II. L’attore di fuoco
p. 49-83
Texte intégral
1. 1878-1900. Da e verso il Danubio
I am no prophet and there’s no great matter.
T. S. Eliot, The love song
of J. Alfred Prufrock
(in Opere 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano 2001, p. 282)
Tutto scorre, non si può tornare due volte nello stesso fiume.
Eraclito
1Martin Mordechai Buber nasce nel 1878 a Vienna, sulle rive del Danubio, da una famiglia di ebrei assimilati.1 Tutte le biografie partono immancabilmente da uno stesso evento traumatico: all’età di tre anni la pace e la tranquillità del focolare domestico vanno in frantumi a causa della fuga della madre, Elise Wurgast. Il matrimonio con Carl Buber (nato nel 1848 da Salomon e Adele) è così immediatamente sciolto e il piccolo Martin viene affidato alle amorevoli cure dei nonni in una tenuta di campagna poco distante da Leopoli, capitale della Galizia e attuale L’vov ucraina. L’abbandono della madre e l’allontanamento dalla casa sul fiume sono due eventi considerati cruciali da tutte le biografie poiché saranno i motivi del continuo senso di perdita e lutto negli anni giovanili. Nei primissimi anni di vita, per Martin il fiume con il suo incessante scorrere rappresentava una culla sicura, un luogo dove nulla l’avrebbe turbato e, a distanza di anni, questa immagine di serenità e sicurezza rimarrà talmente viva nella mente del filosofo che, soltanto chiudendo gli occhi, riuscirà a richiamarla con esattezza.
2Più tardi, con il permesso del tribunale, Carl Buber si risposa e pure Elise contrae matrimonio in Russia. Nel 1911 Martin riceverà una visita della madre da San Pietroburgo e sarà proprio il ricordo di questo episodio, del tutto personale ed emotivamente forte, a spingere il filosofo, negli anni del pensiero dialogico, verso la formulazione del concetto di Vergegnung (incontro mancato).2 Nei Frammenti autobiografici, il primo capitolo è dedicato alla figura di Elise e rappresenta l’inizio di una partita esistenziale che prende emblematicamente le mosse proprio da questo incontro mancato. L’abbandono della madre, che «non tornerà mai più»,3 è con queste parole laconicamente sancito dalla sincerità di una bambina, la figlia di un vicino dei nonni che, appoggiata a una balconata, suggerisce a Buber una verità universale: «Tutto ciò che nel corso della mia vita ho appreso sull’incontro autentico ha probabilmente avuto la sua prima origine in quell’ora sulla balconata».
3Gli anni dal 1882 al 1888 rappresentano un periodo sereno in cui Martin vive con i nonni paterni Adele e Salomon vicino alla capitale della Galizia,4 «la città dai confini dissolti»5 immersa nella regione assegnata alla Corona austriaca e che rimarrà sotto dominio asburgico fino alla fine del primo conflitto mondiale. La provincia polacca non costituisce una “terra di mezzo” soltanto dal punto di vista geografico ma rappresenta un luogo importante per l’ebraismo in generale poiché si colloca tra l’Occidente dell’assimilazione (che frequenteremo a Vienna) e l’Oriente in cui l’ebreo resiste all’assimilazione subendo dunque una necessaria emarginazione (ne parleremo a proposito del dibattito sionista generato dalle conseguenze dei pogrom russi).6 La Galizia ospita i due terzi della popolazione ebraica dell’Impero, costituisce uno dei maggiori centri di diffusione dell’ebraismo dell’Europa centro-orientale ed è sede di importanti studi haskalici e scuole chassidiche. È proprio a partire da questa terra che va creandosi il mito dell’Ostjude, il mito dell’ebreo orientale che, se da una parte appare «orribile» come uno «sporco straccione» persino agli stessi ebrei, 7 dall’altra sembra richiamare una religiosità pura e primigenia lontana dalle contraddizioni interiori tipiche del Westjude.
4Il nonno è una figura importante, possiede miniere di fosfato, dirige due banche e occupa una posizione di alto prestigio nella comunità ebraica. Nel tempo libero Salomon si dedica allo studio della tradizione talmudica, è filologo ed editore di molte edizioni del Midrash. Per Martin il nonno rappresenta l’ultimo intellettuale dell’Illuminismo ebraico; è proprio lui infatti ad avviare il giovane filosofo allo studio della Bibbia ma soprattutto a influenzarlo con il proprio pacato atteggiamento haskalico. La nonna Adele, figlia di un industriale della carta, amministra la tenuta e aiuta il marito non mancando di annotare fra i documenti burocratici alcune citazioni dai grandi maestri della letteratura (di cui le era stata vietata la lettura fin da giovane) come Goethe, Schiller e Hölderlin.8 Non è un caso che il secondo capitolo dei Frammenti autobiografici sia dedicato interamente a lei: «il nonno era un autentico filologo, un “amante della parola”, ma l’amore della nonna per la pura parola mi influenzò ancor più fortemente che quello del nonno: poiché questo amore era così immediato e così devoto». Ciò che Martin conserverà nell’elaborazione del suo pensiero filosofico è proprio la capacità della nonna di non scindere esperienza e riflessione ma di considerarli come due aspetti dello stesso processo: «quando osservava la strada aveva talvolta il profilo di una persona che sta meditando su una domanda e altre volte, se la sorprendevo da sola immersa nei suoi pensieri, mi appariva assorta in un ascolto interiore. Ciononostante, però, già agli occhi di me bambino era evidente la voracità della sua attenzione quando si rivolgeva a qualcuno».
5Considerato che, secondo la nonna, la via maestra dell’educazione era un «umanesimo fondato sulla conoscenza delle lingue», al giovane Martin vengono impartite lezioni private soprattutto di lingue straniere fino ai dieci anni quando comincia a frequentare la scuola. Martin diventa in breve tempo così bravo da poter aiutare il nonno nelle sue traduzioni cominciando a maturare le proprie personali riflessioni circa la parola e il linguaggio e rendendosi conto tuttavia di come il passaggio da una lingua all’altra lasci sempre un vuoto, uno scarto fondamentale di significato e non una semplice sfumatura.
Io allora dovevo cercare di estrarre dalla trascrizione in ebraico il testo in francese antico e quindi renderlo comprensibile prima a me stesso e poi a mio nonno. In seguito però, nella solitudine della mia stanza nella casa paterna, cominciò ad assillarmi la domanda: che cosa significa e come funziona lo «spiegare» qualcosa che è stato scritto in una lingua attraverso qualcosa che si è soliti dire in un’altra lingua? Il mondo del logos e dei logoi mi si apriva davanti, si oscurava, si schiariva per poi oscurarsi di nuovo.
Per Buber la parola è parola che fonda. Essa rappresenta il trait d’union tra le diverse prospettive filosofiche, quella ontologica, quella religiosa, etica, educativa e politica. La parola rivelata, la parola parlata e ascoltata è centrale nella creazione di un processo volto alla realizzazione di autentiche relazioni “Io-Tu” tra gli uomini e con il mondo. Il canale privilegiato attraverso il quale Dio parla all’uomo è la Bibbia: la parola rivelata contiene un messaggio che oggi tuttavia non si vuole o non si è più capaci di ascoltare. Perciò è urgente, secondo il filosofo, trovare una strategia efficace per ri-chiamare il cuore dell’uomo a ciò che può condurlo verso un’esistenza autentica. Vedremo come, molto tempo dopo il periodo che stiamo esaminando, Buber compia un’opera magistrale e durata molti anni per rendere comprensibile il testo sacro, facendo rivivere l’originaria parola parlata quale esperienza vissuta della relazione dialogica tra Dio e il suo popolo. Per realizzare questo ambizioso progetto il filosofo non si avvale degli usuali strumenti della traduzione filologica in senso stretto, da lui ritenuti inadeguati in quanto fanno della Bibbia un testo morto. La parola viva, che deve riecheggiare dalla lettura, richiede una interpretazione che faccia percepire al lettore la portata dell’esperienza vissuta dai protagonisti. Questo significa elaborare un testo in cui molta attenzione è posta su elementi caratteristici del parlato o su termini derivanti dal tedesco antico: pause, toni, accenti, ritmi, ripetizioni, ritornelli, neologismi. Elementi questi che appaiono disturbanti a una critica filologica classica, ma che Buber, nonostante alcune polemiche, non esita a considerare fondamentali per raggiungere lo scopo prefissato: consentire all’uomo tedesco contemporaneo di leggere la Bibbia come parola parlata che risuona nell’oggi richiamando ogni uomo. Non è sufficiente che Dio parli attraverso le Scritture: l’uomo deve stare attento alla sua voce che, flebile, rischia spesso di non essere percepita. Deve essere aperto alla parola di Dio, deve liberamente aprire la relazione con il Tu e procedere verso l’unificazione del suo essere con l’Eterno. Ecco quindi che la parola di risposta del singolo individuo si rende evidente e necessaria nell’azione compiuta nel qui e ora. Alla luce di tutto questo capiamo meglio l’indiscussa centralità della figura della nonna nella vita dell’autore e nell’importante progetto legato alla riscrittura del testo biblico.
6Martin Buber, grazie all’ambiente favorevole della casa galiziana, entra in contatto con una grande varietà di lingue: a casa il tedesco, a scuola il polacco, nel quartiere ebraico l’yiddish e in sinagoga l’ebraico. Da ragazzo la lingua preferita è il greco e la sua formazione filosofica si concentra soprattutto sulla lettura dei testi platonici. Buber al termine della sua vita parlerà tedesco, ebraico, yiddish, polacco, francese e italiano; leggerà correntemente lo spagnolo, il latino e il greco. Tutte queste lingue per il filosofo non sono altro che tante facce di uno stesso prisma: i cui molti riflessi rimandano la sola luce del dialogo umano, nella singola lingua allo stesso tempo frammentato e preservato.
7A partire dai nove anni trascorre le proprie estati immerso nella natura del podere paterno situato tra Sadgora e Czortków. Qui il legame con il padre si fortifica e Martin impara da lui cose che non si trovano nei libri. Carl Buber è proprietario terriero e agronomo e a lui il figlio riconoscerà sempre una notevole capacità di guardare il mondo circostante con grande responsabilità e altruismo. A dieci anni Martin Buber frequenta il Franz-Josef Gymnasium di Leopoli dove per otto anni ogni mattina è costretto a presenziare ai riti della scuola cattolica. Martin, da adulto, considererà quell’assistere silenzioso e imbarazzante come «una cerimonia sacra alla quale nemmeno un granello della mia persona poteva e voleva partecipare», una sorta di violenza, un atto di intolleranza. Da questo episodio, la cui narrazione trova spazio nei Frammenti biografici, Buber sviluppa una forte insofferenza verso qualsiasi tipo di rigida ortodossia e relativo proselitismo.
8Negli anni di Leopoli, Martin incontra per la prima volta il mondo chassidico poiché il nonno, pur essendo un intellettuale “illuminato”, non disdegna la frequentazione delle comunità chassidiche. Così è a Sadgora, sede di una famosa dinastia di rebbe, che il nostro filosofo entra in contatto con la vita e la spiritualità dei chassidim.
