I. Le ragioni dell’arte
p. 5-48
Texte intégral
Mi è stata più volte rivolta la domanda se io sia un filosofo, un teologo, o qualcos’altro. La questione è sollevata a ragione, dal momento che, a seconda delle circostanze, vengo messo a confronto con le regole e con le leggi che appartengono al dominio della filosofia piuttosto che della teologia. Io non posso comunque, fare sì che una delle risposte che esse propongono sia la mia. Nella misura in cui mi è dato di autocomprendermi, vorrei definirmi un uomo atipico. […] Io non ho infatti da offrire nessun insegnamento circa un fondamento primo; posso solo mostrare quell’incontro in cui tutti gli incontri con gli altri trovano il loro fondamento, ma l’assoluto, tu non lo puoi incontrare.
M. Buber, Un resoconto filosofico
(in Id., Il chassidismo e l’uomo occidentale, a cura di F. Ferrari, Il Melangolo, Genova 2012, pp. 39-41)
I libri sono puri, gli uomini sono compositi, i libri sono spirito e parola, puro spirito e parola purificata, gli uomini sono una combinazione di chiacchiere e silenzio… Non ne sapevo nulla di libri quando sono nato dal grembo di mia madre, e voglio morire senza libri, stringendo una mano.
M. Buber, Il problema dell’uomo (1943)
(Marietti, Milano-Genova 2004, p. 99)
1Uomo di frontiera, Martin Buber è una figura difficilmente collocabile in un ambito disciplinare specifico e rappresenta piuttosto un elemento mobile all’interno della costellazione filosofica di metà Novecento. La sua è una traversata impavida tra vari settori disciplinari che può essere seguita solo tracciando le andate e i ritorni di una fitta geografia di movimenti. Per quanto si possa costruire, seguendo le orme sulla terra ormai sabbiosa del secolo scorso, una mappa assai precisa di discipline e territori attraversati dal filosofo, il suo pensiero è refrattario a un’analisi volta a sezionare una parte a scapito del tutto: Martin Buber è un autore-mondo. Prima giovane studente a Vienna, in seguito professore di teologia in Germania e poi dal 1938 in Israele docente di filosofia sociale, la sua traversata esistenziale lo ha portato così lontano dai tanti specialismi novecenteschi da renderlo al tempo stesso letterato, teologo, biblista, attivista politico, sociologo, filosofo, ebreo errante… In prima istanza “uomo”.
2Se da qualche parte occorre pur cominciare, pensiamo sia possibile farlo solo dal 1878, data di nascita di Martin Mordechai Buber. Proprio l’autore sembra suggerire la validità di un simile approccio offrendo la propria opera come una pratica organica che segue, amplifica e restituisce in primis una vicenda esistenziale, un vissuto reale colto in tutta la sua concretezza.1 Buber non offre al lettore un rassicurante sistema di classificazione del reale ma un’esperienza di relazione vissuta come «stretto crinale»2 tra due abissi: nessuna certezza metafisica ma solo la possibilità di un incontro con ciò che rimane celato.
3Buber non offre un insieme di coordinate o formule da applicare alla vita quanto piuttosto si fa portatore di una santa insicurezza che permette di incontrare ogni nuova situazione della vita reale con tutta la profondità dell’essere; insicurezza tipica di coloro che non possiedono risposte definitive, ma rispondono di volta in volta alla vita rinnovando la propria “direzione” e responsabilità. Del resto, basta un rapido sguardo alle opere del filosofo per maturare la sensazione di non avere di fronte nient’altro che una manciata di formidabili contatti ed esperienze tra esseri umani. Gli stessi scritti sul teatro, che sono al centro di questa ricerca, costituiscono solo tracce, pallide testimonianze di incontri cruciali e sempre collegabili a nomi, date e aneddoti. È vero tuttavia che la scrittura di Buber è una lotta continua e non si lascia dunque risolvere nella rassegna diaristica di un evento dialogico chiuso in sé, ma cerca di significare piuttosto un incontro offrendone un altro, questa volta sulla carta.
4Nella prospettiva buberiana, l’uomo è gettato in un mondo di assurde contraddizioni non per evaderne e arroccarsi sulla cima di una verità generale e socialmente condivisa ma per farci i conti e prendersene carico; solo in tal modo si dipanano infatti l’esperienza e la scoperta di una vita autentica. In questa prospettiva, il filosofo diventa allora una sorta di titano che intraprende una lotta contro la menzogna in virtù della purezza della propria direzione. Il compito dell’antropologia filosofica sulla pagina buberiana si configura come «un atto vitale»,3 uno slancio che coinvolge la totalità della persona, un’auto-riflessione condotta senza scuse o riserve:
«Qui non si ottiene vera conoscenza se si rimane soltanto sulla spiaggia a contemplare le onde spumeggianti. Bisogna correre il rischio, gettarsi in acqua, occorre nuotare, sempre all’erta e con tutte le forze».4
5Le contraddizioni fondative dell’essere umano non si risolvono con l’antidoto di una solidarietà buonista e dal sapore democratico ma per mezzo di un’apertura del singolo alla presenza e all’azione. Vivere il mondo è una questione di fare:
Questa massa di contraddizioni può essere incontrata e conquistata sono attraverso la rinascita di un’unità personale, un’unità dell’essere, un’unità della vita, un’unità d’azione: un’unità di fede, vita e azione insieme. Questo non vuol dire che si debba cercare un’unità statica a partire dalla realtà multiforme bensì una grande e dinamica unità a partire da una realtà multiforme che si è formata nell’unità del carattere.5
1. Il perché. Arte come nazione
Un angelo del Signore gli apparve
in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto.
Es 3,2
6A partire dal 1896 Buber si ritrova nella capitale asburgica ed entra praticamente subito in contatto con i maggiori esponenti della letteratura viennese grazie alla frequentazione assidua della vita brulicante tra café e tea-tri della metropoli. L’interesse per l’arte, per la letteratura e il teatro, si manifesta proprio a partire da questo momento e rappresenterà una costante per il filosofo tant’è che quasi al termine della sua vita, nel 1963, si cimenterà egli stesso nella scrittura di un’opera drammatica.6 In questi primi anni la questione estetica assume per il filosofo un ruolo fondamentale e altresì irrinunciabile nel quadro della Jüdische Renaissance e Buber non soltanto sarà un attento osservatore degli attori del suo tempo ma si dedicherà pure alla traduzione in tedesco di testi tea-trali tra cui alcune opere yiddish di David Pinski.
7Che si parli di teatro, religione e letteratura, appare subito chiaro come il punto focale di ogni speculazione buberiana sia sin d’ora costituito dall’esistenza umana colta nel suo complesso nei due movimenti di base: la messa a distanza e l’entrata in relazione. Il primo movimento è il presupposto del secondo poiché si può entrare in relazione soltanto con ciò che è stato messo di fronte, a distanza appunto. A differenza dell’animale, solo l’uomo può guardare il mondo come qualcosa di separato ed è proprio questa capacità ad aprire una possibilità tutta umana: «il primo movimento mostra come l’uomo sia possibile, il secondo come l’uomo si realizzi».7 L’arte è dunque intesa dal filosofo, molto prima di Io-Tu, nella dimensione polare propria del maturo pensiero dialogico. Lungi dall’essere espressione di qualcosa di oggettivo o al contrario di qualcosa di spirituale e soggettivo, essa è testimonianza della relazione tra gli uomini e la sostanza delle cose: il regno del tra (possibile solo grazie alla distanza) che diventa forma. Già in Das Gestaltende (1912)8 Buber riconosceva nell’arte quella stessa lotta che caratterizza ogni essere umano: una lotta tra principio formante (che impone o “trae” la forma) e materia che invece resiste al processo. Una volta raggiunta la Gestalt [pura forma], essa diventa presto preda del Gestatlosen [ciò che non ha forma] che ne fa principio di morte. Questa tensione perpetua in cui si attua un meccanismo che «è sempre un ricominciare da capo» avviene in ogni anima umana ed è la peculiarità più marcata dell’ebreo. Inoltre arte ed educazione, posti sempre in connubio dal Buber giovane, sono strettamente legati così che l’artista assume infine in sé un ruolo di educatore:
Gli uomini che hanno deciso in sé, che si sono formati in sé, riconoscono e si assumono il compito di formare il popolo. Come nel singolo ebreo, infatti, nell’ebraismo è visibile più che in qualsiasi altro luogo al mondo la lotta tra il principio formante e l’informe. […] Eternamente si ripete la sorte degli uomini della forma, la vittoria nella sconfitta; eternamente si ripete il loro destino e la loro destinazione. […] Gli uomini della storia ebraica e del mito ebraico che ho menzionato sono, tutti, animati dalla volontà di formare, e in particolare di formare il loro popolo. Tutti infatti […] non cercarono il loro compito nella lontananza delle cose generali, bensì là dove esso si dava loro immediatamente: attraverso il fenomeno, particolarmente evidente, della divisione tra singolo ebreo ed entro l’ebraismo, attraverso la grandezza della tensione all’unità, connaturata nell’ebreo, che è una tensione alla forma. Vogliono formare il loro popolo, e proprio così formano l’umanità.
Ci si educa all’arte come ci si educa alla costruzione della comunità.
8In questo preciso nucleo di pensiero si colloca tutto il discorso del Buber sionista e in senso generale la grande attrattiva che esso va esercitando sul lettore universale: «La causa dell’ebraismo e la causa dell’umanità sono una cosa sola. È la causa dell’opera che forma; è la causa dello spirito che vuole imprimersi nella realtà della comunità umana; è la causa di Jahweh, che plasmò il grumo di terra a sua immagine». L’invito buberiano agli artisti, è di farsi non soltanto poeti ma soprattutto a «essere religiosi».9 Buber recupera quel conflitto tra religiosità e religione, mutuato dal maestro Georg Simmel, che ben esemplifica il cammino dell’uomo nuovo prospettato dal giovane filosofo sionista.
La religiosità, ho detto, è la brama dell’uomo di stringere con l’incondizionato un patto di comunanza viva, e la volontà di realizzarlo con il suo fare e di insediarlo nella comunità degli uomini. La vera religiosità dunque non ha nulla in comune né con le fantasticherie di cuori esaltati, né con l’autocompiacimento di anime estetizzanti, né con i pensosi giochi di un’intellettualità ben esercitata. La vera religiosità è un fare. Vuole plasmare l’incondizionato nella materia della terra. Il volto di Dio riposa invisibile nel blocco di pietra del mondo; deve essere tratto fuori, scolpito fuori. Dedicarsi a quest’opera significa essere religiosi, null’altro. Nella maniera più fervida e immediata questo compito ci è affidato nella vita degli uomini, aperta al nostro influsso come nessun’altra cosa al mondo.
