IV. Le ceneri di un sogno. Martin Buber a Hellerau
p. 129-165
Texte intégral
1Nel confrontare Duse e Novelli, Buber compie un’operazione comune a molti registi e uomini di teatro che in questo inizio secolo osservano molto da vicino i grandi attori italiani. Descrivendo Novelli, Buber rende manifesta un’insofferenza verso un teatro desueto e incapace di rispondere alle esigenze dell’uomo contemporaneo; osservando la Duse invece, se da una parte si rende amaramente conto di avere di fronte un’eccezione, intuisce pure come sia possibile stabilire una linea di continuità tra l’attrice italiana e un nuovo tipo di teatro. La spiccata sensibilità del filosofo si inscrive nel quadro di un sentire generale che porta, negli stessi anni, molti uomini di teatro a lavorare per smantellare un teatro inautentico, fatto di fondali di carta malamente illuminati e caratterizzato da una generale scarsa attenzione verso l’impatto visivo e il ruolo dello spettatore.
2Nelle cronache di altri illustri testimoni dell’epoca, la Duse compare sempre come un unicum o quanto meno come una figura di svolta insieme ad attori come Tommaso Salvini e Ernesto Rossi. Grandi registi tra cui Craig, Vachtangov, Mejerchol’d e Stanislavskij fanno spesso riferimento a questo modello di attore: lo usano come bersaglio per proclamare un’inversione di tendenza e tuttavia nel contempo ne studiano le caratteristiche venerandone la memoria.1 Il rapporto tra la nascita della regia tea-trale e la fine del fenomeno del “grande attore” ottocentesco è stato insomma un processo complesso che ha contemplato una rottura netta in termini di stile e mezzi ma anche un tentativo di continuità dal punto di vista degli effetti e degli scopi. Guardando ora Salvini ora la Duse, i nuovi registi imparano che il teatro può aprire mondi paralleli rispetto a quello suggerito dal testo drammatico, mondi in cui la molteplicità di emozioni ed esperienze può essere emblematicamente convogliata dalla figura in un unico attore. In scena egli è infatti capace di riempire lo spazio e di fare vibrare l’aria attorno instaurando una relazione molto forte con lo spettatore. Esemplare in tal senso è l’impressione che Stanislavskij riceve da Salvini: «Non starò qui a descrivere come Salvini interpretava la parte di Otello rivelando davanti a noi tutta la ricchezza del suo contenuto interiore e facendoci percorrere a poco a poco tutti i gradini di quella scala per la quale Otello doveva discendere lentamente nell’infernale abisso della sua gelosia».2
3Gli sforzi dei registi d’inizio secolo vanno nella stessa direzione del grande attore ma adoperano mezzi nuovi: volendo «percorrere tutti i gradini» della scala essi rendono denso lo spazio scenico attraverso una nuova architettura delle scene, un uso funzionale delle luci, un’attenzione inedita verso i corpi degli attori. Il teatro dei nuovi registi diventa così un corpo unico rispondendo all’esigenza di mettere in scena non più «singoli attori in vita ma spettacoli vivi».3 Leggendo i loro scritti e seguendo i loro percorsi, si scopre come l’immancabile costante sia una certa «fame di vita»,4 uno stimolo che li spinge ad amplificare il lavoro del grande attore attraverso l’orchestrazione di uno spettacolo totale: un unico grande organismo che pulsa con un ritmo proprio, una forza alimentata dai principi organici del fare tea-trale.
4Questo principio vitale viene conseguito nella realizzazione scenica attraverso uno studio delle relazioni e proporzioni che regolano il tempo e lo spazio. Creare vita non significa portarne in scena una copia del reale ma trattare gli elementi della scena come cellule di un organismo, attore compreso. Lo spazio viene considerato non come una cornice vuota da riempire ma come un pieno da rimodellare attraverso nuovi criteri di tridimensionalità e simultaneità. Aggiungere o togliere una cellula inficia il funzionamento dell’intero corpo scenico e spostare una sua parte significa produrre così un movimento nell’intero spazio.
5Martin Buber, negli anni dal 1912 al 1920, si occupa in prima persona delle questioni legate alla pratica tea-trale, non più come spettatore ma all’interno di un progetto artistico che fu fondamentale per la storia della prassi scenica del Novecento. Prima di inserire il filosofo all’interno del nuovo panorama registico d’inizio secolo occorre chiarire il contesto all’interno del quale si inscrive la sua vicenda tea-trale.
6La nascita della regia coincide, cronologicamente e simbolicamente, con la scoperta della luce come fattore unificante dello spettacolo. 5 L’illuminotecnica in questi anni compie infatti alcuni passi fondamentali, basti pensare al passaggio dalla luce a gas a quella elettrica. L’atteggiamento degli uomini di teatro nei confronti dei nuovi mezzi è dettato dalla convinzione che la luce non serva per illuminare il più possibile o per mostrare la ribalta, ma che possa agire da elemento coerente e funzionale alla singola messa in scena. Il naturalismo, che sancisce la diffusione del principio registico, rifiuta programmaticamente la “scena dipinta” per superare la contraddizione tra bidimensionalità dei teli e la tridimensionalità dell’attore in carne e ossa. In questo senso l’illuminotecnica soccorre la realizzazione scenica al fine di conferire veridicità a uno spazio che deve sembrare reale. Il primo impulso in questo senso viene dalla compagnia dei Meininger6 e soprattutto da uno dei padri del naturalismo, André Antoine.7 Le scene dei suoi spettacoli sono progettate in modo da separare il palcoscenico dalla platea tramite una “quarta parete” e gli spettatori sono considerati come voyeurs immersi nel buio della sala mentre gli attori recitano ignari del pubblico. Jean Jullien, il primo a usare la definizione di “quarta parete”, trasparente per il pubblico e opaca per gli attori, si pone sulla stessa linea: «Bisogna che il pubblico possa perdere per un attimo la coscienza di essere a teatro, per questo credo necessario all’alzarsi del sipario, creare il buio in sala; la scena risalterà allora con maggiore vigore, lo spettatore resterà attento, non oserà più chiacchierare, potrà quasi sembrare intelligente».8
7Jullien si pone in modo critico di fronte alla consuetudine della luce dalla ribalta poiché essa contraddice le esigenze del naturalismo che prevedevano invece la luce dall’alto come avviene in natura. Se in questo caso la luce è funzionale a ciò che si vuole mostrare, nel simbolismo essa diventa invece il mezzo per favorire la smaterializzazione della scena e la cancellazione dell’attore in carne e ossa. Alfred Jarry, tra gli altri, insiste nel porre l’accento sulla spersonalizzazione dell’attore e dunque adopera il dispositivo della maschera e ricorre a un uso più mirato della luce artificiale. Più avanti questa istanza verrà portata avanti da Gordon Craig, figura di spicco nel panorama registico d’inizio secolo e che fu, tra l’altro, un grande estimatore e collaboratore di Elenora Duse.
8Un’altra tendenza di questi anni è volta a “ritualizzare” il teatro rivendicando uno statuto autonomo della messa in scena rispetto al testo e alla pittura. In questa direzione lavora Georg Fuchs,9 per il quale il teatro deve tornare a essere rito recuperando la sfera sacra e la dimensione collettiva che lo ha caratterizzato alle sue origini. Fuchs fa recitare gli attori sul proscenio inondandoli di una luce dall’alto e rendendo manifesta la presenza di una soglia tra attore e spettatore che anziché dividerli, li unisce.
9Nel 1921 Adolphe Appia pubblica uno scritto fondamentale per il nuovo teatro: Il teatro come opera d’arte vivente. Per l’artista ginevrino la musica riveste un’importanza capitale nell’esperienza scenica in quanto agisce come canale privilegiato tra immanenza e trascendenza. Con Appia il teatro si fa dunque metafisico e la luce va a modularsi sul ritmo vitale della musica: «Ciò che nella partitura è la musica, lo è la luce nel regno della rappresentazione: l’elemento espressivo in opposizione al segno che significa. La luce, come la musica, esprime ciò che appartiene all’essenza intima di ogni visione.10
10Appia ricorre a una doppia illuminazione: quella diffusa volta a far vedere la scena, e quella diretta o attiva che invece permette l’azione creativa. Questa opposizione tra segno e espressione, tra partitura e creazione, tra composizione e processo, ci riporta a una questione chiave del teatro del Novecento di cui si è già detto commentando la recensione di Buber sulla Duse. La capacità dell’attrice italiana di “uscire da sé pur rimanendo presso di sé” ossia in breve di convogliare all’interno di sé la polarità dell’azione tea-trale, si gioca anche sul doppio binario spontaneità-partitura scenica, ossia in quella capacità di regolare e incanalare l’emozione all’interno di una struttura fissa, pena l’annullamento e la sterilità dell’intera azione.
11La scena all’italiana, in vigore a partire dal xvi secolo come contenitore del dramma, ha causato una graduale perdita dei valori collettivi legati alla partecipazione tea-trale in un duplice processo: da una parte è venuta meno l’idea di comunione e di coralità fruitiva e dall’altra si è avviato un meccanismo di immedesimazione dello spettatore con il personaggio tea-trale. La magia della prospettiva e l’ipnotismo del trompe l’œil proiettano lo spettatore in un’azione reale di cui si fa protagonista trasferendosi sul personaggio. Da questo punto di partenza, i registi di questi primi anni del Novecento si trovano alle prese con una vera e propria ossessione verso lo spazio scenico nel tentativo di cambiarlo, sovvertirlo e plasmarlo in nome di esigenze non meramente scenografiche e tecniche ma che appartengono al divenire storico-sociale. Lo spazio all’italiana viene avvertito come uno spazio rigido, non plasmabile e dunque limitante: «Proprio nel preciso istante in cui la scrittura scenica tende a rivendicare una sua autonomia creativa e il regista rinuncia al suo ruolo di interprete per offrirsi tout court come creatore, il problema della ricerca di una nuova spazialità al di fuori delle costrizioni imposte dalla boîte tende a identificarsi con quello della messa a fuoco di una libertà demiurgica di espansione».11
12Lo spazio scenico è il luogo di quella contesa tra due forme di scrittura (quella drammaturgica e quella scenica) che porterà in questi anni personaggi come Appia e Craig a reclamare un’unificazione dei poteri. Secondo la prospettiva più radicale di Antonin Artaud, il teatro letterario, pensato anche come opera che vive fuori dalla materia fisica del teatro, è una vera e propria perversione. Sono molte le voci che si alzano in difesa del teatro in quanto arte autonoma rispetto all’«hortus conclusus»12 della pagina scritta. Quest’ultima non viene demonizzata e bandita ma accolta e inserita nella sua più naturale collocazione: la scena. La parola diventa così parola in azione, parola fisica intesa primariamente come suono e moto dell’anima e non soltanto come contenuto mentale. In questo scorcio di anni assistiamo a diversi tentativi di riabilitazione della parola in campo tea-trale o paratea-trale, basti pensare al caso dell’Euritmia di Rudolf Steiner,13 in cui nei suoni delle parole si esprime il mondo spirituale dell’uomo e alle lettere dell’alfabeto corrispondono gesti e movimenti precisi. Steiner, come molti altri personaggi di questo inizio secolo, era un pedagogo. Dobbiamo infatti ricordare che in tutta Europa, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, nasce una grande quantità di scuole e laboratori in cui il teatro viene insegnato non solo come mestiere ma come esercizio spirituale. Al di là delle singole e diverse poetiche emerge una volontà di fondo: fare del teatro una ricerca e una costruzione di senso, un senso umano e contemporaneamente artistico e creativo. Nel suo ritorno al teatro, l’esperienza scenica riacquista carattere relazionale e recupera una condivisione di principi e valori trasmissibili. Ricordando l’enorme importanza conferita da Buber all’insegnamento e all’educazione non può stupire il suo interesse, sfociato in una collaborazione concreta, verso il piccolo centro di Hellerau.
