V. Ladri di fuoco. Buber e Grotowski
p. 166-204
Texte intégral
Non bisogna cercare di evitare le contraddizioni, al contrario: proprio nelle contraddizioni è contenuta l’essenza delle cose.
J. Grotowski, Teatro e rituale
(in Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969. Testi e materiali di Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen con uno scritto di Eugenio Barba, Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera 2001, p. 147)
Ognuno di noi è in certa misura un mistero. In teatro può accadere qualcosa di creativo – tra regista e attore – proprio allorché ha luogo il contatto fra due misteri. Conoscendo il mistero dell’altro si conosce il proprio. E al contrario: conoscendo il proprio, si conosce quello dell’altro. […] Semplicemente la vita ci ha fatto tali che possiamo incontrarci, tu e io. Possiamo incontrarci per la vita e per la morte, possiamo compiere un atto comune. Creare come se fosse l’ultima volta, come se subito dopo si dovesse morire.
J. Grotowski, Sulla genesi
di Apocalypsis (1984)
(ivi, p. 205)
Raramente Grotowski parlava esplicitamente del nostro lavoro come di una tradizione. A volte durante conversazioni personali, ma molto raramente nel lavoro. Nel lavoro, era in momenti in cui la forza della parola agisce come un catalizzatore o come una scintilla gettata su un materiale combustibile. Se il fuoco non si accende, la scintilla è perduta e devi trovare un altro ponte che colmi la distanza tra i due mondi, i due universi che sono le due persone, là presenti sulla base di un accordo comune, non detto, nutrito dal desiderio di superare i propri limiti.
Mario Biagini, Desiderio senza oggetto
(in Aa. Vv., Opere e sentieri i – Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, a cura di A. Attisani e M. Biagini, Bulzoni, Roma 2007, p. 407)
1È l’undici agosto del 1933 quando a Rzeszów, città della Polonia meridionale, nasce Jerzy Grotowski. Da pochi mesi Adolf Hitler ha prestato giuramento come cancelliere con l’appoggio dei conservatori e, dopo le elezioni svoltesi successivamente, il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi diventa il partito di maggioranza. Nella primavera del 1933 la politica antisemita di Hitler inizia a farsi più violenta soprattutto verso gli oppositori comunisti e verso gli ebrei, in marzo viene costruito il primo campo di concentramento a Dachau e gli ebrei, a causa delle prime leggi discriminatorie, cominciano a essere estromessi dalle attività commerciali e pubbliche. Negli istituti scolastici e nelle università viene drasticamante ridotto il numero di insegnanti non ariani, dunque gran parte dei docenti ebrei viene temporaneamente sospesa e Buber, seppure non tra questi, rinuncia a tenere le lezioni per il semestre estivo. Il 10 maggio segna l’ora dei Bücherverbrennungen: si accende il rogo della censura e nella pubblica piazza di Berlino i nazisti danno fuoco ai libri non conformi all’ideologia hitleriana, sono date così alle fiamme opere marxiste, scientifiche e soprattutto ebraiche. Pochi anni dopo da casa Buber verranno fatti sparire tremila volumi: gli altri, circa diciassettemila, saranno già stati portati in Palestina dove il filosofo si trasferirà di lì a qualche anno con moglie e nipotine. La sua risposta alla catastrofe politica che incalza è molto decisa: avendo lottato fin dagli esordi sionisti a sostegno della rinascita spirituale dell’ebraismo, il filosofo sente ora più che mai il dovere di ricondurre gli ebrei tedeschi, spaventati e sconvolti, verso il recupero del proprio ebraismo inteso come unica certezza in quell’ora estrema. Buber è deciso a restare in Germania e di fronte alla catastrofe imminente si prodiga affinché venga preservata l’identità ebraico-tedesca formulando un programma assai pragmatico: la creazione di un Ufficio per la cultura e di istituti e scuole, dalla materna all’università, dove avrebbero potuto formarsi e lavorare i docenti ebrei esplulsi dai tedeschi. In questo momento il filosofo si impegna senza riserve partecipando alle iniziative delle associazioni ebraiche e collaborando attivamente con la Federazione culturale degli ebrei tedeschi, l’organo che, a partire dalla sua creazione nel 1933, agisce a nome di tutti gli ebrei di Germania e riunisce i loro diversi orientamenti ideologici.
2Nel 1934 Gershom Scholem avvisa Buber che gli si sta preparando una cattedra all’Università di Gerusalemme e il filosofo è molto combattuto sul da farsi poiché sente di essere piuttosto più utile in Germania. L’atteggiamento titubante di Buber non viene del tutto compreso da amici e colleghi che restano colpiti dalla sua decisione di restare in Germania anche dopo che il filosofo aveva lavorato alla costituzione dell’Università Ebraica in Palestina e li aveva incoraggiati a trasferirvisi. Lo stesso Scholem si era quindi prodigato affinché a Buber spettasse la cattedra disapprovando i progetti del filosofo in Germania e sostenendo che era più importante formare nuovi docenti direttamente a Gerusalemme ed educare là le nuove generazioni. La decisione sul da farsi assume per Buber la gravità di un dilemma, in cuor suo vorrebbe restare in Germania, la sua benedetta patria del Galut, e non vorrebbe immergersi in una nuova realtà dove vige, tra tutto, anche una lingua che il filosofo non pratica in ambito accademico, l’ebraico. Non che non conoscesse la lingua, ma è plausibile pensare che essa potesse spaventare un retore amante della parola parlata come Buber poiché l’ebraico rimaneva pur sempre la lingua della tradizione, appresa sui libri e mai praticata nel vivo dell’esperienza umana. Potremmo sentenziare, forse a livello di provocazione, che il nostro filosofo, anche in quest’ora fatale e anche di fronte alla forte rassicurazione giunta dalla Palestina, rimane essenzialmente un intellettuale di cuore tedesco-ebraico prima che ebraico-tedesco.
3La possibilità del trasferimento in Palestina sfuma qualche mese dopo quando Buber riceve una lettera dal Consiglio superiore dell’Università che lo avvisa che la sua nomina non è stata confermata in quanto la sua formazione scientifica non è stata valutata sufficiente. Buber è in un certo senso sollevato dalla pressione per la scelta e può dunque restare dov’è e continuare a lavorare al suo progetto. Il filosofo è quindi ancora in Germania quando le ss cominciano a sopprimere fisicamente i nemici, reali e presunti, e il Führer si avvia a sciogliere organi di rappresentanza, amministrazioni e magistrature mantenendo un controllo capillare sul territorio tedesco. Buber vede così ridimensionarsi i progetti per la creazione di un Ufficio per la formazione e di una scuola a Mannheim e, quando nel 1935 gli è vietato qualsiasi discorso pubblico presso le associazioni ebraiche all’interno del confine tedesco, va e viene ormai dalla Palestina. Il 15 settembre vengono approvate le leggi di Norimberga e viene vietato così agli ebrei di contrarre matrimonio con i tedeschi e la popolazione ebraica perde il diritto alla cittadinanza del Reich. In questo momento l’impegno culturale di Buber si fa consistente sfociando in una serie di pubblicazioni riguardanti la cultura ebraica, le Scritture e il chassidismo. 1 Nel 1936 la nomina del filosofo all’Università ebraica di Gerusalemme è ufficiale grazie all’intervento di Hugo Bergmann, da qualche mese rettore dell’Università. Alla fine dell’anno Buber è in Galizia per sbrigare alcune questioni burocratiche legate all’eredità paterna e successivamente decide infine di trasferirsi in Palestina. Riesce a ottenere il permesso di migrazione solo dopo estenuanti trattative ed è costretto a lasciare il suo appartamento di Heppenheim arredato, pena il pagamento di una tassa sulla fuga dal Reich. Nel frattempo è stato costituito presso il comando delle ss un “servizio per le questioni ebraiche” che a partire dal marzo 1937 viene affidato al giovane sottufficiale Adolf Eichmann.
4Di fronte all’evidenza che gli ebrei vivono tra due fuochi, da una parte l’orrore di una Germania ormai senza pietà e dall’altra l’aggravarsi del conflitto arabo-palestinese,2 Buber è deciso a lavorare su entrambi i fronti e programma di tornare per brevi periodi in patria. Gli eventi del 1938 sanciscono la fine di ogni proposito e, durante la Notte dei cristalli le squadre hitleriane cercano di eliminare ogni traccia ebraica in Germania e nell’Austria ormai annessa; vengono incendiate oltre duecento sinagoghe, profanati cimiteri, distrutti negozi e attività commerciali ebraiche, arrestati migliaia di ebrei.
5Nel 1939 il filosofo si confronta sulla questione ebraica con Gandhi il quale, qualche mese prima, aveva pubblicato un articolo in cui si dichiarava contrario alle politiche sioniste in Palestina giudicandole sbagliate e inumane e consigliando agli ebrei di rinunciare alla violenza e di applicare il metodo della resistenza passiva. Buber, ideologicamente contrario a qualsiasi tipo di violenza, sa però che la questione indiana e quella ebraica sono molto diverse e sa che proprio in quegli stessi mesi sono iniziate le deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento e che quindi ormai nessuna forma di lotta, che sia esclusivamente politica o sociale, può rivelarsi utile:
Lei non sa nulla, Mahatma, dell’incendio di sinagoghe e di rotoli della Torah? Non sa che sono andati in fiamme i beni sacri, molti antichissimi, della comunità? Non ho mai sentito che i boeri o gli inglesi abbiano offeso un luogo sacro indiano […] di certo Lei non sa, Mahatma, che cosa sia un campo di concentramento, come funzioni, quali siano le torture di un campo di concentramento, i suoi metodi di morte lenta o rapida.3
Il filosofo non abbandona la causa sionista ma si fa promotore di un’ala “pacifista”, di nuovo quindi collocandosi in una minoranza, un ristretto gruppo che considera la questione araba come una vera e propria minaccia contro il cuore morale e spirituale del sionismo. Buber sembra mostrare comprensione anche per gli arabi e per le loro richieste, ma la situazione diventa sempre più complessa per via del radicalismo dei giovani ebrei che il filosofo mette in guardia dai rischi della violenza e della Realpolitik, non temendo di diventare sgradito all’opinione pubblica: «Dimenticano che abbiamo cominciato quest’opera, in questa terra, per diventare di nuovo uomini, uomini interi».4
6In quello stesso anno, Emilia Kozłowski Grotowski e i suoi due figli Kazimierz e Jerzy passano le vacanze vicino Rabka, nel sud della Polonia. All’arrivo del padre Marian, la famiglia Grotowski decide di tornare a casa a Przemys´l, località orientale nei cui pressi pochi anni dopo, nel 1942, sarebbe sorto un campo di concentramento nazista: «A casa nostra avevamo un rifugio antiaereo con il soffitto in cemento armato spesso un metro. In bagno avevamo messo su un rifugio antigas. Finestre e porte erano state tappate e avevamo accumulato delle scorte di cibo».5 Il padre Marion Grotowski, che aveva combattuto nel primo conflitto mondiale e nella guerra bolscevica, viene costretto a consegnare le armi e subito dopo, il primo settembre 1939, allo scoppio della guerra,6 fa evacuare il proprio ufficio militare mentre moglie e figli salgono sul treno delle famiglie dei militari diretto verso Est. Il treno viene bombardato dagli aerei tedeschi ed Emilia, insieme a Kazimierz e Jerzy, è costretta a scappare nei boschi per poi trovare rifugio in una casa della Guardia forestale. Il giorno dopo Marian va a cercare moglie e figli e questa è l’ultima volta che la famiglia si ritrova unita. Il padre viene trasferito con tutto l’ufficio in Ungheria e poi in Inghilterra dove sembra lavori per il Ministero degli affari militari polacco.
7L’infanzia di Jerzy Grotowski passa dunque attraverso molte tempeste e attraverso la continua minaccia della guerra. Nelle memorie del fratello Kazimierz si legge come la madre, un’insegnante, nonostante il tentativo di livellamento ideologico e culturale perseguito dai due regimi, le ristrettezze e i continui spostamenti, facesse di tutto per portare ai figli una gran quantità di libri, dai classici polacchi Mickiewicz e Słowacki alle opere di Conan Doyle e Defoe, dall’India segreta di Brunton a La vita delle api di Maeterlinck. L’insistenza e la grande dedizione con cui Emilia cerca di far istruire i figli in un momento in cui esisteva soltanto la scuola di base e c’erano molti veti, hanno fatto sì che i due potessero conoscere la prospettiva di un mondo libero e potessero dare così una svolta alle loro vite in un senso o nell’altro.
