é l’attardarsi artisticamente sulle forme, al posto di essere come suppliziati che vengono bruciati e che fanno segni sui loro roghi». La traduzione corrente (contenuta in A. Artaud, Il teatro e il suo doppio cit., p. 133) invece recita: «La cosa veramente diabolica e autenticamente maledetta della nostra epoca é l’attardarsi sulle forme artistiche, invece di sentirsi come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme». La nostra traduzione evidenzia come il suppliziato produca forme da dentro il rogo, non in modo artistico bensì attraverso la forza del fuoco.
11 M. Buber, Della realtà. Dialogo da sopra la città cit., p. 47.
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