1. Hellerau
Rabbi Chajim di Krosno, un discepolo del Baalschem, stava un giorno insieme ai suoi discepoli a guardare un funambolo. Era così assorto in quella vista che essi gli chiesero che cosa l’affascinasse tanto in quello sciocco spettacolo. «Quell’uomo» rispose «mette in gioco la sua vita, non saprei dire per quale ragione. Ma certamente egli, mentre cammina sulla corda, non può pensare che con quello che fa guadagna cento fiorini; non appena lo pensasse, precipiterebbe».
M. Buber, I racconti dei chassidim
(cit., p. 699)
La vita è breve e incerta e siamo minacciati dalla morte. Allora vieni a Hellerau! […] Credimi! Vieni a Hellerau! Non indugiare! Vieni! […] Liberamente, apertamente! Immergiti in questo posto speciale e poi torna di nuovo! […] Orfeo è miracoloso!
A. Appia, Lettera a Henri Didier (1913)
(citata in Richard C. Beacham, Adolpe Appia. Artist and visionary of the modern theatre, Harwood Academic Publisher, Philadelphia 1994, p. 100)
13Il 26 giugno del 1912 Martin Buber si trova presso Hellerau, piccolo centro nei sobborghi di Dresda, e siede tra gli spettatori dell’Orfeo di Gluck assistendo a una delle più importanti realizzazioni sceniche della storia del teatro europeo. Le novità sono infatti rilevanti: l’uso creativo della luce, la continuità spaziale tra attore e spettatore, la qualità inedita del movimento dei performer, lo spazio scenico e non ultimo il pubblico d’eccezione accorso da tutta l’Europa.14
14L’anno dopo Buber, insieme a Emil Strauss, Paul Claudel15 e Jakob Hegner,16 fonda l’Associazione per l’organizzazione di spettacoli drammatici a Hellerau e l’Orfeo17 viene proposto integralmente. È indubbio che le ragioni che suscitano così tanto interesse da parte di Buber vadano ricercate nella folgorante messa in scena dello spettacolo di Gluck (lo testimonia Il problema dello spazio scenico), tuttavia non dobbiamo trascurare la probabile forte attrazione che doveva esercitare per lui l’idea di comunità alla base di tutto il progetto di Hellerau. Essendo molto scarse le fonti riguardo all’effettiva collaborazione di Buber al progetto della città giardino, ed essendo per lo più tutte legate a un’unica fonte (le informazioni biografiche di Maurice Friedman), si cercherà in questo capitolo di tracciare un panorama il più completo possibile dell’attività di Hellerau e dei suoi protagonisti, facendo emergere di volta in volta gli aspetti che possono trovare una connessione con il pensiero del filosofo.
15Hellerau, concepita attorno all’idea di città giardino18 che tanta fortuna ebbe nel xx secolo, venne costruita grazie a Carl Schmitt, fondatore insieme a Frederic Nauman del Werkbund tedesco. Nel 1907 Schmitt decise di aprire una fabbrica con milleduecento lavoratori volta alla produzione di arredi e utensili. Preoccupato per l’infelice situazione degli operai nelle grandi città tedesche, progettò la costruzione di un piccolo centro, vicino alla fabbrica, dove i lavoratori potessero vivere con le proprie famiglie in un tranquillo contesto naturale. Progettò Hellerau come un piccolo mondo a sé con negozi, servizi postali, scuole e ospedali. Lo stile urbano venne creato a immagine degli oggetti prodotti nella fabbrica, esteticamente piacevoli ma allo stesso tempo funzionali.19 L’idea di base era quella di dare vita a una piccola società armonica in cui tutti gli abitanti potessero beneficiare fisicamente e moralmente del contesto organizzato e della comune attività culturale.
16Nel frattempo, alla fine di aprile del 1906, Adolphe Appia assiste a una sessione di lavoro degli allievi di Jaques-Dalcroze e ne rimane folgorato. La collaborazione tra i due si protrae per un decennio e Appia, oltre a disegnare le scene, supporta le idee di Jaques-Dalcroze attraverso un’adeguata formulazione teorica. Nel 1909 Appia concepisce così gli spazi ritmici, progetti scenografici realizzati come base spaziale funzionale al movimento ritmico dell’attore. Il principio fondamentale dello «spazio vivente»20 formulato da Appia è il contrasto:
D’altra parte è l’opposizione del corpo che anima lo spazio. […] Questa tensione si manifesta in due modi: o tramite l’opposizione delle linee, quando osserviamo un corpo in contatto con le forme rigide dello spazio; oppure quando è il nostro stesso corpo a provare le resistenze che queste forme gli oppongono. […] Supponiamo di avere un pilastro verticale quadrato dagli spigoli nettamente marcati. […] Un corpo vi si avvicina. Dal contrasto fra il movimento di quest’ultimo e l’immobilità tranquilla del pilastro scaturisce già una sensazione di vita espressiva […]. Ma ecco che il corpo tocca il pilastro; l’opposizione si accentua ulteriormente. Infine il corpo si appoggia al pilastro la cui immobilità offre a quello un solido punto di appoggio: il pilastro resiste. Esso agisce! L’opposizione ha creato la vita nella forma animata: lo spazio è divenuto vivente!21
L’impressione che Appia riceve dalle performance dalcroziane è assimilabile a un’immagine precisa: quella di un gruppo di alpinisti alle prese con la scalata del Cervino, tuttavia su una superficie piana. Condividendo con Jaques-Dalcroze la convinzione che la musica sia il principio guida sulla scena, Appia ritiene quindi opportuno aggiungere alcuni importanti elementi. Jaques-Dalcroze cercava la traduzione corporea della musica, ossia un corpo armonioso che ne fosse una trasposizione visiva. Il performer, il ritmista, doveva imparare a non opporre resistenza seguendo con il corpo i ritmi dettati dal suono. Perdendo gli automatismi e le resistenze del corpo, egli si trovava in una sorta di rilassamento simile a quello del funambolo: un’alternanza tra tensione, partitura precisissima e rilassamento, svuotamento, 22«Proprio da qui, da questo sdoppiamento, viene al ritmista non solo una comprensione diversa della musica […] ma anche un tipo di percezione differente, non quotidiana, che lo dovrebbe mettere in uno stato di comunicazione verticale, per esempio, con i valori archetipici connessi alla musica».23
17Il funambolo non può, come il piccolo falso attore in Daniel, confidare sulla precisione e sull’aderenza alla parte rischiando di trasformare la partitura in automatismo e quindi di nuovo in un blocco, in una resistenza. Il funambolo sa che è in gioco la propria vita e sa che quella stessa precisione e partitura deve essere continuamente verificata ed egli, oltre a essere preciso, deve mantenersi vigile modificando la propria partitura in base alle diverse circostanze e imprevisti (la direzione del vento, l’attrito delle calzature, la presenza del bilanciere…). Oltre la precisione il performer deve essere presente a se stesso, in grado di verificare la partitura non con l’automatismo bensì in modo creativo con l’unità corpo e mente e non da solo bensì in relazione-opposizione con l’esterno.
La figura-guida dell’azione ogni volta precisa è l’acrobata. Dopo avere ammirato un funambolo, ai Giardini d’Estate, Stanislavskij lo addita come esempio agli attori perché «l’acrobata non fa niente a caso. Non lascia niente al caso. Sa benissimo che basta che scivoli per rompersi l’osso del collo». L’acrobata non può affidarsi alla memoria muscolare della prima volta. Deve trovare la precisione ogni volta: alla mutata direzione del vento, alla diversa elasticità della fune, al proprio stato interiore e fisico… Deve: altrimenti rischia la morte.
Così come l’attore che, se si affida alla memoria muscolare della prima volta, rischia la morte spirituale della parte.24
18L’ipotesi acrobatica contiene una dimensione formativa che non riguarda solo l’attore ma l’uomo in generale. Insieme alla distinzione tra i due tipi di attori, tracciata nel Dialogo dopo il teatro, viene in mente anche la differenza tra i due viandanti di cui Buber parla in un altro dialogo, Il dialogo da sopra la città. Il performer-acrobata è tuttavia più del viandante “senza mappa” di Buber:25 se è vero che come quest’ultimo si immerge nel pericolo e nello sconosciuto, è pure vero che non dimentica mai la mappa precisa dei suoi passi. Questo nuovo viandante reinventa la propria mappa a ogni passo, la mette in crisi confrontandosi con il mondo così come l’acrobata mette a rischio di continuo il livello della sua precisione uscendo dall’universo tranquillo della finzione scenica, libero di ricreare la sua partitura in relazione con l’esterno. Per costoro appare «una sola, luminosissima stella»26 che, luminosa in quel cielo che poco prima era minaccioso e ostile, conferisce un senso allo stare al mondo.
19Di nuovo vita e teatro si intersecano e diventano, ora con Jaques-Dalcroze, protagoniste della rivoluzione pedagogica delle arti nel xx secolo. L’attore infatti perfeziona la propria partitura scenica (azione e insieme progetto di vita) per dominarla attraverso il corpo-mente (per Buber si tratta della scelta totale di Eleonora Duse, del simbolo del viandante…).
20Tornando a Jaques-Dalcroze dobbiamo ricordare come egli debba essere annoverato tra gli iniziatori di questa ricerca a fini spirituali all’interno del teatro, basti ricordare, tra gli altri, Rudolf Steiner e Georges Gurdjieff.27 Jaques-Dalcroze e Appia condividono una concezione della musica come forza collettiva, molto più di un’opera d’arte individuale: «[…] dovremmo pensare al rapporto tra ritmista e musica non come a quello che può esserci tra attore e testo, ma come qualcosa di simile al rapporto tra attore e archetipo».28
21Se accogliamo questa felice considerazione di Mirella Schino e ricordiamo quanto detto da Buber riguardo al processo dell’attore, ci rendiamo conto della vicinanza tra le poetiche di Jaques-Dalcroze e Buber. La musica è ciò che per il nostro filosofo è l’eroe: l’attore ci si pone di fronte allacciando una relazione. La musica è una proiezione di un’interiorità collettiva proprio come l’archetipo; l’attore, aprendo una relazione, si fa portatore di questa istanza sovraindividuale. In scena, il performer rende manifesto quello spirito «che viene acquisito nel corso del tempo, lo spirito le cui ali sono veloci come un istante e il cui nome è “esperienza vissuta” (Erlebnis)».29 Se Jaques-Dalcroze lavora affinché i corpi in scena diventino un unico grande corpo che materializza, come un fiume, le energie della musica, Appia lavora affinché quello stesso fiume incontri una diga, un’interruzione che gli permetta di scorrere proprio in virtù dell’ostacolo. Nelle scene realizzate da Appia il performer supera ostacoli e si muove tra piani sfalsati (frequente è l’uso della scala che diventa un vero e proprio stilema poetico del ginevrino). Lo spazio scenico è il terreno di una lotta tra performer e limite fisico. Il risultato è la creazione di una scena polare generata da una pluralità armonica di tensioni sotterranee, percepibili seppure non immediatamente visibili. Fondamentalmente, Appia, spostando l’accento del lavoro di Jaques-Dalcroze verso il teatro, si preoccupa dello spettatore e lavora affinché si dia un contatto. Attraverso questa “fatica” imposta al performer, Appia intende sviluppare la stessa idea che era alla base della ritmica dalcroziana, ossia quella tensione tra attenzione e rilassamento, tuttavia rendendola ora percepibile anche all’osservatore.