L’artista, emblema dell’ebreo della Renaissance, è colui che proprio in quanto poeta rielabora e ricompone l’immagine di Dio a partire dalla materia bruta del reale partecipando dunque alla creazione. Egli “crea” la realtà perché realizza Dio nel mondo diventando «compagno e aiuto di Dio nell’eterna opera della creazione».
9La creazione artistica diventa, in questo giovane Buber permeato dell’afflato nietzschiano, un vero e proprio strumento di redenzione. L’uomo diventa legge egli stesso a patto che sappia compiere l’unica azione che «rivela il vero senso della vita».10 Ecco perché, come si diceva a proposito della nozione di religiosità, l’accento del filosofo è vigorosamente posto sul presente, sull’azione responsabile del singolo. Queste riflessioni, da cui scaturisce un incontenibile e sostanziale appello alla vita e un sincero sì al divenire, vengono argomentate da Buber proprio in questi primi anni di studio sulla mistica tedesca e sul fenomeno chassidico:
Il chassidismo primitivo […] lo si può comprendere solo soltanto se ci si rende conto che è un rinnovamento dell’idea di azione. Qui […] non conta cosa venga fatto bensì: ogni atto che avvenga in sacralità, ossia nell’intenzione volta al divino, è la via verso il cuore del mondo. Non esiste nulla che sia male in sé; ogni passione può diventare virtù, ogni pulsione «un carro per Dio». Non la materia dell’atto, solo la sua consacrazione è decisiva. Ogni atto è santo, quando è volto alla salvezza. […] Solo così l’azione diventa il centro vitale della religiosità. E al contempo il destino del mondo viene messo nelle mani di colui che agisce. Attraverso l’atto santificato della sua intenzione vengono liberate le scintille divine cadute […] e facendo questo, colui che agisce opera alla redenzione del mondo.
Eccoci ora, finalmente in grado di comprendere quella che rimane la più suggestiva ed eloquente definizione di arte in Io-Tu:
Che la forma avanzi di fronte a un uomo e, per mezzo suo, voglia diventare opera, questa è l’eterna origine dell’arte. Nessuna creazione dell’anima, ma apparizione che le si pone di fronte e pretende da lei forza operativa. Si arriva a un’azione essenziale dell’uomo; se l’uomo la compie, se con il suo essere dice la parola fondamentale alla forma che gli appare, allora la forza operativa prorompe; l’opera nasce.
L’azione comporta un sacrificio e un rischio. Il sacrificio: la possibilità infinita, che è immortalata sull’altare della forma […]. Il rischio: solo con l’intero essere si può dire la parola fondamentale; chi le si affida non può trattenere nulla di sé; e l’opera non tollera, come l’albero o l’uomo, che io ritorni alla distensione del mondo dell’esso, ma comanda: se non la servo correttamente, va in pezzi oppure manda in pezzi me.
Non posso esperire e non posso descrivere la forma che avanza di fronte a me; posso solo realizzarla. […] E la relazione in cui sto con lei è reale: opera su di me come io su di lei.
Fare è creare, inventare è trovare. Il dar forma è scoperta. Realizzando scopro.11
Proveremo a delineare i rapporti che legano Buber all’arte e in particolar modo al teatro e lo faremo cercando di evidenziare la portata e l’autonomia del pensiero tea-trale del filosofo nel contesto del secolo, non dimenticando come pur nella specificità sia sempre necessario rimandare di continuo alla globalità di un pensiero-mondo e alla presenza di Martin Buber uomo, dietro e dentro le sue opere. Con la convinzione che il pensiero-mondo di Buber non sia altro che una scatola dalle pareti di specchio, si cercherà (accogliendo il rischio e i limiti come risorse) di trattare la materia come un unico grande organismo le cui parti pur nella loro autonomia rispondono al quadro più grande e imprescindibile di un vissuto reale.
10Pochi sono stati coloro che si sono accorti di come sia possibile rintracciare un valido percorso tea-trale nel pensiero del filosofo viennese e tra questi è doveroso segnalare per primo Maurice Friedman, biografo ed esegeta di Buber, autore di Martin Buber and the Theatre12 del 1969. Pur avendo rilevato l’influenza di Martin Buber sul teatro del Novecento, gli studi esistenti non hanno proposto una tematizzazione adeguata del percorso tea-trale del filosofo.13 Un timido suggerimento riguardo la tipologia di studio che qui invece si propone è offerto dal breve saggio del 2007 di Marcello Gallucci Nostalgia di Orfeo.14 Gallucci rileva come nessuno studioso si sia mai dedicato all’analisi di una possibile influenza di Buber su Jerzy Grotowski nonostante il regista polacco sia stato in più occasioni messo in relazione a diversi altri pensatori e fenomeni religiosi. Lo studioso, per primo, inizia così a tracciare un percorso tea-trale ben definito nella biografia del filosofo viennese rilevandone l’importanza nel teatro non solo come punto di riferimento di un’intera generazione di attori e registi, ma anche come spettatore e teorico del teatro del suo tempo. Martin Buber non offre soltanto la propria testimonianza di spettatore ma si occupa in prima persona di teatro scrivendo, traducendo drammi e offrendo una sorta di «drammaturgia trasformata, talvolta celata in un dialogo filosofico o raccontata in una leggenda».15
11Il testo di Friedman è invece fondamentale sia per il tentativo di ampliare il già vasto discorso attorno a Buber sia perché riunisce per la prima volta in lingua inglese alcuni testi riguardanti il teatro: Dialogue after the Theatre, Drama and Theatre, The Space Problem of the Stage, Reach for the World Ah-Bima!, Eliah. Il fulcro del lavoro critico di Friedman risiede nell’avere rintracciato in questi testi quelle stesse dinamiche che saranno alla base del pensiero dialogico. Secondo lo studioso, per Martin Buber teatro significa incontro, chiamata e risposta, regno del tra. L’essenza dell’evento tea-trale non viene intesa quindi come risoluzione delle polarità ma come processo in cui si attua una dinamica dialogica. Nella dimensione tea-trale, Buber rifiuta dunque la “favola” di una catarsi volgarmente intesa come riduzione del conflitto tragico tramite una conciliazione degli opposti. Il filosofo scopre il teatro e se ne occupa perché vi scorge la possibilità della relazione come egli la intende, ovvero come possibilità di un incontro, di una tensione tra domanda e risposta.
12Con il nostro scritto ci si propone di aggiornare la raccolta dei testi buberiani sul teatro aggiungendo come materia di riflessione due brevi saggi scritti a Firenze a inizio secolo e incentrati su due attori italiani d’inizio secolo, Eleonora Duse e Ermete Novelli.16 Con questa integrazione, sarà sin da ora chiaro come la nostra attenzione sia maggiormente rivolta alle problematiche più proprie del fare tea-trale tra attore e spettatore piuttosto che alle speculazioni filosofiche che comunque sono già delineate dalla critica. Si cercherà di dimostrare come il progetto tea-trale di Martin Buber vada inquadrato in un disegno più ampio legato alla formazione e all’educazione dell’uomo, disegno in cui il teatro è un laboratorio privilegiato di edificazione umana. Questo iter formativo si lega in modo particolare all’impegno sionista di Buber e si concretizza nel tentativo di ricostruire un’identità ebraica a partire dalla rinascita artistica dell’ebreo moderno. Di pari passo con la stesura di un dettagliato profilo biografico, si cercherà di mettere in luce la rilevanza che il teatro assume nel contesto di costruzione dell’uomo nuovo e come possa essere considerato un vero e proprio progetto e non una suggestione temporanea.
13Il filosofo viennese arriva al teatro non cercandolo direttamente e ne critica l’uso degenerato nel proprio tempo tentando di recuperarne un senso nuovo in linea con la propria concezione filosofica. Attraversa il teatro non per dimorarvi ma per spingersi oltre, dopo che grazie al teatro si è compiuto un lungo, e come vedremo per certi versi fallimentare, cammino di ricerca. Come si avrà modo di argomentare più avanti, l’avventura tea-trale di Buber non si risolve in un incontro estemporaneo e pacifico ma arreca all’autore una serie di delusioni (si ricordi il fallimento dell’Annunciazione fatta a Maria presso la città-giardino di Hellerau a causa delle divergenze di opinione con Paul Claudel)17 fino all’abbandono del progetto.
14La necessità del teatro, e diremmo più in generale la necessità dell’arte, risponde all’appello del cosiddetto sionismo culturale volto a rigenerare la comunità ebraica e a emanciparla. Basti citare un frammento dell’accorato discorso del filosofo al Quinto Congresso sionista:
Ciò in cui l’essenza di una nazione si esprime nel modo più limpido e pieno – la sacra parola dell’anima popolare, la creazione artistica – ci era quasi interamente proibito. Là dove un tenero germoglio si protendeva al sole, impaurito, in angoscia e attesa, veniva soffocato dalla mano del più spaventoso destino.18
Non esiste sionismo senza una cultura nazionale ebraica e non può esistere cultura senza una creatività specificatamente ebraica, senza un’arte nazionale. A essa, spiega a chiare lettere il filosofo, spetta il compito delicato di «un’educazione estetica del popolo». Nel discorso sionista del giovane Buber l’arte si pone a fondamento di un processo più ampio legato alla costruzione del nuovo ebreo figlio del Galut e dell’assimilazione, l’ebreo a cui Buber rivolge un vero e proprio invito a lavorare su di sé: l’arte ebraica non deve essere semplicemente venerata come fosse sacramentale ma deve esistere in quanto «materiale con cui costruire nuova bellezza», «come un prezioso blocco di marmo che aspetta la nostra mano e il nostro scalpello». Ai grandi esponenti del sionismo Buber spiega come la creazione artistica riveli tutto ciò che è proprio di un popolo e «solo suo», «il tratto unico e incomparabile della sua individualità». Gli artisti ebrei sono «uomini interi» e soltanto in virtù di questo possono «educare al vero ebraismo».19
15Sarà ancora più chiaro oltre come per Buber arte e nazione costituiscano un connubio inscindibile, per esempio quando commenteremo il breve scritto su Eleonora Duse, un testo che offre uno spaccato preciso e suggestivo del popolo della Firenze di inizio secolo. È verso la cultura, e non la civilizzazione intesa come tematizzazione attorno all’utile, che il giovane Buber volge tutto lo slancio nietzschiano nel discorso al Congresso. La cultura produce uomini unici e irripetibili che non sono né intellettuali né artisti ma uomini «interi», diventati tali perché si rivolgono al «divenire»: «il creatore, certo, non riceverà la parola d’ordine dallo ieri, bensì dal domani, e non riceverà la legge dal Dio che da sempre è sul trono, bensì dal Dio in divenire. E le sue cose del passato saranno argilla fra le sue mani». La cultura è un «processo fecondo» e si configura quindi come coltura, libero destino di «un popolo legato alla terra».