8Jerzy Grotowski entra in una scuola d’arte drammatica, quasi per caso,7 nel 1951. In seguito raggiunge Mosca dove comincia a studiare le poetiche tea-trali di Stanislavskij e di Vachtangov. Pochi anni dopo, nel 1959, insieme a Ludwik Flaszen assume la direzione del Teatro delle 13 file a Opole, un piccolo teatro capace di ospitare fino a centosedici spettatori, tredici file di sedie. Qualche mese dopo, l’8 ottobre, è in scena l’Orfeo di Cocteau.
9Nella Polonia del dopoguerra si contendono il potere due «potenti chiese, quella comunista e quella cattolica»8 e Grotowski è deciso a rompere ogni tipo di alleanza con le forme di potere. Grotowski non è ebreo, sebbene provenga come Buber dalla culla galiziana del chassidismo, e non è nemmeno a suo agio in nessuna delle due chiese del suo Paese. Come Buber, Grotowski passa la vita al servizio di un’idea che corrisponde a una terza via tra le due citate. Il suo è un atteggiamento molto simile a quello del nostro filosofo poiché entrambi si sono fatti promotori di una alternativa creando un progetto inedito di rifondazione dell’uomo. L’impegno di Grotowski, sebbene la sua attività sia stata spesso accostata a una nuova religione o setta, appare invece legato chassidicamente alla trasformazione del singolo individuo nel qui e ora. Questa “terza via”, cui pensiamo di poter collocare sia Buber sia Grotowski (ma anche Appia, Artaud, Gurdjieff, Daumal e altri protagonisti del secolo), è una via in un certo senso fallimentare a priori poiché non può sfociare per sua natura nella creazione di una forma di governo o di un qualsivoglia sistema spirituale o religioso. Questa alternativa tra teismo e materialismo testimonia la presenza di una manciata di intellettuali e artisti che, nel secolo scorso, hanno impiegato ogni risorsa a loro disposizione predicando la necessità dell’uomo di lavorare su di sé «sia pure nell’ambito di un confronto collettivo». Il teatro che così andavano prefigurando era un luogo in cui fosse possibile operare uno svelamento di sé ed era l’unico luogo davvero praticabile perché permetteva un pensiero in azione, un esserci concreto dell’uomo intero. Nonostante questa terza via non abbia mai preso la scena nei grandi giochi del potere, la sua funzione resta fondamentale laddove abbia boicottato e fatto franare le istanze maggioritarie. Sostanzialmente la sua funzione è stata mettere in continuo dubbio i fatti del mondo, persino quelli più assodati, in linea, come ricorda Attisani, con altri pensatori dell’epoca:
Ciò detto è innegabile che la neo-tradizione grotowskiana si manifesti in un solco nel quale stanno anche la teosofia di Madame Blavatsky e l’antroposofia di Rudolf Steiner, le «danze sacre» di Gurdjieff, il Tertium Organon di Ouspensky, la «nouvelle gnose» e la «structure absolue» di Abellio, tutti esperimenti intrecciati con le esperienze dell’autore [Grotowski] in India, Medio Oriente, Messico, Haiti, ecc…
Buber e Grotowski non soltanto sono portatori di due tradizioni affini ma hanno mostrato, alla stessa stregua dei grandi poeti del Novecento, come sia possibile lavorare in modo tradizionale essendo assolutamente anti-tradizionalisti. Per entrambi, la tradizione, conformemente alla lezione di T. S. Eliot, non è qualcosa che si eredita passivamente ma è qualcosa per cui si lavora una vita e che si ricerca con fatica. Nella sua lotta per la rinascita ebraica, Buber sapeva bene come il termine “tradizione” fosse sinonimo di cultura e non di civiltà. Riflettere su questa nozione è importante per non rischiare di fraintendere gli sforzi dei due intellettuali. Per liberare il campo da eventuali equivoci è utile richiamare proprio Eliot e in particolare un testo fondamentale del Novecento in cui l’autore ha emblematicamente espresso tale concetto:
E tuttavia, se la sola forma di tradizione, di trasmissione poetica, consistesse nel seguire le stesse strade della generazione immediatamente precedente, con una cieca o timida adesione ai risultati ottenuti, la «tradizione» andrebbe senz’altro scoraggiata. La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare: chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. […] Il senso storico costringe a scrivere con la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma anche con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti, […] ha una sua esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo. Il possesso del senso storico, che è senso dell’atemporale come del temporale, e dell’atemporale e del temporale insieme: ecco quello che rende tradizionale uno scrittore. […] L’ordine esistente è in sé concluso prima che arrivi l’opera nuova; ma dopo che l’opera nuova è comparsa, se l’ordine deve continuare a sussistere, tutto deve essere modificato, magari di pochissimo. Contemporaneamente tutti i rapporti, le proporzioni, i valori di ogni opera d’arte trovano un nuovo equilibrio: e questa è la coerenza tra l’antico e il nuovo.9
In entrambi i casi, il fraintendimento è avvenuto. Grotowski è stato accusato di aver inteso il teatro come un ricettacolo delle più disparate stramberie artistiche ed è stato spesso ritratto come un santone. Quando negli anni Ottanta il suo addio agli spettacoli è stato vissuto come un’eccentricità non si è tenuto conto di questo specifico carattere della tradizione. Non si è capito che tradizione significa mutamento, non stasi e fossilizzazione. Quando Buber, considerato in Israele come rebbe degno di rispetto, si è espresso contro la pena di morte di Adolf Eichmann,10 non si è tenuto conto del significato profondo della sua lotta per la tradizione, lotta non per una conservazione e un rafforzamento dell’ebraismo bensì per una formulazione ex novo, operata secondo questa precisa concezione della tradizione. A chi accusò Buber di aver distorto l’insegnamento chassidico piegandolo alle proprie esigenze si può replicare citando la risposta di Jerzy Grotowski alla domanda riguardante la possibilità che il suo insegnamento venisse tradito dopo la sua morte. Il regista polacco fece intendere che non avrebbe avuto nessun problema se il suo insegnamento fosse stato portato avanti e magari distorto, a patto che a farlo fosse stato non un proselito bensì «un usurpatore perfetto»:
Ma esiste un usurpatore perfetto? La danzatrice indiana che ha costruito il Bharata Natyam a partire dalle sculture fu una grande usurpatrice, al punto da creare un mito; è una tradizione praticata in modo ininterrotto da millenni. È anche ciò che è accaduto a Antonin Artaud: è tutto sbagliato, i balinesi non fanno affatto ciò che dice, ma la sua descrizione è stata molto feconda e ha influenzato gli spiriti creativi in Occidente. E allora?11
Non stupisce che, esattamente come Buber, Grotowski amasse l’oralità, e infatti la maggior parte dei suoi testi sono trascrizioni di conferenze e dialoghi. Proprio nell’intervista citata e a proposito della possibilità della trasmissione tradizionale troviamo una delle tracce buberiane nella poetica del regista:
Nel corso della mia vita ho sempre cercato la frequentazione di persone che erano in relazione continua con questa o quella tecnica e tradizione, ho ricevuto una trasmissione diretta. […] Non mi ponevo la domanda: «è tea-trale o no?», ma: «Che cosa conoscono nella pratica queste persone delle possibilità dell’essere umano?». Dopo l’India il luogo più importante è stato forse Haiti […]. Ma devo ammettere che i Vangeli e gli approcci ebraici hanno giocato un gran ruolo nella mia vita. Quando lavoro con qualcuno di un’altra cultura prendo sempre come punto di partenza le sue tradizioni. Là ognuno ritrova delle cose se non familiari almeno inconsciamente vive. Per esempio con un regista persiano ho lavorato su testi del sufismo sciita […], con attori israeliani ho spesso cominciato con le parole dei primi chassidim e i libri di Martin Buber.12
Risvegliare una tradizione non significa recuperarla con lo scopo di sezionarla e consegnarla al museo della storia, bensì eliotianamente, assumerla su di sé grazie al senso storico e trasformarla tramite l’introduzione del proprio personale contributo: «In Oriente la tradizione non si è interrotta. Non si sputa sul proprio predecessore per imporsi. C’è anche quello che dicono i tibetani: bisogna superare il proprio maestro di un quinto, del venti per cento, altrimenti la tradizione si deteriora».13
10Si tratta di alimentare un fuoco affinché non si spenga nelle false lusinghe della conquista di un senso universale. Come sosteneva Appia, non si può conservare la propria fiaccola in un santuario ma bisogna agitarla in alto e al vento per portarla agli altri affinché la nostra scoperta non sia stata vana e fine a se stessa.
11Un punto in comune tra Buber e Grotowski risiede sicuramente nella loro ipotesi politica che, paradossalmente, non si identifica nel sionismo per Buber (nel movimento Buber promuove una sua precisa direzione che, non accolta, lo porta poi a limitare l’impegno diretto nella causa) e nel comunismo per Grotowski. La loro politica è un destreggiarsi tra le carte sul tavolo del potere, un venire a patti con le contingenze per amore di un progetto politico più grande. Entrambi gli intellettuali infatti tracciano un percorso molto simile, partendo da un’adesione entusiasta alla causa sionista in un caso e a quella dell’Ottobre polacco del 195614 nell’altro, entrambi deviano il loro impegno verso la radice del problema politico, che non sta nei partiti e nelle lotte ma nell’intimo dell’uomo, l’unico luogo dove si può lottare affinché il mondo cambi. Posto che le situazioni politiche che i due intellettuali si trovano a fronteggiare sono diverse per epoca e contingenze storiche, si ritiene comunque importante mettere in evidenza lo spirito affine, che proviene dall’interpretazione chassidica, con cui i due affrontano la propria attualità politica. Entrambi vivono sotto regimi totalitari, entrambi in gioventù aderiscono con ardore a un movimento politico e ne offrono una propria personalissima e sofisticata versione (il sionismo culturale per Buber e il socialismo puro per il Grotowski dei primi anni Cinquanta) per poi abbandonare l’impegno diretto e assumere una posizione meno esplicita ma più “efficace”. In un secolo che può essere definito un universo di “chiese” (il sionismo e il comunismo, il nazismo e lo stalinismo, la religione cattolica…), i due si espressero in favore non di una chiesa bensì di una “religiosità”, un appello universale e valido anche per il laico, una strada faticosa prima che una meta, da percorrere fuori dalla rassicurazione dei dogmi e verso la riconquista di sé e della propria libertà.
12Come suggerisce Lisa Wolford,15 Grotowski, sin dagli inizi, si impegnò politicamente scrivendo una serie di opuscoli anti-stalinisti. Sono infatti di recente pubblicazione in Italia anche alcuni discorsi politici che testimoniano l’attivismo di Grotowski a capo dell’Unione Rivoluzionaria della Gioventù e la completa adesione a un socialismo “vero” e radicale.16 Come Buber, anche il regista polacco termina il suo viaggio esistenziale lontano dalla patria; nel suo caso questo avvenne dopo essere stato costretto a lasciare la Polonia in seguito alla legge marziale del 1981. I due intellettuali si muovono tra due fuochi: da una parte il nazismo e il sionismo (con le conseguenze del conflitto palestinese) per Buber, dall’altra il comunismo e la Chiesa per Grotowski. Il modo di vivere la politica del maestro polacco, basato sul potere dell’azione piuttosto che su quello di discorsi e propagande, gli permise di mantenere un atteggiamento apparentemente ambiguo nei confronti del potere e quindi, grazie anche alla fama consolidata nel tempo, di essere “tollerato”. Il valore assoluto dell’azione trae alimento dalla lettura che Grotowski fa della tradizione restituendone un senso nuovo:
Si è di fronte a un sistema sociale estremamente rigido; dobbiamo farci i conti. Occorre ritrovare la propria libertà. Ritrovare i propri alleati. Può darsi che siano nel passato. Dunque, ho parlato con Mickiewicz. Ma ho parlato con lui dei problemi di oggi. E anche del sistema sociale nel quale ho vissuto, in Polonia, per quasi tutta la mia vita. Ecco qual era la mia attitudine: io lavoro, non per fare discorsi, ma per allargare l’isola di libertà che porto; il mio obbligo non è fare dichiarazioni politiche, ma aprire buchi nel muro. Le cose che erano vietate prima di me dovranno essere permesse dopo di me; le porte che erano chiuse a doppia mandata dovranno essere aperte. Devo risolvere il problema della libertà e della tirannia per mezzo di misure pratiche; questo significa che la mia attività deve lasciare delle tracce, degli esempi di libertà.17
La Polonia è al centro del mondo quando, il 13 dicembre del 1981, il generale Jaruzelski, l’allora capo del partito comunista polacco e Primo ministro, dichiara la legge marziale [stan wojenny]: vengono sospese le garanzie costituzionali, il Paese viene isolato dalla comunità internazionale e hanno luogo arresti di massa dei capi sindacali e degli intellettuali dissidenti. Se già a partire dagli anni Settanta si erano registrati infatti agitazioni e scioperi a causa dell’aumento dei prezzi sui generi alimentari primari, è proprio all’inizio degli anni Ottanta che la protesta trova una fisionomia più precisa e fatalmente incendiaria in Solidarnos´c´, organizzazione sindacale nata nei cantieri navali di Danzica nel 1980 ed estesasi in breve a tutto il Paese. Il sindacato polacco diventa una forza politica inarrestabile cui appartiene quasi la metà della popolazione polacca e vanta inoltre l’appoggio economico e spirituale del Vaticano poiché soltanto pochi anni prima, nel 1978, è stato eletto al soglio pontificio Giovanni Paolo II, il quale ha perorato la causa di Solidarnos´c´ sin dalla sua creazione. L’organizzazione, dopo la proclamazione dello stato di guerra, è costretta a entrare in clandestinità, tuttavia continua il lavoro dall’interno dello Stato polacco tanto che nel luglio del 1983 la legge marziale sarà tolta.18
13È proprio pochi anni prima, tra il 1977 e il 1978, che Grotowski riscopre il chassidismo; il valore di questa scoperta emerge in tutta la sua emblematicità se pensiamo che il regista si trova ad Haiti,19 terra che sta vivendo vicissitudini politiche simili a quelle polacche. Il 20 marzo 1981 Grotowski è di nuovo in Polonia, a Danzica, sede di Solidarnos´c´. Qui incontra Maria Janion, la celebre studiosa del romanticismo polacco, parla del chassidismo e legge alcuni passi di Gog e Magog di Buber, libro dal quale non si separa mai:
«Succede così nelle svolte storiche. In quei momenti è importante che l’uomo sia in grado di essere completamente solo, sia in grado di non essere completamente collettivo, di pensare sotto la propria responsabilità, di essere se stesso. Nelle svolte storiche è importante non andare ciecamente dietro all’onda. Si può andare ma bisogna tenere gli occhi aperti».