22Nell’ottobre del 1909 Jaques-Dalcroze tiene una sessione aperta di lavoro a Dresda e tra il pubblico siede anche il trentaduenne Wolf Dohrn, il segretario generale del Werkbund tedesco. Dohrn, un mese dopo, invita ufficialmente Jaques-Dalcroze a stabilirsi nella nuova città giardino di Hellerau e a costruire il suo centro di lavoro così da poter prendere parte all’utopica costruzione di una società fondata sullo studio e sulla pratica dell’arte e della bellezza. Appia allora comincia a disegnare i progetti per l’istituto, la cui costruzione viene affidata al giovane architetto Heinrich Tessenow.30 L’edificio di Hellerau è considerato uno dei capolavori dell’architettura funzionale e un simbolo di quella rivoluzione iniziata a metà Ottocento: le linee architettoniche sono regolari, pure e sembrano quasi incarnare un classicismo sospeso nel tempo. Per quanto riguarda la sala principale,31 l’intervento di Appia fu poderoso: si trattava di uno spazio indiviso, con luci e orchestra nascosti, senza proscenio e palcoscenico sollevato. Questa idea di spazio unico e indifferenziato, in cui le relazioni tra pubblico e performer potessero scaturire per vie simili al contagio, colpì a tal punto Buber da portarlo a scrivere, qualche anno dopo, un articolo che commenta dettagliatamente questo modo di intendere lo spazio.32 Rimarcando che per Appia l’avventura di Hellerau costituiva la possibilità di mettere in scena un “corpo collettivo” inteso come epifania del sociale, non dobbiamo dimenticare che sostanzialmente della stessa stregua era pure il progetto artistico di Buber: anche il nostro filosofo, come i fondatori di Hellerau, credeva al grande sogno di un’umanità che potesse essere salvata dall’arte e dalla bellezza. Non può stupire l’interesse di Buber verso Émile Jaques-Dalcroze e la sua piccola officina creativa, soprattutto se pensiamo anche che il filosofo, per tutta la vita e senza soste, non aveva cercato altro che questa stessa possibilità per il suo popolo.
2. Lo spazio polare
23«L’autentico sentimento dell’arte è, come tutti i sentimenti compiuti, un sentimento polare. Ci trasporta nel mezzo di un mondo in cui non siamo capaci di entrare». Comincia così Il problema dello spazio scenico,33 articolo del 1913 che Buber scrive per il programma di sala dell’Annuncio fatto a Maria, 34 spettacolo di Paul Claudel messo in scena nell’ottobre dello stesso anno. Questo breve saggio anticipa molti elementi chiave della più matura filosofia dialogica e in particolare prende in esame i concetti fondamentali di “distanza” e “relazione”. I sentimenti propri dell’arte sono contrastanti: da una parte c’è la gioia di trovarsi all’interno di un mondo familiare e d’altra parte un sentimento di estraneità e distanza: «Da questa polarità tra familiarità ed estraneità, piacere e rinuncia totale, deriva la sacralità dell’autentico sentimento dell’arte». Nello spazio tea-trale, che Buber definisce non a caso «polare», lo spettatore è contemporaneamente dentro e fuori l’evento scenico. Come nel racconto chassidico pure in teatro cielo e terra non sono mondi lontani:
Siamo dentro l’evento stesso e, inestricabilmente, ne siamo contemporaneamente al di fuori, rapiti dall’incondizionato che accade di fronte a noi, e al tempo stesso fermi nel regno del condizionato, legge della nostra esistenza. Sopraffatti, eppure con lo sguardo attento, siamo abbandonati e protetti. Tutto questo, tuttavia, non accade come un essere diviso, o come un’indecisione, e neppure come una contraddizione, ma come l’unità polare del sentimento.
Lo spettatore, secondo Buber, sa che può alzarsi e raggiungere gli attori in scena ma è pure consapevole che, così facendo, non accadrà nulla: «Questo spazio è infatti di un’altra natura rispetto al nostro: esso è creato e riempito da una vita di un altro livello, di un’altra altezza e di un’altra densità. Le nostre dimensioni, infatti, non sono valide al suo interno». Questa consapevolezza costituisce, secondo il filosofo, il nucleo dell’esperienza tea-trale. Ne consegue che lo spazio scenico moderno è per Buber colpevole di togliere allo spettatore il senso di distanza creando l’illusione di un ambiente indistinto. Compiendo un breve excursus, il filosofo ricorda come nel teatro antico anche se spettatori e attori erano illuminati allo stesso modo rispetto alla scena, il senso di distanza restava comunque preservato dal carattere sacramentale della rappresentazione. Buber sostiene così che i tempi moderni richiedano uno spazio scenico unificato ma cangiante e tale da poter garantire un’azione scenica “polare” preservando così il senso di “distanza”. La luce si presta dunque come l’elemento fondamentale per modellare uno spazio così formulato e, più avanti nel testo, si passa a considerarne le potenzialità a partire proprio dalla grande sala costruita da Tessenow:35
La “sala grande” di Tessenow ha proporzioni semplici e significative, linee rette e non deformate che ridestano e mantengono l’impressione di una vita essenziale. Dal punto di vista architettonico, la sala costituisce un’unità; la scena non è distanziata dal pubblico – che ne condivide la luce e non siede nel buio che lo separerebbe – dalla propria costruzione, ma solamente da ciò che se ne fa: la scena non è altro che ciò che accade in essa; ma tutto ciò che accade in essa è strettamente e chiaramente interconnesso, così come è strettamente e chiaramente separato da noi, attraverso il modo in cui accade: non simula uno spazio della stessa essenza del nostro, bensì ci rappresenta uno spazio che è di un’essenza diversa dal nostro, ossia lo spazio del dramma. Dal punto di vista tecnico, questo spazio è composto da due elementi: dal substrato della trasformazione e dall’agente trasformatore. Il substrato consiste in numerose superfici e strisce di materiali, semplici e grigie, che delimitano e articolano la scena. L’agente è la luce diffusa, che opera non in modo episodico e selettivo come un normale proiettore, ma nell’uniformità di grandi superfici e di lunghi periodi. Attraverso la variabilità dell’illuminazione si può rendere ogni grado di materialità del substrato: i materiali possono apparire ora morbidi ora solidi, ora piatti e ora rotondi, e con la loro trasformazione si trasforma anche l’immagine dello spazio creato dalla luce: da uno spazio limitato a uno che apre all’infinito, da uno determinato in tutti i suoi punti a uno che ondeggia nel mistero, da uno che mostra solo se stesso a uno che accenna l’innominabile. Innominabile è tuttavia questo spazio, quest’opera della luce.
Buber descrive dunque con toni entusiasti la salle éclairante ideata da Alexander von Salzmann36 e Appia per le feste scolastiche37 dell’istituto Jaques-Dalcroze. Si tratta di un esperimento inaudito tanto che le critiche suscitate spinsero Appia a lasciare la sala durante la prova generale del tanto discusso Orfeo.38
24La sala di Hellerau era inondata da un fiume di luce tale da rendere l’idea di un mondo unificato e “abbracciante”, proprio lo stesso mondo di cui parla Buber nel programma di sala. Senza dividere scena e sala, Salzmann applica al soffitto e alle pareti teli di stoffa traslucida bianca trattata con bagni di cera. Dietro i pannelli di stoffa sono sistemate inoltre circa tremila lampadine disposte a intervalli regolari e comandate a distanza; le luci possono essere gestite a gruppi e soprattutto se ne può modificare l’intensità all’occorrenza da lontano in modo veloce e pratico. Le lampadine sono collocate sui pannelli tra la stoffa esterna bianca, che agisce da diffusore naturale, e l’altra parte del pannello, anch’essa bianca e riflettente. È stato proprio Salzmann a notare come, al posto di una sala illuminata, aveva di fatto creato una sala illuminante (salle éclairante). Sala e scena venivano così armonizzate attraverso la luce diffusa secondo questi criteri e, su questa base, l’illuminazione poteva poi essere diretta in modo creativo a seconda dell’effetto cercato. L’idea era simile a quella formulata da Mariano Fortuny39 tuttavia restava scevra da qualsiasi tendenza imitativa nei confronti della natura. Due scopi fondamentali erano ribadire la centralità del corpo umano nella scena ritmica e rompere le barriere che, convenzionalmente, limitavano la percezione dell’opera da parte del pubblico.
La luce, come l’attore, deve diventare attiva… La luce ha una flessibilità quasi miracolosa… crea ombre, le fa vivere e diffonde l’armonia delle loro vibrazioni nello spazio, proprio come fa la musica. Nella luce troviamo mezzi di espressione potentissimi attraverso lo spazio, se questo spazio è gestito al servizio dell’attore… Oggi, il ritorno al corpo umano come elemento espressivo di prim’ordine è un’idea che colpisce, stimola l’immaginazione e apre la strada a esperimenti che possono essere diversi… ma che puntano tutti alla stessa riforma… desideriamo essere il corpo che osserviamo: l’istinto sociale si desta dentro di noi… e la divisione che separa la scena dal pubblico diventa una dolorosa imposizione che sorge dal nostro egoismo […].40
Questo modo creativo di usare la luce suggerisce a Buber una nuova strada verso un teatro che possa costituirsi come un distillato di vita. L’uso duplice (luce che unisce e luce che separa) funziona, secondo Buber, come specchio del movimento polare della realtà. In questo testo il filosofo riprende alcune questioni che abbiamo già incontrato in Daniel e in La Duse a Firenze, per promuovere un’idea di teatro ben precisa, che aveva trovato allora tra i suoi rappresentanti Jaques-Dalcroze e Appia e tra i suoi oppositori Paul Claudel. La luce di Alexander von Salzmann41 esplicita l’idea di Buber secondo cui «i momenti dell’incontro più alto non sono lampi nelle tenebre ma luce lunare che si leva in una chiara notte stellata».42 Il riferimento è dunque all’incontro più importante, la relazione con Dio; essa non può essere custodita ma solo testimoniata. La testimonianza si traduce nel rendere l’esperienza della relazione (Erlebnis) operante nel mondo e non fuori da esso. Possiamo supporre che l’affinità con il lavoro di Appia risieda nel comune interesse che il regista e il filosofo avevano nel cercare il contrasto, l’opposizione. Non dimentichiamo che per Buber lo scontro, l’opposizione tra due esseri umani o tra uomo e natura, è essenza tragica. La prima volta che il filosofo adopera una metafora tea-trale, come abbiamo visto, lo fa in relazione all’episodio di scontro tra Trietsch e Herzl e, in quell’occasione sottolinea come il contrasto, il porsi “uno di fronte all’altro” così come si è, costituisca la via verso il riconoscimento dell’altro nella sua differenza.
25La dialettica della luce in teatro diventa per il filosofo una materializzazione vera e propria della vita: come nella vita l’uomo non aspetta altro che essere riconosciuto per com’è nella sua essenza da un altro essere umano, così il teatro è il luogo dove ci si riconosce e ci si conferma in quanto esseri umani. Nella luce creativa si cela il principio stesso del genere umano, il suo doppio movimento: il porsi a distanza e l’entrare in relazione. La dinamica della scena permette un innesco formidabile della possibilità dialogica perché l’uomo ivi si rivela in quanto uomo generando entrambi i movimenti.
26In questa concezione scenica accade qualcosa, «a volte come un soffio, a volte come una lotta», e l’essere umano esce dal teatro come esce dalla relazione, ossia «ha nel suo essere un di più»43 che deve rimettere in gioco nel mondo. Viene così ripristinato e vivificato il suo compito nel mondo e l’uomo riceve non un contenuto nella rivelazione ma una presenza, un senso: «non un senso di “un’altra vita” ma di questa nostra vita».
27Per entrambi, Buber e Appia, l’arte è un decidersi:
L’arte non è un’opera; prima di tutto è una decisione, dalla quale il senso procede. […] Abbiamo a disposizione tutti i mezzi per produrre dentro di noi questo potere. Ma la nostra decisione deve essere disinteressata. […] E questo disinteresse non agisce dentro a un vuoto; il mondo implica che abbandoniamo quel centro di interesse che era proprio solo a noi e che quindi ci abbandoniamo all’interno di quel panorama e ne diventiamo parte. L’arte, e cioè la decisione che la definisce, ci permette di vederci riflessi nello spettacolo della vita… In questo senso l’arte permette di riconoscerci nei nostri compagni, e poi di rafforzare la decisione per applicarla anche alle altre attività.44
L’accento posto sul valore della scelta e sulla responsabilità dell’individuo nei confronti del mondo sono tratti che ci sono ormai familiari ed è proprio attorno al carattere assoluto della scelta che le affinità tra Appia e il nostro filosofo si fanno più evidenti. Per Appia, l’arte non è fine a se stessa ma è un porsi di fronte alla dualità umana: si tratta di decidersi abbandonando l’atteggiamento monologico di colui che osserva un panorama ponendosi fuori da esso. Si tratta di entrare nel mondo e di riconoscersi in esso. La dimensione etica del teatro, quale luogo privilegiato del riconoscimento e della conferma, è così ribadita e confermata.