16Sono queste, in nuce, le grandi questioni su cui si muove il pensiero buberiano di questi anni, un pensiero che riflette e rielabora in modo originale gli stessi temi dei suoi maestri e insieme degli esponenti del teatro dell’epoca. Caos e forma, processo e struttura: un equilibrio vitale che è alla base della pratica tea-trale di tutto il Novecento e che sovente è stato scosso dai cosiddetti autori di “composizione” e autori di “processo” che hanno optato via via per una o l’altra istanza. L’idea di un’arte che possa restituire voce all’anima nazionale ebraica e permearla di un nuovo senso di bellezza porta Buber a fondare nel 1902 la Jüdischer Verlag insieme allo scrittore Davis Trietsch, il poeta Berthold Feiwel e all’artista austriaco Ephraim Moses Lilien. Si tratta di una casa editrice destinata a pubblicare opere atte a diffondere la cultura ebraica anche nel mondo non ebraico.
17Due luoghi fondamentali da praticare al fine di comprendere meglio la portata della concezione artistica di Buber sono costituiti senza dubbio dal Rinascimento italiano e dalle opere di Nietzsche. Il primo di questi, inteso come spontanea creazione del nuovo e non imitazione di un antico ideale, è sovente richiamato nei testi sionisti ed è pure al centro del breve articolo su Eleonora Duse. Il Rinascimento ebraico, compito imprescindibile del sionismo buberiano, assume così connotazioni simili a quello italiano:
[…] è una rinascita, un rinnovamento dell’intero essere umano, non un ritorno a vecchie idee e forme di vita antiche: è il percorso da un’esistenza a metà a una completa, dalla vegetazione alla produttività […] dai limiti di comunità ottuse alla liberazione della personalità, il cammino da un potenziale culturale vulcanico e informe a un prodotto culturale armonico e splendidamente formato.
Questo riferimento al Rinascimento italiano rivela la forte influenza del pensiero di Nietzsche,20 di Burckhardt e del neoromanticismo della Vienna di fine secolo sui concetti buberiani di cultura e di arte come avamposti del sionismo: l’arte libera e l’artista è un Bildner, colui che crea immagini e educa. Piuttosto che una negoziazione dell’esilio, il Rinascimento ebraico ne raccoglie i frutti e rigetta la passiva e rigida via dell’ebraismo scolastico. La novità del sionismo buberiano risiede soprattutto nella volontà di non negare il Galut bensì nell’eleggerlo come terreno fertile su cui coltivare i semi della rinascita. L’esilio ha suscitato il risveglio di «un antico desiderio verso un’esistenza nazionale e un anelito universale verso la bellezza e l’azione»21 e sebbene Buber creda che un’arte nazionale possa germogliare soltanto in una terra nazionale, crede pure che i semi, piantati nell’anima di ogni ebreo, vadano nutriti là dove sono sorti, nella diaspora. L’artista educa verso «una percezione vivente della natura e del popolo» e il suo insegnamento, in linea con quello suggerito dal Rinascimento, suggerisce così una rigenerazione che può sanare e liberare dal declino spirituale dell’esilio.
18Il linguaggio legato all’immaginario della rinascita e del risveglio è così impiegato in risposta a un’epoca arida e degenerata cui contrapporre una «resurrezione dello spirito» come è descritto, tra l’altro, nei lavori di Achad Ha-am.22 La peculiarità di Buber all’interno della costellazione degli “intellettuali della rinascita” risiede nel fatto che per il nostro filosofo, nonostante una restaurazione della nazione in patria fosse negata, era già cominciato un risveglio nazionale nell’esilio. Il processo già iniziato era costituito dalla trasformazione di energie latenti in energie attive:
Il risveglio del Rinascimento ebraico, in atto, avrà ramificazioni messianiche e nazionali, sarà un risveglio non solo di un popolo ma di una “cultura universale della bellezza” (allgemeine Schönheitskultur), un “amalgama tra cultura universale e nazionale”, una “auto-riflessione estetica e nazionale” (Selbstbesinnung der Völkerseelen), la scoperta della nazione come arte. Il Rinascimento ebraico esiste ora per destare l’anima nazionale dal suo sonno.23
L’anima nazionale ebraica deve essere risvegliata per mezzo di una lotta contro le contingenze esterne della diaspora e soprattutto contro la distruzione e la schiavitù operate dal Galut interno e dalla tirannia della legge. È proprio nel chassidismo e nell’Haskalah24 che Buber vede liberarsi quelle energie latenti che coinvolgono rispettivamente il sentimento e il pensiero.
19Per il filosofo la diaspora non è la storia di una continua umiliazione ma contempla anche una rigogliosa risposta culturale, sebbene disparata e disperata, che si erge con una propria dignità intellettuale di fronte alle minacce che provengono dall’esterno. Se questa consapevolezza porterà Buber alla ricerca dell’autentico nel chassidismo, spingerà invece Gershom Scholem a rivolgersi alla mistica e al messianismo.
20Urge, secondo tutti questi intellettuali della rinascita, trovare una codificazione per un nuovo progetto culturale. I primi scritti di Buber che testimoniano un evidente attivismo e l’adesione al sionismo come veicolo del suo pensiero mostrano toni irriverenti e provocatori e sono pubblicati spesso con lo pseudonimo di Buroch o semplicemente B. Insieme alle poesie volte a incitare il popolo ebraico al risveglio, sempre agli anni tra il 1898 e il 1911 risalgono opere come i Tre discorsi sull’ebraismo, tenuti a Praga di fronte all’organizzazione studentesca Bar Kochba25 cui apparteneva, tra gli altri, anche il giovane Franz Kafka che proprio in quegli anni si avvicinava, non senza polemiche, al sionismo e parallelamente conosceva il teatro yiddish grazie alla frequentazione dell’attore Jizchak Löwy.26 Dalla corrispondenza tra i due intellettuali risulta infatti che Kafka nel 1917 propone a Buber di pubblicare su «Der Jude» un saggio di Löwy «scritto dal cuore di un’esperienza vissuta basata sulla sofferenza […] la sofferenza mentale dell’attore yiddish»27 e nella lettera seguente chiede tuttavia di non contare su quel saggio per la rivista poiché Löwy, con il suo temperamento imprevedibile, sarebbe stato capace di scrivere un saggio incredibilmente interessante come pure di non scriverlo affatto. Buber, nei suoi incontri praghesi, ebbe un successo inaudito e il suo autorevole influsso segnò l’intera generazione del gruppo del Bar Kochba. Si trattava di un uditorio assai diverso rispetto a quello viennese perché l’intera provincia boema rappresentava un caso eccezionale all’interno della monarchia asburgica28 e soprattutto perché l’ebraismo praghese costituiva un vero e proprio unicum all’interno della provincia boema stessa. Se nelle campagne gli ebrei boemi erano spinti a cechizzarsi o a confluire nelle città, la borghesia ebraica di Praga costituiva una comunità sì assimilata ai tedeschi ma in un certo senso preservata nella sua specificità culturale dalla forte presenza di giornali, riviste e associazioni ebraiche. Buber aveva così la possibilità di parlare a un uditorio molto peculiare poiché Praga era un piccolo mondo ebraico chiuso e non esposto al crescente antisemitismo della provincia. Questi ebrei praghesi erano terreno fertile per il sionismo culturale di Buber in quanto costituivano una comunità omogenea di formazione liberale e tedesca, attiva socialmente e composta da giovani che non consideravano il sionismo come una reazione all’antisemitismo. Quest’ultimo non costituiva una reale minaccia poiché, viste le pressanti rivendicazioni dell’intera provincia, in questo momento storico gli ebrei praghesi erano dunque coinvolti come popolo boemo nella conquista della propria autonomia e identità nazionale. Lo slancio nietzschiano del giovane Buber, insieme all’eclettismo della sua proposta sionista basata sul recupero della mistica e del chassidismo, trovarono una consonanza vincente con il fermento culturale espressionista che il circolo di Praga andava già diffondendo. Come suggerisce Giuliano Baioni, il sionismo buberiano aveva poco da dire agli ebrei orientali («che non sentivano alcun bisogno di essere rigenerati dagli ebrei tedeschi»)29 ma molto alla gioventù praghese che costituiva un avamposto dell’assimilazione. Il recupero della sensibilità e del patrimonio sapienziale orientale, promulgato da Buber nelle Reden, forniva così una risposta sostanziale alla “fame”, molto tedesca, di popolo e nazionalità propria pure dei praghesi. Forse non tutti i giovani di Praga erano consapevoli che questo culto dell’Ostjudentum era espressione di un desiderio di matrice tedesca legato al Volk ma sicuramente lo scettico Kafka chiedeva, negli stessi anni, provocatoriamente a Buber se davvero si potesse penetrare l’ebraismo soltanto in quanto tedeschi.30
21In questo momento e nonostante la giovane età, Buber rappresenta un esempio da seguire e acquisisce grande popolarità grazie al suo intervento al Quinto Congresso sionista dove celebra un personale piccolo trionfo sui capi del movimento, Theodor Herzl31 e Max Nordau. È poi durante il Sesto congresso del 1903 che il filosofo, appena venticinquenne, si trova in aperto conflitto con Herzl. Quest’ultimo aveva risposto alle critiche politiche di Davis Trietsch, amico e collega della Demokratische Fraktion, con un attacco molto personale e senza argomentazioni razionali.32 Quando, dopo il suo discorso Herzl si ritira nella stanza presidenziale, Buber e Feiwel decidono di irrompere per protestare contro l’inattendibilità delle accuse mosse contro Trietsch. Buber stima profondamente Herzl ma ha sempre avuto forti riserve riguardo le sue posizioni considerandolo un ebreo senza natura e tradizione ebraica, lontano dal popolo e dunque incompleto; in più lo ritiene colpevole di avere identificato il movimento sionista con la sua causa personale. Ciò che il filosofo vede nella stanza di Herzl si annovera tra quegli eventi, piccoli episodi nella vita di un uomo, dai quali nasce e si tempra tutto il pensiero che Buber maturerà negli anni seguenti.