Questo disse all’inizio dell’incontro e a questo ritornò alla fine. […] Ammonì contro la percezione delle perturbazioni sociali su scala locale […] e propose di considerarli come un soggiorno nell’area di transito di un aeroporto. Mise in guardia dalla trappola del pensiero messianico, che interpretava come un tentativo di manipolare il futuro. Il messaggio era chiaro. Ecco le terre polacche prese dalla febbre della Storia, le rivolte eroiche di Kos´ciuszko, l’epopea napoleonica, e qui invece si diffonde il movimento dei chassidim.20
Come ha sottolineato Leszek Kolankiewicz, la lettura di Gog e Magog, deliberatamente offerta al corpo collettivo di Solidarnos´c´ in un momento di crisi politica e di emergenza, getta una luce nuova sull’impegno politico di Grotowski. La natura e le modalità di questo impegno ci fanno comprendere quale valore il regista attribuisse al teatro, inteso esplicitamente come mezzo di azione nel mondo.
14Gog e Magog, opera scritta nel 1949, è una sorta di romanzo epico ambientato nella Polonia di fine Settecento, le cui vicende riguardano e mettono in contrasto due comunità chassidiche e due maestri che vedono in modo diverso il percorso dell’uomo verso la redenzione: il Veggente di Lublino e il Santo Ebreo di Pzysha. Il primo, facendo leva maggiormente sulla tradizione mistica, crede nell’importanza del miracolo e in una trasformazione della storia che coglie negli sconvolgimenti politici del tempo, nella fattispecie la rivoluzione francese, e nella figura di Napoleone, le prime “doglie” che porteranno alla venuta del Messia. Il secondo, invece, pone in misura maggiore l’accento sulla necessità di una trasformazione interiore del singolo uomo: non per mezzo di un miracolo, della magia o di un qualsivoglia atto esteriore si prepara la Redenzione, ma attraverso il “ritorno” dell’uomo a Dio. Buber onestamente dichiara la sua giovanile predilezione per la corrente di pensiero del Santo Ebreo, ma con ciò sottolinea inoltre che è stato necessario esporre “spassionatamente” entrambe le tradizioni, poiché si comprendono solo l’una alla luce dell’altra. E che importanza può avere avuto compiere un tale lavoro, di cui è frutto questo scritto? Un’importanza considerevole, secondo Buber, in un contesto come quello della Seconda guerra mondiale dove si respira un’atmosfera di forte crisi e di falso messianismo «da ambo le parti».21 I chassidim sono testimoni di una vera e propria lotta intorno alla parola di Dio, una lotta simile a quella che Israele attraversa nel secondo dopoguerra, tra volontà di conservare tutto e volontà di contestare tutto. In questa lotta, che altro non è se non una lotta per la tradizione, le prospettive dei due rebbe sono complementari e devono essere assunte insieme. Il filosofo originariamente parteggiava per il Santo Ebreo e sembra facile intuire che probabilmente ammorbidì la sua posizione nel momento della “conversione” ossia quando si rese conto che il solo lavoro su di sé sarebbe stato sterile senza un’apertura, senza un dialogo con il mondo.
15Nei discorsi di Danzica, Grotowski oppone al corpo collettivo di Solidarnos´c´ l’universo dei chassidim che egli mutua dalle raccolte di Buber tenendo altresì sullo sfondo l’immaginario del romanticismo polacco. In un momento in cui Grotowski sembra aver rinunciato ad assumere una chiara posizione politica (un po’ per questioni di sicurezza personale e un po’ per la grande responsabilità nei confronti di coloro che lavoravano con lui e che sarebbero rimasti in Polonia), nel discorso di Danzica si fa invece concretamente portatore di un’idea politica “pura” e assolutamente in controtendenza. Nel terribile 1981 Grotowski riformula così la lezione chassidica fornendone una lettura potente e quanto mai efficace nel contesto degli eventi tumultuosi del suo Paese. Kolankiewicz ricorda come quando nel 1981 con il Teatro delle fonti si era deciso di visitare i piccoli centri e paesi polacchi, Grotowski fosse solito citare Gog e Magog e in particolare l’incontro tra il Principe Adam Jerzy Czartoryski e Rabbi Israel di Kosnitz, avvenuto nel 1805. Lo zaddik Israel di Kosnitz (il Santo Ebreo in Gog e Magog) mise in guardia il Principe dal cercare la salvezza nei potenti della terra, riferendosi sia a Napoleone sia allo zar Alessandro. Un altro zaddik invece, Mendel di Rymanów di Lublino (il Veggente di Lublino in Gog e Magog), era un sostenitore di Napoleone e pensava che dopo le guerre sarebbe dovuto arrivare l’atteso Messia. Negli abili discorsi di Grotowski, Solidarnos´c´ sembrava comportarsi come il Veggente di Lublino volendo quindi «manipolare la storia» e accelerando i tempi della redenzione. La voce del Santo Ebreo, che si oppone a questa manipolazione e predica una via interiore e non l’appoggio ai grandi della terra, sembra rispecchiare il pensiero di Grotowski degli anni Ottanta. L’istanza del Santo Ebreo fa eco a quella del giovane uomo di teatro che promuove una rivoluzione politica nel senso più proprio e meno banale: un lavoro su di sé condotto in piena sincerità. Come si è detto, al contrario Buber, che scrive il romanzo a metà degli anni Quaranta e dunque in una prospettiva già matura rispetto all’iniziale fervore del Rinascimento ebraico, sembra attenuare l’opposizione tra i due maestri chassidici per farsi portatore di una armonizzazione “polare”. Le citazioni da Gog e Magog nei discorsi di Danzica devono essere lette, come suggerisce acutamente Kolankiewicz, tenendo sullo sfondo la forte influenza del romanticismo polacco. I romantici avevano fatto di Napoleone un mito e Grotowski a Danzica sembra intravedere un grosso pericolo: la possibilità che Solidarnos´c´ stia identificando i suoi capi e la sua guida con Napoleone, colui che per il Veggente di Lublino era l’anticipazione del Messia. Grotowski sembra suggerire una rivoluzione che non si riduca a un’ondata collettiva cieca e acritica ma che parta dall’interno della consapevolezza del singolo. Un processo molto simile a quello suggerito da Buber nel suo sionismo: non bastava, per il filosofo, andare in Palestina per essere ebrei ma occorreva piuttosto il lavoro costante di individualità pensanti che non si limitassero ad aspettare in massa un sedicente Napoleone.
16Grotowski e Buber non sono mai stati così vicini: il patriota romantico (figura chiave per Grotowski ma in generale per tutto il suo Paese) era un senza patria proprio come l’ebreo di Buber che anelava il ritorno in Palestina. Entrambi, ebrei e polacchi, avevano la consapevolezza di fare parte di un popolo ma, secondo i due intellettuali, dovevano “preparasi” al ritorno; e questa preparazione consisteva non nel volgersi alle ideologie e ai partiti vigenti ma semplicemente nel guardare dentro di sé, in una pratica quotidiana che poteva nutrirsi anche dell’etica chassidica. Fautori di una terza via che si snoda schivando i pesanti mattoni delle “chiese” novecentesche, Grotowski e Buber sono allora due figure di “margine” in un mondo stravolto da cambiamenti epocali: lavorano entrambi affinché i loro compatrioti “ritornino” alla terra cercandola in primo luogo dentro sé. È qui, in questo farsi portatori di una “differenza” sostanziale che si possono avvicinare in modo inedito i due pensatori.
17Sempre nei discorsi di Danzica, dopo la lettura di Gog e Magog, il regista polacco fa anche molti riferimenti all’etica chassidica, che dice di aver appreso attraverso i libri di Buber all’età di otto anni, e allo Zohar, che dice di aver letto da adolescente: «Dio per loro esplodeva in scintille. Scintille che più vanno lontano, più scompaiono, si disperdono, e i chassidim capivano che bisogna raccoglierle e dividerle con la gente, in nome di questo viaggiavano».22 L’etica del chassidismo è eletta e assunta da Grotowski come un prezioso e quanto mai attuale insegnamento che sembra riprendere, diremmo noi, il messaggio della vecchia matriarca al centro della Gerusalemme di Lesser Ury:
La Shekinà è la madre di Dio. È parte integrale di Dio, è il suo pezzo staccato. Una vecchia donna che cammina per le strade di campagna, a cui spesso sputiamo in faccia. Lei è tutta la nostra sofferenza sulla terra, e noi non la vediamo. Eppure lei aspetta il nostro aiuto. […] È la madre. Aiutando una debole cosa che vive, entro in rapporto con lei. È la madre afflitta dalle disgrazie. […] Se cammini nel bosco, di notte, puoi sentire che ci sono luoghi affollati, particolarmente e intensamente vivi: la Madre è lì, ma si trova estremamente sperduta».23
Grotowski, nel corso dello stesso intervento, afferma che il mondo è «invivibile», che l’uomo è come in esilio, come «nato in questo mondo non di questo mondo», ma che tuttavia è possibile, lavorando intensamente nel qui e ora, «trovare molte cose». Attraverso il teatro, il regista indica la via del disvelamento, via che formulerà pienamente in Performer parlando, attraverso Eckhart – che pure per Buber fu un punto di riferimento notevole – di «sfondamento»: «Quando rientro, questo sfondamento è più nobile della mia uscita. Nello sfondamento – là – sono al di sopra di tutte le creature, né Dio né creatura, ma sono quello che ero, quello che devo restare ora e per sempre».24 Lo sfondamento è il ritorno dell’esule non agli inizi ma all’inizio. Kolankiewicz ricorda, tra alcune citazioni preferite di Grotowski negli anni Ottanta, quella sulla possibilità dell’inizio: «alle mani dell’uomo è affidato solo l’inizio, ma questo è veramente solo nelle mani dell’uomo».25
18Raccontando questo episodio, Grotowski apparenta vudù haitiano, chassidismo e Francesco d’Assisi, sostenendo che, pur nella diversità delle loro radici, tutti questi fenomeni attingono alla stessa sorgente e si possono dunque integrare. Ciò non vuole dire che ci si trovi davanti a un materiale “esotico” da poter combinare secondo le esigenze del momento ma indica, come si è cercato di evidenziare sin qui, un preciso modo di intendere la tradizione e di alimentarla.