9L’otto febbraio del 1891 Martin Buber diventa bar mitzvah e, per la cerimonia di posa dei tefillin sceglie di abbinare alcuni passi della Bibbia a versi di Schiller rendendo così manifesta la sua cultura tedesca e laica. All’incirca per un anno Martin è dunque un giovane ebreo praticante, tuttavia, poco dopo, l’insofferenza verso l’ortodossia rabbinica e il ritualismo esasperato avranno la meglio sui buoni propositi. Nel 1892 torna definitivamente nella casa paterna e in questo periodo le sue letture si intensificano; il giovane legge i due filosofi che più di tutti gli altri ne abiteranno il pensiero, Kant e Nietzsche.9 Se la lettura di Kant gli fornisce conforto e un modello di sistema filosofico rigoroso, quando nel 1895 Buber scopre Nietzsche, la lettura dello Zarathustra lo avvince così tanto da spingerlo a portare ogni giorno a scuola il libro e di farne oggetto di numerose dispute con i compagni. Il vitalismo, la dottrina dell’eterno ritorno e lo slancio creativo influiranno in modo decisivo negli anni a venire, tanto che lo stesso Gershom Scholem in un testo scritto dopo la morte del filosofo, rintraccerà nell’imperativo del creare mutuato da Nietzsche tutta l’essenza del pensiero buberiano:
Buber apparteneva alla generazione che, intorno al 1900, fu profondamente influenzata da Nietzsche e dalle sue parole. Il discorso nietzschiano intorno a coloro che creano (Schaffenden) pervade tutti i suoi primi scritti. Il principio creativo deve nuovamente farsi valere nell’ebraismo contro l’improduttività e il torpore dominanti.10
Tra il 1896 e 1897 Buber ritorna a Vienna e si iscrive alla Facoltà di filosofia dell’Università Franz-Joseph che frequenterà per due semestri. L’abbandono dei luoghi dell’infanzia e il ritorno al Danubio in una Vienna fin de siècle, centro febbrile d’arte e cultura, rappresentano una tappa fondamentale. 11 Trovatosi dal paesino galiziano immerso ora nella grande città dell’innovazione, dello sperimentalismo nonché della primissima infanzia, così descrive questo periodo:
Ricordi slegati e senza rilievo sembrano sgorgare dall’insieme corporeo della città come le finestrelle di una lanterna magica, ma anche quei paesaggi che non avevo mai visto mi parlavano come qualcosa di conosciuto. La patria straniera mi insegnava continuamente, anche se in un linguaggio ancora oscuro, che si deve accettare il mondo e farsi accettare da lui, perché in fondo è ben disposto. E così in quel periodo si consolidò qualcosa che negli anni successivi non ha potuto essere scosso da nessuna delle problematiche contemporanee.
A Vienna, Buber può completare il disegno che lo porterà negli anni seguenti alla formulazione della filosofia dialogica. Quelle riflessioni che nella casa dei nonni erano solo intuizioni, vengono ora messe in gioco nell’esperienza viennese, nell’incontro con l’altro.
10Fermiamoci per qualche istante e interrompiamo la storia, entriamo nell’Europa a cavallo tra i due secoli per comprendere perché l’esperienza principale del capitolo dei Frammenti autobiografici dedicato a Vienna sia proprio il teatro e proviamo a richiamare l’atmosfera della città che presumibilmente si trovò davanti il giovane Buber.
11L’Ottocento fu il secolo della trasformazione che traghettò l’uomo nell’era moderna: furono sconvolte le dinamiche geo-politiche nel passaggio tra grandi imperi e nazioni moderne, vennero introdotti nuovi principi libertari e egualitari sulla scorta del periodo napoleonico, nacquero le prime costituzioni con il riconoscimento dei diritti delle masse, grazie al positivismo si conseguì una nuova consapevolezza scientifica e un progresso nelle ricerche dell’uomo. La nuova stagione, che va aprendosi per l’Europa fin de siècle, pur inaugurandosi secondo un apparente stato di quiete, porta con sé un inarrestabile flusso sotterraneo di questioni irrisolte, contraddizioni e novità. Il pensatore diventa ora sognatore, il letterato poeta e il centro di ogni riflessione si sposta di piano: dalle arti ragionate si passa a quelle artistiche, dalla teoria scientifica e dall’azione civile si passa a una ricerca dal sapore più introspettivo, a uno scandaglio negli antri più reconditi dell’animo mantenendo sempre vitale la tensione verso lo sconosciuto, il diverso, per esempio verso quell’Oriente che con le sue antiche tradizioni sapienziali viene ora inteso come via maestra per completare e sanare l’uomo della crisi.12 Su un doppio filo viaggiano così, da una parte un vistoso appetito di pace e serenità e dall’altra un’inedita e smaniosa fame di guerra, l’uno vige brulicando in superficie tra sale da ballo e tea-tri, l’altra mina pericolosamente, e quasi sottotraccia, questo ambiguo stato di quiete prima dei due conflitti mondiali.
12Vienna, Die alte Kaiserstadt, vero e proprio simbolo di queste forze profonde e di superficie, diventa così la capitale culturale di tutta Europa mantenendo tuttavia attivo quel fermento nato dai principi promulgati dopo il Congresso di Vienna.13 L’impero austroungarico è uno stato multinazionale, abitato (lo evidenzia anche Buber nei Frammenti autobiografici) da gruppi etnici diversi: tedeschi, italiani, polacchi, cechi, ungheresi, slovacchi, croati, sloveni, serbi, ruteni ed ebrei; molte sono dunque le lingue e le esigenze di autodeterminazione di questi popoli. Vienna è la sede dell’Impero, crocevia di culture e lingue diverse, centro di ogni avvenimento. La figura dell’Imperatore, soggetto a una devozione quasi sacrale, e l’esercito imperiale tengono a freno le forze centrifughe nella capitale.14
13Andare a Vienna per formarsi era d’obbligo per i ragazzi di buona famiglia e molti, dopo gli studi vi restavano attratti dal turbine di novità, dalla leggerezza e dal divertimento che la città sapeva offrire. Con lo sguardo di un giovane che compiva i suoi primi passi nella Vienna fin de siècle, il nostro filosofo sicuramente si è soffermato anch’egli a contemplare il nuovo volto della città, che aveva subito una forte modernizzazione architettonica e urbanistica grazie soprattutto agli interventi di Camillo Sitte e Otto Wagner. La spensieratezza era così come un’aria frizzantina che a colpi di valzer inebriava ogni rione e vicolo della città, lo slancio libertino del motto “Wissen macht frei” carezzava le menti migliori della generazione degli artisti viennesi e ora ci si incontrava non più soltanto nei saloni elitari delle Università ma direttamente in strada, nei caffè o nei tea-tri, veri centri propulsori del pensiero e dell’innovazione. In particolare i giovani ebrei, il cui popolo era rimasto in un lungo anonimato protetto dalla figura dell’Imperatore e dunque ben amalgamato nel tessuto sociale dell’Impero, mostravano in quegli anni lo slancio maggiore in ambito artistico culturale. Alcune tra le personalità più importanti del secolo scorso sono così passati dalla capitale: Sigmund Freud, Theodor Herzl,15 Gustav Mahler e Viktor Adler,16 Johannes Brahms, il pittore Oskar Kokoschka, l’architetto Josef Hoffmann e il pedagogista Franz Cižek sono soltanto alcuni tra i nomi più celebri. Di pari passo con la crisi dell’Impero, l’attività culturale e artistica viennese si amplifica come se proprio a causa della mancata fiducia nel mondo esterno l’uomo tornasse a rivolgersi al proprio intimo. La psicoanalisi non sarebbe potuta nascere se non a Vienna, luogo dell’ambivalenza, della nevrosi e dell’insicurezza. Del resto, anche Buber nel Problema dell’uomo compie un ragionamento simile affermando che proprio quando l’uomo è senza casa incomincia a pensare a se stesso, a cosa è “uomo”. Il panorama storico di cui stiamo trattando è il quadro di un mondo ferito e Buber sa cogliere la fatalità di questo momento risalendo alla radice dello strappo:
Io non conosco nella storia una crisi che raggiunga la profondità e le dimensioni pari alla nostra. […] La comunità offre coesione e certezza. Quando regna la fiducia, l’uomo è certo obbligato ad adattare spesso i suoi desideri ai comandi della sua comunità, ma egli non deve reprimerli a tal punto che questa repressione acquisti un significato dominante nella sua vita: i desideri si fondono frequentemente ai bisogni della comunità, la cui espressione sono i suoi comandi.17
La comunità cui fa riferimento Buber – se ne avrà un esempio nel paradigma chassidico – non è una comunità semplicemente democratica bensì una fusione in cui «tutto vive realmente con tutto, dove dunque la fiducia che regna non è richiesta o immaginaria, ma vera, elementare». Mancando la fiducia viene meno la spontaneità del desiderio e tutto è ostile, non c’è accordo tra desiderio proprio e quello altrui: «e i desideri, divenuti cupi, vanno a nascondersi allora nelle latebre dell’anima». Nella crisi l’uomo non esiste nella sua integralità ma è frammentato, diviso:
Perché ci sia lo spirito occorre innanzitutto, di solito, che l’energia degli istinti repressi sia “sublimata”: lo spirito conserva le tracce di questa formazione e, di solito, non può affermarsi che in una convulsa estraneazione rispetto agli istinti. La separazione tra spirito e istinti è qui, come spesso avviene, conseguenza della separazione tra uomo e uomo.
A Vienna, la risposta alla crisi fu duplice: da una parte l’immersione negli antri più nascosti e intimi dell’uomo e dall’altra il divertimento e la spensieratezza dell’operetta viennese e della musica da ballo.18 Scrittori, poeti, architetti e uomini di teatro si riunivano nei cafè della capitale e poteva così succedere che, entrando in uno qualsiasi dei numerosi locali della Ringstraße o del Prater si scorgessero seduti allo stesso tavolo personaggi del calibro di Rodin e Klimt,19 immersi nella pesante nebbia di un sigaro acceso e attorniati dalla straordinaria bellezza delle giovani viennesi.
14I quattro poeti viennesi Hermann Bahr, Peter Altenberg, Hugo von Hofmannsthal e Arthur Schnitzler si riunivano al Cafè Griensteidl e avevano fondato un piccolo circolo, la Jung Wien. In questi anni, è proprio a loro che Buber dedica un articolo in polacco in cui mette a fuoco l’individuo in questo momento di crisi.20 Nonostante fosse molto amico di Bahr, Buber lo considera come una farfalla che, prese a cuore le maggiori tendenze del suo tempo, vola da una parte all’altra senza alcun criterio. Bahr è accusato di seguire le cose stando sulla superficie, di creare ogni giorno un nuovo io con la stessa leggerezza con cui si cambia una cravatta. In opposizione a Bahr c’è Hofmannsthal, nuovo Werther che con la forza dell’intuizione vuole andare dritto all’essenza delle cose. In lui Buber vede uno scarto tra vita interiore e vita esteriore, scarto che Hofmannsthal accetta senza lottare, scrivendone senza proporre una soluzione. Hofmannsthal è l’aristocratico che non ha “assaggiato” la vita e che dunque non è destinato né a cambiare né a crescere. In lui Buber individua il simbolo di una generazione, la generazione della crisi paga della forma finita, la generazione di chi non lotta contro la stagnazione del pensiero. Peter Altenberg viene descritto come l’opposto degli altri due: sa di avere una missione e di essere a capo di qualcosa di grande. L’unica sua pecca è la pretesa di essere come gli altri due e per questo il poeta cerca di imitarli nascondendo la forza del suo sentimento verso la vita. Altenberg diventa agli occhi di Buber una sorta di profeta mascherato.