22Uno studio su Buber deve necessariamente partire da episodi come questi e prendere le mosse dalla registrazione di piccoli risvegli del pensiero, date e luoghi precisi, vissuti e annotati con scrupolo. L’episodio della stanza di Herzl è importante per questa ragione ma anche perché per descriverlo il filosofo usa sorprendentemente una metafora tea-trale facendoci riflettere sul fatto che, come si avrà modo di argomentare, il teatro rappresenti per lui qualcosa di fondativo e non un mero intrattenimento o una riflessione estemporanea. Nella stanza, Buber trova Herzl insieme alla madre che, silenziosa e immobile, manifesta con lo sguardo un’accorata partecipazione alla situazione. Herzl è concitato e si aggira furioso nella stanza con il panciotto sbottonato, «un leone in gabbia»:
Mi sentii subito costretto ad ammettere l’impossibilità di rimanere nell’intimo il rappresentante di un’unica parte. Là fuori c’era un uomo ferito, un mio amico e compagno di lotta, vittima di un’evidente ingiustizia, e qui c’era chi aveva commesso l’ingiustizia, chi aveva provocato la ferita: un uomo malato di zelo, appassionato alla sua fede fino allo sfinimento, il quale però, anche nell’errore, restava la mia guida. Per me venticinquenne era uno dei primi momenti in cui penetravo il territorio della tragedia dove non ha più senso l’aver ragione e dove è possibile imparare una verità ancora più grande: la giustizia risorge proprio dalla tomba dell’aver ragione.33
Questo episodio contiene, in nuce, il futuro sviluppo del pensiero buberiano laddove il dialogo, come principio fondamentale dell’esistenza, consiste nel “confermare” ciò che sta di fronte proprio nel suo essere in opposizione: il dialogo non nasce tra due punti di vista ma tra due “persone”.34 Parlando di «tragedia», Buber si riferisce esplicitamente all’opposizione necessaria propria del modello Antigone versus Creonte, dove nessuno dei due ha torto o ragione, nessuno è colpevole o innocente, nessuno ha nient’altro che la propria polarità, il proprio destino. Questa idea di base sarà poi sviluppata dal filosofo qualche anno dopo parlando direttamente delle dinamiche del teatro in Daniel; fin d’ora è importante rilevare come non si tratti di una “teoria” estetica bensì di un’idea di teatro che sia in prima istanza dialogo, esperienza reale del tra e quindi produzione di realtà. Il teatro, che Buber in questi anni già frequenta come spettatore, viene da subito colto nella sua connessione profonda con l’esistenza umana. Capace di incarnare la dualità e in grado di essere «la tomba dell’aver ragione», esso è qualcosa che porta all’essenza, con la precisione di un’ombra al meriggio, le contraddizioni e le tensioni della vita. La scena sarà per Buber sinonimo di un invito a «un’autentica lotta sostenuta dall’attore per sottrarsi al “baratro mondano”, lotta nell’immanenza per il trascendimento».35
23Proprio il difficile rapporto tra Buber e Herzl offre l’opportunità di riflettere ancora sull’argomento che più ci interessa e che costituisce la tesi della nostra indagine: il pensiero dialogico, così come codificato dal filosofo a partire degli anni Venti, nasce più propriamente in questi anni cruciali d’inizio secolo e matura in modo decisivo nel contesto della riflessione del giovane pensatore attorno alla questione artistica e al dominio della creazione tout-court. Una prova non trascurabile è uno scritto a prima vista insospettabile perché ruota attorno a Theodor Herzl, la figura in assoluto più distante da qualsiasi discorso sull’arte si possa immaginare, personaggio eminentemente politico che accompagna i primi anni d’impegno del filosofo agendo da guida e da grande oppositore. Alla sua morte, Buber scrive un breve articolo in cui esamina scrupolosamente i due scritti principali del capo sionista, porta avanti una puntuale riflessione sui tre paradossi della politica di Herzl e soprattutto lo definisce un «poeta che non ha mai smesso di essere poeta».36 Lungi dal tratteggiarlo come una figura totalmente negativa, Buber a inizio saggio mette in luce due aspetti inequivocabilmente “performativi” di Herzl: «la fervida ironia» e «la bellezza del gesto». Il filosofo ricorda che quando era inviato come giornalista in Francia ed era tenuto a riportare i discorsi dei parlamentari e «dei minuscoli ometti di Stato», Herzl permeava i propri resoconti con una risata dissacratrice, «piena di libertà e di sintesi»:
Anche in quella risata si nasconde un po’ di pathos, ma un pathos necessario. È l’innalzarsi del regno della finalità dell’utile a una visione libera da finalità. Una visione in cui regna un valore estetico positivo: la bellezza del gesto. Il bel gesto è un epifenomeno, una figura priva di finalità che fiorisce dall’agire finalizzato. Il gesto ha naturalmente un intento, ma la sua bellezza è una qualità imprevista che sgorga dalla regione più recondita, spesso più inconscia, dell’organismo animato. Ne va distinta la posa, all’inizio tensione che deforma la linea, più tardi meccanizzazione che appiattisce la linea. Il gesto autentico, di vera bellezza, Herzl lo amava come poche altre cose.
Buber attribuisce a Herzl il paradosso dell’artista così come lo avevamo già incontrato citando il saggio di qualche anno dopo Das Gestaltende (1913): il gesto autentico, quello del creatore, è quello che forma nel processo che va dalla «tensione che deforma la linea» alla «meccanizzazione» che «appiattisce». Il discorso richiama la medesima dialettica che avevamo riscontrato tra scultore e blocco di marmo, tra materia inerte che resiste al processo formante e principio formante che trae la forma e la fissa per poi deformarla di nuovo per evitarne la sclerosi e la decadenza.
Il suo materiale erano state le parole, ora lo diventavano gli uomini. Aveva progettato azioni, ora gli veniva dato eseguirle. Non si trattava più di scrivere suggestivi feuilleton e spiritose pièce tea-trali, bensì di realizzare un antichissimo sogno, il sogno dei re. Un popolo sventurato e presago fu tra le mani quasi come marmo. Ed egli crebbe insieme al suo materiale. Il giornalista divenne uomo d’azione […]. Il lirico senso del gesto non lo abbandonò; valutava ogni progetto e ogni successo non solo dal punto di vista politico ma anche da quello estetico, secondo il valore emotivo del gesto in esso contenuto: cosa che talvolta andava a svantaggio della questione, perché capitava che egli accogliesse un progetto dall’esterno e lo inserisse senza vera coerenza, senza farlo discendere insieme agli altri da un piano unitario. […] Herzl aveva in realtà il potere di un dittatore. Non tardò ad avere anche l’anima di un dittatore, con ampie risolutezze e ampi errori, concreta generosità e dispotica repressione delle idee altrui.
Il paradosso che contraddistingue l’ascesa di Herzl è quello dell’artista innamorato della forma («la cosa lo travolse, lo sollevò in alto»), colui che partendo dalla giusta spinta creatrice e formante si è però arrestato ad una nuova forma sclerotizzata. Lui che era partito dal disgusto della politica negli anni di giornalismo in Francia, lui che aveva tanto irriso le strutture corrose e vuote della politica, aveva a tutti gli effetti ricreato una dittatura della forma; quest’ultima rispetto alle precedenti ha soltanto il pregio di essere nuova e originale ma resta pur sempre sterile perché non condivisa attraverso il “confronto” (e dunque il riconoscimento dell’altro) e l’immersione nel mondo, in quella vita che è la condizione fondamentale per non arrestare il processo di creazione. Per Buber a Herzl era mancato l’ebraismo inteso come senso del tragico, quella lotta propria di ogni ebreo che lo rende unico e parte di un popolo. Così la letteratura e le arti erano per il capo sionista soltanto un mezzo di propaganda e non un terreno fertile dove seminare la propria «vocazione all’azione».
Chi sfiora il proprio ebraismo e passa oltre esperisce, di quella ricchezza, solo gli aspetti più rozzi e tangibili, che non appartengono all’essenza del tragico. Ma chi accoglie il proprio ebraismo nella propria vita, per viverlo, accresce il suo martirio del martirio di generazioni di popolo, allaccia la storia del suo corpo alla storia di infiniti corpi che un tempo hanno sofferto.
24La persecuzione degli ebrei era per lui «la questione ebraica» e il popolo ebraico esisteva soltanto in quanto doveva fronteggiare una minaccia: «Siamo un popolo: il nemico ci rende tali senza che lo vogliamo», scriveva Herzl nello Stato degli ebrei. Buber sposta la questione di Herzl su un altro piano: se il dittatore aveva condotto senza mezze misure la propria guerra contro il nemico e voleva spingere le masse «come armi»37 a morire in nome di una «bandiera», per Buber la guerra era da farsi invece all’interno dell’ebraismo, conformemente a ciò che c’è di più ebreo in ogni uomo: il tragico.
25Lo scontro tra i due, fuori dall’esatta metafora artistica del poeta creatore che si imbriglia nella forma, era uno scontro tra Oriente e Occidente: «questo è il primo paradosso dei sette anni di Theodor Herzl: in tutto e per tutto figlio dell’Occidente, si trovò a capo di un movimento le cui forti radici sono in tutto e per tutto in Oriente».38 Dunque «non ha mai smesso di essere poeta» anche dopo che «il destino lo condusse al suo popolo e ne fece un eroe». La caratteristica dell’eroe del popolo, del prototipo di uomo che Buber intende formare grazie all’educazione estetica, è la tragicità latente: «questa, ossia l’accettazione di un contrasto, con la liberazione che ne discende, è l’essenza di ogni creazione».39 Herzl era rimasto un poeta e non era diventato un eroe perché non aveva conosciuto quell’Oriente, «quel discendere alle madri» che insegna all’uomo a prendere su di sé «il destino del suo popolo» e a diventare creatore. La battaglia di Herzl era una battaglia tipicamente occidentale ossia rivolta verso il fuori, una guerra generata dal «meccanismo dell’utile». La battaglia dell’eroe è invece orientale, quella generata verso il dentro, «dall’esteriorità della vita all’interiorità, dalla conservazione dell’istante alla conservazione nell’avvicendarsi delle generazioni».