19Il primo a intuire questa trama chassidica dietro al disegno tea-trale di Grotowski è stato Schechner: «I chassidim cercano la Shekinà, che i greci chiamavano Sophia, la luce della saggezza, per bucare i gusci e raccogliere le scintille. Nel lavoro di Grotowski, questa ricerca della Shekinà è il suo Teatro delle fonti, il Dramma oggettivo, l’Arte come veicolo».26
20Eccezione fatta per i testi richiamati finora, non risultano esserci altre consistenti citazioni di Buber negli scritti di Grotowski e ci sembra di capire che i testi sui chassidim erano per lui argomenti cui faceva spesso riferimento nelle conversazioni quotidiane, come piccole perle sparse i cui fili sono allentati. I libri di Buber appaiono qua e là nella biografia del maestro polacco nella dimensione del dono, come quella volta che, davanti a un piatto di pierogi, Grotowski diede in regalo a Jan Kott la traduzione francese di un’opera buberiana, i Racconti dei chassidim.27
1. Uno spazio per non dimenticare
21La questione da cui muove la ricerca tea-trale di Jerzy Grotowski può con ragione essere rintracciata in quelle stesse accuse che Martin Buber lanciava contro il teatro a lui contemporaneo e contro la scena “illusionistica” in Il problema dello spazio scenico. In questo saggio del 1913 Buber si rende conto che la scena moderna è stata convertita in uno spazio reale sottraendo all’azione tea-trale la sua caratteristica più genuina, la «necessaria polarità di autentico sentimento di distanza e autentico legame, possibile solo nell’attività».28 Lo spettatore di questa scena resta così immobile e passivo davanti a un teatro che in sostanza si rivela un’esperienza tra le altre. Questa scena è un pervertimento della natura eccezionale del teatro stesso. Il filosofo cita genericamente alcuni tentativi tea-trali volti al ripristino di modelli scenici del passato – «la scena antica, medievale, o elisabettiana» – che costituiscono la prova innegabile di come fosse sterile copiare un modello senza «il principio vitale» che un tempo l’aveva animato conferendogli dunque senso ed efficacia. Per Buber, anche il tentativo di creare uno spazio scenico sulla base di principi propri della pittura e della arti figurative è stato un esperimento inconcludente che ha sortito il solo risultato di portare «il sentimento di un’arte estranea nell’esperienza dell’evento scenico, spezzandola e distruggendola». Il nucleo della proposta spaziale di Buber è una risposta «all’esigenza fondamentale» del teatro verso uno spazio «assolutamente unitario e assolutamente trasformabile». Per il filosofo, colpito dall’esperienza dell’Orfeo di Gluck, il principio vitale che poteva creare questo tipo di spazio era, lo si è visto, la luce creativa.
22Dopo due generazioni Grotowski si pone le stesse domande arrivando a conclusioni molto simili tranne che per il fatto che il suo «principio vitale» non è la luce – che ai tempi di Il problema dello spazio scenico era una novità ma ai tempi di Per un teatro povero rappresentava invece una possibilità già esaurita – ma l’uomo, l’attore, colui che fa. I ragionamenti di Buber e Grotowski sono dunque affini soprattutto laddove entrambi gli intellettuali intuiscono che quel senso di continuità tra attore e spettatore non può essere suggerito attraverso lo spazio caotico delle scene “partecipative” moderne, ma può essere conseguito grazie a una distanza, a una separazione. Sostanzialmente, la gestione dello spazio scenico non può essere lasciata né alla convenzione né al caso ma va rimodulata volta per volta, a seconda della necessità della performance. Non si può permettere che lo spazio obbedisca alle convenzioni solo in quanto convenzioni né si può ignorare il problema: la formula «in generale», come diceva Stanislavskij, è il peggior nemico dell’arte.29
Abolendo la separazione fisica tra attore e spettatore, Grotowski ha realizzato alla lettera l’unità tra scena e sala. È una rivoluzione copernicana con conseguenze imprevedibili per la drammaturgia dello spettacolo, per la recitazione degli attori e per la percezione degli spettatori. L’abolizione dei due spazi distinti, palcoscenico per attori e platea per gli spettatori, corrisponde all’abolizione delle sbarre in una gabbia di leoni in un giardino zoologico. Protetti dalle sbarre, possiamo essere a quaranta centimetri dal re degli animali e sentirci sicuri. Eliminate le sbarre, la nostra sicurezza si volatilizza e la partecipazione allo spettacolo acquista ben altra intensità. Oggi che questa osmosi è diventata “un luogo comune”, sia nel teatro tradizionale che in quello di strada, è difficile immaginare lo choc e l’impatto che produssero, all’inizio degli anni Sessanta, spettacoli come Akropolis, Dr. Faustus e Il principe costante […].30
Questa felice considerazione di Eugenio Barba ribadisce quello stesso paradosso che abbiamo visto essere alla base del saggio di Buber. Andare a teatro, in questo senso, significa entrare in un mondo nel quale non si viene rassicurati ma anzi, si è esposti al pericolo. Affinché avvenga un incontro tra lo spettatore e questa realtà altra è necessario innescare, attraverso la modulazione dello spazio, una sorta di un meccanismo “della soglia” basato sulla percezione di una distanza. La stessa idea veniva espressa nel 1926 anche da Antonin Artaud:
Ecco dunque dove vogliamo arrivare. Vogliamo arrivare a questo: che a ogni spettacolo allestito è per noi in gioco una partita grave […]. Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli spettatori ma a tutta la loro esistenza. Alla loro e alla nostra. […] Lo spettatore che viene da noi sa di venire a sottoporsi a una operazione vera, dove sono in gioco non solo il suo spirito ma i suoi sensi e la sua carne. […] Con lo stesso stato d’animo, pensando di non morire per questo, ma che è una cosa grave e che non ne uscirà integro. […] Egli deve essere convinto che siamo capaci di farlo gridare.31
Come si è già avuto modo di vedere nel capitolo precedente, nel saggio Dramma e teatro del 1925 Buber insiste sulla diade brivido e pudore come nucleo antico e autentico dell’esperienza tea-trale. Possiamo aggiungere che questa coppia di sentimenti, oltre a riportarci a quella dimensione dei misteri che più volte viene richiamata sia in Buber sia in Grotowski, è mutuata dal chassidismo. Il senso di brivido e pudore reverenziale verso Dio è considerato nella mistica ebraica come momento fondamentale della scelta per Dio: «Si dice che il Baal Shem Tov pensasse che amore e paura fossero le due ali grazie alle quali l’anima potesse elevarsi».32 Nella dottrina cabalistica, infatti, senza paura non si raggiunge la saggezza e il timore viene considerato una sorta di ingresso nell’amore.33
23La distanza che secondo Buber può far scattare questo meccanismo della soglia non è interpretata nemmeno da Grotowski come quella restaurazione della divisione tra sala e scena che anzi viene rifiutata in quanto produce l’immedesimazione dello spettatore con l’eroe. Si è visto come Buber si pronunci per la creazione di uno spazio polare, uno spazio indistinto e non separato in cui la luce costituisce il principio creativo atto a suscitare i sentimenti di cui si è parlato. Grotowski, nel periodo di produzione di spettacoli per il pubblico,34 elimina la separazione tra sala e scena rimodulando la posizione di attori e spettatori per ogni spettacolo. Raymonde Temkine così descrive la sua esperienza di spettatrice di Akropolis da Wyspian´ski, spettacolo messo in scena dal regista polacco nel 1962:
So solamente che i tragitti degli attori attraversano il pubblico, che la corrente circola, che gli attori agiscono con ogni premeditazione ed efficacia.
Noi spettatori siamo “oggetto della regia” non meno degli stessi attori. Loro conoscono la propria parte; noi dobbiamo scoprire la nostra. Siamo disposti gli uni in rapporto agli altri come due poli da cui si vuole fare scaturire la scintilla. E la scintilla scocca. 35
Gli spettatori sono dunque collocati in mezzo agli attori – deportati in un campo di concentramento alle prese con la costruzione di un forno crematorio nel quale poi si gettano nel finale – e sono considerati «gente di un altro mondo, lì per caso, d’intralcio».36 Mentre gli spettatori vengono completamente ignorati piano piano gli attori riempiono lo spazio scenico con tubi e ferraglia. I primi si ritrovano così in una situazione ambigua, «in mezzo e allo stesso tempo completamente irrilevanti, incomprensibili per gli attori, come i vivi non possono capire i morti». Nel Principe costante37 invece, dove viene rappresentato il martirio della purezza e dell’amore di fronte alla brutalità e all’inflessibilità dell’ordine sociale, gli spettatori non sono collocati all’interno della scena ma assistono dall’alto di una palizzata, come in una galleria sopra la sala operatoria. Il pubblico viene sistemato dunque in una posizione voyeuristica e non esiste «nessuna relazione tra gli attori e gli spettatori. Nessuna. Stavano guardando qualcosa di proibito».38 Il Principe costante è uno spettacolo passato alla storia sia grazie alla presenza di Ryszard Cies´lak come attore principale, sia per il forte impatto emotivo che ha generato presso gli spettatori di allora. Nella particolare disposizione degli attori è celato il senso di provocazione che Grotowski vuole assegnare alla visione della performance:
Perché ci occupiamo di arte? Per attraversare le nostre frontiere, per superare i limiti, riempire il nostro vuoto, realizzare noi stessi. Questa non è una condizione ma un processo in cui quello che è oscuro lentamente diventa trasparente. In questa lotta con la propria verità – questo sforzo per togliere la maschera quotidiana – il teatro, con la sua percettività pienamente carnale, mi è sempre sembrato un luogo di provocazione. Esso è capace di sfidare se stesso e i suoi spettatori violando gli stereotipi accettati di visione, sentimento e giudizio; una violazione tanto più stridente perché è riflessa nel respiro, nel corpo, negli impulsi interiori dell’organismo umano. Questa sfida al tabù, questa trasgressione, causa lo shock che strappa la maschera, permettendoci di offrirci denudati a qualcosa che è impossibile definire, ma che contiene Eros e Charitas.39
Questa idea della trasgressione e questo voler infrangere i tabù, primo fra tutti quello legato al corpo umano, è stato spesso definito come blasfemia o con la formula «dialettica della derisione e dell’apoteosi»40. La necessità di base in questo processo è legata al trascendimento del mito in una società in cui non esiste un credo condiviso e autentico (Grotowski usa l’espressione «cielo comune»).41 In origine, quando il teatro era strettamente connesso alla religione, incorporava il mito e lo trascendeva conferendo ai partecipanti una consapevolezza della loro «verità personale nella verità del mito».42 Questo valore sacro e collettivo del teatro, secondo Grotowski, oggi non è più possibile ma resta praticabile solo un confronto con il mito in luogo all’identificazione. Il confronto è possibile attraverso quell’attore “crudele”43 che non recita, non imita, non finge: «È se stesso, compie un atto di confessione pubblica; il suo processo interiore è un processo reale, non è l’opera dell’abilità del giocoliere»44 ma quella del funambolo.
24Il confronto con l’archetipo – l’immagine mitica per esempio dell’Olocausto, del sacrificio dell’individuo per gli altri – si attua, negli spettacoli precedenti a Akropolis, secondo un modello polare. È stato Tadeusz Kudlin´ski, critico e fondatore del teatro Studio 38, a cui tra l’altro negli anni Trenta prese parte Wojtyła, a definire questa polarità «dialettica della derisione e dell’apoteosi». In Kordian, per esempio, esiste il sacrificio e insieme anche la follia; Kordian si sacrifica: «dà il proprio sangue per gli altri, ma lo dà secondo il vecchio procedimento della medicina, è il medico che gli cava il sangue. C’era in questo la solidarietà con Kordian e la triste derisione della solitaria inefficacia dell’atto».45 In seguito Grotowski si rende conto che gli spettatori non accettavano questa polarità ma piuttosto si dividevano tra coloro che percepivano l’apoteosi e coloro che percepivano la derisione. Non si riusciva a mantenere la polarità che, sola, avrebbe permesso uno shock sufficiente a strappare via la maschera quotidiana. Da questo momento il regista comprende che l’attore riusciva a fare partecipare lo spettatore invogliandolo all’azione, al canto e al movimento, ma queste reazioni erano spesso cerebrali e quindi non autentiche. Per Grotowski l’attenzione si sposta dunque sul lavoro dell’attore e lo spettatore diventa così “testimone”, presenza. Essere testimone significa stare in disparte e serbare dentro di sé l’immagine dell’evento: «non intromettersi con il proprio misero ruolo, con quella inopportuna dimostrazione: “anche io” ma essere testimone, ovvero non dimenticare, non dimenticare a nessun costo».46 In sostanza, il carattere del testimone corrisponde alla funzione espressa da Buber in Daniel laddove il protagonista non è emotivamente coinvolto nell’azione scenica, non è interessato alla narrazione e non si identifica con i personaggi.
25Non è un caso che il Dialogo dopo il teatro si trovi, nella struttura del testo di Buber, immediatamente dopo il Dialogo nel giardino dove si dice che «ogni creare è audacia. Chi non osa rischiare la propria anima non fa altro che scimmiottare l’eroe».47 Il teatro, secondo Buber, comincia là, nel pericolo e nella lotta. Quindi ecco che possiamo intravedere il contenuto della testimonianza che il pubblico deve sforzarsi di non dimenticare a nessun costo: la confessione crudele dell’attore.