15La crisi rende gli uomini piccoli e pallidi e diventa più che una condizione un vero e proprio atteggiamento molto di moda nella Vienna fin de siècle. L’individualismo viennese incarnato da questi poeti è altra cosa rispetto alla vera realizzazione dell’individuo che Buber sta in questo periodo formulando e che consiste nella creazione della comunità come opera d’arte.
16In questo periodo, l’influenza di Nietzsche è talmente forte che possiamo affermare che la prima opera propriamente filosofica, il Daniel, non sia altro che una risposta (e una insistita citazione) allo Zarathustra. Il protagonista è infatti il profeta che celebra la nascita dell’uomo nuovo, il gigante in un mondo di uomini piccoli. Buber ammira Nietzsche poiché lo considera come il paziente che, nella sua malattia, insegna la via della guarigione attraverso la volontà e la rinascita:
È un filosofo? Non ha creato un edificio con il suo pensiero. È un artista? Non ha creato alcun oggetto. È uno psicologo? Il suo pensiero più profondo ha a che fare con il futuro dell’anima. È un poeta? Solo se consideriamo i poeti come quelli di un tempo: “Visionari che ci dicono ciò che potrebbe essere” che ci danno “un assaggio delle virtù future.” È il fondatore di una nuova Gemeinschaft? Molti si alzano al suo nome, ma non sono uniti per questo, perché ognuno trova una luce guida diversa nel cielo notturno, la propria, e solo quella, e ognuno gli deve non un ringraziamento per una conoscenza generale del tipo che può unire le persone, ma la liberazione del proprio potenziale interiore; non è stata la sua intenzione più profonda condividere il suo sé interiore, ma trarre fuori da ognuno ciò che è personale e produttivo, i tesori più segreti della personalità, e trasformarli in energia attiva; aumentando la produttività generale, ecco cosa ha definito l’aspetto più intimo del lavoro.21
Un certo spirito vitalistico e creativo contraddistingue questo periodo della vita di Buber, il quale si lascia travolgere dall’attività frenetica della metropoli «senza centro e senza sostanza». All’offerta didattica dell’università preferisce le attività seminariali nelle quali intuisce la presenza di una possibilità dialogica. Nel 1897 si trasferisce a Lipsia per il semestre invernale e trascorre così altri mesi di fruttuosi incontri. Buber frequenta circoli e salotti letterari, va a concerti e si innamora della musica di Bach. Nel 1898 è a Berlino dove porta avanti gli studi per il semestre estivo ed è proprio a quest’anno che risale il suo incontro con il sionismo. All’università di Zurigo incontra poi Paula Winkler, la donna che diventerà la compagna di una vita. Dopo due anni di convivenza e dopo aver avuto due figli (Rafael nel 1900 ed Eva nel 1901) i due si sposano, Paula si converte all’ebraismo e sostiene la causa sionista.
17Nel capitolo dei Frammenti autobiografici intitolato Vienna, sembra che le esperienze più importanti del periodo siano due: i seminari universitari e il teatro. Quasi tutti i giorni Buber frequenta, dopo ore di fila per entrare, il Burgtheater. In quel momento il teatro nazionale viennese era una sorta di santuario dell’arte drammatica in cui si esibivano gli interpreti più celebri di tutta Europa. Quando nel 1905 Buber scrive un articolo su Eleonora Duse a Firenze, fa intendere di averla già vista e possiamo dunque supporre che ciò sia avvenuto proprio a Vienna o a Berlino al Lessing Theater nei primi anni del secolo. La Gioconda di d’Annunzio fu portata in scena dall’attrice al Burgtheater l’undici aprile del 1900 e riscosse un successo inaudito. Il Burgtheater in quegli anni ospitava molte produzioni europee: tra gli altri, Sarah Bernhardt vi si esibì nel 1882, nel 1887 e poi nel 1908, Eleonora Duse nel 1895, 1900, 1906 e 1907, le compagnie berlinesi di Otto Brahm e di Max Reinhardt tra il 1905 e il 1910.
18Buber è colpito dall’«esattezza della parola»22 pronunciata a teatro e dal fatto che la lingua possa trovare, in scena, la sua «adeguatezza»:
Era così, tuttavia fino al momento in cui – e accadeva sempre – un attore si metteva a declamare con una “nobile” tirata; allora in me si frantumava, insieme con l’autenticità del linguaggio, del dialogo, ma anche del monologo (nella misura in cui, però, il monologo era il rivolgersi della propria persona come a un proprio simile e non una semplice recitazione), quell’intero mondo costruito dalla fusione misteriosa di stupore e legge, per poi rinascere nuovamente un attimo dopo con il ritorno del vero confronto.
A teatro, il poco più che adolescente Buber scopre la realtà di una parola intesa come evento. Comincia pure a intravedere, proprio a partire da queste prime riflessioni, tutta la differenza che si dà tra una recitazione “nobile” e una recitazione più organica fatta di «stupore e legge». Pochi anni dopo il proprio battesimo al Burgtheater, Buber sarà in Italia e nei tea-tri del nostro paese avrà modo di approfondire proprio queste impressioni iniziali grazie alla visione di Eleonora Duse e Ermete Novelli. Il teatro, sembra suggerire il giovane filosofo, è il luogo dove è possibile generare la vita dialogica, tuttavia sempre nella prospettiva necessaria di un equilibrio precario tra forma e processo. Dopo l’esperienza del Burgtheater Buber può uscire in strada e rimettere così in gioco la lezione del teatro:
Da allora mi è accaduto talvolta, nel mezzo della casualità della vita quotidiana, seduto nel giardino di una trattoria nei dintorni di Vienna, sentendo dal tavolo vicino al mio un’animata discussione sull’aumento dei prezzi fra due venditrici ambulanti che si stavano riposando, di percepire il senso vero del linguaggio, il contatto tra due esseri diventato suono.
19Soltanto pochi anni più tardi, questa scoperta porterà il filosofo a un decisivo avvicinamento al mondo del teatro e a scriverne nel contesto del più vasto disegno filosofico di Daniel.
20A questo punto, saltando direttamente in avanti di una manciata di anni, ci permettiamo di fermare nuovamente la storia, soffermandoci su questo primo ma folgorante incontro con il teatro, evento che Buber richiama, seppure indirettamente, nei Dialoghi del 1913.
2. Daniel
Vanno pieni di luce davanti a me quegli Occhi,
fatti calamite da un Angelo sapiente;
divini fratelli a me fratelli, vanno,
battendo i miei occhi con fuochi di diamante.
Charles Baudelaire, La fiaccola viva
(in I fiori del male e altre poesie, traduzione di Giovanni Raboni, Einaudi, Torino 1987, p. 75)
21Daniel: Gespräche von der Verwirklichung (Daniel: dialoghi sulla realizzazione), opera pubblicata a Lipsia nel 1913 e tradotta in inglese soltanto nel 1964, ha come protagonista il Daniele biblico, il visionario, il profeta, colui che conferisce un nuovo orientamento al presente proiettandosi nel futuro. Tuttavia, a ben vedere, Daniel non è altri se non una maschera di Buber adolescente il quale comincia così a tracciare il cammino di una vita. È opportuno iniziare il nostro percorso tea-trale proprio a partire da questo testo poiché esso contiene l’esperienza prima del teatro, quella fondativa da cui scaturiranno tutte le riflessioni a venire, l’esperienza relativa alla frequentazione del Burgtheater. Infatti, anche se a questo punto della storia Buber si è già occupato di teatro e ne ha già scritto, è proprio all’interno dell’opera del 1913 che viene ricostruito il vero primo incontro con la scena.
22Al tempo, questo testo diventò una sorta di breviario dei nuovi intellettuali ebrei non solo per il suo carattere di guida nella ricerca di un’esistenza autentica ma anche per via del linguaggio usato e dello stile nel quale la lezione simbolista si fonde con la parola di Nietzsche. Il linguaggio di Daniel, per lo più ermetico e a tratti solenne, cerca di raggiungere l’immediatezza e la trascendenza di tutte le cose.23
23Se è vero che soltanto un dialogo dei cinque di cui si compone il volume si riferisce strettamente al teatro, occorre tuttavia tenere presente che nella sua globalità l’opera traccia un percorso preciso verso una realizzazione dell’individuo in cui il teatro è luogo della possibilità, luogo nel quale l’uomo può trasformarsi. Indugiando ancora sulla cronologia esterna, la vita di Martin Buber nel 1913, è doveroso ricordare che il filosofo si sta occupando in questo momento di filosofia e in particolare della grande tradizione mistica. Bisogna poi aggiungere che Daniel è un’opera-ponte tra l’iniziale adesione alla mistica da parte di Buber e la conseguente maturazione24 verso la filosofia dialogica. Il filosofo, molti anni dopo i dialoghi, scriverà una premessa all’opera proprio nel tentativo di chiarire il valore di transizione insito nel testo. Riconoscerà dunque che in Daniel l’ossessione verso l’unità era stata così forte da prendere talvolta il sopravvento sull’esperienza. Il filosofo sembra dunque ricordare che quella stessa unità cui conduce il cammino di Daniel (diremmo, la salita) va riportata al livello dell’esperienza umana, nella comunità. Diventa non un fine ma uno strumento operativo affinché l’uomo possa realizzare una vita nel dialogo abbracciando la necessità del Tu.
24Nel Dialogo dopo il teatro, l’azione si svolge tra Daniel e il suo amico Leonhard al ritorno dopo la rappresentazione. Daniel solleva la questione centrale dell’esperienza tea-trale, la polarità: nel teatro egli ha sperimentato una opposizione ontologica, incarnata dai due attori in scena, che egli può infine condurre a unità in se stesso. La polarità viene colta nelle opposizioni tra pubblico e attori e pure tra i due attori. Nel teatro è possibile ricondurre l’opposizione ontologica a unità perché esso permette una trasformazione: una «inclusione»25 in cui la polarità può essere superata “creativamente” se accettata e realizzata, ossia portata a compimento.
25Daniel, all’uscita dal teatro, rivela di esserci stato per la prima volta. È qui in atto un riconoscimento di qualcosa di familiare, qualcosa che egli ha già visto ma che solo ora per la prima volta coglie davvero: «[…] e la meraviglia ti afferra, perché nei tratti e nell’atteggiamento di quel volto familiare riconosci un mistero insondato e ricco di messaggi – un tratto e un atteggiamento fondamentali nella vita».26 Per Daniel, l’entrata in teatro è l’ingresso in un vuoto di tempo, in una dimensione peculiare senza prima e senza dopo che è resa manifesta dal costante riferimento a Eleusi e dunque a un teatro inteso nella sua valenza sacrale e trascendente. A partire da questa considerazione risulterà ovvia, soprattutto quando ci riferiremo agli esperimenti tea-trali di Hellerau, l’opzione di Buber verso un’arte che recuperi la propria funzione antica e la valenza comunitaria legata ai rituali religiosi antichi. Nella dimensione dell’evento, a Daniel non importa la rappresentazione (che invece è il motivo per cui Leonhard è stato a teatro) ma una certa qualità dell’essere, una presenza avvertita in uno spazio privo di spazio, in un tempo fuori dal tempo. Daniel afferma che gli attori gli hanno comunicato la loro presenza dai margini dell’essere, rivelando la polarità originaria dell’uomo con la precisione di un’ombra: «polarmente contrapposta e polarmente vincolata, vidi la libera dualità dello spirito umano». Per il protagonista, fuori dal teatro (mondo delle «luci tremolanti») è difficile cogliere questa polarità poiché essa appare mediata e dunque irriconoscibile. Il teatro (regno, al contrario, della «luce fissa») è invece un gioco d’ombre: qui la polarità si offre nuda, nudi sono i suoi gesti, nuda è la sua voce. Questo regno appare a Daniel come l’ombra della realtà e allo stesso tempo come un potente veicolo per penetrarla, per raggiungerne l’essenza. In filigrana a questo frammento di testo si può forse cogliere un ribaltamento del mito platonico: se nella caverna il prigioniero scambia la realtà con la sua immagine (ombra) e si allontana dalla contemplazione delle idee, in Buber la conoscenza e il raggiungimento del bene devono essere perseguiti proprio a partire dal regno delle ombre. Pur essendo mediazioni, le ombre sono di altro tipo rispetto alla mediazione costituita dalla realtà stessa e offrono così un’immagine del mondo nuda ed essenziale.