26L’invito a unirsi alla vera lotta dell’eroe è il soggetto di Bergfeuer (Fuochi della montagna), scritto tutto permeato di un certo slancio lirico e di vigore nietzschiano che il filosofo scrive subito dopo il Quinto Congresso. Qui si paragona questo grande incontro tra sionisti ai falò dell’antica Gerusalemme che annunciavano l’arrivo della luna nuova: i fuochi della montagna testimoniano che qualcosa è successo. Non è casuale che Buber adoperi il lessico relativo al fuoco e, come avremo modo di vedere, questa simpatia del fuoco è una costante imprescindibile nelle sue opere; del resto questo elemento ben si presta, con la valenza di agente di trasformazione, a descrivere l’esperienza che a Buber sta tanto a cuore, per sé e insieme per il suo popolo. Questo scritto ha il carattere di un annuncio: Buber presenta alle «genti delle pianure» (coloro che non si sono ancora uniti al sionismo) gli uomini nuovi, coloro che restituiranno agli ebrei della diaspora il vero ebraismo, quello della tradizione che, rinvigorito e permeato di un senso nuovo, li preparerà al ritorno in patria. Chi sono questi eroi d’Israele? Con questa domanda torniamo di nuovo al luogo dal quale eravamo partiti: Buber si riferisce infatti ancora agli «uomini creativi».
Denn ein Flammenzeichen folgt dem andern; und in deren Lichte taucht zuerst der Sinn der vergangenen Zeiten auf, dann das grausame Bild der Gegenwart, ein schlichtes starkes Programm wird geschmiedet, auseinanderstrebende Massen werden in feste Gestalt gegossen, die Werkzeuge der That entstehen in Mühsal und Glut, und in den Worten thätiger Liebe, die hin- und herfliegen, lebt schon der schöpferische Geist der Zukunft. Ich Schaffe, also bin ich – so künden den Kleingläubigen die Bergfeuer. 40
Creo quindi sono. Buber corregge il motto cartesiano e associa la creazione al potere del fuoco, trasformazione in atto in un popolo che si fa sempre più forte, più puro e umano. Si presti tuttavia attenzione a non considerare il pensiero sionista di Buber un invito elitario rivolto soltanto agli artisti: «I fuochi della montagna si accendono sulla vetta: la vita si vive per lo più nella pianura». Il Congresso ha posto le basi del lavoro a venire e questo dovrà essere affrontato nella vita di tutti i giorni, «nel lento avanzare pieno di sacrificio, nell’abnegazione di una lotta senza gratificazioni». Il fuoco della trasformazione è una bellezza intima che illumina e unifica, brucia e abbraccia lentamente coloro che stanno attorno ai fuochi «con un bagliore simile al brillare di una quieta felicità». Un fuoco che non consuma e a cui ci si può accostare soltanto con cuore devoto e puro. Qui Buber rimanda al miracolo del Roveto ardente quando Dio parla a Mosè, scegliendo di rivolgersi da una pianta tra le più umili. Dio mostra a Mosè di avere compreso la situazione di Israele in Egitto: l’inferiorità della sua condizione e i limiti della sua schiavitù. Il Congresso ha per Buber lo stesso valore di teofania, un evento divino iniziato lassù sulle montagne attorno ai fuochi. In mezzo alle fiamme Mosè ricevette la visione che lo trasformò infondendogli il coraggio d’intraprendere l’esodo. Con questa citazione al profeta si apre uno spazio di azione dell’uomo che, secondo Buber, può redimere il Dio nascosto ed esiliato nelle cose e partecipare alla redenzione. Per il filosofo l’ebreo moderno «è uscito dalla forma di vita organica della comunità determinata dalla tradizione, è tutt’uno con la crisi dell’uomo tedesco moderno, costretto a vivere nella società artificiale e meccanica, in un mondo abbandonato da Dio, e che non è più in grado di esorcizzare “il Golem tecnologico che ha costruito”».41
27L’uomo di Buber è un uomo della crisi,42 l’ebreo che convoglia, con il suo millenario vissuto di uomo senza casa, tutte le problematiche di una crisi. Per lui si apre l’era di un «serio e grande compito […]. Prima di partire dovrebbe ascoltare il battito cardiaco del popolo, le voci segrete che gli annunciano la oscura volontà sotterranea del popolo».43 Non a caso, a simbolo di questa lotta del singolo per l’autenticità, Buber pone Elisha ben Abuja,44 figura talmudica che serve al filosofo per legare ulteriormente questa simpatia del fuoco alla creazione artistica e dunque alla fondazione dell’anima rinnovata dell’ebreo. Nel ciclo di poesie del giovane filosofo, scritte sempre nei primissimi anni sionisti, l’attenzione si concentra sia sull’apostata Acher sia sul discepolo rabbi Meir, l’unico a non aver abbandonato il maestro. I due sono in completa beatitudine presso un campo e uno di loro prende coraggio e dice:
Vedi, non è bellissimo qui? […] E noi, che riusciamo a sentirlo, dovremmo essere brutti? Non dovremmo sbocciare in un’appassionata bellezza? La nazione che riesce a vedere tutto questo non dovrebbe avere il diritto di esistere? Tu, tu ci racconti solo di loro, Omero il grande e Fidia l’artista e di quella nazione in cui hanno vissuto. Guarda qui, guarda più vicino, sei sicuro che non ci sia niente, nessun canto, nessuna necessità, nessun sogno? Niente di niente?
Nella prospettiva del discepolo il fatto stesso di vedere la bellezza rende belli. La domanda che egli pone è, nella sua ingenuità, disarmante: perché, visto che anche noi vediamo la bellezza, noi non siamo belli, non abbiamo canti, danze e sogni? E perché gli antichi greci ebbero Omero e Fidia?
28Acher descrive quindi due danze, quella greca e quella ebraica. Nella prima, alcuni giovani greci danzano in cerchio su un prato e Acher, guardando questo gioco di corpi, pensa: «Ora la madre terra può respirare liberamente dopo un sogno opprimente e liberamente può avvertire la bellissima felicità dei suoi bambini che sono simili a uccelli». La seconda danza («Quanto tempo fa!») avviene mentre Acher si trova nella foresta, pensa al suo odio per la Legge e sogna terre lontane. Acher vede un gruppo di giovani ebrei con le torce in mano («Vedo nuove torce che bruciano ancora e ancora e ancora e ancora, nuovi occhi scintillanti») dirigersi verso il luogo chiamato «luogo di Elia», profeta del fuoco. Quando iniziano a danzare le loro torce diventano un’unica grande fiamma che volge verso il paradiso. Non danzano in coppia ma in gruppo, si amano di un amore grande come la morte e l’eterno. Ognuno unisce il fuoco del proprio desiderio a quello del compagno poiché sognano di infrangere tutte le barriere. Si muovono insieme come se lottassero con le torce tese verso il cielo «ma non gioiscono nella Legge – sono figli della tempesta e nella febbre del loro cuore riposa un mondo nuovo che un giorno rinnoverà il mondo».
29La risposta del maestro, con cui probabilmente Buber identifica se stesso e i suoi compagni, è chiara: tutta questa bellezza esiste anche per gli ebrei, vive come vive la danza dentro le loro anime e un giorno rinnoverà il mondo. Nella poesia intitolata Die Flamme45 si dice che dopo la sepoltura alcune donne in bianco vogliono vedere il sepolcro poiché sperano di contemplare l’immagine di Acher. Mentre tutti stanno attorno al sepolcro, insieme e silenziosamente, ecco che accade il miracolo del fuoco: dalla tomba si leva una fortissima fiamma bianca e mentre essa si fa sempre più forte i discepoli attorno intonano un antico canto d’amore. Comunque si voglia interpretare questo testo, sembra evidente che proprio attraverso l’immagine (lo sguardo posato sul sepolcro) l’uomo può attingere all’invisibile per poi tornare alla propria vita nella comunità e trasformare quello stesso sguardo (e la conoscenza attinta) per produrre il canto, ossia per rimettere in gioco nel qui e ora del mondo la propria esperienza dell’incarnazione.
30Alla fine dell’episodio Meir prende la fiamma e la solleva per liberare Acher. Il Signore pone la sua mano sulle ferite del maestro e la fiamma si spegne. Buber si apparenta al maestro nel rifiuto della cieca rigidità della Legge in nome di un rinnovamento della tradizione. Il dono del fuoco rappresenta l’intento di Prometeo che libera l’umanità dalla visione opprimente della morte, dandole la speranza. In queste poesie Buber canta l’ideale della libertà umana che si sottrae al dominio della Legge attraverso il dono del fuoco. Prometeo è il dio che dona e che libera, l’artista che consente la visione a chi sa guardare, l’ascolto a chi sa udire. Il fuoco che si è acceso altro non è se non la rinascita dell’arte e della nazione ebraica.
2. Il come. Una poiesis cromatica del reale
Das stärkste Zeugnis des Lebens ist das Schaffen und die unmittelbarste Form des Schaffens ist die Kunst. 46
M. Buber, Lesser Ury
(«Die Welt», xiv, 3 aprile 1901)
31Negli interventi di Buber tra i due Congressi, emerge la preoccupazione concreta di creare contingenze reali che consentano quello sviluppo dell’arte ebraica nell’auspicato processo di rinascita del popolo. Tra le sue proposte si annovera anche la creazione di una compagnia teatrale di lingua presumibilmente tedesca,47 concepita sul modello della Freie Bühne di Otto Brahm, che avrebbe richiesto, dato il suo carattere non permanente, meno fondi rispetto alla creazione di una compagnia nazionale stabile. Nel programma tea-trale Buber individua tre compiti fondamentali: fondare una organizzazione, costruire un repertorio e radunare il personale. L’avvio dei lavori di costruzione di un teatro nazionale è sentito come prioritario da parte di tutta la comunità ebraica e infatti, soltanto pochi anni dopo, con simili sollecitazioni, verrà fondata la compagnia Habima, che è oggi il Teatro Nazionale Israeliano.48
32Nel tentativo di dare avvio al riconoscimento dell’arte ebraica come arte nazionale, Buber cura una mostra nei locali del Quinto Congresso sionista tenutosi a Basilea il 26 dicembre 1901. Si tratta di un’iniziativa inedita se consideriamo che non esisteva un museo dedicato e che non vi era mai stato in precedenza un evento espositivo simile. L’esposizione, che include quarantotto opere di undici artisti ebrei, è costituita da disegni, litografie, dipinti a olio e tempera e persino due sculture. Le tematiche affrontate sono essenzialmente due: la tradizione eroica degli ebrei nell’antichità e la situazione contemporanea dell’esilio. Nella relazione al Congresso, come si è visto, Buber insiste sull’importanza di un’educazione estetica e, in risposta a Nordau che lamenta la mancanza di denaro da destinare all’arte, il filosofo risponde che è proprio dall’arte che giungerà una nuova ricchezza. E aggiunge:
Soffriamo di troppa teoria. Oggi, parlandovi dell’arte ebraica, voglio stare quanto più possibile lontano dall’astratta e schematica teoria e voglio parlarvi invece di potenti fatti viventi, che sono grandi e sconvolgenti. L’arte ebraica è una serie di fatti. […] Questa energia indica la rinascita della creatività presso il nostro popolo. Non traduciamo più il movimento incessante della nostra anima attraverso un isolato intellettualismo bensì in un’attività dell’intero organismo e, attraverso questa attività, in linee e suoni, in un’essenza vivente, che di nuovo sveglia la nostra percezione vivente.49
Nel 1903 Buber cura Jüdische Künstler,50 un volume critico illustrato e dedicato a sei artisti ebrei: Josef Israels, Lesser Ury, Efraim Moses Lilien, Max Liebermann, Solomon J. Solomon e Jehudo Epstein. Il filosofo scrive una breve introduzione generale e un saggio su Lesser Ury,51 le cui tele lo avevano molto colpito durante l’esposizione del 1901.