E questo è il tuo prossimo pericolo: scendere nell’abisso! Realizzarlo! Riconoscere la sua essenza, la polarità senza nome di tutto l’essere, […], quella polarità tra pezzo e pezzo del mondo, tra cosa e cosa, tra immagine e essenza, tra il mondo e te, quella polarità radicata dentro di te […]. Riconoscila perché questo è il tuo compito: creare l’unità a partire dalla tua dualità e dalla dualità di tutto, porre l’unità nel mondo; non l’unità della mescolanza, come di essa favoleggia l’uomo sicuro: unità completa e perfetta ricavata dalla tensione e dalla corrente delle opposizioni, unità adatta alla terra con i suoi poli. […] Riconosci allora che sia questo il tuo compito infinito e non un compito eseguibile una volta per sempre; riconosci il fatto che devi scendere eternamente e sempre di nuovo nell’abisso dalle mutevoli forme, eternamente la tua anima deve osare ed eternamente devi lodare la sacra insicurezza».48
Questa citazione potrebbe tranquillamente funzionare da dichiarazione poetica di Grotowski. Da quando abbandona l’idea del teatro rituale e comincia a spostare la sua attenzione verso il lavoro dell’attore, il regista polacco formula il concetto di “atto totale” che in sintesi corrisponde al contenuto del frammento del dialogo citato. Creare è una questione di audacia e coraggio e lo ha scoperto ben presto Thomas Richards, colui che poi sarebbe diventato l’erede artistico di Grotowski e che avrebbe portato avanti autonomamente la Tradizione. Quando nel 1984 frequentò un seminario con Ryszard Cies´lak – il protagonista del Principe costante – all’Università di Yale, Richards si annotò alcune impressioni: «Cominciai a fare sogni scatenati e coloratissimi. Per esempio sognai che stavamo lavorando e che l’aula prendeva fuoco: dovevamo scappare saltando dalle finestre, ma non ero spaventato dal fuoco. Cies´lak lavorava direttamente, senza paura».49
26Lo stesso Grotowski, ricordando il grande attore del Principe, scrive: «[…] il vero segreto è stato uscire dalla paura, dal rifiuto di se stessi, uscire da questo ed entrare in un grande spazio libero in cui si può non avere paura e non nascondersi in niente. […] A lui ho domandato tutto, un coraggio in un certo modo inumano […] e si è visto che tutto era possibile perché non c’era paura».50
2. Riconoscere, vedere di nuovo
[…] Io, nessuno: una gabbia che si apre per un momento. In quel momento qualcosa funziona di nuovo e di nuovo: «Ecco, è un miracolo. Questo mondo è leggero e io sono parte di tutto questo». E poi, forse ancora un po’ più in su: «questo mondo è un miracolo. Io chi?». Poi finisce, e a volte rimane in te e con te come una risonanza. Non sei migliore di prima, hai solo tentato di tornare a casa.
M. Biagini, Seminario a «La Sapienza», ovvero della coltivazione delle cipolle
(in Aa. Vv., Opere e sentieri i – Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards cit., p. 51)
27Il termine “atto totale” è impiegato da Grotowski per definire alcuni momenti, per esempio nel contesto del Principe costante e di Akropolis, in cui l’attore «oltrepassa lo stato di incompletezza al quale noi stessi ci condanniamo nella vita quotidiana».51 Nel lavoro dell’attore svanisce la divisione tra corpo e anima, pensiero e sentimento, tra ciò che è personale e ciò che è collettivo. Come una sorta di rinascita questo “agire totale” nasce da un impulso molto simile a ciò che, come si è visto, Buber chiama pathos. Non si tratta genericamente di un sentimento ma dell’azione che consente all’uomo di svelarsi «fino ai limiti dell’impossibile» mantenendo la polarità nell’unità dell’azione-pensiero dell’attore ossia, per dirla con Grotowski, mantenendo «la molteplicità dei livelli delle cose, mostrandone contemporaneamente i diversi aspetti che rimangono in relazione tra loro, ma non sono identici».52 L’attore è in questo senso un guerriero e la sua sfida «agisce su di noi come una voce dall’abisso, come la voce dei morti, su questa via, grazie a quei cristalli che ha mantenuto, l’attore si eleva verso la sua confessione personale; ciò che è collettivo, come legato alla specie e ciò che è personale si congiungono nello stesso punto, e questa è una delle caratteristiche fondamentali dell’atto».53
28È nella scoperta dell’atto del Performer che risiede l’originalità e l’efficacia della soluzione grotowskiana al problema di un teatro che ha bisogno di tornare a svolgere la sua funzione rituale ma è ostacolato dall’assenza di un «cielo comune», di una fede condivisa, di un mito in cui credere. Grotowski ha sostenuto in più occasioni di aver paradossalmente cominciato a lavorare a un teatro rituale proprio nel momento in cui ha abbandonato “l’idea” di un teatro rituale. Il risultato è un effettivo rinnovo del rituale non attraverso un generico ricorso alla religione bensì attraverso l’azione. Possiamo aggiungere che il pensiero di Buber e quello del regista polacco sono estremamente affini nell’affermare l’urgenza di lavorare su ciò che è essenziale e non stereotipato, l’umano. Per il filosofo, come si è già visto, questo implica il rifiuto di molte pratiche che sembrano basilari per l’uomo, ma in realtà non sono altro che nuovi strumenti per armarsi, per nascondersi: il misticismo e le dottrine dell’immersione, il culto del singolo, l’apparenza, la solidarietà, la collettività. Può essere utile citare qui di seguito un frammento di un testo di Grotowski e invitare il lettore a un esperimento: provando a togliere dal testo grotowskiano i riferimenti lessicali al teatro si vedrà come il suo discorso si riveli nell’essenza un discorso assolutamente buberiano.
[…] Abbiamo abbandonato l’idea del teatro rituale per – come risultò evidente – rinnovare il rituale, il rituale tea-trale, non religioso, ma umano: attraverso l’atto, non attraverso la fede. Forse bisognerebbe creare una terminologia completamente diversa perché quando pensiamo secondo le categorie della terminologia corrente ‘rituale nel teatro’ mettiamo in moto determinati stereotipi: lo stereotipo della compartecipazione letterale, lo stereotipo della sfrenatezza e delle convulsioni collettive, lo stereotipo della spontaneità disordinata, lo stereotipo del mito riprodotto, e non del mito di nuovo incarnato […], e poi lo stereotipo dell’ecumenismo, fondato su un conglomerato di motivi tratti da diverse religioni o diverse culture; allora forse bisogna separarsi da questa terminologia. Eppure il fenomeno esiste e la domanda è stata posta. Quale domanda? La domanda: «cosa è essenziale? Cosa è davvero essenziale?» Forse non sono io, forse è l’attore ma non l’attore in quanto attore, ma l’attore in quanto essere umano. Cosa è davvero essenziale? Oltrepassare quella incompletezza della recitazione in cui l’uomo va a cacciarsi da solo.54
Il Performer è per Grotowski colui che supera “il conosciuto” distruggendo gli stereotipi della vita umana. Come Buber, anche Grotowski, parlando dell’artista, usa l’immagine dello scultore che ritrova e ricava nella materia una forma preesistente. Non si tratta della ricerca di una forma ideale e platonica ma di qualcosa di autentico che è andato perso, coperto dalle stratificazioni culturali e sociali. Si tratta di scavare la materia dell’uomo per ritrovane l’essenza, l’autenticità. Ricordiamo come Buber, riferendosi ai quadri di Lesser Ury, avesse definito l’artista colui che «ha creato un’estasi a partire dal materiale che è negato al materiale stesso». Il filosofo situa la questione relativa all’arte nel contesto più grande dell’azione etica e concetti come la redenzione del male-materia inerte si prestano a un trattamento molto simile anche da parte del regista polacco. Occorre ricordare che Grotowski, a partire dagli anni Ottanta e poi con il suo definitivo trasferimento in Toscana, inizia una nuova fase di ricerca denominata «Arte come veicolo». In questo ramo della ricerca, lo scopo del fare tea-trale non è più la produzione di spettacoli per il pubblico né sono le sperimentazioni “paratea-trali”.55 Nell’Arte come veicolo l’attenzione di Grotowski è più rivolta al “processo” rispetto che alla “composizione”. Tenendo sempre a mente come Buber avesse definito due tipologie di attore sulla base delle considerazioni su Eleonora Duse e su Novelli, possiamo aggiungere che in questa fase della sua ricerca Grotowski indaga esattamente ciò che il filosofo aveva riscontrato nella prima e ciò che mancava al secondo: «il dono che solo può scaturire dall’esperienza organica e che ne costituisce il simbolo, e che può essere elargito solo a partire dal più intimo atto creativo».56
29Grotowski infatti opera nei suoi scritti una distinzione molto simile a quella del filosofo:
Direi che ci sono due tipi di attore: l’attore del processo e l’attore della composizione. Il più grande attore che io abbia mai conosciuto nel campo del processo era Ryszard Cies´lak. […] Il più grande attore di composizione che ho conosciuto era Jacek Woszczerowicz, di Varsavia. Che significa “attore di composizione”? L’attore di composizione confeziona il personaggio e il ruolo, cerca vari effetti che spesso sono paradossali, lavora con dettagli diversi, come per attaccare il cervello dello spettatore con una quantità di sorprese.57
Grotowski concentra le sue forze sullo studio del processo dell’attore ma non esclude che entrambe le vie possano essere indagate contemporaneamente. Ciò che ci preme però aggiungere ora è che l’Arte come veicolo, incentrata sull’idea di verticalità, costituisce un ulteriore possibilità di realizzare quanto detto da Buber per la Duse. Ricordiamo come per il filosofo, a differenza del citato Hofmannsthal, la forza dell’attrice italiana risiedeva nella possibilità di un incontro autentico con il reale e non in una fuga da esso. Per Buber la Duse ha posseduto «tutta la scala», è certo salita fino a scorgere l’immagine di Dio ma poi è scesa, memore della visione, per plasmare il mondo, qui e ora per imprimere sul blocco del mondo l’immagine contemplata. Per Grotowski, l’Arte come veicolo si pratica in questo doppio movimento e può definirsi come «un ascensore molto primitivo: è una specie di canestro tirato da una corda, con l’aiuto del quale l’attuante si solleva verso un’energia più sottile, per scendere con essa fino al corpo istintuale».58
30Non è casuale che Grotowski descrivendo l’Arte come veicolo la paragoni all’immagine della scala di Giacobbe con il suo doppio movimento. Questa idea ha impegnato i suoi ultimi anni di vita, la fase della trasmissione del suo sapere all’allievo, ora erede, Thomas Richards. L’Arte come veicolo dimostra che è possibile creare un rituale oggettivo costruendo gradini per salire e scendere dalla scala. Con le dovute precauzioni potremmo dire che attraverso l’Arte come veicolo è possibile tracciare una rotta per aprirsi alla relazione (con il mondo, con Dio) per poi ridiscendere e rimettere in gioco questa esperienza nella vita quotidiana, hic et nunc. Per fare ciò, Grotowski è molto chiaro a riguardo, il lavoro deve essere preciso e ogni gradino deve essere costruito artigianalmente. Come avviene nel lavoro sui canti dove le melodie non sono mai casuali ma fissate dall’inizio e il canto viene trattato, da Richards e dai suoi colleghi, come una persona tant’è che il canto può essere un uomo, una donna o persino un bambino.59
31L’Arte come veicolo può essere dunque considerata una modalità di incontro che può dispiegarsi secondo un’ascesa e una discesa alla realtà fattuale. Non è un caso che parole chiave della filosofia dialogica di Buber come accettazione e riconoscimento siano pure termini ricorrenti negli scritti di chi, dopo la morte di Grotowski nel 1999, sta portando avanti la ricerca sull’Arte come veicolo. Riconoscere significa conoscere di nuovo ma non nel senso del possesso bensì nel senso buberiano di scambio reciproco del «pane celeste dell’essere un io».60 Si è accennato di come l’uomo voglia essere confermato nella sua differenza tramite un altro uomo, volendo acquistare una presenza nell’essere dell’altro. Ci si costruisce come Io solo attraverso un opporsi e un confermarsi, quindi solo attraverso il riconoscimento. L’Arte come veicolo, che per un verso è orientata a una struttura-partitura precisa e per l’altro verso al fluire di una certa “pienezza vitale”, costituisce una modalità affinché questo riconoscimento non sia episodico o casuale ma possa essere rivissuto e dunque approfondito sempre di più: «[…] l’esperienza può approfondirsi, i limiti del conosciuto si dissolvono e si ricompongono un passo più in là, in un territorio che ti è ignoto».61 In una conversazione poi pubblicata, a Thomas Richards è stato chiesto qualcosa in più su quanto accadeva tra i performer nel dominio dell’Arte come veicolo e l’attore ha ripreso il concetto di territorio sconosciuto apparentandolo a un Noi:
Hai ragione quando dici che ciò che accade tra Mario Biagini e me in quei particolari momenti di Action è un riferimento a qualcosa di terzo, o che qualcosa di terzo è evocato. […] Qualcuno potrebbe dire, come hai fatto tu, che si tratta di una sostanza, materiale come ogni altra. Sottile, ma evidente. […] Questa autostrada “orizzontale” fra due attuanti, in questo caso Mario e me, si crea in riferimento a qualcosa di terzo. […] La nostra ricerca è, a un certo livello, uno studio pratico, svolto in una situazione performativa, delle possibilità interiori che sorgono dai modi in cui un essere umano si mette in contatto con un altro. […] Se facciamo attenzione alla qualità del nostro sguardo verso l’altro – vedere l’altro con una comprensione attiva, senza paura, coscienti di un obiettivo comune – un particolare territorio interiore può cominciare ad aprirsi, un territorio dove è il “noi” a preponderare. Puoi notare l’esistenza di questo territorio anche nella vita quotidiana, nei momenti speciali di una conversazione intima e viva, allora […] non ci sono giochi di potere, diciamo; piuttosto, cavalchi un’onda di empatia […] vedere se stessi nell’altro e lasciare che l’altro veda se stesso in te.62
È evidente come questa tematizzazione del Noi, a partire da un’esperienza performativa vissuta (e avvertita anche da parte di un testimone) corrisponda, nella sua sostanza, alla definizione che Buber dà di comunità: «Al di là del soggettivo, al di qua dell’oggettivo, vi è il regno dell’«interrelazione», nella vetta angusta dove l’Io e il Tu si incontrano. Questa realtà […] mostra il cammino che conduce al di là dell’individualismo e del collettivismo, per la decisione vitale delle generazioni a venire. Qui è indicato il vero terzo, la cui conoscenza contribuirà a riacquisire una vera persona e a fondare una vera comunità».63
32Negli sviluppi dell’Arte come veicolo la domanda che si era posto Grotowski («Cosa è essenziale? Cosa è davvero essenziale?») trova la stessa risposta di quella di Buber («Cos’è l’uomo?»):64 l’uomo con l’uomo.