26Davanti agli occhi degli spettatori i due attori costituiscono un daimon, il demone del teatro che, come sostiene Daniel, rende «adulti». Perché Daniel diventa adulto? Perché viene indotto ad ascoltare l’antifonia di ananke, della necessità tragica. La stessa ananke che il filosofo ricorda a proposito dell’episodio di Herzl al Congresso è qui formulata in modo analogo:
Quella coppia tragica si ergeva innanzi a me come Creonte e Antigone, che non avevano né torto né ragione, non erano né colpevoli né innocenti, non possedevano null’altro se non la loro polarità, la loro essenza, il loro fato. E al loro cospetto fui colto da indicibile timore, come se fossi io quello spirito di cui quelle forze rivelavano la segreta dualità originaria. Ma già non mi trovavo più di fronte a loro ma in mezzo a loro e le correnti, che defluivano da polo a polo, scorrevano attraverso il mio cuore.
Solo durante l’intervallo Daniel si rende conto di trovarsi in mezzo a un pubblico e capisce che, nonostante ognuno abbia interpretato a suo modo l’evento, tutti vi hanno sostanzialmente partecipato. Riferendosi al secondo atto, di nuovo si citano quelle masse di Eleusi che partecipano alle nozze tra cielo e terra e alla nascita del figlio del dio: «se l’atteggiamento rimaneva profano come il chiacchiericcio tra i due atti, quegli uomini erano comunque parte di una rivelazione, sicché il palcoscenico parlava». Daniel si sente parte di una comunità di individui isolati e poi riuniti insieme: «ero in grado di percepire come percepisce una colonia di madrepore, ovvero con gli organi della collettività». A questo punto coglie la polarità tra pubblico e attori aggiungendo che in scena la dualità non si era nel frattempo mitigata ma al contrario si era estesa e acuita. Questa esperienza è vissuta da un singolo sé, che Daniel chiama «il mio Noi-Io», e che non è un amalgama di emozioni e corpi ma un organismo che tiene in sé esseri diversi in opposizione tra loro. La comunità conferma la contraddizione, il “destino” di ciò che si ha di fronte:
Si opponeva al mio Noi-Io come la tempesta al silenzio, come le dune a una spianata sabbiosa, come la contraddizione alla conciliazione. Pur nella sua molteplicità, essa appariva un’essenza come la nostra, determinata da una legge e tenuta insieme nella sua contraddizione esattamente come noi nella nostra conciliazione […] essenza e contro-essenza.
Daniel nota come il pubblico non solo «desidera» ciò che accade ma ne fa esperienza da entrambi i punti di vista degli attori: nella «inclusione» infatti colui che abbraccia diventa un tutt’uno con ciò che è abbracciato. In Daniel si trova così una delle prime formulazioni di un concetto che troverà ampio sviluppo nella filosofia dialogica. Nell’inclusione il pubblico diventa unità, ha un cuore unico e può esperire la realtà in modo polare: «quando sul palcoscenico si leva il coltello che procura la morte, trema il cuore del pubblico, il cuore di questa essenza scura, sino al suo apice; ma contemporaneamente trema anche la carne lacerata dal colpo che viene inferto». L’inglobamento è quella capacità di uscire da sé e nel contempo di rimanere presso di sé.
27Durante il terzo atto, l’attenzione di Daniel è attirato da un attore che sta in disparte, appoggiato a una colonna. Lo fissa a lungo e scorge due essenze distinte, una caratterizzata da una luce bianca e «ultraterrena» e l’altra da una luce bluastra tipicamente autunnale. Daniel passa così a esaminare un’altra polarità, quella tra attore e personaggio entrando, così facendo, nel cuore del processo attoriale, offrendo questioni e soluzioni che via via nel corso del secolo saranno materia di studio per i successivi pensatori tea-trali e di cui tireremo le fila nell’ultimo capitolo dedicato a Jerzy Grotowski.
28Chi è l’attore? Quali sono i suoi mezzi? Cosa può fare? Come?
29L’attore è colui che realizza. Vedremo, nell’analisi degli altri dialoghi, cosa significa realizzazione e come non costituisca una prerogativa esclusiva dell’attore ma rientri nel processo di nascita dell’uomo morale.
30Per ora torniamo tuttavia al terzo atto e alla lunga tirata di Daniel sull’attore. Daniel inizialmente considera colui che si realizza solo parzialmente, colui che non vive altro che «l’essenza spirituale» dell’azione ossia l’attore che manipola psicologicamente il suo mestiere. A costui manca la capacità di generare l’evento; gli manca cioè la kinesis, «quella scintilla senza nome, attraverso cui l’azione si trasforma da vissuto di un singolo in accadere collettivo». L’azione di costui ha invece un carattere che potremmo chiamare monologico: è un’azione rassicurante che gli serve per dominare con un apparente sentore di totalità ciò che prima era incubo e terrore. Questa azione che non tende all’evento (perché manca, come si diceva, di kinesis) si ripiega nel familiare, nel sicuro e nel condizionato, così facendo si addomestica. Diventa un simulacro, un monumento, un pezzo morto da assemblare appena «sopra la superficie dell’anima». Poi invece c’è chi si fa distruggere o chi usa questa impasse in modo creativo: «il simulacro diventa in loro qualcosa di creativo; mettendo in azione e stimolando i doni del loro corpo, della loro voce e del loro sistema di movimento, questi uomini completano il simulacro attraverso immagini, rappresentazioni e doppi dell’azione». Questo tipo di attore (colui che completa) mette in scena la kinesis e può farlo solo a condizione di trasformarsi.
31L’idea di una immagine creativa, messa a distanza e poi assunta su di sé non è nuova in Buber e risponde allo schema base della filosofia dialogica che qui getta i suoi semi. L’attore vero sta di fronte al personaggio, gli è contrapposto «come il simulacro all’azione, come la potenza all’atto, come il molteplice all’univoco, come colui che vaga senza meta a colui che procede sicuro: polarmente». Solo ponendosi a distanza e opponendosi l’attore si trasforma nel personaggio. Per mezzo del suo corpo e della sua anima l’attore si trasfigura nel personaggio. Se cerca una mediazione, se comincia a scimmiottare il personaggio, viene meno l’essenza costitutiva del teatro e dunque il suo carattere polare. L’attore non “recita” né indossa maschere ma penetra il cuore segreto della kinesis del personaggio. Trasformarsi significa per lui rinunciare alla propria anima per poi riconquistarla alla luce del personaggio.
32A questo punto Daniel opera una distinzione cruciale tra due tipi di attore, il grande attore che si trasforma e il piccolo falso attore che “palpa” il personaggio con i sensi.27 Questo secondo attore «raccoglie le grida, i volti e le gesta del personaggio; attraversa, scruta e modifica radicalmente il mondo del personaggio per ottenere il materiale di cui ha bisogno, materiale con cui costruisce la sua maschera». Il vero attore ha i propri gesti e produce da sé il materiale che l’altro scimmiotta e può farlo perché è penetrato nell’elemento che lo genera. Non è un attore-marionetta ma un attore che è uscito da sé per rientrarvi con una nuova percezione e consapevolezza. A questo attore non interessa arrivare al personaggio attraverso la via del sentimento poiché si rende conto che l’unico modo affinché non gli sia preclusa questa possibilità è agire, non sentire. E come è possibile? Daniel propone diverse soluzioni:
Se ad aiutarlo sia l’audace genialità del suo simulacro o se venga sostenuto dal fatto che nelle infinite possibilità della sua anima è già embrionalmente racchiuso l’eroe oppure ancora se, come una volta ho sognato, sia cinto e protetto dal demone di una vita precedente, l’attore riesce comunque a trasformarsi nell’eroe; colui che tenta si trasforma in colui che agisce, l’onda impetuosa si trasforma in cammino.
La via della trasformazione è per Daniel la via della conoscenza, così colui che conosce si trasforma nel mondo e lo realizza concretamente.
33A questo punto, terminato anche il terzo atto, Daniel sente di dover ringraziare qualcuno per quanto accaduto e ringrazia il poeta con una serie di argomentazioni sul rapporto tra poesia e dramma. Il dubbio di Daniel è il dubbio pirandelliano dell’eventuale tradimento che un testo può subire nel passaggio da un registro espressivo all’altro. La sua considerazione è però che «ogni poesia tende al dramma» nel senso che ivi trova il suo compimento. Ci sono forze all’interno di ogni arte che non riescono a maturare all’interno di quest’arte medesima e cercano di ridestarsi in un’altra.28 Quelle intenzioni originarie del poeta vengono sviluppate e realizzate nel dramma scenico. Buber sembra, sin da ora, porre l’accento su un tipo di teatro che non sia illustrazione di storie ma il luogo dove quelle stesse storie, insieme alla parola del poeta, conquistino quella qualità particolare che Daniel chiama «polarità» e che, in sé, è una trasposizione autentica della vita.
34In questi anni, un illustre contemporaneo di Buber, Louis Jouvet,29 opera una distinzione molto simile a quella di Daniel tra due tipologie di attori. Jouvet si è formato al Vieux-Colombier sotto la guida di Copeau e in compagnia del maestro Charles Dullin ed è ascrivibile a un teatro di rappresentazione basato sul testo e sulla composizione scenica. Pur essendo per natura un attore molto diverso da quello di cui ci parla Daniel, egli costituisce un esempio di come, nonostante le vie del teatro diventino spesso partiti ideologici incompatibili tra loro, alla fine confluiscono in un modo o nell’altro nello stesso grande fiume, quello della trasformazione e del trascendimento. Proprio Jouvet indica il proprio modo di intendere il teatro come quello del comédien e lo oppone a quello dell’acteur:
L’acteur agisce tramite l’esproprio, impossessandosi del personaggio, vuole testimoniare subito e innanzitutto se stesso. Lo vuole ed è obbligato a farlo. Il comédien opera attraverso un approccio, un’amicizia, un lento insinuarsi, in cui tutto di lui si offre affettuosamente, fino a sostituirsi generosamente, con magnanimità, per testimoniare pubblicamente, lealmente.30
La predilezione di Jouvet sembra andare verso quel «piccolo falso attore» che Daniel accusa di voler palpare con i sensi il personaggio, di venire a patti con esso per crearsi una maschera. Sebbene le modalità tea-trali del grande attore di Daniel e di Jouvet siano, o sembrino, opposte, il terreno su cui si fanno strada è tuttavia un terreno comune. Il teatro è infatti per entrambi istanza etica di trascendimento, luogo dove sciogliere i nodi più misteriosi e intimi dell’essere umano. Nel teatro l’uomo interroga se stesso, si fa autore creativamente ed eticamente responsabile. Di certo le posizioni di Buber e di Jouvet convergono se consideriamo che l’attacco dell’attore francese è diretto verso il monolitico grande attore ottocentesco e se ricordiamo come pure Buber ebbe a criticare la stessa ingombrante tipologia di attore nella recensione su Ermete Novelli, attore-mattatore italiano. Insomma, seppure con modalità opposte la critica dei due autori è rivolta verso uno stesso obiettivo: i «carnali figli dell’apparenza», coloro «che agiscono senza essere, coloro che danno ciò che non posseggono; coloro che vincono dove non hanno combattuto».31
3. Il canto del fuoco
Talvolta, quando il sabato Rabbi Elimelech diceva la preghiera della santificazione, prendeva in mano l’orologio e lo guardava. Ché in quell’ora la sua anima minacciava di dissolversi per troppa beatitudine. E così guardava l’orologio per mantenersi nel tempo e nel mondo.