28Nella prospettiva buberiana, decidersi significa diventare liberi e così libertà e destino tendono a coincidere. Libertà infatti significa diventare ciò che si è, riconoscersi. Quando Buber in Daniel parla di necessità si riferisce appunto all’identità tra scelta e destino che troviamo formulata negli scritti successivi:
La casualità non opprime l’uomo cui è garantita la libertà. Egli sa che per natura la sua vita mortale è un oscillare tra Tu e Esso, e ne intuisce il significato. E gli basta, sulla soglia del santuario in cui non poté insediarsi, poter sempre di nuovo mettere piede; e così, il fatto che debba sempre abbandonarlo, è per lui legato intimamente al senso e alla destinazione profondi di questa vita. Là, sulla soglia, si accende in lui sempre nuova la risposta, lo spirito; qui in terra profana e indigente, la favilla deve dare prova di sé. Ciò che qui ha nome di necessità, non può sgomentarlo, poiché là egli ha conosciuto quella autentica, il destino.45
29Il teatro è allora una macchina fisica che permette questo meccanismo della soglia: l’uomo sa che al di là di essa la vita ha una densità diversa ma non vi può entrare e dimorare, deve carpirne la luce e, tramite essa, elevare il mondo nel qui e ora. Portando la favilla si esce dal teatro come si ritorna con nuova luce nel mondo dell’Esso.
30La decisione è quindi l’unica possibile, è quell’agire senza oggetto, l’agire puro (l’azione disinteressata di cui parla Appia) di chi opera:
Come la vera conoscenza viene chiamata da Laozi, dal punto di vista del linguaggio umano, “ignoranza” (“colui che risplende nel Tao è come piena notte”), così la vera azione, l’azione dell’uomo compiuto, viene chiamata “inazione”. Questa azione, “l’inazione”, è un operare dell’intero essere. […] Riposare significa operare, purificare la propria anima significa purificare il mondo, raccogliersi in se stessi significa offrire il proprio aiuto […]. Chi se lo impone, ha una potenza piccola e manifesta; chi non se lo impone, ha una potenza grande e segreta. Chi non “agisce”, opera. Chi è in completa armonia, è circondato dall’amore che riceve dal mondo. […] La volontà di colui che è raccolto in unità diventa un puro poter-fare, un puro operare; poiché se non c’è divisione tra chi vuole e ciò che è voluto – l’Essere – quanto è voluto diventa l’essere.46
Non si tratta di un’azione genericamente spontanea ma di un’azione che sta al di sopra di tutte le altre, che non è causata dal desiderio di usare o conoscere qualcosa,47 ma che si compie con tutto l’essere e non con una parte di esso.
31Nel 1925, in un momento dunque in cui il pensiero dialogico buberiano ha già trovato ampio sviluppo, il filosofo pubblica Dramma e teatro, 48 un breve scritto che si inserisce a pieno titolo nel dibattito dell’epoca sul rapporto tra dramma scritto e realizzazione scenica. Nel primo ventennio del Novecento le avanguardie avevano reclamato una nuova fisionomia dell’attore e in ambito tedesco avevano preso piede nuove concezioni tea-trali in aperta polemica contro le tendenze naturaliste e alla ricerca di nuovi compiti per la recitazione. L’oggetto del contendere era l’autonomia del teatro rispetto alla creazione letteraria del poeta. Lo scritto di Buber si colloca dunque nel contesto più ampio di un dibattito che aveva coinvolto, tra gli altri, Max Hermann e Georg Simmel; quest’ultimo ha esercitato, come abbiamo visto, una forte influenza sul nostro filosofo e possiamo supporre che Buber conoscesse, mentre si apprestava a scrivere Dramma e teatro, l’importante saggio simmeliano Sulla filosofia dell’attore (1908).49 Simmel, com’è noto, sosteneva la piena autonomia del teatro rispetto al dramma e auspicava la liberazione del teatro dalla sudditanza nei confronti dell’opera scritta e dunque dell’attore nei confronti del ruolo. Inoltre, soltanto due anni prima di Dramma e teatro, Hermann Bahr, a cui si è già accennato nel capitolo precedente, aveva pubblicato il suo Schauspielkunst ponendosi sulla medesima linea di Hermann e Simmel e citando tra le eccellenze attoriali gli stessi Duse e Novelli che sono al centro della riflessione tea-trale del nostro filosofo. All’interno del dibattito sull’arte dell’attore e sull’autonomia del teatro rispetto al dramma del poeta, Buber assume una posizione che è sì influenzata dalle autorevoli figure di cui si è detto, ma tuttavia esprime una sfaccettatura tutta peculiare scaturita dall’evoluzione del pensiero dialogico. Se ai tempi di Daniel, come si è scritto a proposito del Dialogo dopo il teatro, il filosofo sembrava propendere più per la realizzazione scenica che per il dramma, nel 1925 Buber pare ammorbidire le proprie posizioni e offrire una prospettiva più equilibrata. Nel dramma inteso come poesia, «il dramma è fondamentalmente già qui, con il semplice “essere così” dei personaggi che si annuncia nel dialogo» e il teatro può solo svilupparlo. Per Buber la poesia drammatica testimonia quella parola che «si muove tra gli esseri», e che è «prendere forma del mistero di parola e risposta». Questa tensione, originatasi nell’ambito della poesia dialogica, viene messa in gioco dal teatro a un livello «più naturale»:
Se dunque lo spettacolo inteso come poesia è fondato sul fatto che l’uomo cerca di comunicare con un altro uomo parlando, e comunica veramente, anche nella tensione, superando tutti gli ostacoli dell’individuazione, lo spettacolo come teatro appartiene invece a un livello più naturale. Esso deriva dall’impulso elementare a superare, attraverso la trasformazione, l’abisso tra l’Io e il Tu, che trova un ponte nel discorso. Lo spettacolo deriva dalla fede dell’uomo primitivo di poter divenire, assumendo l’aspetto e i gesti di un altro essere – un animale, un eroe, un demone – quest’altro essere. Ancora di più, lo spettacolo non deriva tanto dal credere, quanto dall’esperire.50
Per spiegare come nel teatro possa originarsi quella trasformazione che consente di superare l’abisso, il filosofo rimanda al teatro antico: gli attori antichi non recitavano con la consapevolezza di essere guardati, «erano attori, ma non attori di uno spettacolo; essi recitavano a beneficio della folla che osservava, ma non per compiacerla». Nella performance intesa come rituale si partecipa alla rappresentazione con «brivido e pudore» perché da quella stessa performance può dipendere il destino e la sussistenza di chi vi partecipa. Anche in Dramma e teatro il filosofo procede con un meccanismo polare opponendo due concezioni diverse di teatro di cui una corrisponde a un teatro dell’apparenza che produce spettacolo, mero intrattenimento da consumare: «Lo spettatore, per il quale l’azione scenica non è più una realtà che penetra la sua vita e che determina il suo destino, e l’attore, che non è più sopraffatto dalla trasformazione, ma ormai la conosce e sa come approfittarsene, si corrispondono l’un l’altro. Quest’attore sa, del resto, di essere guardato, senza brivido e senza pudore: egli recita senza brivido e senza pudore per fare mostra di sé».
32La seconda concezione intende al contrario l’azione scenica come manifestazione di una realtà sacra che concerne chi vi partecipa in modo «indeterminabile, inconcepibile, e con una forza primordiale» dove «brivido e pudore» sono presenti sia per il performer sia per l’astante. Nella tragedia antica, simbolo di questa seconda concezione, il dramma (il principio spirituale del dialogo) e il teatro (il principio naturale del dialogo) erano presenti in una situazione di equilibrio e di relazione, come l’amore e il sesso:
Essi stanno l’uno all’altro come l’amore sta alla sessualità, e hanno bisogno l’uno dell’altro come l’amore ha bisogno della sessualità per ottenere un corpo, e la sessualità ha bisogno dell’amore per ottenere un’anima. […] Il teatro ha bisogno del dramma ancora di più rispetto a quanto il dramma abbia bisogno del teatro: poiché il dramma, che non può farsi immagine nel teatro, esiste disincarnato nello spirito solitario; il teatro invece, che non obbedisce al dramma, porta la maledizione dell’assenza di anima, riuscendo a malapena a camuffarla, con tutta la sua ricca e abile varietà, per l’ora del suo ingannevole spettacolo.
Per contraddistinguere questi due fondamenti del teatro, da una parte il testo drammatico e dall’altra la realizzazione performativa, Buber indica due importanti caratteri della commedia greca, il primo «che tace ciò che sa», e che quindi rappresenta il dramma non attuato, e il secondo che è l’impostore, colui «che dice ciò che non sa» e simboleggia la performance sterile, lo spettacolo.
33A questo punto il problema del performer ci riporta al contrasto Dioniso-Orfeo che abbiamo incontrato in Daniel. Dioniso viene fatto a pezzi e divorato dai Titani poiché entra nell’estasi senza direzione; Orfeo invece, entra nell’estasi guidato dalla propria direzione (la lira) e diventa creativo. Buber sembra riflettere sull’essenza della questione del performer con tratti e argomentazioni molto vicine a quelle che affronteremo nell’ultimo capitolo su Jerzy Grotowski. Il teatro deve essere colto nella sua polarità tra dramma scritto e performance senza che uno di questi due elementi prenda il sopravvento sull’altro se non si vuole privare la scena del suo carattere di macchina fisica creatrice di realtà. La soluzione buberiana al dibattito sull’autonomia del teatro rispetto al testo è assolutamente in linea con il carattere polare del pensiero dialogico. Buber fa sue le tendenze del tempo (si ricordino Hermann, Simmel e Bahr) ma ne mitiga la radicalità offrendo un paradigma polare in cui creazione del poeta e creazione dell’attore si pongono l’un altro in una più fertile dimensione di confronto.
34Come essere liberi significa comprendere la necessità intrinseca all’essere umano, così il teatro scopre il suo senso solo se ha una direzione, la parola. Possiamo sostenere che la stessa cosa accade per lo spazio scenico: non è mescolando spettatori e attori in uno spazio indistinto che si crea una comunione, ma arginando e dirigendo ciò che accade tra essi. Se la luce è l’agente cangiante che dinamicamente stabilisce una comunione con la sala, la parola opera allo stesso modo dirigendo l’azione scenica verso lo spettatore.
35Il teatro è per Buber il luogo della coincidenza tra sapere e fare: il dramma scritto e la performance fisica non possono essere scissi, pena i rischi già citati.
36È tuttavia vero che, come sostiene il filosofo, è il teatro ad avere bisogno primariamente del dramma. Il dramma dell’eroe è il simulacro, l’ombra dell’uomo dionisiaco che costruisce dighe al flusso continuo della vita. Senza le intercettazioni-mediazioni del commediante non si avrebbe la lotta e neppure un esito, la significazione nel qui e ora. Affinché sia mantenuta l’economia della vita e affinché sia rinnovato il senso di questa vita, è necessario il commediante.
37Ciò che sostiene Roberto Calasso, rileggendo l’opera di Nietzsche, ci sembra possa funzionare anche in questa interpretazione del pensiero di Buber sul teatro: «Non è più il commediante a crescere parassitariamente sul ceppo dell’uomo dionisiaco, ma al contrario è l’uomo dionisiaco che può manifestarsi solo a patto di indossare le vesti del commediante, in certo modo di crescergli sopra».51
38Teatro è per Buber sinonimo di missione, strumento di azione nel mondo. Abbiamo già visto come il processo attoriale sia qui inteso come una sorta di scala di Giacobbe che l’uomo percorre in ambedue le direzioni. Il teatro si costituisce di quei gradini la cui salita porta l’attore fuori da sé verso la contemplazione dell’immagine di Dio, e poi la cui discesa permette all’uomo di plasmare quella stessa immagine nel mondo del qui e ora. René Daumal52 vide per la prima volta una dimostrazione degli allievi di Jaques-Dalcroze nel febbraio del 1914 e, in un’acuta recensione, sottolineò come in quel lavoro, così magistralmente curato, mancasse la cosa più importante: uno scopo.