33Il filosofo scrive che questi momenti particolari non sono di carattere sentimentale o psicologico bensì sono ontici ossia riferiscono dell’essere umano così com’è e sono «minimi processi che, appena apparsi, subito scompaiono».65 Si comprende ora il motivo per cui Grotowski abbia cercato, in quasi tutti i suoi interventi orali e scritti, di difendere l’assoluta mancanza di un metodo tea-trale, di una formula magica e universale. Alla stessa stregua Buber ha sempre pregato il lettore di non considerare i suoi scritti come manuali per conseguire la felicità bensì come inviti all’azione poiché, occorre ricordarlo ancora, «alle mani dell’uomo è affidato solo l’inizio, ma questo è veramente solo nelle mani dell’uomo».66
34Richard Schechner sostiene che la costante di tutte le fasi di lavoro tea-trale di Grotowski deve essere cercata nella sua insistenza circa il «contatto diretto, l’interazione uno a uno, l’Io-Tu di Martin Buber: la tradizione orale».67 Schechner ha inoltre ragione nel sottolineare quanta affinità ci sia tra la figura dello zaddik e il ruolo di guida assunto da Grotowski:
Rebbe Grotowski è il centro dal quale tutto si irradia. La sua autorità è incontestata. Le storie su di lui abbondano. La sua aura lo circonda, lo protegge e lo illumina. Il cuore di ciò che ha da insegnare non può essere tradotto in parole. È in continua ricerca. […] Vedere coloro che attorno a Grotowski realizzano il proprio lavoro, è come star di fronte a una comunità chassidica e al suo Rebbe. Grotowski risponde all’amore dei suoi discepoli non in modo sentimentale o bigotto, ma in modo tipicamente chassidico: paradossalmente, con spirito, chiedendo loro incessantemente di lavorare duro, irradiando luce e energia.68
In tutte le fasi del suo lavoro il regista ha del resto mantenuto una relazione diretta con un allievo in particolare: nel periodo delle produzioni tea-trali con Zbigniew Cynkutis poi con Cies´lak, nel Parateatro con Jacek Zmysłowski e nell’Arte come veicolo con Thomas Richards. La differenza della relazione Grotowski-Richards consiste nel senso esplicito e ufficiale delle dichiarazioni del regista riguardo la propria volontà di «trasmettere» l’insegnamento:
La natura del mio lavoro con Thomas Richards […] ha il carattere della «trasmissione»: trasmettergli ciò che ho raggiunto nella mia vita: l’aspetto interiore nel lavoro. Uso la parola «trasmissione» nel senso tradizionale: durante un periodo di apprendistato, attraverso sforzi e tentativi, un giovane conquista la conoscenza, pratica e precisa, da un’altra persona, il suo teacher. […] Durante questi otto anni all’inizio egli era il doer (colui che agisce: l’attuante) e io lo guidavo dall’esterno.
Con il passare del tempo, poiché le qualità di Thomas maturavano gli ho chiesto non solo di agire come doer ma anche di guidare il lavoro. […] Per questo motivo sento che egli è la persona giusta per scrivere del lavoro, tanto stretta è la nostra collaborazione.69
È interessante notare come le prime impressioni riguardo la persona Grotowski, di Thomas Richards a Yale e di Mario Biagini a Firenze, coincidano. Entrambi parlano di una qualità speciale, una particolare densità nel silenzio70 del maestro tra una frase e l’altra. Richards scrive:
Fui sconvolto da come Grotowski rispondeva alle domande. C’era una qualità particolare nel silenzio che precedeva ogni sua risposta, e non era assolutamente artificioso. Era come se stesse realmente pensando, come se si stesse prendendo il tempo di cui aveva bisogno; il ritmo abituale della conversazione quotidiana, con domande e immediate risposte, era rotto e in quel silenzio dinamico qualcosa passava. Dopo la conferenza, corsi al lavoro (lavoravo in un ristorante giapponese) con un certo tipo di eccitazione. Ridevo un po’.71
E Biagini:
Fin dall’inizio avevo visto una persona debole, esausta o forse malata, e di botto, nel momento in cui si è mobilizzato per rispondere al professore e dire quel che aveva da dire, mi sono reso conto di una forza, una presenza di fronte alla quale non potevo rimanere indifferente, qualcosa che suscitava timore e insieme affascinava. Questa sorta di densità non era presente solo nelle sue parole, ma anche nel suo corpo e come attorno a esso, nel silenzio fra le sue frasi. I suoi silenzi non erano un artifizio retorico, non erano le pause calcolate di un oratore consumato. […] Quando discorrevi con lui e gli chiedevi qualcosa, Grotowski cercava sempre di vedere se poteva darti una risposta, o meglio, se poteva aiutarti a cercarla. Pensava attivamente. Ti ascoltava come se non esistesse nient’altro al mondo. […] Spesso capivi che non avevi bisogno di attendere una risposta, e nel silenzio vivo della sua stanza scoppiavi a ridere.72
Jan Kott, dal canto suo, fa una considerazione illuminante sul tipo di conversazione che si poteva avere con Grotowski: «La conversazione con Peter Brook è difficile: l’altra persona deve tenere il discorso. La conversazione con Strehler è impossibile: è lui che tiene tutto il discorso. Dei tre, solo Grotowski è un vero interlocutore. Forse perché l’unica cosa che vuole salvare dal teatro tradizionale è l’atto dell’incontro. Reciproco».73
35Tornando a Biagini, egli descrive il suo rapporto con il maestro usando molte parole chiave della relazione Io-Tu e in particolare parla di contatto “reciproco” tra due “persone”. Il rimando di Biagini è verso la sensazione di una gioia improvvisa e senza compromessi, la gioia chassidica di stare al mondo che coincide con l’atto di “riconoscere”: «ricordo la strana sensazione che Grotowski mi stesse mostrando la strada per riconoscere mio fratello, mai incontrato e sempre cercato, la strada per vedere e riconoscere, aprire gli occhi».74 Egli fa poi riferimento al tentativo di difendere una «micro-comunità» che era germogliata attorno a Grotowski, considerato come «un albero antico» la cui immensa ombra conferiva un senso di fiducia e sicurezza anche nei momenti di estremo pericolo.
36Sebbene sia fuorviante e improprio definire Grotowski uno zaddik o rabbi, occorre evidenziare che il ruolo assunto dal regista nei confronti dei suoi allievi è fortemente imparentato con quello della guida delle comunità chassidiche. Non dimenticando come Grotowski si professasse ateo, ci sembra però che egli si sia comportato, nell’ambito della trasmissione, proprio come uno zaddik alla guida della propria comunità. Inoltre, anche il già citato Leszek Kolankiewicz accenna a questa identificazione tra il regista e la più importante figura chassidica.75 Buber descrive lo zaddik come il «soccorritore», colui che soccorre il corpo e l’anima e così facendo insegna a essere liberi; lo zaddik non combatte le battaglie al posto del chassid ma lo rafforza affinché egli si senta in grado di avventurarsi da solo nel pericolo; lo zaddik non dice al chassid dove sia la verità ma lo aiuta a conquistarla e riconquistarla di nuovo quando si sentirà perduto perché «un uomo può sostituire un altro uomo soltanto fino alla soglia della stanza più segreta».76 Non è l’insegnamento dello zaddik a essere cruciale ma la sua intera esistenza e talvolta basta semplicemente la sua presenza fisica, come la grande ombra dell’antico albero di cui parla Biagini.
37Il rapporto tra maestro (Grotowski si definì teacher of performer)77 e allievo non è un rapporto di dipendenza ma di reciprocità. Nelle raccolte buberiane, si narra infatti che il Baal-Shem, una sera, fosse molto turbato perché la luna non si mostrava ed egli non poteva recitare la sua preghiera per Israele. I suoi chassidim chiamarono il maestro e lo invitarono a danzare in cerchio con loro, così facendo la preghiera venne rafforzata e la luna finalmente si mostrò: «i chassidim hanno ottenuto con la loro gioia ciò che all’anima dello zaddik, tesa nel suo massimo sforzo, non era riuscito».78 Nel chassidismo è proprio il legame personale a «sollevare» l’anima di chi riceve l’insegnamento.
38Buber è molto critico riguardo il chassidismo dei suoi tempi e sottolinea come una causa di questa degenerazione sia la scissione tra preghiera e insegnamento che non si incontrano più «nell’entusiasmo della prassi».79 Il «Tempio dell’amore» si è trasformato in una scuola dove «si recita in fretta una preghiera» e così facendo del «fuoco sacro» si è fatto cattivo uso ed esso è stato chiuso e non può essere riaperto. In questo “nodo” relativo all’uso del fuoco sacro si mette in gioco, secondo chi scrive, tutta la questione legata al concetto di tradizione nel senso di cui si è già detto. Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, dal 1999, data della morte di Grotowski, si è trovato nella condizione del custode del fuoco sacro. Di fronte a un mondo intero che, per aver fatto un seminario di due giorni con Grotowski negli anni Settanta si era messo a vendere generici “metodi Grotowski” pronti all’uso – dopo che il regista aveva passato gli ultimi vent’anni di vita a negare l’esistenza di un metodo – la risposta dei due performer Richards e Biagini è stata molto chiara e ricalca l’atteggiamento dei portatori di fiamma per come vogliamo intenderli in questo nostro lavoro. Grotowski lottava contro il proselitismo, consapevole di non aver fondato un credo o una nuova religione, voleva come allievo qualcuno che fosse davvero capace di tradirlo, qualcuno che comprendesse che il fuoco sacro doveva essere rubato e non chiuso in una cassaforte o messo al riparo in una chiesa; cercava qualcuno che si allontanasse da lui essendo questi per forza di cose e in primo luogo un altro essere umano. Mario Biagini e Thomas Richards hanno dunque assunto una posizione di responsabilità nei confronti della tradizione del maestro: risalgono il fiume, aprono nuovi capitoli. Pur poggiando sulla strenua ricerca del maestro, il loro itinerario va per certi versi in direzioni diverse rispetto a quelle di Grotowski, basti pensare alla decisione di ricominciare a fare spettacoli per il pubblico, riaprendo dunque la ricerca a ciò che Grotowski chiamava Arte come presentazione e che definiva come l’altra estremità della catena delle arti performative rispetto all’Arte come veicolo.