M. Buber, I racconti dei chassidim
(in Storie e leggende chassidiche cit., p. 793)
35Daniel contrappone il grande attore agli uomini «irreali» della città, coloro ai quali manca il canto: «Gli sventurati, gli uomini non reali! Potessero le mie braccia immergerli nel fuoco del rinnovamento e battezzarli in una seconda nascita! Potesse la mia bocca risvegliare quel canto, la cui nostalgia batte inconsapevolmente nelle gole di ognuno di questi uomini! Potesse redimere questi spettri attraverso la realtà concreta!».32
36Nel Dialogo da sopra la città Daniel si rende conto che non può redimere la folla mugghiante e non può restituirle il canto attraverso la sua anima. Ogni uomo deve decidere infatti per sé e soltanto attraverso la propria direzione può rispondere all’esperienza realizzando, creando la realtà.
37Ognuno è solo nella folla, solo nel proprio compito di produrre la realtà. Dicendo questo, Daniel opera una distinzione molto netta tra i due atteggiamenti fondamentali dell’uomo che sono orientamento e realizzazione. Orientarsi significa vivere un’esperienza in relazione alle leggi e alle forme, per esempio lo spazio, il tempo e la casualità. Guardando una mappa, ci si aspetta di consultarla senza mettere in dubbio il criterio con cui è fatta e tuttavia ci si riferisce a un territorio in un certo senso già dato. La mappa aiuta a capire dove siamo, rassicura e conferma la nostra posizione nel mondo, però la realtà non può stare in un foglio di carta.
38Se si permette a una mappa di orientare le nostre aspettative, i nostri desideri e le nostre azioni, allora si potrebbe cominciare a pensare che la mappa costituisca la realtà, una realtà già data insieme a un mondo già svelato in cui far rimbalzare pigramente le nostre certezze. Se inseriamo un’esperienza nella mappa, la assicuriamo a una rete di rapporti con altri eventi presenti o passati e così facendo abortiamo l’esperienza in sé cavandone solo la “nozione” di una presunta verità o menzogna. Questo tipo di atteggiamento non è tuttavia da demonizzare in toto poiché esso è alla base della conoscenza delle cose e del funzionamento del mondo. Buber descrive lucidamente questo processo nel Dialogo:
E ovunque domini il sapere indipendente dell’orientamento, ci si trova di fronte ad un’economia predatoria che si afferma a spese della linfa materna e nutriente del vissuto, che sola è in grado di trasformare la realizzazione del vissuto stesso da qualcosa di più o meno utile in una piccola sicurezza. E questa forza soverchiante dell’orientamento è ciò che ora mi fa soffrire, ciò contro cui mi oppongo per amore di quel processo che trasforma il vissuto in una concreta realtà.
La connessione con ciò che nutre è spezzata e, se l’orientamento prende il sopravvento, allora anche tutte le relazioni con le cose e con gli uomini vengono vagliate dalla stessa griglia costruita su criteri di utilità e scopo. Attraverso Daniel, Buber rimarca la situazione del suo tempo, in cui l’atteggiamento del non realizzare è stato elevato a norma e la tendenza generale è proprio quella di ordinare l’Erlebnis facendone oggetto di conoscenza. 33 Rischiando di risultare troppo schematici potremmo sostenere che la realizzazione ha come principio l’Erlebnis mentre qualsivoglia visione strumentale del mondo si basa sull’Erfarhung. Quest’ultima è un tentativo di orientare e di conseguenza “coagulare” la forza creatrice dell’Erlebnis proprio coerentemente alla dialettica vita-forma che Buber sembra mutuare dal maestro Simmel e che abbiamo già rintracciato nello studio della genesi del fare artistico.
39La realtà è per Daniel «un’opera dell’anima» e l’esperienza non è la conoscenza ma piuttosto il suo presupposto essenziale. Quando Buber scrive che il vissuto «possiamo certo esperirlo anche nella sua essenza priva di forma, ma non possederlo» vuol dire che l’esperienza è il potenziale, il seme che, attraverso la nostra azione, facciamo germogliare in una pianta della conoscenza. Non possiamo incasellare l’esperienza, misurarla o centrarla nelle nostre strutture linguistiche e concettuali, non possiamo prenderla e metterla in tasca: «Non possiamo afferrare un vissuto esattamente come non possiamo afferrare un fulmine, una cascata o la polarizzazione del cristallo, non ci è consentito chiamarlo “realtà” poiché non siamo in grado di afferrarlo, di estrapolare la sua essenza, di osservarlo».
40Riassumendo, il vissuto può essere elevato a conoscenza attraverso due ponti, il ponte della realizzazione o il ponte dell’orientamento. Attraverso quest’ultimo si ottiene un’esperienza (Erfahrung) che lega il vissuto alle coordinate spazio-temporali, alla casualità, all’utilità: si ottiene una conoscenza sicura ma non una realtà. L’orientamento fornisce una risposta al bisogno di utile e di sicurezza dell’uomo mentre la realizzazione è una vera e propria apertura alla crisi, una vera e propria traversata del pericolo e dell’insicurezza. Soltanto attraverso il ponte della realizzazione si ottiene un tipo diverso di conoscenza, ciò che Daniel (e dunque Buber nel 1913) chiama ossessivamente “realtà”. Qui si snocciola lentamente la questione del duplice approccio dell’uomo di fronte al mondo (dettato dalle future coppie di parole fondamentali Io-Tu/Io-Esso) che sarà il pilastro del pensiero maturo di Buber. La realizzazione, questa traversata nel pericolo, viene messa in opera dagli artisti, per esempio dai poeti:
Non hai mai fatto caso a come una parola in poesia, soprattutto nel caso di Hölderlin, venga utilizzata con un carattere accrescitivo che l’uso linguistico generale non conosce? […] E le poesie non sono forse delle conoscenze oscillanti? […] E sia ben chiaro che questo significato accrescitivo, che ora vogliamo indagare, è tanto poco arbitrario quanto il significato accrescitivo di una parola in poesia. […] Quel senso accrescitivo sorge da particolari momenti dell’esserci accresciuto, dell’essenza dell’uomo accresciuta, dell’accresciuta conoscenza. Sono questi momenti a istituire il linguaggio e a rinnovarlo e sono loro a dover essere interrogati, quando vogliamo parlare in senso accrescitivo e creativo della realtà e della sua realizzazione.
Il poeta è colui che trova le parole per articolare quanto ha colto in questi momenti intensificati di vita così da suscitare un processo di riconoscimento anche da parte degli altri esseri umani. Le parole del poeta fissano e rinnovano il linguaggio. Si badi che in questo contesto il termine “poeta” assume una valenza straordinaria che dunque poco ha a che vedere con quella riservata a Herzl, quel «poeta che non ha mai smesso di essere poeta».34 Il poeta, in questa nuova e positiva accezione, è l’artista di cui peraltro già parlava Aristotele:
Ci sono, nella natura delle cose e in quella della specie umana, potenzialità che chiedono semplicemente di essere portate alla luce e che non possono essere attuate se non manifestandosi in quel certo ordine e in quel certo modo; ai poeti tocca semplicemente il compito di riconoscerle e farle passare all’atto. […] La tragedia, che rappresenta per Aristotele il grado più alto dell’arte poetica, è “imitazione di azioni e di vita”. Dunque, l’imitazione di Aristotele non vuole essere il tentativo di dire o riprodurre fedelmente o tutto o il più possibile della realtà: è anzi un’operazione selettiva e interpretativa della vita e delle azioni umane che […] tende a ricomporre e segnalare il senso vero della vita privilegiando di questa solo gli aspetti che possono essere considerati essenziali ed ignorando tutti quei particolari che il fluire quotidiano dell’esperienza casualmente affolla davanti ai nostri occhi impedendoci così di vedere chiaramente il senso generale dell’accadere.35
Il poeta viene paragonato da Daniel al mozzo di una ruota cui si collegano tutti i raggi della polarità; i poli contrari dello spirito non vengono superati ma legati, resi fertili dall’azione del poeta grazie al suo amore per il mondo e all’amore per la parola che conduce a unità tutte le tensioni. Nel caso della poesia drammatica, dice Daniel, «il poeta getta la sua ardente contraddizione nel mondo e la dà alle fiamme»: «La forza del fuoco è la sua forza che brucia nella contraddizione e che risplende nell’unità, così come Enoch, di cui la saga racconta che la sua carne fu trasformata in fuoco: le sue ossa sono carboni ardenti, le sue ciglia splendore del firmamento».36
41Enoch, posto a suggello di queste riflessioni sulla forza del poeta, subisce una trasfigurazione mistica; è la figura mediatrice fra mondo superiore e inferiore. La modulazione estatica del tema di Enoch persiste nelle leggende sorte nell’ambito del chassidismo tedesco e ci riporta alla figura di un calzolaio che, nell’atto di unire tomaia e suola, congiungeva ciò che stava sopra con ciò che stava sotto legando così mondo celeste e mondo terreno.
42Se la trasformazione del poeta è il canto del fuoco che unisce i mondi, allora, come direbbe Franz Kafka, scrivere è un «atto di preghiera».37 E lo sapeva bene T.S. Eliot che più o meno negli stessi anni scriveva che la preghiera è molto più di un ordine di parole: «Non siete qui per verificare, per istruirvi, per soddisfare una curiosità o per fare un rapporto. Siete qui per inginocchiarvi dove la preghiera è stata valida. E la preghiera è più che un ordine di parole, l’occupazione cosciente della mente che prega, o il suono della voce che prega».38
43La parola dell’artista, quella pronunciata dall’attore e quella messa in ordine dall’orante è la parola che fa nascere il mondo: parola creatrice che da prerogativa esclusivamente divina diventa prerogativa anche dell’uomo. La tradizione mistica, proprio poiché Dio aveva usato le lettere per creare la terra e il cielo, sviluppa una teologia di nomi divini attribuendo forza creatrice non soltanto a ogni nome di Dio usato nella Bibbia, ma anche a ogni parola composta da lettere ebraiche, a gruppi di lettere e infine a ogni singola lettera dell’alfabeto. Questa dottrina onomastica venne ripresa dal chassidismo e in particolare dal Baal Shem Tov, il fondatore del chassidismo orientale del diciottesimo secolo al cui studio Buber si dedica durante i primissimi anni del Novecento. Tutto il mondo, come la Torah, è dunque un testo parlato. L’uomo partecipa di questa forza linguistico-creativa attraverso il canto e la preghiera.