[l’allievo di Dalcroze] sembra possa fare tutto; ma bisogna riconoscere che in generale non sa cosa fare. Le dimostrazioni finali che ci ha presentato Jaques-Dalcroze erano di una virtuosità prodigiosa […] ma queste giovani ragazze sembravano non aver nulla da esprimere. […] Dalcroze si è espresso chiaramente su questo punto. Propone dei mezzi, aiuta lo sviluppo delle capacità motorie, sensoriali, intellettuali, ma si rifiuta di indicare uno scopo. […] Non posso non immaginare la potenza inaudita che un tale allenamento di tutte le facoltà potrebbe conferire all’arte, a un’arte […] che avrebbe uno scopo, un’arte fatta per servire l’uomo e non per asservirlo, un’arte fatta per la conoscenza e non per la distrazione. Da quando ho visto questi esercizi, non riesco a comprendere come dei poveri imbecilli – voglio dire uomini «senza bastone» che è un corpo posseduto in modo conscio – si permettano di esibirsi sulla scena, di agitarsi, di gesticolare, declamare, di gridare e massacrare i timpani contemporanei con le loro carcasse inutili.53
Jaques-Dalcroze sembrava essere agli occhi di Daumal un buon trampolino di lancio per l’arte dell’attore: il performer nella ritmica avrebbe potuto trovare il modo di accumulare un potenziale – l’uomo intero – senza però sapere cosa farne. Daumal vedrà poi il definitivo superamento della tecnica dalcroziana in Artaud nella formulazione del concetto di athlétisme affectif, nel quale la scienza dell’attore è messa al servizio di un fine sacro.54 Daumal, che probabilmente conobbe Buber tramite i coniugi Salzmann, condivideva con il filosofo il sogno non solo di un attore ma di un uomo totale che attraverso il suo essere in azione crea la realtà. Il sogno comune dei due intellettuali era un teatro come atto di conoscenza e non mezzo di distrazione. Quando Daumal vide il danzatore Uday Shankar55 al suo debutto parigino del 1931, si rese definitivamente conto che il problema dell’arte coincideva con il problema della vita: era il problema della conoscenza dell’essere basata sul corpo. Il sogno di una conoscenza basata sull’azione significava in primo luogo il rifiuto del sonno ossia di quell’abbandono da parte dell’uomo alla meccanica e quotidiana tirannia dell’Esso. Il teatro non deve distrarre ma interessare l’essere umano: deve svegliarlo e dunque liberarlo. Questo stesso sogno era condiviso da Buber nella misura in cui se ne parla in Daniel e nei saggi precedentemente citati e cioè opponendolo implicitamente a tutte le svariate strategie della vita monologica. Il teatro è allora, per il filosofo, quel fuoco che può illuminare l’essere umano rendendolo consapevole della sua condizione. Apparentemente scisso tra anima e corpo, realtà e apparenza, istinto buono e istinto cattivo, attraverso l’azione tea-trale l’uomo si ravvede di sé, conosce l’oceano di cui fa parte e di cui si sente, a torto, solo un’onda votata alla fine. In teatro, Daniel conosce la dualità originaria, il contrapporsi di «essenza e contro essenza», «accadere» e «percepire» dove quest’ultimo non «era meno degno dell’accadere […] piuttosto quel percepire portava in sé quanto gli si opponeva e provava poi a esternarlo e a trasformarlo in azione».56 La percezione del pubblico diventa per Daniel una sorta di conferma: «E precisamente non la conferma dell’essenza mediatrice del coro che agiva sul palcoscenico, bensì conferma dell’essenza della contraddizione, del fato, della decisione. […] Qui sedeva il pubblico percepiente che confermava, rafforzava e assentiva al fato; il pubblico voleva ciò di cui stava facendo esperienza».57
39Così solo «colui che conosce si trasforma nel mondo e altrettanto concretamente lo porta a compimento» e per conoscere non può avvalersi dei sensi o del pensiero ma deve trasformarsi. Solo nel momento in cui la dualità è riempita «su di essa si fonda un’unità per mezzo della conoscenza».58
40La sala di Hellerau, così entusiasticamente difesa da Buber in Il problema dello spazio scenico, corrisponde a un’idea molto precisa di teatro che poggia su un’altrettanto precisa nozione di “comunità”. In Daniel il protagonista del Dialogo dopo il teatro non è un attore in scena ma uno spettatore. Possiamo supporre che nel testo Buber stia rievocando la sua esperienza da spettatore dell’Orfeo del 1912. Daniel vive la performance dalla parte del pubblico sentendosi come facente parte di una colonia di madrepore:
[…] come se per la prima volta fossi compagno di qualcuno. Così quella massa somigliava veramente alla massa innumerevole che si raccoglieva a Eleusi per rappresentare le nozze tra il cielo e la terra […]. Quegli uomini erano comunque parte di una rivelazione, sicché il palcoscenico parlava. […] In questo modo, l’ambiente circostante crebbe fino a diventare una comunità, della quale io facevo parte. Ero in grado di percepire come percepisce una colonia di madrepore, ovvero con gli organi della collettività; allo stesso tempo, però, questa totalità mi divenne così presente, come se ogni sua singola essenza si rendesse disponibile alla mia coscienza. Fu così che mi ritrovai in quell’essenza altra che si muoveva di fronte a me sul palcoscenico. […] Si opponeva al mio Noi-io come la tempesta al silenzio, come le dune a una spianata sabbiosa, come la contraddizione alla conciliazione.59
Come abbiamo più volte argomentato, il teatro, luogo principe di edificazione dell’uomo in quanto uomo totale, è il prototipo della comunità buberiana. La struttura polare tipica della scena rispecchia la natura stessa della comunità così come viene intesa da Buber negli scritti successivi e più strettamente filosofici. Per definizione la comunità non sorge da una generica comunanza di sentimenti ma da due condizioni fondamentali: che tutti i membri abbiano fra loro una relazione reciproca e che tra loro e il centro vivente ci sia una relazione vivente. La comunità non è “la massa” del modello filosofico fornito da Kierkegaard60 ma è un luogo etico in cui il singolo possiede una responsabilità personale in quanto intrattiene una relazione con il centro vivente, oltre che con gli altri uomini. Non si può parlare di comunità se viene a mancare questa seconda condizione, ossia la presenza di un centro vivente verso cui tutti guardano e con cui tutti vivono in stretta relazione. L’uomo con l’uomo, che in sintesi costituisce l’ipotesi buberiana come unica sensata alternativa alle vie del collettivismo e dell’individualismo, è la terza via, la sola che conduca all’uomo totale. Uomo totale o integrale è colui che agisce con tutto il suo essere, e non solo con una parte di esso, ed è colui che si impone non in virtù del proprio individualismo né della rinuncia alla sua personalità per via del collettivismo. Possiamo dunque sostenere che il teatro rappresenti per Buber un prototipo di quella comunità che egli perseguirà negli scritti a venire e di cui pure quella chassidica si presta come efficace ed ulteriore simbolo. Il mondo chassidico a lui contemporaneo è ormai un mondo perduto (corrotto e degenerato, secondo il filosofo) e dunque, soltanto elevato a mito e modello offre una possibilità di riattivazione comunitaria. Il teatro a lui contemporaneo, proprio come il fenomeno chassidico, sembra anch’esso un mondo chiuso e volto a una spietata degenerazione ma può, colto nell’eccezione dusiana da una parte e nelle innovazioni di Hellerau dall’altra, costituire una possibilità rinnovabile, sempre attuale e sempre praticabile.
Allora, da bambino, nella piccola e sporca città di Sadagora, guardando «l’oscura» massa dei chassidim, sperimentai, […] che la ragion d’essere del mondo è l’uomo perfetto e che l’uomo perfetto non è altri che il vero soccorritore. Certo, adesso lo zaddik è chiamato per un aiuto in caso di mere necessità terrene; ma non resta forse ugualmente, per quanto è possibile, il soccorritore dello spirito, l’interprete del senso del mondo, la guida verso l’illuminazione divina, così come è stato inizialmente pensato e istituito? È vero che il potere assegnatoli è frainteso, dai credenti e da lui stesso mal utilizzato; ma non è in fondo un potere legittimo, anzi, il potere legittimo?61
Chi scrive pensa sia possibile sovrapporre a questa immagine della comunità chassidica e del suo capo, lo zaddik, l’immagine di un’altra casa di preghiera, quella del teatro con il suo attore. L’attore che sa utilizzare il proprio potere sulla scena è il braciere cui tutti i membri della comunità guardano in attesa che la trasformazione lo colga inondando di un senso incendiario il presente. La sala di Hellerau, indivisa eppure cangiante, rappresenta per Buber il sogno di un teatro dove uomini perfetti possano salvare l’uomo dall’abisso facendogli germogliare attorno una comunità vivente.
41È proprio a partire dalla formulazione buberiana di comunità e di Noi che Victor Turner, alla fine degli anni Sessanta, fonderà la sua idea di comunità «come comitatus, comunità o anche comunione non strutturata».62 Turner baserà le sue teorie sul rituale e sulla performance non trattando il concetto di comunità come qualcosa di emotivo o che implichi un nostalgico anelito verso l’infanzia o verso la cancellazione delle peculiarità individuali. La comunità di Turner è qualcosa di molto simile a ciò che Martin Buber chiama «Noi essenziale», la relazione tra persone dove il Tu non è oggetto dell’Io, non ne fa esperienza ma è in relazione. Non si tratta della riduzione dell’altro a oggetto e nemmeno della riduzione dell’altro all’Io. Come scrive Buber in Io-Tu, non è questione di pensare al Tu come altro ma piuttosto di volgersi verso di lui: «Divento Io nel Tu; diventando Io, dico Tu. Ogni vita reale è incontro». I confini di questo tipo di communitas coincidono direttamente con quelli della specie umana e la difficoltà consiste nel mantenere viva questa intuizione. Come per il filosofo la relazione Io-Tu deve per necessità diventare Io-Esso (perché altrimenti non ci sarebbero conoscenza, cultura, società…), anche per Turner la communitas deve diventare memoria della communitas con l’esito che «nel suo sforzo di replicare se stessa, sviluppa storicamente una struttura sociale».
42Questa necessità di rinnovare la relazione (con il centro vivente – attore, zaddik – e tra i membri della comunità) è il nucleo del teatro buberiano ed è ciò che secondo Daumal mancava nelle performance dalcroziane: uno scopo. Non può essere un caso che lo scrittore francese, nel suo Il monte analogo, abbia scelto come protagonista proprio Padre Sogol, che altri non era se non Alexander von Salzmann, il creatore delle luci che avevano suscitato in Buber quella “nostalgia di Orfeo” e il presupposto per un progetto tea-trale grandioso.
43La Montagna Sacra, ridotta a meta di curiosi e turisti, è la sfida dell’uomo che affronta uno spazio inaccessibile e lo conquista solo a patto di trasformarsi. Raggiungere il Monte Analogo significa toccare il centro vitale dell’animo umano, il suo spazio cardiaco. Allora ecco che il teatro diventa buberianamente luogo «del brivido e del pudore», luogo in cui spettatori e attori hanno «un unico cuore in comune».63 Teatro dunque come alpinismo, laddove Daumal intende per quest’ultimo l’arte di far confluire il sapere in una pratica: «Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro, allora? Ecco, l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. […] Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto».64
44Ecco che l’ascesa trova un complemento nel suo contrario, nella discesa. Questi due movimenti sono alla base del fenomeno artistico e presuppongono che la posta in gioco non sia più una generica produzione di forme estetiche, ma un cambiamento possibile attraverso l’arte dell’uomo stesso. Per Buber il doppio movimento dell’arte esiste laddove il teatro coincide con la possibilità di rinnovare la relazione e di realizzarla nel mondo: andata e ritorno alla luce di un ricordo che spinge l’azione etica dell’uomo nel mondo.