39È utile dunque citare un intervento di Thomas Richards al Simposio di chiusura del progetto Tracing Roads Across dove, in risposta all’ennesima domanda sulla trasmissione e sul tradimento dell’allievo, Richards così si esprime:
Cammini in una foresta e arrivi a una piccola radura, ed è bellissima, la maniera in cui la luce risplende, in cui il verde risalta, e tu sei tentato di sederti. Ma no, non sederti, guarda attraverso gli alberi, vedrai che c’è qualcosa che brilla là. E allora continui la tua strada, e trovi un’altra radura e là all’interno della radura c’è una fontana e questa fontana getta acqua dolce e sei tentato di bere questa acqua, di sederti presso la fontana. No, non farlo, guarda, c’è qualcosa che brilla nella foresta. E continui a camminare nella foresta e là vedi una luce, è come una sfera di luce, è là, nel mezzo di una radura, e la storia continua così. Sì, dobbiamo tradire qualcosa, dobbiamo non fissarci su quello che sappiamo per scoprire qualcosa di nuovo. Perciò la domanda è in verità rivolta a te, a ognuno di noi, come tradiamo questi aspetti di noi stessi in modo che l’albero, che è qualcosa che vive dentro di noi, non si secchi.80
Insomma, bisogna ricordarsi che c’è sempre qualcosa dietro l’angolo e che non lo si può scoprire se ci si continua a barricare dall’altra parte del muro. Il fuoco sacro, come voleva Appia, va portato in alto e agitato nel vento, consapevoli dunque anche della possibilità che si possa spegnere.
40La posizione di Richards, e soprattutto quanto testimoniato e portato avanti con coraggio in questi anni dal Workcenter, ci riporta alla possibilità di considerare il lavoro di Grotowski come un grande fuoco. Anche laddove esso sembra essersi spento a causa degli svariati “grotowskismi” e della mancanza del suo Prometeo, esso ci regala comunque un mucchio di cenere ovvero un testo, ciò che resta di Grotowski, che, rimestato, agiterà di nuovo le nostre timide fiamme.
Notes de bas de page
1 Tra il 1933 e il 1935 vengono pubblicati diversi articoli di Buber: Kampf um Israel. Reden und Schriften 1921-1932 (Battaglia per Israele. Discorsi e scritti 1921-1932), la traduzione dei dodici profeti minori, un’edizione delle sezioni della Bibbia fin qui tradotte (Pentateuco, profeti anteriori e posteriori), la traduzione dei Salmi e la raccolta di saggi Deutung des Chassidismus (Interpretazione del chassidismo). Nel 1936 Buber è impegnato nella stesura e nella pubblicazione di altri lavori: la raccolta Die Stunde und die Erkenntnis (L’ora e la conoscenza) sull’idea di cultura come resistenza alla barbarie, il volume Die Schrift und ihre Verdeutschung (La scrittura e la sua traduzione in tedesco) contenente i saggi di Buber e Rosenzweig sui problemi circa la traduzione e il significato della Bibbia, Zion als Ziel und Aufgabe. Gedanken aus drei Jahrzehnten (Sion come meta e compito. Pensieri da tre decenni).
2 Nel 1936 era iniziata la rivolta araba contro l’amministrazione britannica che aveva appoggiato l’immigrazione degli ebrei in Palestina in seguito alla dichiarazione Balfour (1917). Nel 1937 i britannici propongono una spartizione equa della Palestina tra i due popoli ma da entrambe le parti vi si oppone un netto rifiuto. Nel 1939, dopo la pubblicazione del Terzo Libro Bianco, la presenza ebraica in terra araba sarà in parte scoraggiata tramite una serie di misure contenitive ma tuttavia continuerà in maniera clandestina.
La proposta di Buber, di una convivenza pacifica tra i due popoli, si basava su un’idea comunitaria che il filosofo aveva in parte mutuato da Aaron Gordon, protagonista della seconda Aliyah e figura cardine dell’importante opera buberiana Sion. Storia di un’idea (1950). Nella realtà dei fatti, sin dagli anni Venti la praticabilità di una simile proprosta era risultata già ampiamente compromessa a causa dell’acuirsi delle tensioni tra i due popoli.
3 M. Buber, Lettera a Gandhi (1939), in Id., Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba, testi scelti e introdotti da P. Mendes-Flohr, edizione italiana a cura di Irene Kajon e Paolo Piccolella, Giuntina, Firenze 2008, p. 152. Agli ebrei che cercavano di fuggire dal terrore nazista, Gandhi consigliava di restare in Germania praticando una resistenza non violenta ed esortava a non andare in Palestina in quanto terra araba. Ferito dall’articolo e deluso che fosse stato firmato da colui che tanto ammirava, nel 1939 Buber scrive dunque una lunga e sofferta replica spiegando come la situazione degli ebrei in Germania non potesse essere paragonata in alcun modo a quella degli indiani in Sudafrica. A ben vedere la risposta del filosofo suona come un’amara replica a se stesso, all’appassionato lavoro di una vita consacrata a fondare una patria ebraica, un luogo ideale e “nobile” che nulla ha a che vedere sia con la Germania nazista sia con la Palestina occupata.
4 Articolo pubblicato il 18 luglio 1938 in inglese sul «Palestine Post» e in ebraico sul «Davar», citato in M. Buber, Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba cit., p. clviii.
5 Kazimierz Grotowski, Ritratto di famiglia, in Aa. Vv., Essere un uomo totale. Autori polacchi su Grotowski. L’ultimo decennio, a cura di Janusz Degler e Grzegorz Ziółkowski, Titivillus, Pisa 2005, p. 63.
6 Il 21 marzo 1939 Hitler aveva formulato esorbitanti rivendicazioni verso la Polonia tra cui l’annessione del corridoio di Danzica alla Germania. I polacchi, alleati con Inghilterra e Francia, avevano di conseguenza intimato il rispetto dell’accordo di non aggressione firmato con i tedeschi nel 1934. Nel frattempo Hitler, per preservarsi dalla minaccia da Est, aveva stipulato il patto di non aggressione con i sovietici in cui era prevista anche la spartizione della Polonia tra i due Paesi. Nel settembre scoppia la guerra e la Polonia si trova invasa contemporaneamente dai nazisti a Ovest e dai sovietici a Est. Viene attuato così da ambo le parti un genocidio intellettuale che trova un evento simbolico per eccellenza nel massacro avvenuto nella foresta di Katyn (1940), in cui l’Armata Rossa attua una vera e propria esecuzione di massa di quegli ufficiali polacchi che costituivano l’élite culturale dell’intera Polonia.
7 In realtà il giovane Grotowski era indeciso su cosa fare del proprio futuro e decise di entrare nella scuola d’arte drammatica solo perché le audizioni si tenevano per prime ed era stato subito ammesso. Il fratello racconta che, nonostante le sue votazioni come attore furono basse, fu accettato poiché consegnò uno scritto perfetto.
8 A. Attisani, Smisurato cantabile cit., p. 136. Le citazioni seguenti, fino a nuova indicazione, sono tratte dalla stessa fonte.
9 T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale (1919), in Id., Opere 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano 2001, pp. 393-394.
10 Il processo ad Adolf Eichmann fu il primo processo per crimini nazisti celebrato in Israele. Il 27 gennaio del 1961 Martin Buber rilasciò un’intervista a un noto quotidiano di Tel Aviv, in cui si dichiarava contrario alla pena di morte. Buber riteneva che Israele, come parte lesa, avrebbe dovuto rinunciare al ruolo di giudice e che l’imputato sarebbe dovuto essere giudicato da una corte internazionale. Il Presidente dello Stato di Israele non firmò la domanda di grazia e Eichmann venne impiccato e cremato. Le critiche verso Buber furono molto aspre, soprattutto da parte degli ebrei più giovani e persino da parte di Hannah Arendt ne La banalità del male. Scholem, dal canto suo aveva proposto che Eichman venisse consegnato ai tedeschi e in tal modo sarebbe stata interamente loro la responsabilità della sua sorte.
11 J. Grotowski, Ciò che resterà dopo di me (1995), intervista a cura di Jean-Pierre Thibaudat in Aa. Vv., Opere e sentieri ii – Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998, a cura di A. Attisani e M. Biagini, Bulzoni, Roma 2007, p. 123. Dalla stessa fonte ci sembra utile riportare ancora qualche altro frammento: «È come se la mia eredità provenisse da generazioni lontane, attraversasse parecchie generazioni e anche razze diverse. Bisogna assolutamente evitare il proselitismo. Ci sono molte tecniche, molti approcci efficaci e ci sono anche “strumenti” d’indagine che, per essere pienamente utili, devono entrare in circolazione con cose quasi anonime. Senza ciò diventa una “cappella”. Lei ha ragione: il libro di Thomas con il mio testo in aggiunta sono da considerarsi nel quadro della trasmissione. Richards non si deve sentire un mio debitore, non è obbligato a nulla salvo che a essere fedele alla sua via creativa e al suo itinerario interiore. Gli obblighi esistono solo nel tempo presente, nel lavoro di ogni giorno».
12 Ivi, p. 120.
13 Ivi, p. 118.
14 Nel 1954 la Repubblica popolare polacca, paese satellite nel blocco dell’urss, si trovava spaccata tra la Chiesa, che spingeva le masse verso il nazionalismo e il partito comunista che continuava la massiccia opera di stalinizzazione. Con l’espressione “Ottobre polacco” si definisce il complesso di avvenimenti scaturiti in seguito alla morte di Stalin (1953) e ai cambiamenti sortiti dopo il xx Congresso del partito comunista sovietico (1956) nel corso del quale Nikita Chrušcˇëv aveva denunciato le violenze e i crimini del regime di Stalin. La rivolta operaia di Poznan (giugno 1956), scaturita come protesta contro l’alto costo della vita e le condizioni del lavoro industriale, provocò un grande scontro politico fra stalinisti e moderati al Plenum del comitato centrale del partito comunista (18-20 luglio). Lo scontento generale diffuso nella popolazione e il timore di una rivolta generalizzata convinsero la maggioranza a richiamare Gomułka, leader dei moderati e vittima delle purghe staliniane, a incarichi di governo (ottobre 1956), nonché a elaborare un vasto programma di riforme che accontentasse le istanze dell’opinione pubblica polacca, senza dunque “spaventare” l’Unione sovietica e scongiurando così la minaccia di un’azione militare dell’Armata Rossa e mantenendo la Polonia comunque in campo socialista. Tuttavia, gli stalinisti della direzione del partito si opposero a tali iniziative e prepararono un colpo di stato per il 15-19 ottobre, che fallì per il rifiuto delle truppe a prendervi parte. Preoccupati, i sovietici decisero di intervenire. La mattina del 19 ottobre una delegazione guidata da Chrušcˇëv giunse a Varsavia mentre le truppe dell’Armata Rossa si preparavano all’invasione. In questa atmosfera il comitato centrale elesse Gomułka primo segretario del partito comunista. Nella notte tra il 19 e il 20 ottobre, i due statisti discussero accanitamente la situazione mentre la popolazione si preparava a resistere ai sovietici; rassicurato Chruscëv che la Polonia non avrebbe messo in discussione il regime comunista e il proprio sistema di alleanze, Gomułka venne eletto nel 1957 e i filo-stalinisti furono espulsi. L’Ottobre polacco ebbe forti conseguenze anche in ambito sociale e culturale e costituisce infatti il momento in cui si infervora il movimento giovanile e studentesco polacco. Il giovane Grotowski agisce da protagonista proprio in questi ambienti partecipando dapprima alla creazione dell’Unione rivoluzionaria della gioventù e poi guidando il Centro politico della sinistra accademica e operaia. Per quanto concerne l’atteggiamento di Jerzy Grotowski verso la politica nella fase iniziale del suo lavoro tea-trale si vedano Seth Baumrin, Jerzy Grotowski and the price of artistic freedom, «TDR», 53, 4, 2009; J. Grotowski, Testi 1954-1998. Volume I. La possibilità del teatro, a cura di Carla Pollastrelli e in collaborazione con M. Biagini e T. Richards, La Casa Usher, Lucca 2014, pp. 16-87.
15 Cfr. L. Wolford, Grotowski’s objective drama research, University Press of Mississippi, Jackson 1996.
16 Cfr. J. Grotowski, Testi 1954-1998. Volume I. La possibilità del teatro cit., pp. 16-87.
17 J. Grotowski, Tu es le fils de quelqu’un (1986), in Aa. Vv., Opere e sentieri ii – Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998 cit., p. 66.
18 Forte dell’appoggio di Papa Giovanni Paolo II e grazie alle sovvenzioni americane, Solidarnos´c´ continuerà a esercitare un potere in Polonia, verrà riabilitato e costituirà l’interlocutore principale del partito negli ultimi anni del regime, in particolare nel 1989, anno degli accordi della Tavola Rotonda tenutasi a Varsavia tra esponenti del governo, del poup e dell’organizzazione sindacale di Danzica. Il primo Presidente polacco dopo il crollo del muro di Berlino sarà Lech Wałesa, leader di Solidarnos´c´ arrestato durante la legge marziale.