Per la mistica ebraica la lingua è stata da sempre un oggetto misterioso e tremendo. Esiste una singolare teoria delle lettere dell’alfabeto viste come elementi del mondo; tratta delle loro connessioni come del cuore della realtà. La parola è un abisso che il parlante attraversa. «Bisogna pronunciare le parole come se in esse si aprissero i cieli. E non come se tu prendessi la parola in bocca, bensì come se tu entrassi nella parola». Chi conosca il canto segreto che porta l’interno all’esterno, la profonda, oscura melodia che meravigliosamente allinea i suoni, la sacra Bibbia che fonde solitarie scabre parole nel canto delle lontananze, costui si riempie della potenza divina, e «è come se creasse daccapo cielo e terra e tutti i mondi». Non trova il suo regno già fatto come il liberatore d’anime, lo dispiega invece dal firmamento alle silenti profondità. Ma anche lui opera alla redenzione.39
Questo tentativo di ingresso nella parola è un tema praticato anche da Franz Kafka che nei suoi scritti ha spesso graficamente e semiologicamente giocato con le lettere indicando quanto vita e linguaggio si identifichino e come la scrittura possa costituire una sorta di preghiera. Preghiera è dunque più di un ordine di parole, essa è domanda continua e mai paga. Per Buber, come del resto anche per Kafka, è caduta la religio come legame (per Kafka il legame con il Castello è venuto meno e per Buber c’è l’eclissi di Dio) lasciando l’uomo quanto mai insicuro persino su cosa interrogare. Nel 1917 Kafka scrive una lettera a Buber in cui lo prega, in vista della pubblicazione di due suoi racconti sulla rivista «Der Jude», di apporre un titolo comune (Due storie di animali) specificando come non si tratti di similitudini (Gleichnisse) ma di storie (Geschichten) intese come accadimenti. La similitudine è per Kafka quel segno del quale la referenza è inaccessibile e come tale costituisce la parola dei sapienti che sostengono come la trascendenza esista ma non sia raggiungibile. Al contrario, il discorso di Kafka, proprio come quello di Buber, è un discorso rivolto all’uomo che della parola del sapiente (similitudine, parabola) non sa cosa farsene nella vita di tutti i giorni. La similitudine non forza la crisi ma la mura sotto parole solide e pesanti tenendo la trascendenza separata dal qui e ora. L’artista invece entra nella crisi restituendo al qui e ora il canto, la presenza allegorica del trascendente. L’artista è per Daniel « […] quell’uomo il cui ferro che lo compone, e che si nasconde anche nella più misera delle anime, si trasforma in acciaio sulla fiamma. […] E in lui l’elemento vitale riposa accanto alla morte, solo che la forza solare dello sguardo racchiuso nella vita riduce l’elemento morto in polvere.40 Un uomo del genere tuttavia non può vivere nel mondo poiché sembrerebbe destinato alla divinità. Secondo Buber, non è vero che esistono due tipi di uomini, l’uno votato all’orientamento e l’altro alla realizzazione, ma a ogni fase della realizzazione seguono altre fasi in cui il vissuto viene ordinato nel complesso dell’esperienza in un avvicendarsi senza dicotomie. Un processo contiene l’altro senza ordini di arrivo, il tutto semplicemente accade secondo quella dialettica vita-forma che è alla base del creare. L’Erfahrung, come la forma nel processo artistico, ostacola e raggela la potenza creatrice dell’Erlebnis. L’uomo creativo è un uomo in divenire e la sua azione somiglia a una danza nell’accezione etimologica sanscrita di tensione. L’artista semplicemente danza il delicato equilibrio tra vita e forma seguendone il ritmo e senza mai estinguere il fuoco che lo alimenta: l’antitesi tra orientamento e realtà, Erfahrung e Erlebnis.
44Daniel rintraccia questa tendenza che realizza anche nel bambino e nell’uomo primitivo specificando come nell’artista il realizzare non sia però legato a una regressione all’infanzia storica o biologica. Nel bambino e nel primitivo la tensione della realtà è infatti ancora forte poiché l’atteggiamento orientativo non è abbastanza maturo da superarla. Nell’artista invece l’orientamento è cresciuto e si è sviluppato come funzione complementare così che se il bambino è ancora padrone della realtà, l’artista lo è di nuovo. Egli non ritorna all’immediatezza dell’infanzia ma la recupera con una nuova consapevolezza acquisita grazie allo sviluppo dell’atteggiamento orientativo. Per esempio il pittore è padrone della tecnica non perché il suo scopo si esaurisca in essa ma perché la tecnica consente di portare la realtà nella struttura del dipinto. Questa importante distinzione sarà da tenere presente quando ci occuperemo di come la lezione buberiana sia stata recepita dagli innovatori del teatro novecentesco e in particolare da Grotowski. Nel teatro è quanto mai manifesta quella tensione imprescindibile tra processo e struttura, lavoro interiore e composizione scenica; tensione che rende la scena quel luogo privilegiato dove sciogliere i misteri dell’essere, ma anche luogo al quale si torna per condividere gli stessi misteri con la comunità. Il teatro è il luogo dal quale si esce trasformati, iniziati: «Sulla fronte di ognuno di loro brilla un raggio di luna come il riflesso di un paradiso perduto, ma quel raggio risplende di un fuoco rubato al cielo».
45Mentre guarda la città, Daniel dice a Ulrich che essa pare avvolta in un manto di sonno e che mai nessuna epoca ha avuto, al pari di quella attuale, come suo unico padrone l’orientamento: «i fini cadono uno nell’altro, scivolano via passando loro accanto come una sregolata danza di spettri». Per un uomo senza mappa in una terra sconosciuta, la via della realizzazione è solo «insicurezza e pericolo» e invece l’orientamento costituisce il sollievo di un riparo per la notte. Volersi conservare è la reazione di chi incontra lo sguardo della contraddizione: opporre resistenza a un mistero che si sta per rivelare. Perché? Perché l’irrazionale fa paura e gli uomini «anziché realizzarlo, anziché inserirlo con la forza dell’istante nel vissuto, badano solo a proteggere la loro sicurezza». A questo viandante che si costruisce un’arca e pensa solo a conservarsi lasciando fuori le acque del mondo, Daniel oppone un altro tipo di viandante che
non ambisce a orientarsi. […] Ambisce solo a vivere questo preciso “qui”, l’oscurità selvaggia, i muri pallidi delle case […] e vuole viverli così pienamente sino al punto di farli diventare verità e messaggio. Conosce il pericolo e vuole farglisi incontro […]. Cosa sarebbe la vita, se ogni volta non si trattasse delle cose della massima importanza e se nulla minacciasse di distruggerla? Il libro della vita è così indicibilmente bello da leggere perché alle nostre spalle fa sempre capolino la morte.
Ma quale dei due viandanti ha davvero una sicurezza? Per Daniel il secondo, poiché ha la sicurezza di una direzione e di un senso. Egli vive fino in fondo senza cedere alle lusinghe di una superficiale razionalizzazione e di un incasellamento, è libero e agisce da uomo libero. La direzione di colui che «eternamente comincia di nuovo» conduce l’azione verso l’atto creativo, di compimento. La verità di questo viandante non è qualcosa da archiviare, non è un avere ma un divenire; una conquista sempre da farsi, una meta sempre incerta. Il viandante giunge così, senza timore alcuno, nei pressi di una piazza circondata da platani. Alza gli occhi al cielo e vede un’unica luminosissima stella che riconosce come una sorella. Quella stella dischiude una nuova luce sulla sua vita, un nuovo senso non derivato: «Il senso non è come l’arca di colui che mira solo a conservarsi, fatta di assi e con ogni giuntura ricoperta di pece, bensì è costruita unicamente con il materiale degli elementi primordiali, come il carro di fuoco che rapì Elia».
46Il senso è nell’anima che si trasfigura e che non vuole altro che vivere in modo autentico a partire dal suo fondamento. L’opera dell’anima è uno «specchio sacro» dove compaiono i segni dell’essenza originaria, costruito grazie a un vissuto esperito alla luce della stella. L’invito al vivere pericolosamente diventa a questo punto un vero e proprio leitmotiv:
Pericolo, pericolo, pericolo: questa sarà d’ora in poi la tua strada. […] Ma ancora più bella è la vita vissuta di colui che trova il pericolo ovunque sia davvero possibile trovarlo. Ogni creare è collocato ai margini dell’essere. Ogni creare è audacia. Chi non osa rischiare la propria anima non fa che scimmiottare il creatore.
Affrontare il pericolo significa creare le condizioni per una scelta fondamentale. Nel primo dialogo Daniel e una donna salgono sulla cima di una montagna (si noti la frequenza del simbolismo mistico del monte, asse del mondo) e Daniel incoraggia la donna a raccontare un episodio in cui ella si è trovata a compiere una scelta importante. Mentre lei incomincia a parlare, Daniel bruscamente la interrompe e racconta la storia di lei: la donna si trova alla finestra e guarda le onde calme e lente sentendo un gran senso di sollievo e sicurezza. D’improvviso abbassa gli occhi e, quando li rialza, tutto si è trasformato: ora la marea minacciosa della notte è terribile e fa paura. La donna si sente perduta. Fissa ancora la notte e decide di affrontare l’orrore delle mille direzioni strappandone una e gettandola «come un ponte» «al cuore della notte».41 L’orrore svanisce grazie alla scelta:
Le direzioni infinite. Le tensioni infinite e gli infiniti sentimenti ci seducono, ci scuotono e ci privano dei nostri diritti. […] Le fluttuazioni dell’infinito, le onde che si producono fra gli innumerevoli poli dell’essente, confondono il mio cammino; il loro numero è infinito, ma il mio cammino è uno, come la mia direzione. E tuttavia la loro totalità è solo l’asse orizzontale che taglia quello verticale e che genera una confusione che sollevo dalla mia vita come un asse da una croce. Adesso io porto ciò che una volta mi portava: porto la mia vita.42
Questa è la descrizione di un’esperienza in cui, in mezzo al terrore, si compie una scelta tra un’infinità di possibilità in questo modo connettendo il proprio sé con il nucleo del mondo. Attraverso la scelta si trascende la confusione della molteplicità e quest’ultima non viene liquidata ma decisa, gestita; non c’è un rifiuto della polarità (vita e morte, forma e materia, ragione e volontà, ecc…) ma un riconoscimento, un’accettazione. Già in questo primo dialogo troviamo in seme ciò che abbiamo già rilevato a proposito del Dialogo dopo il teatro. Se la forza della scelta (la kinesis di cui si è già detto) è il movimento dalla potenzialità all’atto, la direzione è necessaria in quanto porta un senso al movimento. È chiaro che si sta parlando di un’esperienza di ascesa, di superamento della molteplicità e su questo punto Daniel ritiene di dover fare una precisazione fondamentale paragonando due figure mitologiche. Dioniso Zagreo viene notato dai Titani, fatto a pezzi e divorato poiché il dio si è comportato come quell’uomo che entra nell’estasi senza direzione. Orfeo invece, entra nell’estasi guidato dalla sua direzione (la lira) e diventa creativo. Decide di entrare nell’ade con la lira non per recuperare Euridice, ma per morire e risorgere. Orfeo rinasce perché non si è lasciato frammentare dall’esperienza mistica: la sua musica gli ha permesso di rimanere integro. La morte mistica viene accompagnata da una rinascita che è possibile dunque solo «all’anima che ha una direzione»: «La direzione è quella tensione originaria che muove l’anima umana a realizzare e a scegliere di volta in volta questo piuttosto che quest’altro dall’infinità del possibile. Questa è la forza che l’anima ha trovato ritornando dentro di sé e che ha innalzato a partire da se stessa».