45A Hellerau, Buber decide di occuparsi proprio della direzione degli attori per L’annuncio fatto a Maria di Paul Claudel. Appia accetta alla fine di collaborare al progetto anche se nutre molte riserve mentre Jaques-Dalcroze se ne chiama immediatamente fuori negando la disponibilità dei suoi attori e offrendo semplicemente la sala dell’istituto. Come ricorda Friedman, l’unico studioso ad aver dato il giusto peso a questo evento, Buber incontrò molte difficoltà nel seguire gli attori. La sua attenzione era mirata soprattutto al lavoro sul testo proprio laddove il filosofo cercava di inculcare agli attori quella lezione che egli stesso, adolescente, aveva imparato per le strade di Vienna. La presentazione dello spettacolo è prevista per il tre, il cinque e il sei luglio ma a causa di «divergenze in seno al gruppo di Hellerau»65 viene posticipata. Non ci sono molte testimonianze riguardo questo dissidio e soprattutto, e questo pare indicativo, Buber non ne scrive mai. Sappiamo che il filosofo partecipa all’Annuncio nelle vesti di un vero e proprio regista e, quando Claudel arriva a Hellerau, i due si scontrano poiché Buber «non vuole mostrare, ma lasciare parlare il dramma» e disapprova Claudel che è un grande poeta ma non un regista.66 La situazione si complica, Buber e Appia non si presentano alla prima67 e con Claudel restano solo Hegner e Salzmann.
46Quando Claudel arriva a Hellerau sconvolge tutto il lavoro già avviato impostandolo alla maniera della Comédie Française mentre per Buber «decisivo era il “movimento” che le parole creano. Il padre di Violaine era un paesano e il linguaggio di un paesano è semplice, non elevato». 68
47Claudel usa la scena a livelli ideata da Appia per l’Orfeo, caricandola di una dimensione metafisica e sfruttando la possibilità di gestire le azioni in modo simultaneo: la scena, tripartita orizzontalmente, suggeriva un percorso metafisico dall’inferno al paradiso. La luce di Salzmann viene utilizzata anch’essa in modo simbolico e psicologico.69
48Buber mantiene, nei riguardi della pièce di Claudel, un atteggiamento reticente al contrario di Appia che nelle sue lettere dà sfogo alla sua profonda indignazione:
A Hellerau, la società tea-trale che non ha niente a che fare con Jaques e con i suoi allievi, ha fatto fiasco con l’Annuncio di Claudel. La cosa non mi ha sconvolto, devo ammetterlo. Che follia, voler usare una sala e un materiale che sono la rappresentazione particolare di una visione e di una idea grande e che possono vivere solo in essa e per essa! Metterci i vecchi giochi declamatori e le vecchie assurdità. È come usare tessuti nuovi per rifare gli stessi vecchi costumi, è come procedere camminando all’indietro. La cosa più grave, per ora almeno e nella forma estrema che le ho dato, è che questa mise en scène può vivere soltanto attraverso la musica…!70
Le considerazioni di Appia sono eloquenti e possiamo supporre riflettano anche la reazione, per così dire taciuta, di Buber. Il filosofo non ha infatti lasciato nei suoi scritti alcuna traccia del forte dissidio con Claudel ma è emblematica la sua volontà di includere nel programma di sala dell’Annuncio un saggio che ribadisce un’idea di teatro incarnata dall’Orfeo di contro a una messa in scena, quella di Claudel, che ne usa i mezzi snaturandone gli intenti. Interessante in proposito è la tesi di Gallucci:
Dobbiamo dunque supporre che nella excusatio non petita buberiana si nasconda una traccia non polemica, ma nemmeno conciliante, utile insieme per prendere le distanze dallo spettacolo e ribadire la validità dei principi che Claudel aveva misconosciuto, attraverso uno scritto assertorio, fermo e deciso. Lette così, le pagine di Buber rivelano una nuova luce: il testo non è rivolto al pubblico, ma a Claudel. È a lui – che non nomina neppure una volta – che Buber prova a spiegare la portata della rivoluzione scenica apertasi con l’Orfeo. È lui che avrebbe dovuto comprendere per primo che non era possibile far teatro nella nuova sala se non trasformando il principio stesso dell’azione drammatica, perché fosse rispondente alle esigenze che la scena incarnava. Sotto il tono profetico, l’idea di Buber quindi non si carica di vis polemica, di cui non ha bisogno, ma lascia come fiorire un complemento teorico necessario sulla strada del nuovo.71
Sergej Volkonskij, della cui ammirazione per la ritmica si è già detto, pochi giorni dopo la presentazione della pièce di Claudel, ne traccia un lucido bilancio:
Ed ecco che, tre mesi dopo [l’Orfeo di Gluck a Hellerau], nello stesso luogo, nella stessa sala, sulle stesse piattaforme, le stesse scale, sotto la stessa illuminazione e nello stesso spazio dove si muovevano e passavano davanti a noi le immagini piene di festa delle masse ritmiche, abbiamo visto degli attori, attori nel senso peggiore del termine. […] Analizzare i difetti di questi attori tedeschi non ha probabilmente alcun interesse ma non posso non dire, a titolo d’esempio della povertà della loro dizione, che non conoscono alcuna intonazione interrogativa. […] Ciò che sconvolge è che la critica tedesca ha lodato proprio questi attori che gridano prima di ogni cosa.72
49Non è un caso che Volkonskij si soffermi a criticare aspramente proprio il punto nodale, la parola del dramma e la dizione degli attori, che Buber aveva inizialmente assunto come suo compito. Claudel viene descritto da Volkonskij come un bambino ingenuo che si è fatto prendere la mano dalla bellezza del luogo e dal suono esotico di una lingua non sua. La nostalgia di Orfeo è tanta, anche per Volkonskij che non può che decretare il fallimento di Claudel come regista: «La recitazione è manchevole; la messa in scena interessante; la luce, come sempre quando è di Salzmann, ha una ricchezza infinita e una diversità mistica. Ma il risultato più positivo di questo spettacolo è che ha messo più in alto ancora (sempre se sia possibile) la rappresentazione di Orfeo e che ha acuito il rimpianto di coloro che non l’hanno visto».73
50L’avventura di Hellerau si appresta però alla fine e l’opportunità del teatro si traduce per Buber in un amaro fallimento. Nel febbraio 1914 uno dei più instancabili sostenitori di questo sogno artistico, Wolf Dohrn, muore a trentasei anni a causa di un incidente sugli sci. I progetti per il Festival annuale degli allievi di Jaques-Dalcroze si interrompono bruscamente, tuttavia a Hellerau si continua a lavorare per difendere un nuovo modo di intendere l’arte e con essa, la vita. Mentre nella sala le prove si avvicendano sotto lo sguardo protettivo del grande occhio sul frontone dell’istituto Jaques-Dalcroze, gli allievi possono udire i rumori molesti dell’artiglieria dichiarare inesorabilmente la fine di un’era o forse solo di un sogno. Con la Prima guerra mondiale si chiudono i giochi di Hellerau e né Jaques-Dalcroze né Appia torneranno più nella città giardino. È ancora con Volkonskij che ci congediamo dal sogno: «Hellerau, come la conosciamo da prima della guerra, è andata, scomparsa, svanita come una proiezione quando si spegne la luce… Era un mondo fatto di nuove scoperte e sforzi lontani, dove così tante correnti vitali si sono incontrate e dal quale così tante idee sono emerse».74
51La breve avventura di Hellerau, con il suo triste epilogo, rappresenta un fallimento per una generazione di uomini eccezionali che si erano riuniti nella città giardino rispondendo all’appello gioioso di Appia. Un fallimento anche per Buber, il quale rinuncia così alla sua possibilità tea-trale ovvero a mettere in gioco concretamente ciò che aveva imparato a Vienna e guardando la Duse. Un fallimento per tutti coloro che, alle porte della Prima guerra mondiale, erano convinti di poter edificare un uomo nuovo, un uomo totale formatosi grazie all’arte e al bello. I fallimenti però lasciano sempre dietro di sé una risorsa, funzionano forse auspicabilmente come testimonianza per coloro che verranno dopo. Hellerau lascia un’importante testimonianza legata alla consapevolezza che l’arte non è solo una necessità umana bensì soprattutto un mezzo che permettere alla vita di essere vissuta.
52Se l’attore esiste, per Appia, non in quanto al servizio dell’opera ma è egli stesso opera d’arte nel suo farsi, tra i primi a raccogliere questa lezione ci furono Copeau, che nel 1920 rivoluzionò il Vieux-Colombier adottando molte soluzioni appiane, e poi Nikolai Okhlopkov in Russia negli anni Trenta. Poi Antonin Artaud, che Daumal considerava colui che avrebbe sviluppato ciò che era solo stato abbozzato da Jaques-Dalcroze e Appia, che parlava del teatro come peste e lavorava spasmodicamente affinché avvenisse il contagio.
53In Polonia, Jerzy Grotowski, nel “periodo degli spettacoli”, inaugura il suo teatro povero spogliando la performance di tutto e concentrandosi esclusivamente sull’attore e sullo spettatore. Non è forse un caso che uno dei primi spettacoli del regista polacco sia stato proprio l’Orfeo75 (questa volta di Cocteau), opera che apre la strada a una serie di lavori volti a ricreare un “mistero moderno”. In questa fase del suo lavoro, il teatro come ritorno alla sua essenza rituale, Grotowski elabora un ragionamento molto simile a quello di Buber sullo spazio scenico:
Nell’antichità, in Grecia, forme tea-trali simili, che funzionavano evidentemente ancora al confine del culto degli dei, erano chiamate misteri (dalla parola misterium, segreto). Solo che nei misteri della Grecia antica (così come in quelli posteriori, del Medioevo) il “segreto” stava in qualche modo all’esterno dei partecipanti, per esempio nella divinità, negli spiriti buoni e cattivi, ecc…
Il segreto del mistero moderno sarebbe invece qualcosa di inseparabile dai partecipanti stessi (per il fatto che non cerchiamo nulla al di fuori di loro, al di fuori dell’uomo). Ciò che costituisce il “segreto” collettivo dei partecipanti al gioco tea-trale, dunque il loro destino e la struttura della loro vita, appare qui come l’oggetto evidente, fondamentale del mistero.76
I legami tra Buber e il regista polacco sono molti e articolati e ciò che per ora costituisce solo un accenno sarà oggetto di un’analisi più attenta nelle pagine che seguono.
54L’esperienza di Hellerau termina per Appia nel segno della conquista «della fiamma della verità» e il compito di chi ha intuito l’autenticità di questo fuoco è continuare ad alzare le torce al cielo incuranti del vento. Sempre custodendo la fonte di questo fuoco e proteggendone le fiamme, il compito dell’uomo è dunque di illuminare l’uomo, il vicino. Appia, a pochi anni dalla morte, consegna la sua opera a una preziosa immagine che testimonia la fatica di una vita intera, quella di un portatore di fiamma:
Non è mettendola nel nostro santuario privato e davanti a immagini amate solo da noi che potremmo guidare i nostri simili. […] Conserviamo gelosamente la sorgente che alimenta la nostra torcia, ma portiamo questa fiamma in alto con le mani, come una grande testimonianza. E ovunque ci troviamo […] illuminiamo lo spazio con coloro che sono lì con noi; la torcia susciterà luci sconosciute, porterà ombre rivelatrici… e prepariamo anche, attraverso una lotta di certo fraterna, uno spazio nuovo che le nostre voci reclamano, lo Spazio vivente per i nostri esseri viventi.77
Non importa in che misura disparate, le poetiche dei grandi uomini del teatro del Novecento hanno accolto l’invito commosso e sincero di Appia, tradendo spesso – per forza di cose – la fonte da cui sono sgorgate ma alimentando un fuoco nuovo, diverso come diversi sono gli uomini e le cose del mondo, ma uguale nella misura in cui tutti gli uomini sono esseri umani, viventi.