33Ury, qui descritto come un precoce e talentuoso artista, prima di essere apprezzato e rivalutato dai sionisti, si era spostato da Monaco a Parigi e poi a Berlino dove era stato fortemente criticato per l’uso espressionistico del colore,52 elemento così decisivo invece nella valutazione positiva di Buber. L’arte di Ury sarà poi giudicata degenerata e abietta dal Nazismo e sfortunatamente molti suoi quadri saranno per questo distrutti.
34Non è tuttavia casuale che Buber decida di dedicare così tanta attenzione proprio a Lesser Ury: il pittore prussiano a ben vedere si presta, per via delle audaci scelte artistiche e del suo ruolo di emarginato nel «provinciale» ambiente berlinese, a costituire una maschera congeniale agli intenti del filosofo. Appare a Buber come un novello “Acher”, un diverso e solitario apostata che rifiuta la fede convenzionale (il trend pittorico della Berlino d’inizio secolo) per intraprendere una missione destinata a non essere compresa dai più (portare in Germania la novità coloristica dell’impressionismo francese). In sostanza, Buber sceglie Ury perché il pittore rappresenta un simbolo efficace nell’esprimere la propria differenza all’interno del movimento sionista.
35In risposta a Richard Wagner53 e al diffuso atteggiamento antisemita che decretava la totale assenza di un’arte visiva ebraica a causa dello spietato affarismo degli ebrei, Buber, apportando argomentazioni storiche, afferma che nonostante prima del xix secolo non si possa propriamente parlare di arti visive, nella cultura ebraica esistevano comunque tendenze estetiche autentiche e popolari. Nell’introduzione al volume il filosofo ricerca la causa nella storia e nel carattere propri del popolo ebraico: l’ebreo è più portato a esprimersi con il suono e meno con la vista, si muove dunque nel tempo e non nello spazio. Si sostiene poi che gli ebrei, in quanto orientali, sono «uomini d’azione» a differenza degli occidentali che si configurano come «uomini sensoriali». Se per questi ultimi il senso dominante è la vista, per gli ebrei lo è invece l’udito. Buber comincia qui, approfondendo le peculiarità del popolo ebraico, a insistere sul primato della relazione: «Gli ebrei comprendono il mondo meno dal punto di vista dell’esistenza isolata e distinta della realtà multiforme e più dalle relazioni che la caratterizzano, dal punto di vista dei legami collettivi».54
36Proseguendo la riflessione, Buber riconosce come la rigidità della Legge e le contingenze dell’esilio abbiano ulteriormente indebolito il senso estetico degli ebrei. Nella diaspora infatti l’arte è stata così via via considerata peccaminosa e il corpo umano corruttibile.55 L’ebreo dell’antichità si muoveva «in un mondo di relazioni», poteva esprimersi soltanto con il «grido» e «all’immagine non poté mai arrivare» perché non era nella sua natura saper guardare. L’ebreo della diaspora invece acquisisce ora «una nuova natura»: «senza che se ne accorga nasce in lui la facoltà di guardare; e lo spazio che attraversa inseguito dai persecutori si impone ai suoi sensi con potenza sempre maggiore». Qui, in questo breve passaggio, risiede tutta la novità e il coraggio della controstoria ebraica di Buber: la diaspora non viene letta come male assoluto ma come limite che trasforma positivamente, una sorta di benedizione che, pur nella sfortuna e nella disperazione più totali, pone le basi per uno sviluppo fertile, quello artistico, dell’intero popolo ebraico.
37Tuttavia si tratta di «attitudini in germe che non possono sbocciare» perché la diaspora produce una spiritualità del tutto «estraniata dalla vita» e l’ebreo, «sempre più dimentico del mondo», si rifugia così nella rigidità della legge. Nonostante ciò, Buber rileva come fin dal Medioevo si siano manifestate forze dirette nella direzione opposta che portarono al fiorire del chassidismo. Si trova qui, e proprio in relazione al discorso artistico, il primo ampio riferimento del filosofo al fenomeno chassidico, argomento che sarà una costante nelle opere a venire. Buber legge il chassidismo come quel momento in cui il corpo umano da corruttibile diventa meraviglioso e la bellezza assume un nuovo valore in quanto emanazione di Dio: l’amore si sostituisce così alla legge.56
L’ascesi è disordine. Ogni gioia di vivere è rivelazione dell’amore divino. […] La porta verso l’arte era aperta. […] Così l’uomo della relazione comincia a svilupparsi fino a diventare uomo compiuto. Le forze divampate nel silenzio, che nell’ardore del chassidismo, mistico eppure così terreno, avevano trovato la loro azione religiosa, lambiscono con il loro fuoco l’opera degli artisti ebrei del nostro tempo.
Saper guardare al mondo per diventare completi, ecco quale sembra essere la parola chiave del chassidismo nella controstoria ebraica del filosofo. A questo punto è evidente come non si possa studiare il Buber degli anni maturi, o ancora la vasta letteratura chassidica di cui l’autore si è fatto massimo promotore, senza richiamare questa importante scoperta: è il teatro personale di ogni singolo ebreo, teatro inteso proprio come theàtron (luogo da cui si guarda), il luogo dal quale parte ogni riflessione verso il pensiero dialogico. Esiliato da se stesso in Occidente, sviluppando tuttavia in sé, grazie alle infelici contingenze, l’inedita capacità di guardare, è l’ebreo a farsi egli stesso theàtron, punto focale d’eccezione da cui intessere le relazioni con il mondo. Da qui il passo verso la polarità e il pensiero dialogico delle opere più mature si fa davvero breve.
38È proprio la capacità di cogliere ogni cosa nel suo contesto e nella relazione con le altre cose il centro tematico del saggio del filosofo su Ury. L’artista è qui definito come «il più inusuale colorista dell’arte contemporanea». Buber ritrae un pittore prometeico che lotta contro la degenerazione e l’irrigidimento della forma e che cerca dunque un nuovo linguaggio dopo aver preso atto dell’inefficacia di quello vecchio.
39La scoperta, il dono di Ury, è il colore. Per Buber la forma non dice nulla della reciprocità e delle relazioni tra le cose del mondo mentre è proprio nel colore che dimora l’essenza della realtà:
Knüpfe ein Wesen an alle Wesen, und du lockst sein Eigenstes heraus. Bette ein Einzelnes in die Welt: die Mauern fallen, die Starrheiten lösen sich, die Seele erwacht, der große Pan wird wiedergeboren. Zu diesem ist dem Künstler die Farbe gegeben. Die Form trennt, die Farbe verbindet.57
Il colore risveglia l’armonia sotterranea delle forme, pone ogni cosa nel suo contesto di relazioni con le altre cose. Lesser Ury può, secondo Buber, non essere per nulla consapevole di tutto ciò, ma resta il fatto che è in grado di farlo. L’arte è una questione di fare, non nel senso di usare uno strumento per ottenere uno scopo ma nel senso della non azione, del fare non interessato, non asservito cioè alle logiche transitive del mondo ordinario. Fare è presenza, parola senza discorso, parola fondativa dell’essere: «ich schaffe also bin ich» [Io creo dunque sono].
40In Ury non c’è riflessione o strategia artistica né egli è un romantico fuscello sospinto dalla brezza dell’ispirazione: «Er ist ein Ekstatiker. Dionynos lebt in ihm».58 Con Dioniso incontriamo una delle prime maschere dell’artista nel repertorio buberiano, nei capitoli successivi conosceremo anche le altre. Il riferimento nietzschiano richiama (come sempre in Buber) una dimensione duale: Dioniso distruttore e Dioniso costruttore. L’esperienza dionisiaca è il paradosso dell’esistenza, fenditura originaria dell’essere da cui nasce l’immenso orrore e insieme l’estatico rapimento. Cosa significa che Ury è un estatico? Estasi59 significa la degenerazione della natura rispetto alle regole naturali, è un’anomalia che trascende le regole ordinarie per svelarsi nella sua dimensione originaria: sinonimo di trasfigurazione, è il continuo divenire dionisiaco che è insieme creazione e distruzione. Da questa uscita da sé, da questa autocontemplazione la vita si conosce, ponendosi davanti a sé e rivelandosi.
41Secondo Buber, Ury nei suoi paesaggi riesce a cogliere la reciprocità della natura attraverso l’uso del colore. L’anima di un albero è la continua trasformazione dell’albero: «Ein Moment, in dem sich tausend Lebensfluten mischen – das ist Ury’s Landschaft».60 L’artista vuole sciogliere l’unicità del soggetto nel colore e nelle sfumature ma la realtà si oppone imponendo forme e limitazioni, «la forma brutale di ciò che è individuale». L’artista oltrepassa così la forma, la integra completamente con tutto il resto in modo da scioglierla. I contorni restano netti ma la forma si svuota della sua rappresentazione. Poi, riferendosi alle opere di Ury che ritraggono il Lago di Garda, Buber sostiene che l’artista «ha creato un’estasi dal materiale che è negata al materiale stesso». L’artista esprime le possibilità celate nel materiale inerte, penetra fino in fondo nella materia e ne cava fuori l’essenza. I colori di Ury sono un mezzo perché avvenga questo disvelamento e il quadro diventa così teatro della lotta del suo artefice: «l’energia sale, un’energia vivente si ribella contro il potere oscuro del fato e cerca la redenzione». Va da sé che Buber situi la questione dell’arte nel quadro più ampio dell’azione etica e alcuni concetti come la redenzione del male-materia inerte si prestino come fertile parallelo tra i due campi.