19 È paradossalmente grazie al suo viaggio a Haiti che Grotowski approfondisce gli studi sul chassidismo poiché laggiù incontra un vecchio che, «con il suo messianismo desideroso di affrettare la fine del mondo» gli ricorda il chassid di Lublino descritto in Gog e Magog. Forse si tratta di Elizier Cadet, personalità degli ambienti vuduistici (cfr. Leszek Kolankiewicz, Grotowski alla ricerca dell’essenza, in Aa. Vv., Essere un uomo totale. Autori polacchi su Grotowski. L’ultimo decennio cit., p. 261. Kolankiewicz propone un’interessante spiegazione della somiglianza tra i due personaggi mettendo in luce le affinità tra la situazione politica della Polonia e di Haiti).
20 L. Kolankiewicz, Grotowski alla ricerca dell’essenza cit., p. 217. Il testo di Grotowski è tratto da Grotowski powtórzony. Słowa, słowa, słowa [Grotowski ripetuto. Parole, parole, parole], «Maski», i, 1986, p. 376.
21 M. Buber, Gog e Magog, Neri Pozza, Vicenza 1999, p. 292.
22 J. Grotowski citato in L. Kolankiewicz, Grotowski alla ricerca dell’essenza cit., p. 218.
23 Ibid.
24 J. Grotowski, Performer, in Aa. Vv., Opere e sentieri ii – Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998 cit., p. 89.
25 M. Buber, Gog e Magog cit., p. 190.
26 R. Schechner, Exoduction, in Aa. Vv., The Grotowski Sourcebook, a cura di R. Schechner e L. Wolford, Routledge, London-New York 1997, p. 484.
27 L’episodio è raccontato dallo stesso Kott in Grotowski or the limit, in Aa. Vv., The Grotowski Sourcebook cit., p. 308.
28 M. Buber, Il problema dello spazio scenico, fino a nuova indicazione le citazioni sono dall’edizione italiana in appendice al nostro volume.
29 Sonia Moore, The Stanislawski System (1960), Penguin Books, New York 1984, p. 23.
30 Eugenio Barba, La terra di cenere e diamanti, Ubulibri, Milano 2004, p. 39.
31 A. Artaud, Teatro Alfred Jarry, in Id., Il teatro e il suo doppio, pref. di Jacques Derrida, Einaudi, Torino 2000, p. 7.
32 Louis Jacobs, The Jewish religion: a companion, Oxford University Press, Oxford 1995, p. 223.
33 Si tratta di una vera e propria scala di passioni: esiste una “paura inferiore” (chiamata “madre inferiore”) che genera una forma d’amore non perfetta chiamata “fratello”, questo tipo di amore genera un amore perfetto chiamato “padre”. Il padre genera la paura più alta, la “madre superiore” (cfr. Norman Lamm, The religious thought of Hasidism: text and commentary, ktav Publishing house, New Jersey 1999).
34 Un elemento distintivo della carriera tea-trale di Grotowski è il progressivo scomparire dello spettatore in senso proprio. A partire dagli anni Ottanta, il regista inaugura un nuovo ambito della sua ricerca sulle arti performative, denominato Arte come veicolo. In questo ambito non è prevista la presenza dello spettatore, nel senso che l’azione non è pensata per essere vista da altri tranne che da chi fa (l’attuante).
35 R. Temkine, Il Teatro-Laboratorio di Grotowski, De Donato, Bari 1969, p. 107.
36 Intervista con Grotowski (1968), in Aa. Vv., Opere e sentieri ii – Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998 cit., p. 29.
37 Principe costante, Calderón - Słowacki. Prima rappresentazione 25 aprile 1965 (cfr. Lorenzo Mango, Il Principe costante di Calderón de la Barca – Słowacki, ETS, Pisa 2008). Un’altra interessante descrizione dello spettacolo è stata condotta da Serge Ouaknine in Vanda Monaco, Grotowski o della negazione, Samonà e Savelli, Roma 1972.
38 Intervista con Grotowski (1968) cit., p. 30.
39 J. Grotowski, Per un teatro povero (1968), in Id., Il Tea-tr Laboratorium cit., p. 121.
40 Ibid.
41 Ibid.
42 Ibid.
43 Il riferimento è chiaramente a Antonin Artaud e al suo Teatro della crudeltà. Per Artaud crudeltà è sinonimo di sincerità verso se stessi, di quella lotta (psicomachia) che l’uomo compie contro se stesso per se stesso. Ci sembra interessante riportare un frammento di una lettera di Artaud dal forte sapore gnostico in cui viene spiegato questo concetto: «Caro amico, la crudeltà non è sovrapposta al mio pensiero, vi è sempre esistita: mi occorreva soltanto prenderne coscienza. Uso il termine crudeltà nell’accezione di appetito di vita, di rigore cosmico, di necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere; il bene è voluto, è la conseguenza di un atto; il male è permanente. […] E il teatro, inteso come creazione continua, come azione magica totale, obbedisce a questa necessità. Un dramma in cui non esistesse, visibile in ogni gesto e in ogni atto, e nell’aspetto trascendente dell’azione, questa volontà, questo cieco appetito di vita, capace di superare ogni cosa, sarebbe un dramma inutile e mancato» (Lettera del 14 novembre 1932 in A. Artaud, Il teatro e il suo doppio cit., p. 217).
44 J. Grotowski, Per un teatro povero (1968) cit., p. 130.
45 Ivi, p. 138.
46 Ivi, p. 137.
47 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici cit., p. 78.
48 Ivi, p. 79, corsivo nostro.
49 T. Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano 1993, p. 22.
50 J. Grotowski, Le prince constant de Ryszard Cies´lak, Rencontre ‘Hommage à Ryszard Cies´lak’, 9 dicembre 1990, organizzato dall’Académie Expérimentale des Théâtres in collaborazione con Théâtre de L’Europe, pubblicato in Aa. Vv., Ryszard Cies´lak, acteur-emblème des années soixante, a cura di Georges Banu, Actes Sud-Papiers, Parigi 1992, p. 13. La traduzione italiana è tratta da A. Attisani, Actoris Studium #1. Processo e composizione nella recitazione da Stanislavskij a Grotowski e oltre cit., p. 235.
51 J. Grotowski, Teatro e rituale, in Id., Il Tea-tr Laboratorium cit., p. 150.
52 Ivi, p. 151.
53 Ibid.
54 Ivi, p. 152.
55 Nel 1970 Grotowski dichiara chiusa la propria esperienza come regista di spettacoli e inaugura una nuova fase definita «paratea-trale». In questa fase, in cui si rivela fondamentale la dimensione “interumana” dell’attività artistica, il regista si concentra sul risveglio di quella capacità dell’uomo di “entrare in relazione”. Grotowski si rende tuttavia conto che questo approccio al teatro può risultare poco fertile senza un’apertura verso l’esterno e cioè senza che la relazione possa essere fondativa non solo di un giorno speciale (Holiday) ma della vita quotidiana. In sostanza l’approdo all’Arte come veicolo dopo la parentesi tea-trale risponde ai limiti riscontrati con il teatro partecipativo: «Quali sono state le conclusioni? […] Nei primi anni accadevano cose al limite del miracolo. […] Però poi, quando lo facevamo con un po’ più di gente […] funzionavano un certo numero di elementi ma l’insieme scadeva abbastanza facilmente in una zuppa emotiva tra le persone, nell’imprecisione e in definitiva solo nell’animazione. Al parateatro e al Teatro delle fonti era legato un sostanziale pericolo: quello di fissarsi sul piano vitale, prevalentemente corporeo e istintivo e […] non permettere di passare nell’azione al livello più alto» (J. Grotowski, Dalla compagnia tea-trale all’Arte come veicolo, in Id., Il Tea-tr Laboratorium cit., p. 264). Per un approfondimento circa l’attività paratea-trale si veda J. Grotowski, Holiday e il teatro delle fonti, a cura di C. Pollastrelli, La Casa Usher, Firenze 2006.
56 M. Buber, Tre ruoli di Novelli, infra, p. 228.
57 J. Grotowski in una conversazione con Ferdinando Taviani e Anatoli Vasil’ev, Cronaca del quattordici, in Aa. Vv., Opere e Sentieri iii, Testimonianze e riflessioni sull’Arte come veicolo, a cura di A. Attisani e M. Biagini, Bulzoni, Roma 2007, pp. 75-96.
58 J. Grotowski, Dalla compagnia tea-trale all’Arte come veicolo, in Aa. Vv., Opere e sentieri ii – Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998 cit., p. 101.
59 Per un approfondimento sul canto nell’Arte come veicolo si vedano le dichiarazioni del perfomer americano in The edge-point of performance, intervista di Lisa Wolford a T. Richards, in T. Richards, Heart of practice. Within the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, Routledge, London-New York 2008, pp. 1-60.
60 M. Buber, Io-Tu cit., p. 69.
61 Mario Biagini è il co-direttore artistico del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. Ha lavorato con Grotowski a Pontedera e ha portato avanti, insieme a Richards, il lavoro sull’Arte come veicolo (cfr. M. Biagini, Seminario a «La Sapienza», ovvero della coltivazione delle cipolle cit., p. 40).
62 T. Richards, Frammenti da In the territory of something third, intervista a cura di Kris Salata, Vienna, 6 novembre 2004 in Aa. Vv., Opere e sentieri i – Il workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards cit., p. 181, corsivo nostro. Kris Salata è uno studioso cui va il plauso di aver per primo tematizzato la possibilità di leggere l’Arte come veicolo attraverso la filosofia dialogica. Si veda K. Salata, Toward the Non-(Re)presentational Actor From Grotowski to Richards, «TDR: The Drama Review», 52:2 (T198), Summer 2008, New York University and the Massachusetts Institute of Technology.
63 M. Buber, Il problema dell’uomo cit., p. 118. Tutto il saggio è un tentativo di rispondere alla domanda sull’uomo ponendo al vaglio le risposte dei più importanti filosofi moderni e contemporanei.
64 Ibid.
65 Ibid.
66 M. Buber, Gog e Magog cit., p. 190.
67 R. Schechner, Exoduction. Shape-shifter, shaman, trickster, artist, adept, director, leader, Grotowski, in Aa. Vv., The Grotowski Sourcebook cit., p. 466.
68 Ivi, p. 485.
69 J. Grotowski, pref. a T. Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche cit., pp. 9-10.
70 Pensando a questa caratteristica del “silenzio” di Grotowski è venuto spontaneo il riferimento di Buber a Rabbi Mendel di Worki: «Il silenzio non è per lui un rito, come ad esempio presso i quaccheri, ma neppure un esercizio ascetico, come ad esempio in sette indiane, eppure è un’arte, così come la comprende il Rabbi di Kozk, il silenzio è la sua via. Il principio di tale silenzio non è negativo, non è pura assenza di parola, esso è del tutto positivo e opera coma tale. Il silenzio di Mendel è una coppa colma di un’essenza invisibile e chi è con lui la respira» (M. Buber, Introduzione a I racconti dei chassidim cit., p. 532).
71 T. Richards, Heart of practice cit., p. 2.
72 M. Biagini, Seminario a «La Sapienza», ovvero della coltivazione delle cipolle cit., p. 29.
73 J. Kott, Grotowski or the limit, in Aa. Vv., The Grotowski Sourcebook cit., p. 307.
74 M. Biagini, Seminario a «La Sapienza», ovvero della coltivazione delle cipolle cit., p. 24.
75 «Quando, nel 1981, con il secondo gruppo internazionale del Teatro delle fonti, siamo andati in giro per la Polonia, visitando piccole città, paesi, in realtà pronti al peggio, forse davvero avevamo davanti agli occhi l’immagine dello zaddik errante con i suoi chassidim» (L. Kolankiewicz, Grotowski alla ricerca dell’essenza cit., p. 259).
76 M. Buber, Introduzione a I racconti dei chassidim cit., p. 457.
77 J. Grotowski, Performer (1987), in Aa. Vv., Opere e sentieri ii – Jerzy Grotowski, testi 1968-1998 cit., p. 83.
78 M. Buber, Introduzione a I racconti dei chassidim cit., p. 461.
79 Ivi, p. 525. Le citazioni seguenti sono tratte dalla stessa pagina.
80 Dalla trascrizione di registrazioni audio relative al dialogo aperto tra Richards e Biagini con il pubblico in occasione del Simposio Internazionale su Tracing Roads Across, Living Traces – Performing as a shared reality, svoltosi a Pontedera l’11 e il 12 aprile 2006.
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