Notes de bas de page
1 Al Teatro Bol’šoj di Mosca, nel 1881, Konstantin Stanislavskij vide recitare Tommaso Salvini nel ruolo di Otello e questa esperienza fu per lui un costante punto di riferimento. In proposito si veda: K. Stanislavskij, La mia vita nell’arte (1926), Einaudi, Torino 1963. Le considerazioni di Mejerchol’d sulla Duse sono riportate dagli appunti di Alexander Gladkov presi durante conversazioni e prove e pubblicati in italiano in Vsevolod Mejerchol’d, La rivoluzione tea-trale, a cura di Donatella Gavrilovich, Editori Riuniti, Roma 2001.
2 Le considerazioni del regista russo su Salvini, insieme a quelle di Mejerchol’d, sono citate da A. Attisani, Oratoria e Commozione, in Id., Actoris Studium # 1. Processo e composizione nella recitazione da Stanislavskij a Grotowski e oltre cit., pp. 35-69.
3 M. Schino, La nascita della regia tea-trale, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 36.
4 Ivi, p. 27.
5 Per un excursus sull’uso della luce nella prassi tea-trale si veda Cristina Grazioli, Luce e ombra. Storia, teorie e pratiche dell’illuminazione tea-trale, Laterza, Roma-Bari 2008.
6 All’incirca nel 1865, il duca Giorgio II, appassionato di teatro, insieme a Ludwig Chronegk, fonda la compagnia dei Meininger, attiva nel ducato tedesco di Sassonia-Meiningen e poi in Europa e America fino al 1890. Dal punto delle innovazioni proposte, questa compagnia cerca di adeguare il codice stilistico di luce e spazio al contenuto del dramma. Nonostante la compagnia adotti le nuove tecniche di illuminazione, l’effetto risulta tuttavia ancora approssimativo e poco curato (cfr. Roberto Alonge, Il teatro dei registi. Scopritori di enigmi e poeti della scena, Laterza, Roma-Bari 2006).
7 André Antoine, fondatore nel 1887 del Théâtre Libre, fu uno dei primi ad abolire i fondali dipinti che seguivano le leggi della prospettiva e del trompe-l’œil. Antoine fu il promotore di una scena realistica fatta di oggetti veri e movimenti reali degli attori che non esitavano a dare le spalle al pubblico. Il Théâtre Libre fu uno dei primi tea-tri “d’arte” in cui la logica della ricerca era sentita più importante rispetto a quella del profitto.
8 Jean Jullien, Il teatro vivente (1892), in Silvia Carandini, La melagrana spaccata. L’arte del teatro in Francia dal naturalismo alle avanguardie storiche, Valerio Levi, Roma 1998, p. 70.
9 Oltre alla produzione teorica, Fuchs cura alcune messe in scena da Shakespeare e da Calderón ed elabora progetti artistici dove la musica è spesso una componente di primo piano. Lo sforzo tea-trale di Fuchs è finalizzato alla creazione di un teatro di comunione spirituale tra attori e spettatori le cui basi siano il ritmo e la musicalità. Sulla scorta delle idee di Wagner e del mistero medioevale, Fuchs crea assieme all’architetto Berens a Darmstadt nel 1901 la cerimonia mistico-religiosa Il segno. Tra i progetti più significativi va inoltre ricordato Il teatro dell’avvenire (1904) dove, in una dimensione ludica, si esalta l’estetica del corpo evitando ogni tendenza illusionistica. A partire dal 1908 Fuchs dirige poi il Teatro d’Arte a Monaco, costruito dall’architetto wagneriano Max Littmann e qui concepisce una delle sue opere teoriche più importanti: La rivoluzione del teatro (1909), per la quale può essere annoverato tra i grandi teorici della scena d’inizio secolo (cfr. Luisa Tinti, Georg Fuchs e la rivoluzione del teatro, Bulzoni, Roma 1980; Umberto Artioli, Ritmo del sangue e mistica della luce, in Id., Il ritmo e la voce. Alle sorgenti del teatro della crudeltà, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 31-64).
10 Adolphe Appia, Attore musica e scena, a cura di Ferruccio Marotti, Feltrinelli, Milano 1975, p. 139.
11 U. Artioli, Teorie della scena dal Naturalismo al Surrealismo, I – Dai Meininger a Craig, Sansoni, Firenze 1972, p. 10.
12 Ivi, p. 22.
13 Cfr. Monica Cristini, Rudolf Steiner e il teatro. Euritmia: una via antroposofica alla scena contemporanea, Bulzoni, Roma 2008; M. Cristini, Spiritualità e teatro. Elementi antroposofici per la tecnica dell’attore, «Culture Tea-trali», 23, 2014.
14 In occasione dell’Orfeo, e poi per tutta la breve durata dell’avventura di Hellerau, molte furono le personalità che si recarono, proprio come in un vero e proprio pellegrinaggio, nella città giardino e nel suo teatro. Tra queste ricordiamo: Ernest Bloch, Paul Claudel, Sergej Diaghilev, Harley Granville-Barker, Hugo von Hofmannsthal, Hanya Holm, Percy Ingham, Kurt Jooss, Rudolf von Laban, Le Corbusier, Emil Nolde, Anna Pavlova, Sergej Rachmaninoff, Max Reinhardt, Alfred Roller, George Bernard Shaw, Upton Sinclair, Konstantin Stanislavskij, Rainer Maria Rilke, Oskar Kokoschka, Stefan Zweig, Vaslav Nijinski, Georges Pitoëff, Sergej Volkonskij. Volkonskij si reca a Hellerau nel 1910 e rimane così colpito dagli studi di Jaques-Dalcroze e Appia da invitare i due in Russia, ospiti del Teatro d’Arte di Stanislavskij e del conservatorio di Rachmaninoff. Inoltre, è proprio Volkonskij che parla a Gordon Craig di Jaques-Dalcroze e di Appia, facendo intuire al regista inglese le forti affinità con i due. Qualche anno dopo, nel 1914, Appia e Craig finalmente si incontrano a Zurigo. I due registi, pur sviluppando idee per certi aspetti molto diverse, si riconoscono in una medesima comunanza di intenti. Jaques-Dalcroze riferisce, in una lettera a Appia, come Craig abbia copiato alcuni suoi disegni per l’Amleto di Stanislavskij senza riuscire però a farne buon uso. La lettera è citata in R. C. Beacham, Adolpe Appia cit., p. 92.
15 Claudel visita Hellerau nel febbraio del 1913 e lo stesso anno scrive: «La musica nei corpi umani è diventata visibile e vivente… I cori… diventano grandi insiemi intelligenti, completamente animati e penetrati dalla vita del dramma e dalla musica» (Paul Claudel, Le théâtre d’Hellerau, «La Nouvelle Revue Française», 57, 1 settembre 1913, pp. 474-477).
16 Editore del libro di Buber sui chassidim (1928) e traduttore di Paul Claudel.
17 Orfeo e Euridice, di Christoph Willibald Gluck (1762), fu presentato il 26 giugno del 1912 come dimostrazione degli studenti di Jaques-Dalcroze in occasione delle feste per il secondo anno di attività della scuola. Negli stessi anni Isadora Duncan presentava la sua versione dello stesso spettacolo (come unione di teatro, musica e danza con un coro e un solista) al Century Opera House a New York (Aprile 1915). Per una dettagliata descrizione dell’Orfeo a Hellerau rimandiamo a Tamara Levitz, In the footsteps of Eurydice. Gluck’s “Orpheus und Eurydice” in Hellerau, 1913, «Echo: a music centered journal», iii, 2, 2001.
18 Il Garden City Movement è stato fondato da Ebenezer Howard nel 1898. L’idea è tratta da un romanzo utopistico di Edward Bellamy dal titolo Looking backward: 2000-1887. Le città giardino erano progettate per ospitare piccole comunità secondo un ricercato equilibrio tra area residenziale, industria e area agricola. Erano pensate come piccole cellule autosufficienti ma facenti parte di una rete attorno alla città principale. Hellerau significa letteralmente “prato luminoso”.
19 Cfr. Klaus-Peter Arnold, Vom Sofakissen zum Städtebau: Die Geschichte der Deutschen Werkstätten und der Gartenstadt Hellerau, Verlag der Kunst, Dresden 1993.
20 A. Appia, Lo spazio vivente, in Id., Attore musica e scena cit., p. 184.
21 Ivi, p. 186.
22 Cfr. Émile Jaques-Dalcroze, Il ritmo, la musica e l’educazione, EDT, Torino 2008; Marie-Laure Bachmann, Dalcroze today. An education through and into music, Oxford University Press, Oxford 1991.
23 M. Schino, La nascita della regia tea-trale cit., p. 75.
24 Franco Ruffini, Stanislavskij e il ‘teatro laboratorio’, in Id., Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé, Laterza, Roma-Bari 2005.
25 Il viandante «non ambisce a orientarsi. […] Ambisce solo a vivere questo preciso “qui”, l’oscurità selvaggia, i muri pallidi delle case […] e vuole viverli così pienamente sino al punto di farli diventare verità e messaggio. Conosce il pericolo e vuole farglisi incontro […]. Cosa sarebbe la vita, se ogni volta non si trattasse delle cose della massima importanza e se nulla minacciasse di distruggerla? Il libro della vita è così indicibilmente bello da leggere perché alle nostre spalle fa sempre capolino la morte» (M. Buber, Della realtà. Dialogo da sopra la città cit., p. 47, corsivo nostro).
26 Ibid.
27 Si è già accennato a Steiner, fondatore dell’Euritmia; aggiungiamo che presumibilmente fu spettatore delle dimostrazioni degli allievi di Jaques-Dalcroze a Monaco nel 1907-08. Gurdjieff non è invece un uomo di teatro ma è legato a Jaques-Dalcroze e ad Hellerau per via di due suoi importanti collaboratori che gravitano anche attorno alla città giardino: Alexander von Salzmann (artista russo che lavorerà soprattutto come illuminotecnico con Appia a Hellerau) e soprattutto la moglie Jean Allemand. Le affinità tra la ritmica dalcroziana e i movements di Gurdjieff sono rintracciabili soprattutto in riferimento alla questione dello sdoppiamento del performer già vista in Jaques-Dalcroze (cfr. E. Casini Ropa, Alle origini della danza moderna, il Mulino, Bologna 1990).
28 M. Schino, La nascita della regia tea-trale cit., p. 76.
29 M. Buber, Tre ruoli di Novelli, infra, p. 228.
30 Heinrich Tessenow divenne un celebre architetto in seguito alla fondazione del Werkbund tedesco, istituzione sorta su iniziativa di intellettuali e imprenditori interessati a salvaguardare la qualità del lavoro industriale. Le sue architetture, concepite sulla scorta delle idee di Otto Wagner, rivelano una componente tra il classico e il “vernacolare” seppure mai sentimentale. Gli edifici di Tessenow, e tra questi l’istituto di Hellerau, si collocano funzionalmente all’interno del contesto naturale quasi “estendendolo” (cfr. Alan Colquhoun, Modern architecture, Oxford University Press, New York 2002).
31 La sala principale dell’istituto Jaques-Dalcroze era costituita da un parallelepipedo lungo quarantanove metri, largo sedici e alto dodici con la parte riservata al pubblico composta da gradoni. La sala poteva ospitare cinquecentosessanta persone del pubblico e duecentocinquanta performer (cfr. Fabrizio Crisafulli, Luce attiva. Questioni della luce nel teatro contemporaneo, Titivillus, Pisa 2007).
32 L’edizione tedesca di Das Raumproblem der Bühne [Il problema dello spazio scenico] si trova in Aa. Vv., Programmbuch, Helleraurer Verlag, Hellerau 1913, p. 79. La traduzione italiana si trova in appendice a questo volume.
33 M. Buber, Il problema dello spazio scenico, infra, p. 229. Fino a diversa indicazione le citazioni sono tratte dalla stessa fonte.
34 Oltre all’articolo di Buber, il programma di sala (Das Claudel-Programm Buch) conteneva altri importanti contributi: Mes idées sur la manière générale de jouer mes drames di Paul Claudel, Claudels Verkündigung in Hellerau di Wolf Dohrn, Licht, Belichtung und Beleuchtung di Alexander von Salzmann.