42Abbiamo già visto, citando lo scritto Il principio formante, come Buber mutui l’idea della forma latente nella materia osservando i torsi di Michelangelo a Boboli. Per Michelangelo (da notare come Buber faccia suo il modus operandi di un artista simbolo del Rinascimento) la scultura è l’arte che nasce “togliendo” e l’artista non inventa nulla, non ha in mente nulla di più prezioso di quanto già dimori nel marmo. Lo scultore lotta contro la materia per rubarle il suo segreto più intimo, la vita. Michelangelo, influenzato dal pensiero neoplatonico, vede l’artista come colui che libera le forme attraverso la propria mano: il lavoro dello scalpello è al servizio della rivelazione spirituale.
Chi di voi sia stato a Firenze ha certamente visto – in una grotta artificiale del giardino di Boboli in anni passati, ora in Accademia – i quattro torsi di Michelangelo in cui, in maniera memorabile, la forma è calata nella materia. Si sente come l’idea del maestro non abbia saputo vincere il blocco di marmo, ma si sente anche di non essere di fronte a un’insufficienza del fare artistico, bensì a una contrapposizione fondamentale […]; si sente che quelle sculture sono il documento di una lotta: la lotta fra il principio formante e il principio dell’informe, fra il principio che vuole plasmare e quello che non vuole lasciarsi plasmare. […] La vita dello spirito passa attraverso le sue guerre. […] Quella di cui parlo non è per me, nel suo fondamento ultimo, una contrapposizione tra uomini, bensì una contrapposizione interna a ogni anima umana. […] L’uomo della forma conduce la sua lotta non solo contro l’informe, bensì anche contro il suo immenso alleato, il regno della forma in decomposizione.61
Questa guerra, che sarà così compiutamente formulata soltanto pochi anni dopo nel testo sui torsi michelangioleschi, è la stessa che Buber già ravvisa nell’arte di Lesser Ury nel 1903:
Er will Eigentümlichkeit und Seelenbewegung des dargestellten Menschen in Farbennuancen auflösen. Aber die Wirklichkeit hält ihm hier zu viel Form und Begrenztheit entgegen. Der Einzelne, von der Umgebung abgetrennte Mensch hat feste, starre Linien, die sich nicht aufzehren lassen. Nicht als Farbe, sondern als Form hebt er sich vom Hintergrunde ab. Ury kämpft manchmal gegen diese Thatsache an, indem er dem Hintergrunde farbiges Leben zu verleihen sucht. […] Auch hier stellt sich ihm und seiner Idee die brutale Plastik des Individuums entgegen. Aber er besiegt sie, ohne sich über sie hinwegzusetzen: er verleibt sie dem unpersönlichen Milieu so innig ein, daß sie nachzugeben, sich zu lösen, zu verschmelzen beginnt. Die Konturen bleiben, aber ihre Geltung werschwinderdet. Die Menschen find nicht etwas anderes als alle Dinge, sie sind eingegliedert.62
Se la forma chiude l’individuo in quello che più tardi nella maturità Buber definirà come mondo ordinato dell’Esso, il colore è strumento di apertura: le figure dei quadri di Ury non si chiudono nella forma ma si stagliano sul paesaggio come gradazione di colore, fluidità vitale e movimento di relazione. Le tele di Ury offrono una «poiesis del reale» possibile grazie al carattere polare della coppia forma-informe. Sono in sostanza il tableau vivant della lotta insita in ogni uomo e soprattutto costituiscono l’esemplificazione chiara di ciò che nel pensiero dialogico sarà definito come il «duplice atteggiamento dell’uomo».63
43Vediamo così che il riferimento esplicito a Michelangelo, anche se successivo rispetto alla riflessione su Ury, testimonia l’interesse di Buber verso il tema rinascimentale del “non finito”. Potremmo anche aggiungere che è proprio il non finito michelangiolesco il supporto argomentativo della critica positiva del filosofo al colorista Ury. Per Michelangelo il non finito va letto nell’interpretazione della scultura: come l’uomo tende alla perfezione divina così le opere tendono a liberarsi della materia grezza, raggiungendo solo raramente uno stadio di completezza. Il non finito di Michelangelo è insomma allegoria della condizione umana e della sua condanna all’incompletezza. Per Buber questa idea si incarna nell’uso del colore di Ury che scioglie le forme e rende la reciprocità tra le cose: il colore apre alla relazione.
44Non è di nuovo un caso che nello stesso scritto sui torsi di Michelangelo Buber citi anche Geremia: il profeta era infatti uno dei soggetti preferiti di Lesser Ury e un suo quadro dedicato a questa figura biblica era stato incluso tra le opere esposte per il Quinto Congresso. Geremia vi compare ritratto mentre giace su una roccia con una postura inusuale: 64 sdraia-to sul fianco e con la testa appoggiata a una mano, nella solitudine più completa e sotto un immenso cielo blu notte. Il quadro ricevette un’accoglienza fredda per via del modo inusuale in cui era stata ritratta la celebre figura biblica e persino quei critici che di norma apprezzavano Ury rimasero interdetti. A spiegare e rivalutare la forza di quest’opera, con uno slancio vigorosamente nietzschiano e con tutto l’entusiasmo che abbiamo già ravvisato nei Fuochi della montagna, è proprio Buber nel saggio sul pittore:
Und nun sieht man ihn plötzlich ganz. Ein stiller, alter Mann liegt hier auf dem Boden. […] Auf seinem Barte wogt das Blau des Weltraumes. Seine Augen tragen eine ungeheure Frage in die grenzenlose Ferne hinaus. Sein Mund ist in sich verbissen; man sieht, er würgt an einem übermenschlichen Schmerz. Die Rechte stützt das grosse, in monumentalen Linien ausgehauene Haupt. Die Linke aber liegt lässig und doch wuchtig da, grossknochig, zerfurcht, titanenhaft, bis in die graue, straffe Haut von Seelenmacht durchbebt: die Hand eines Propheten und eines Revolutionärs. […] Da scheint es einem, als gruppierte sich das unnennbar reiche Blau der Nacht um diese wunderbare Hand, ja als schüfe sie es aus ihrer goldenen Wunscheskraft heraus […]. Der Starke, den der Herr zur festen ehernen Mauer wider sein Volk gemacht hat. Der Wandernde, der sein Haus hat verlassen müssen. Der Wissende, dem das Herz im Leibe pocht und der keine Ruhe hat, weil in der Friedenszeit seine Seele der Posaune Hall hört und eine Feldschlacht und einen Mordschrei über den anderen.[…] Der Verlassene, der unter Menschen in einem öden Land lebt und in der Tageshelle unter finsterem Himmel. Der Ehrliche und Ungebeugte, der den Herrschenden die Worte seiner Sendung ins Gesicht schleudert und ihrem Zorne Trotz bietet. Der Verketzerte und Misshandelte, der in den Stock gelegt und in den Kerker und in die Schlammgrube geworfen wird […] Der Leidenschaftliche, der sich zu Rachewünschen gegen die Vielzuvielen hinreißen lässt und dessen ganzes Herz doch am Volke hängt. Der Auserwählte, den der Herr betraut.65
Geremia è un eroe nel senso già visto di «uomo creativo», un eroe che ha fatto della lotta contro e per la forma la propria missione. Qual è la forma nella storia di Geremia? La forma verso la quale egli credette di dover guidare il proprio popolo per proteggerlo dall’assedio imminente, una forma “liberata” dal potere della fede. Buber spiega così molto chiaramente il nesso che intercorre tra il non finito michelangiolesco e le figure di Mosè e Geremia (sulla scorta dell’osservazione dell’opera di Ury):
Formare significa trasformare, e per questo la lotta formante è un processo che ricomincia sempre daccapo. L’uomo della forma conduce la sua lotta non solo contro l’informe, bensì anche contro il suo immenso alleato, il regno della forma in decomposizione. […] Gli uomini della forma vengono sconfitti nel corso empirico della vita. Non può essere altrimenti: ogni cosa che venga creata è, come quei torsi di Michelangelo, testimonianza della materia non vinta. Ma come nei torsi, la disfatta dello spirito è solo apparenza; vera è invece la sua vittoria. E in verità coloro che crollano, che vengono denigrati e lapidati, sono gli eterni vincitori dello spirito sopra il caos. Sopra il doppio caos: quello nudo e quello ammantato nella sua forma in decomposizione. […] Eternamente si ripete la sorte degli uomini della forma, la vittoria nella sconfitta […]. Così la vita del condottiero Mosè si fonda sul possente ritmo di un duplice movimento: l’emissario che cerca di creare, dalla massa inerte di servi inveterati, un popolo libero e unito; la massa incessantemente resiste all’idea formante e la aggredisce. […] Uno solo, Geremia, racconta la sua vita, e questa vita, con forza maggiore di quella di Mosè, enuncia la verità che la lotta per la forma in nessun luogo è stata grande e tragica come nell’ebraismo. […] Leggete come l’uomo Geremia contenda con i potenti e con il popolo, perché entrambi, potenti e popolo, resistono al suo imperativo, leggete come venga processato, legato e gettato nella cisterna.66
Così sono coloro che crollano, coloro che osano contravvenire alle regole del mondo nella purezza della propria missione, coloro che sono torturati e messi da parte, gli «eroi» che Buber pone lassù presso i fuochi della montagna, là dove si forma il nuovo ebreo. Lesser Ury, Geremia, Mosè sono alcune tra le figure che Buber adopera per chiarire il proprio pensiero sionista e religioso: la grande questione attorno alla creazione del regno di Dio si sostiene primariamente sul fare artistico, sulla capacità degli eroi di creare l’opera d’arte come popolo.
45Il quadro di Ury che Buber descrive con maggiore attenzione è di tema biblico ed è intitolato Gerusalemme. In quest’opera, della quale il filosofo conduce un’attenta analisi, sono ritratte nove figure di ebrei sedute su una panchina in riva al mare in un momento di riposo durante un viaggio. Quest’unica scena è per Buber «eterna», convoglia cioè tutta la storia e insieme il destino di un popolo intero. Il filosofo ripercorre la storia del quadro spiegando il delicato passaggio operato dal pittore dalle bozze iniziali alla tela definitiva: se nelle bozze del 1881 l’approccio di Ury poteva così essere definito «storico»67 (Ury aveva infatti progettato una scena d’azione a più personaggi e a più quadri sullo sfondo della distruzione del Tempio), nella tela definitiva era rimasto solo l’elemento della panchina e il quadro aveva così assunto una portata «monumentale» e «eterna».