47Vedremo come il medesimo superamento, argomentato dal procedere oppositivo squisitamente buberiano, sarà il centro di un breve saggio sull’opera di Matthias Grünewald. Soltanto colui che ha una direzione affronta e penetra il vortice della vita e degli eventi, restando nudo ma non annientato. Non si tratta né di soccombere di fronte agli eventi né di scappare, si tratta di restare qui e ora, al centro del vortice, sicuri nella propria direzione. Come Orfeo incantava le bestie selvagge con il suono della lira, il vortice degli eventi si quieta di fronte al canto di un’anima che ha direzione. Quest’ultima è l’asse orizzontale della vita, ciò che permette all’uomo di non essere consumato nell’estasi. Daniel prende per le mani la donna e dice che l’asse orizzontale (la molteplicità, l’asse dei fenomeni terrestri) non deve essere superato ma «eletto» poiché «la direzione è una trama sacra, è la croce fertile e produttiva della comunità».
48Questa insistenza sull’asse orizzontale della comunità, pur nell’ambito di un’opera inequivocabilmente mistica e profetica, è da ascrivere all’importanza che assume la tradizione chassidica nel pensiero di Buber. Di questo aspetto ci occuperemo nel capitolo seguente ma, fin d’ora, è importante mettere in evidenza come l’autore, spinto dalla matrice nietzschiana e aiutato dal riferimento ai miti dionisiaci e alle figure di Orfeo, Elia e Enoch, si soffermi sul mistero della trasformazione, della nascita e della morte, collocandolo nella sfera dell’azione morale dell’uomo: «legando la stabilità e la trasformazione nel presente, l’anima desta l’io, che prende possesso di queste ultime come se fossero i suoi gesti».
Notes de bas de page
1 Nella Vienna di fine Ottocento, soltanto un abitante su dieci era di origine ebraica. Nonostante si contassero soltanto duecentomila ebrei su due milioni di abitanti, la loro importanza nel tessuto economico, sociale e soprattutto spirituale della città era assai rilevante rispetto ad altri centri come New York e Varsavia. A Vienna gli ebrei conquistarono, nel bene e nel male, un prestigio superiore a quello raggiunto in qualsiasi altra città europea, una preminenza in tutti i settori della vita economica, nelle lettere, nella scienza, nelle arti e soprattutto nel movimento socialista. L’ebreo assimilato viennese rappresentava di norma un membro del ceto medio e i suoi diritti, al pari dei tedeschi, erano dunque tutelati in Parlamento dal partito liberale. Gli ebrei erano insomma coinvolti attivamente nelle questioni politiche ed economiche della Vienna di fine secolo, basti pensare alla storia di alcune famiglie illustri come quella di Salomon Mayer von Rothschild, il quale aveva fondato nel 1855 la Creditanstalt, la futura più importante banca di Vienna. Poco dopo il crollo borsistico del 1873, le cui cause furono individuate dai più nella “febbre” speculativa degli ebrei, presero maggiore vigore i già presenti atteggiamenti nazionalisti e nacquero così i primi movimenti antisemiti (cfr. John W. Mason, L’economia, in Id., Il tramonto dell’impero asburgico, il Mulino, Bologna 2000, pp. 45-59).
2 «Quando dopo altri vent’anni ho visto di nuovo mia madre, che aveva fatto un lungo viaggio apposta per vedere me, mia moglie e i miei bambini, non ho potuto fare a meno di guardarla dritta nei suoi occhi incredibilmente belli, senza sentire provenire da qualche parte la parola “Vergegnung”, come qualcosa che mi venisse detto» (lettera di M. Buber citata in M. Friedman, Encounter on a narrow ridge. A life of Martin Buber cit., p. 5).
3 Cfr. Martin Buber, Incontro. Frammenti autobiografici cit. Salvo dove altrimenti specificato le citazioni sono tratte da questo volume.
4 La provincia della Galizia si trovava al di là dei Carpazi, ai margini nord-orientali dell’Impero. Assorbita nel 1772 nell’impero asburgico, era la regione che presentava meno problemi dal punto di vista nazionalistico poiché aveva subito diverse spartizioni e aveva saputo cogliere gli ideali universali di matrice napoleonica. Lo Stato indipendente di Polonia era stato cancellato dalle carte d’Europa da tre spartizioni a fine Settecento per poi trovare la propria conformazione politica dopo il Congresso di Vienna. Prima delle spartizioni, i polacchi vantavano già una solida cultura nazionale e una tradizione di autonomia statale così sviluppate da non aver bisogno di edificare e consolidare il proprio sentimento nazionalistico nell’Ottocento. Nella prima metà del xix secolo costituivano una delle componenti più rivoluzionarie dell’Impero, tuttavia dopo il compromesso con l’Ungheria del 1867 tutto mutò: il governo austriaco aveva bisogno del partito conservatore polacco, che amministrava la Galizia, per costituire una maggioranza a Vienna e perciò gli fece ampie concessioni. Da quel momento la provincia ottenne assoluta autonomia, la lingua ufficiale divenne quella polacca, finì la germanizzazione delle scuole, le due università di Cracovia e Leopoli furono polonizzate e così l’intera provincia divenne un centro di cultura polacca. I polacchi arrivarono dunque a costituire il pilastro più robusto del Parlamento austriaco offrendo tra l’altro al governo centrale diverse figure di rilievo tra cui i primi ministri Potocki e Badeni e il ministro degli Esteri Gołuchowski.
5 Joseph Roth, Viaggio in Galizia [Reise nach Galizien, 1924], in Claudia Sonino, Esilio, diaspora, terra promessa. Ebrei tedeschi verso Est, Mondadori, Milano 1998, pp. 243-251. La Galizia, proprio in quanto “terra di mezzo” tra Occidente e Oriente russo, è stata tra il Settecento e i primi decenni del Novecento meta di molte migrazioni e viaggi da parte degli ebrei occidentali. L’ebreo orientale, colto nelle sue cifre più pittoresche ma anche nel ruolo di depositario del sapere popolare, costituisce una riflessione costante per molti intellettuali come Roth (che a sua volta era galiziano di nascita) che imparano così, attraverso il mito dell’Ostjudentum, a riformulare e rigenerare la propria condizione di ebrei occidentali. Martin Buber, non farà invece fatica a richiamare tutta l’atmosfera della spiritualità orientale poiché vi si era trovato immerso fin dalla primissima infanzia.
6 Cfr. nota 1 del cap. iii. Per un quadro globale della situazione ebraica in Russia e dello scatenarsi dei pogrom si veda L. Cremonesi, Le origini del sionismo e la nascita del kibbutz (1881-1920) cit.
7 Questo è l’ebreo polacco di cui parla, tra gli altri, un testimone d’eccezione come Heine, ebreo prussiano che, nelle vesti scomode di raffinato poeta tedesco, “ritorna” in Oriente cogliendone tuttavia l’alto valore tradizionale e sapienziale (Heinrich Heine, Sulla Polonia [Über Polen, 1822] in C. Sonino, Esilio, diaspora, terra promessa cit., pp. 163-166). Il mito dell’ebreo dell’Est, sospeso tra superstizione e arretratezza, verrà ripreso e rinvigorito nella sua accezione più negativa dai sionisti che ivi riconosceranno le ragioni principali dell’antisemitismo. Per un approfondimento sulla vita all’interno delle comunità ebraiche si veda Julius H. Schoeps, «Non fidarti dei Gojim». Vita e usanze nel mondo nell’Europa Orientale in Aa. Vv., Stella errante. Percorsi dell’ebraismo tra Est e Ovest, a cura di G. Massino e Giulio Schiavoni, il Mulino, Bologna 2000, pp. 87-97. Si veda inoltre il suggestivo volume del boemo Jirˇi Langer che nel 1913 fece il suo primo soggiorno presso le comunità chassidiche della Galizia (J. Langer, Le nove porte. I segreti del chassidismo, Adelphi, Milano 2008).
8 Adele Wizer si era spostata molto giovane e aveva seguito il classico iter delle donne ebree dei piccoli centri galiziani cui non era permesso raggiungere una formazione oltre le scuole superiori femminili. Il compito di queste donne era sposarsi, accudire i figli e soprattutto gestire gli affari del marito cosicché quest’ultimo potesse occuparsi quasi esclusivamente dello studio della Torah. Come ricorda lo stesso Martin Buber, per le ragazze ebree sviluppare inclinazioni artistiche e letterarie, e soprattutto leggere opere ritenute non formative e fuori dai canoni ebraici, era a quei tempi considerato molto «sconveniente» (M. Buber, Incontri cit.). «In nessun altro luogo esiste una simile coltivazione dei talenti spirituali. […] Le famiglie più ricche e più rispettate considerano un onore il poter accogliere mediante matrimonio un […] talmudista nel loro seno. La moglie, allora, spesso mantiene il marito, qualora la dote non sia sufficientemente ricca, con il lavoro delle sue mani, con una piccola attività o con un negozio, mentre il giovane marito non deve fare niente altro che vivere delle sue pie meditazioni e della sua formazione spirituale […]» (Theodor Lessing, Impressioni galiziane (1909), in C. Sonino, Esilio, diaspora, terra promessa cit., p. 178).
9 Per un ulteriore approfondimento sui rapporti tra Buber e Nietzsche si veda P. Mendes-Flohr, Zarathustra’s apostole, Martin Buber and the Jewish Renaissance, in Jacob Golomb, Nietzsche and Jewish Culture, Routledge, London-New York 1997, p. 233.
10 Gershom Scholem, Martin Buber interprete dell’ebraismo, a cura di F. Ferrari, Giuntina, Firenze 2015, p. 24.
11 Al suo ritorno a Vienna, il giovane filosofo trova una città in pieno rivolgimento politico poiché la stagione del partito liberale si era ormai conclusa aprendo tre nuove direzioni politiche: il movimento socialdemocratico con Viktor Adler, il pangermanesimo con Georg von Schönerer e il partito cristiano-sociale con Karl Lueger. Sebbene eletto già due anni prima, l’antisemita Lueger diventa ufficialmente borgomastro soltanto nel 1897. Ha così inizio un decennio di governo demagogico cristiano-sociale fondato sull’antisemitismo, sul clericalismo e sul socialismo municipale. “Der shöne Karl” professava un antisemitismo “contenuto” attaccando gli ebrei soltanto nella sua lotta contro il liberalismo e il capitalismo nello sforzo di animare e sensibilizzare le masse. La sua strategia antisemita era molto subdola ed è emblematicamente esplicitata in una delle sue più celebri dichiarazioni: «Wer Jude ist bestimme ich». Eletto al Reichsrat nel 1873, Schönerer è stato il più agguerrito antisemita che l’Austria abbia prodotto, nemico del liberalismo, del socialismo, del cattolicesimo e dell’autorità imperiale. Rivoltatosi contro il padre, emblema del sodalizio tra l’alta borghesia tedesca e quella ebraica, si era opposto all’entrata degli ebrei sopravvissuti ai pogrom russi ed era arrivato a perdere il proprio titolo nobiliare a causa della violenta irruzione presso la «Neues Wiener Tagblatt» (cfr. Carl E. Schorske, La politica in una nuova chiave cit., pp. 109-137).