35 Un approfondimento utile sul lavoro del giovane architetto di Hellerau si trova in Marco De Michelis, Vicki Bilenker, Modernity and reform, Heinrich Tessenow and the Institut Dalcroze at Hellerau, «Perspecta», Theater, Theatricality, and Architecture, xxvi, 1990, pp. 143-170.
36 A. von Salzmann, Lumière, Luminosité et Eclairage (1912), in A. Appia, Œuvres Complètes, L’age d’homme, Lausanne 1988, iii, p. 172.
37 Il primo anno, il programma della festa comprendeva la pantomima Eco e Narciso, il secondo atto dell’Orfeo di Gluck e il Preludio e fuga di Mendelssohn-Bartholdy.
38 Le critiche riguardavano soprattutto il fatto che non si distinguessero bene i volti dei singoli attori e queste osservazioni non tenevano dunque conto dello scopo di Appia: rendere lo spettacolo un unico corpo collettivo.
39 Nel 1911 Appia e Jaques-Dalcroze avevano provato a prendere contatto con Fortuny a Parigi per proporre una collaborazione al progetto ma, non avendolo trovato, decisero di lavorare alle luci da soli. Fortuny, l’inventore della cupola che porta il suo nome, è stato tra i primi a impiegare la luce diffusa in teatro e grazie al suo sistema gli attori potevano evitare la luce dura e brutale della ribalta e risultare illuminati in modo molto più naturale. Appia lo conosceva da tempo in quanto aveva già lavorato con Fortuny per la messa in scena della Carmen e del Manfred a Parigi nel 1903.
40 A. Appia, Attore, spazio, luce, pittura (1919), in Id., Œuvres Complètes, iii, cit., pp. 335-358.
41 Antonin Artaud conobbe Salzmann nel 1925 e, menzionandolo nelle due conferenze messicane, riporta una suggestiva conversazione che i due ebbero in una «terribile notte di febbraio»: «Il n’y avait pour lui que des idiots. […] Et les hommes de théâtre étaient les plus idiots de tous. “Ces lumières qui vous ont ému, me dit-il, ils le trouvent trop ténébreuses. C’est qu’ils ne sont pas encore parvenus à une notion supérieure à celle de cinq sens: l’odorat, le goût, le tact, la vue et l’ouïe. Comme si le théâtre n’était pas fait pour transgresser le monde des sens. La vie des sens, nous la vivons quotidiennement. Si le théâtre ne nous sert pas à nous dèpasser, à quoi servira-t-il!…» (A. Artaud, Le théâtre d’après-guerre à Paris, in Id., Messages Révolutionnaires, Gallimard, Paris 1971, p. 63).
42 M. Buber, Io-Tu cit., p. 143.
43 Ivi, p. 139.
44 A. Appia, Le geste de l’art (1921), in Id., Œuvres Complètes cit., p. 446.
45 M. Buber, Io-Tu cit., p. 96.
46 M. Buber, L’insegnamento del Tao (1909), a cura di F. Ferrari, Il Melangolo, Genova 2013, pp. 47-48. Proprio nel primo decennio del Novecento, il filosofo, come molti altri intellettuali dell’epoca, è profondamente affascinato dai miti e le culture dell’Oriente e collabora con alcune case editrici particolarmente sensibili a questi argomenti. Il saggio citato costituisce infatti la postfazione [Nachwort] di Buber a una raccolta antologica sul Tao edita da Insel (Die Lehre vom Tao in Die Rede, die Lehre und das Lied, Insel, Leipzig 1917). Per quanto concerne il nostro studio, questo concetto, che qui accogliamo in una più piena formulazione, è già stato richiamato in più punti: a proposito delle figure immobili della Gerusalemme di Ury e della mano nobile che si appresta a un’azione nella prospettiva dell’eterno, a proposito dell’azione del chassid che “rallegra Dio” e a proposito dell’azione del Tuende nel saggio su Grünewald. L’azione del Tuende (attuante), come quella della Duse, non è transitiva, essa è «Nichttun», l’azione di colui che «è nel cammino» (M. Buber, Religione come presenza, a cura di F. Ferrari, Morcelliana, Brescia 2012, p.134).
47 L’inazione è un concetto che implica un frequente riferimento di Buber alla tradizione biblica e chassidica. L’inazione costituisce una costante tematica anche nei testi più tardi come Io-Tu: «Così la relazione è al tempo stesso essere scelti e scegliere, patire e agire. Allo stesso modo un agire dell’intero essere deve divenire simile al patire, quando si sospende ogni agire particolare e insieme a esso ogni sensazione attiva che si fondi solo nei limiti di quell’agire» (M. Buber, Io-Tu cit., p. 66).
48 Il saggio Dramma e teatro (1925) viene pubblicato per la prima volta in «Die Masken», la rivista attraverso cui l’attrice Louise Dumont dava inizio al rinnovamento del teatro a Düsseldorf. Il testo italiano, da cui sono tratte le citazioni, si trova in coda al nostro volume. In generale, trattandosi di uno scritto già maturo, il testo riflette la ormai solida base filosofica del nostro autore ed esprime in modo chiaro i pericoli della vita monologica.
49 Molti e sostanziali sono i punti di contatto tra la filosofia tea-trale di Simmel e quella che emerge, sebbene mai in modo sistematico, dalla pagina buberiana. L’argomento meriterebbe uno studio a parte, tuttavia in questa sede ci limitiamo a rilevare come per entrambi i filosofi il teatro costituisca una realtà autonoma che entrambi qualificano sotto lo statuto di “immagine” (si veda per Buber Il problema dello spazio scenico e per Simmel La filosofia dell’attore). Inoltre, come Buber, pure Simmel crede di trovare nell’eccezione dusiana il paradigma più efficace di un nuovo modo di intendere l’arte dell’attore (cfr. G. Simmel, Die Duse (1901), in Id., Gesamtausgabe 17. Miszellen, Glossen, Suhrkamp Verlag, Berlin 2005; Aa. Vv., Georg Simmel e l’estetica. Arte, conoscenza e vita moderna, a cura di Claudia Portioli e Gregor Fitzi, Mimesis, Milano 2007).
50 M. Buber, Dramma e teatro, infra, p. 238.
51 R. Calasso, Monologo fatale, in F. Nietzsche, Ecce Homo, Adelphi, Milano 2007, p. 170.
52 René Daumal fondò nel 1928 con Roger Gilbert-Lecomte «Le grand jeu» e conobbe Alexander von Salzmann grazie al pittore Joseph Sima. Nella Grande bevuta di Daumal tra i personaggi si incontrano infatti Antonin Artaud (Antonin le fou) e Alexander von Salzmann (Totochabo).
53 R. Daumal, Jaques Dalcroze, éducateur, in Id., Chaque fois que l’aube parâit, Gallimard, Paris 1953, p. 255.
54 Cfr. F. Ruffini, I tea-tri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, il Mulino, Bologna 1996. Nelle appendici di questo volume che mette in relazione le figure di Artaud, Daumal e Gurdjieff è pubblicato un importante saggio di Daumal scritto nel 1934, Il movimento nell’educazione integrale dell’uomo.
55 Uday Shankar era un giovane danzatore indiano scoperto da Anna Pavlova a Londra. Dopo la tournée in Europa si spostò in America e Daumal lo seguì nelle vesti di addetto stampa (cfr. Michel Random, Le grand jeu, i, Denoël, Paris 1970).
56 M. Buber, Daniel cit., p. 88.
57 Ivi, p. 89.
58 Ibid.
59 Ivi, p. 87, corsivo nostro.
60 La critica di Buber alla categoria del singolo di Kierkegaard si trova in M. Buber, Il singolo e il suo tu, in Id., Il principio dialogico e altri saggi cit., p. 240.
61 M. Buber, Incontro. Frammenti autobiografici cit., p. 64.
62 V. Turner, Struttura e antistruttura, in Id., Il processo rituale, Morcelliana, Brescia 1972, p. 113. Le citazioni seguenti sono tratte dalla stessa fonte.
63 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici cit., p. 90.
64 R. Daumal, Il monte analogo (1952), Adelphi, Milano 1995, p. 137.
65 Alain Beretta, Claudel et la mise en scène: autour de l’Annonce faite à Marie (1912-1955), Presses Universitaires Franc-Comtoises, Paris 2000, p. 111.
66 Ivi, p. 112.
67 È Friedman a sostenere che Buber non presenziò alla prima dello spettacolo del 5 ottobre 1913. Secondo altre fonti, Buber rimase comunque in sala nonostante gli intercorsi dissidi per la messa in scena: […] aux cotés de Max Reinhardt, assis au premier rang des fauteuils, et de Martin Buber, présent malgré ses heurts avec la Société de Hellerau, se trouvent de grands hommes de lettres» (A. Beretta, Claudel et la mise en scène cit., p. 144).
68 M. Friedman, Martin Buber’s Life and Work cit., p. 165.
69 Per la descrizione della messa in scena a Hellerau da parte di Claudel si veda: P. Claudel, Articolo senza titolo, «Comoedia», Parigi, 4 ottobre 1913.
70 Lettera di Appia al cugino Henri Odier, 21 ottobre 1913, in Martin, Dénes, Berchtold, Gagnebin, Emile Jaques-Dalcroze, l’homme, le compositeur, le créateur de la rythmique, De la Baconnière, Neuchâtel 1965, p. 448. La traduzione è di M. Gallucci ed è tratta dal suo Nostalgia di Orfeo cit., pp. 317-328.
71 Ivi, p. 321.
72 Sergej Volkonskij, Paul Claudel et Hellerau, «Otkliki Tea-tra», Saint-Pétersbourg 1914, pp. 18-22.
73 Ivi, p. 18.
74 S. Volkonskij, Meine Erinnerungen – Hellerau, in Aa. Vv., In Memoriam Hellerau, Rombach & Co., Freiburg Breisgau 1960, p. 29. L’edizione francese si trova in A. Appia, Œuvres Complètes cit., p. 106.
75 Orfeo di Jean Cocteau, adattamento e regia di Jerzy Grotowski, Opole, ottobre 1959. Nel finale dello spettacolo gli attori interpretavano un testo che, ai fini dei nostri studi, risulta affine a quanto detto finora: «Ti ringraziamo, mondo, di essere […] ti ringraziamo per il fatto che (frenando il tuo caos) possiamo scolpire noi stessi, la nostra libertà. Ti ringraziamo mondo perché possediamo la consapevolezza che ci permette di vincere la morte: di capire la nostra eternità nella tua eternità. E perché l’amore in ciò è maestro, abbecedario. Ti ringraziamo di non essere separati da te, di essere te, grazie perché proprio in noi raggiungi la coscienza di te, il risveglio. Ti ringraziamo, mondo, di essere» (J. Grotowski, Invocazione per lo spettacolo Orfeo, in Id., Il Tea-tr laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, a cura di Ludwik Flaszen e Carla Pollastrelli, Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera 2001, pp. 35-36). L’Orfeo fu preparato in sole tre settimane e aveva un doppio registro, tragico e grottesco: «Noi non intendiamo perpetuare l’assurdo, pensiamo a qualche forma di speranza e la vogliamo trovare. Tradotta in termini tea-trali questa speranza è individuabile tra i due estremi della realtà: il tragico e il grottesco. Intraprendiamo questa ricerca a nome nostro, non a nome dell’autore, anche se questo non comporta affatto una mancanza di rispetto per i drammaturghi» (J. Grotowski, 11 pytán o 13 Rze˛dow, intervista a cura di B. Zagórska, «Echo Krakowa», 248, 1959, p. 3).
76 J. Grotowski, Il Tea-tr laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969 cit., p. 42.
77 A. Appia, Les porteurs de flammes, in Id., Œuvres Complètes cit., p. 402.
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2014
La nascita del teatro ebraico
Persone, testi e spettacoli dai primi esperimenti al 1948
Raffaele Esposito
2016
Le jardin
Récits et réflexions sur le travail para-théâtral de Jerzy Grotowski entre 1973 et 1985
François Kahn
2016