12 I testi delle religioni orientali cominciarono infatti a essere tradotti e pubblicati a metà del xix secolo sulla scorta di una Renaissance orientale che si propagò in tutta Europa. L’interesse verso le antiche culture orientali costituì un fenomeno che si diffuse ben al di là delle cerchie degli eruditi e pure il nostro filosofo non mancò di occuparsene pubblicando diverse raccolte antologiche e edizioni critiche (cfr. M. Buber, L’insegnamento del Tao (1909), a cura di F. Ferrari, Melangolo, Genova 2013).
13 I principi che emersero dal Congresso di Vienna (1814-1815) contemplano la restaurazione degli antichi privilegi, il ripristino della legittimità geo-politica e la solidarietà come difesa comune al fine di neutralizzare nuovi movimenti e spinte rivoluzionarie. Proprio quest’ultimo principio portò nel 1815 alla creazione della Santa Alleanza: l’impegno stipulato tra i monarchi della Russia greco-ortodossa, dell’Austria cattolica e della Prussia protestante, volto a adottare un governo cristiano e patriarcale all’interno dei loro territori e una politica di solidarietà verso l’esterno. I principi del Congresso, impartiti abilmente dal cancelliere asburgico Metternich, si concretizzarono in quelle politiche molto pragmatiche sfociate poi nella Realpolitik. Sul finire del secolo essa si sarebbe tramutata, con la crescita dell’industria bellica e con la smania di grandezza dei grandi imperi, specie quello tedesco, in Weltpolitik. Nel primo decennio nel Novecento Martin Buber si scaglia in modo deciso contro la Realpolitik che la maggioranza del movimento sionista stava scegliendo in particolare dopo la Dichiarazione Balfour del 1917. Buber non tollera le alleanze diplomatiche con le potenze imperialistiche dell’epoca come quella britannica e invita i sionisti a resistere alla tentazione delle facili vittorie. Il filosofo sostiene in sostanza che il sionismo non debba partecipare alle mosse diplomatiche sullo scacchiere internazionale per non produrre tragiche conseguenze circa la presenza ebraica in Palestina. Negli anni Venti Buber si impegna, attraverso una serie di scritti, a dimostrare che il pericolo maggiore per il sionismo sia quello di imitare quanto le altre nazioni stanno facendo sul piano internazionale. Nel XII Congresso sionista del 1921, il primo congresso dopo la dichiarazione Balfour e dopo la guerra, il filosofo tiene una relazione molto importante su questi argomenti e, rendendosi conto che la sua posizione è come sempre minoritaria e inascoltata, negli anni successivi prenderà le distanze dalla dirigenza sionista. Per un approfondimento sulla condanna buberiana alla Realpolitik si veda Un fattore politico (1917), Di fronte alla decisione, Così tardi, in M. Buber, Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo e sul sionismo (1899-1923) cit.
14 Come si è già detto parlando di Praga e dell’intervento di Buber al Bar Kochba, un popolo che mostrava al meglio l’aspra convivenza all’interno dell’Impero è stato senza dubbio quello ceco. Si è accennato in precedenza alla peculiarità della capitale Boema sottolineando come, più che l’antisemitismo, il vero problema della gioventù praghese fosse costituito dalla cechizzazione. I Giovani cechi reclamavano l’equiparazione della propria lingua al tedesco e avevano cercato in più occasioni di ottenere maggiore autonomia per le loro province. Il clima nei territori cechi era davvero incandescente e arrivò a incendiare lo stesso Parlamento viennese quando il Primo ministro Badeni propose alcune ordinanze a favore della cechizzazione. Le animate vicende di quella giornata in Parlamento sono state riportate pure da un testimone d’eccezione, lo scrittore americano Mark Twain, che si trovava a Vienna proprio nei giorni in cui si discutevano i decreti del governo Badeni (cfr. J. W. Mason, L’economia cit., pp. 58-59).
15 Proprio negli anni in cui Buber torna a Vienna, Herzl pone le basi del movimento sionista moderno pubblicandone il manifesto in Der Judenstaat (1896). Dopo il grande successo del volume e in seguito al dibattito suscitato, Herzl convoca il Primo congresso sionista mondiale che si tiene a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897.
16 A fine Ottocento, Mahler e Adler avevano fondato il Circolo Pernerstorfer, un gruppo studentesco che proponeva un’idea culturale alternativa rispetto a quella liberale. Alla morte di Wagner, preso dai due ebrei assimilati come modello indiscusso, Mahler e Adler si adoperarono per sostenerne gli ideali. Dopo qualche successo politico il gruppo si sciolse e i due presero strade diverse: Adler fondò il partito socialdemocratico e Mahler intraprese la carriera di musicista.
17 M. Buber, Il problema dell’uomo (1943) cit., p. 108. Le citazioni seguenti sono tratte dalla stessa fonte.
18 «La spensieratezza di Vienna è una spensieratezza da fuga che di frequente nasce dall’angoscia, persino dalla disperazione; è costantemente una spensieratezza che proviene dalla cattiva coscienza o almeno da una consapevolezza della sua ambiguità; e potrebbe essere ben definita citando Beaumarchais, il cui Figaro, nel Barbiere di Siviglia, dice così: “Mi sforzo di ridere di ogni cosa, perché ho paura di essere costretto a piangere”» (Henry Schnitzler, “Gay Vienna”- Myth and Reality, «Journal of the History of Ideas», xv, 1, gennaio 1954, pp. 94-118).
19 Ci si riferisce al vivace incontro avvenuto nel 1902 tra lo scultore francese Auguste Rodin e il pittore secessionista Gustav Klimt. Le parole di Rodin, in visita a Vienna per la mostra organizzata dalla Secessione, descrivono in modo emblematico l’aria che si respirava in quegli anni nella città imperiale: «”Non mi sono mai trovato prima in un’atmosfera come questa: il vostro tragico, splendido affresco di Beethoven, la vostra mostra indimenticabile, sacrale; e adesso questo giardino, queste donne, questa musica […] e tutt’intorno questa felicità gioiosa, infantile […]. Come si spiega tutto ciò?” E Klimt fece un lieve cenno con la sua bella testa e rispose con una sola parola: “Austria”» (J. W. Mason, L’economia cit., pp. 90-91).
20 Cfr. M. Buber, Z literatury wieden´skiej, «Przeglad Tygodniowy Z´ycia Społecznego, Literatury i Sztuk Pie˛knych», xxxii, 25, 19.6.1897, pp. 297-298; xxxi, 27, 3.7.1897, pp. 321-322.
21 M. Buber, Ein Wort über Nietzsche und die Lebenswerte, «Die Kunst im Leben», i, 2, dicembre 1900, p. 13.
22 M. Buber, Incontro. Frammenti autobiografici cit., p. 54. Fino a diversa indicazione le citazioni seguenti sono tratte dalla stessa fonte.
23 Per approfondire la questione relativa alla scrittura di Buber si rimanda a P. Mendes-Flohr, Buber’s Rhetoric in Aa. Vv., Martin Buber. A contemporary perspective, a cura di
P. Mendes-Flohr, Syracuse University Press, Syracuse 2002, p. 14.
24 Pur trattandosi di un’opera indubbiamente ancora immersa in quella dimensione mistica tanto cara all’autore (alimentata oltrettutto dagli studi sui pensatori medievali come Eckhart e moderni come Böhme), Daniel rappresenta tuttavia una transizione verso la filosofia dialogica. Se da una parte le spinte tematiche più forti provengono da concetti come realizzazione [Verwirklichung], direzione [Richtung] e vissuto [Erlebnis] e sono permeate dall’invito a vivere pericolosamente mutuato da Nietzsche, si può rintracciare dall’altra il successivo sviluppo dell’antitesi tra orientamento e realizzazione nella coppia Io-Esso e Io-Tu.
25 Inclusione è per Buber quello «sperimentare da entrambe le parti» che caratterizza la relazione. Nella pedagogia, per esempio, la relazione educativa è inclusiva in quanto l’educatore sperimenta il rapporto anche dalla parte dell’allievo (cfr. M. Buber, Sull’educativo, in Id., Il principio dialogico e altri saggi cit., pp. 158-182).
26 M. Buber, Daniel. Cinque dialoghi estatici, a cura di Francesca Albertini, Giuntina, Firenze 2003, p. 80.
27 Si vedrà, nel cap. iii, la distinzione operata da Buber sulla base di due tipi di attori, da una parte Eleonora Duse e dall’altra Ermete Novelli.
28 Simili argomentazioni, sebbene espresse con toni più sistematici ed equilibrati, saranno al centro di un testo più tardo, Dramma e teatro, infra, pp. 237-241.
29 Louis Jouvet (1887-1951). Per un primo studio sull’attore rimandiamo a A. Attisani, Actoris studium album # 1. Processo e composizione nella recitazione da Stanislavskij a Grotowski e oltre cit., pp. 181-193.
30 Brunella Torresin, Louis Jouvet: lezioni di teatro, in L. Jouvet, Elogio del disordine. Riflessioni sul comportamento dell’attore, a cura di Stefano de Matteis, La casa Usher, Firenze 1989, pp. 276-292.
31 M. Buber, Della realtà. Dialogo da sopra la città, in Id., Daniel cit., p. 52.
32 Ivi, p. 57. Fino a nuova indicazione le citazioni sono stratte dalla stessa fonte.
33 «Rispetto alle altre epoche della civilizzazione, il nostro tempo è l’unico a non realizzare. […] Questi uomini, Ulrich, sono privati del diritto più importante di tutti, il diritto sacrosanto alla realtà» (ivi, p. 53). Fino a nuova indicazione le citazioni sono tratte dalla stessa fonte.
34 M. Buber, Theodor Herzl cit., p. 58.
35 Pierluigi Donini, Introduzione a Aristostele, Poetica, traduzione e cura di P. Donini, Einaudi, Torino 2008, pp. xxiv-xxv. Donini ha recentemente proposto un’edizione critica della Poetica che ha il merito di gettare nuova luce su alcuni luoghi comuni e secolari equivoci che caratterizzano la nostra tradizione. Come rilevato da Attisani, il lavoro di Donini permette di ripercorrere, con un’altrettanto nuova chiave di lettura, anche buona parte del teatro novecentesco e di scoprire come molti dei suoi esponenti, pur dichiarandosi in assoluto anti-aritostelici, siano stati invece promotori di alcune istanze aristoteliche. Cfr. A. Attisani, Smisurato cantabile cit., pp. 95-106.
36 M. Buber, Della polarità. Dialogo dopo il teatro cit., p. 109.
37 Cfr. Karl-Erich Grözinger, Linguaggio e realtà. Lo scrivere come preghiera, in Id., Kafka e la Cabbalá: l’elemento ebraico nell’opera e nel pensiero di Franz Kafka, Giuntina, Firenze 1993, p. 134.
38 T. S. Eliot, Quattro quartetti cit., p. 65.
39 M. Buber, La leggenda del Baalschem, in Id., Storie e leggende chassidiche cit., p. 232.
40 M. Buber, Della realtà. Dialogo da sopra la città cit., p. 47. Fino a nuova indicazione tutte le citazioni sono tratte dalla stessa fonte. Si noti come la descrizione dell’artista somigli alla definizione che Buber offre della preghiera: «Come il fumo si leva da ceppi accesi, ma le parti pesanti restano al suolo e diventano cenere, così dalla preghiera si leva solo la volontà e l’ardore, ma le parole esteriori si disfano in cenere» (M. Buber, Le storie di Rabbi Nachman, in Id., Storie e leggende chassidiche cit., p. 49).
41 M. Buber, Della direzione. Dialogo in montagna, in Id., Daniel cit., p. 26.
42 Ibid.
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