46Secondo il filosofo, Ury ha superato l’idea della storia riducendo il tutto al solo elemento della panchina e conferendo un tratto quasi icastico ai nove personaggi immobili che vi siedono. Dopo una lunga disamina di ogni personaggio e dopo averne sottolineato il carattere «eterno» («Aus ihnen allen spricht Ewigkeit»), Buber azzarda inaspettatamente un ardito paragone con una delle opere più importanti del mondo occidentale, l’Ultima cena di Leonardo.68 Entrambe le opere secondo Buber hanno un aspetto comune: raccontano un episodio storico e i personaggi ritratti reagiscono ognuno a proprio modo a qualcosa che accade; in Leonardo reagiscono alle parole del Signore che annuncia il tradimento di Giuda, in Ury reagiscono a un «destino» che li coinvolge tutti.69 Leonardo insomma descrive la scena dal punto di vista della storia: la rivelazione (l’azione del Signore che parla) proviene dal personaggio centrale (e si noti che nel quadro tutti i personaggi sono infatti rivolti, attraverso lo sguardo o l’azione, verso di lui) e illumina di senso l’accadere storico. Nel quadro di Ury invece la prospettiva è «monumentale», manca del tutto un’azione (i personaggi ieratici paiono immobili come sospesi nell’eternità del loro destino) e la rivelazione è “auto-rivelazione” tutta contenuta nei «corpi di coloro che siedono e nello spazio circostante». Grazie alla particolare tecnica coloristica di Ury i personaggi sfumano nello sfondo e sono tutti orientati verso sinistra o verso destra: non è un caso che i due unici personaggi positivi siano orientati uno verso Est70 e l’altro verso Ovest71, come a indicare un dialogo, un confronto necessario, poi convogliato dal personaggio centrale. Quest’ultimo è una donna anziana, una matriarca che richiama tutto quell’Oriente e quel patrimonio sapienziale del passato che il filosofo aveva già tratteggiato in ottica femminile (si ricordi il «discendere alle madri» del saggio sui creatori).72 La donna sembra quasi esalare i suoi ultimi respiri: le guance sono scavate, la testa è abbandonata nelle mani, gli occhi sono spenti senza più lacrime da versare. Tuttavia i piedi sono agili e disegnano «linee nobili» e la mano appoggiata in grembo risplende di una luce simile a quella già vista in Geremia:
Aber die nackten, verkrümmten Füsse spannen sich dennoch in adeligen Linien, und die schmale feine Hand, die aus dem weiten Aermel herausragt, ist wie ein Zauberspiegel, in dem das neblige Bild einstiger Schönheit geblieben ist. Überhaupt haben diese Menschen Rassenhände, durchgebildet und durch seelt. Aber bei dieser Alten ist ein Schicksal darin. Dieser Hand Geschichte, die man von ihr abliest – wie sie so arm und so bedeutsam geworden ist – ist ein Accord der stillsten und größten Tragik. Oft legt Ury so das Unsagbare in die Formen einer edlen Hand. Ewigkeit…73
La prospettiva dell’eterno consiste in questa condizione di non azione in cui i personaggi siedono apparentemente immobili e non interagiscono se non tramite il loro proiettarsi nelle direzioni dello spazio circostante. Sono monumentali perché la loro non azione si rivela paradossalmente come vera azione, quella «auto-rivelazione» [Selbstoffenbarung] che viene contrapposta sottilmente da Buber alla rivelazione del Signore nell’opera di Leonardo. Di nuovo il filosofo sembra in realtà parlare di Occidente e Oriente e sembra riprendere quanto già detto a proposito di uomini sensori e motori. La prospettiva appare quindi rovesciata: gli ebrei ritratti da Ury sono apparentemente immobili ma sostanzialmente “motori” perché volgono all’azione mentre gli occidentali di Leonardo sono ritratti nell’azione storica e dunque rimangono passivi e in definitiva sono loro i veri immobili uomini “sensori”. Nell’ottica del giovane sionista questa preziosa e sottile disamina vuole ricondurre l’ebreo alla luce di quella mano «eterna» e «nobile» che non casualmente si rivolge verso Est, spezzando con la propria luce il buio e le nuances notturne di Ury, sia nella Gerusalemme sia in Geremia. Al centro del quadro di Ury c’è un unico punto luminoso, è una mano che sembra irradiare da sé tutta la luce dell’universo e seppure stanca e abbandonata, si rivolge tuttavia decisa verso l’unica vera azione possibile, la rivelazione da sé, l’invito di Buber all’ebreo del Galut.
47Occorre infine rilevare che Buber è molto preciso nella descrizione prossemica dei personaggi della Gerusalemme: questi ebrei siedono sulla panchina non gli uni con gli altri ma gli uni vicini agli altri. Sembra qui che il filosofo voglia cominciare a introdurre uno dei temi che negli anni a venire sarà un vero e proprio leitmotiv della sua opera: il tema della comunità e l’elevazione di quest’ultima a categoria messianica. I personaggi siedono ognuno con la propria storia e non interagiscono formalmente tra di loro mantenendosi invece in un sentimento di prossimità,74 una vicinanza possibile soltanto nella differenza individuale e attuabile tuttavia soltanto nella comunanza di un destino umano.
48L’opera d’arte è una tensione che si convoglia nell’anima di chi la guarda. L’opera non si offre a una ricezione passiva ma esige un incontro, una risposta: «anela a essere completata nell’anima dello spettatore […] È un incontro in cui lo spettatore o l’ascoltatore si impegna a terminare ciò che è stato lasciato come non detto dall’opera d’arte, a rispondere alle domande che essa pone, a intrecciare una relazione con essa, in breve, a entrare in dialogo».75
49Buber opera un rilancio dell’arte nella dimensione comunitaria, intesa come vero coronamento del processo creativo. Il non finito sembra coincidere con la sospensione della domanda e, essendo l’arte un modo di entrare in relazione, richiede una continua assunzione di responsabilità nella risposta e un continuo rinnovamento della relazione. Non a caso Buber definisce le opere d’arte ebraiche come una serie di «fatti viventi». L’arte è nel suo farsi. La relazione è evento e riempie il tempo di significato. Il colore è processo, trasformazione. La storia di colui che crea è la storia di colui che intuisce il suono di cui il «mondo ordinato»76 è confusa partitura: «Di questi attimi non se ne può trattenere alcun contenuto, ma la loro potenza entra nella creazione e nella conoscenza dell’uomo, vampate della loro potenza penetrano nel mondo ordinato e ripetutamente lo dissolvono».77
50Buber accetta esclusivamente una figura d’uomo come di un essere che è sempre in rapporto con l’altro da sé, inteso come Dio ma prima di tutto come mondo. La critica di Buber a Kierkegaard fa leva non a caso proprio sul fatto che quest’ultimo esclude dall’orizzonte della relazione umana il mondo, privilegiando invece il rapporto con Dio. La relazione tra gli uomini è per Buber la porta maestra e l’immagine della relazione con Dio, così come la creazione di Dio è immagine della creazione artistica. La comunità diventa per Buber categoria messianica e dunque costituisce il luogo dove realizzare l’eternità. La redenzione avviene non al di là della storia o alla fine dei tempi ma nel qui e ora, si manifesta nell’azione umana persino nella più quotidiana e modesta:
All’uomo occidentale secolarizzato Buber propone […] la santificazione della vita e del mondo, la capacità di vedere in ogni attimo e in ogni cosa, anche nella più quotidiana, anche nella più vile, anche nel male, una scintilla della presenza di Dio; la scelta e la decisione di assumere questa scintilla di santità dispersa e di riunificarla attraverso se stessi alla fonte di ogni luce, all’Unità divina. […] L’inizio di essa, l’intenzione attiva e operosa della redenzione di sé e del mondo, è affidata all’uomo, alla sua stupenda e terribile libertà di decidersi e quindi di decidere anche per il mondo, alla sua libertà di rispondere o meno all’appello divino, alla sua responsabilità nel dialogo con Dio, che passa per il dialogo con gli altri uomini e con il mondo.78
Per Buber non si apre alcun abisso tra immanenza e trascendenza: Dio è il luogo del mondo e tuttavia non si risolve nel mondo. Buber evita da una parte qualsiasi immanentismo panteistico e dall’altra qualsiasi trascendentalismo: Dio non è il mondo e Dio non è fuori dal mondo, vi abita. Il mondo è sacramento79 di Dio.
51Il nostro tempo è, per il filosofo, dominato dall’eclissi di Dio, il quale resta celato ai nostri occhi per l’ingigantirsi della massa dell’esso. Brancoliamo nel buio poiché la nostra vita è un pugno di frantumi di conoscenze utili ed esperibili e, affinché ci sia una nuova alba e i nostri occhi possano di nuovo aprirsi nella luce di Dio, è necessaria una trasformazione. Considerato che la relazione tra gli uomini è «immagine propria della relazione con Dio», la trasformazione deve attuarsi tra gli uomini, nella comunità. L’attenzione che Buber dedica al discorso sull’arte va collocata proprio al centro della questione dell’uomo, come modalità di trasformazione, del singolo e della comunità.
52Come si è visto parlando della strategia coloristica di Ury, la via della trasformazione parte dall’uomo tout court e dal suo relazionarsi con il mondo. Per il Buber del primo decennio del Novecento, una trasformazione è già in atto e coincide con il movimento sionista. È da qui che infatti si snoda la riflessione sull’uomo nuovo come «uomo creativo». Se gli intellettuali perdono di vista la realtà, hanno «troppa logica e troppo poco mistero», è vero anche che l’uomo nuovo non è nemmeno l’artista genericamente inteso, poiché troppo interessato al creare e poco al divenire. Troppo impegnato a comunicare qualcosa, non cerca oltre il linguaggio una dimensione più intima sulla soglia della parola. L’uomo nuovo è allo stesso tempo intellettuale e artista, è il tendine tramite il quale il fascio di nervi dell’organismo si contrae e lavora, con una reazione ambivalente al processo centrale. Immaginazione e volontà: «gli uomini creativi sono gli uomini forti e distinti in cui l’attività umana fluisce tutta insieme per crescere nello spirito e nell’atto».80
53L’artista, e dunque pure l’attore, si presta come “prototipo” dell’uomo nuovo. Attore inteso come colui che lavora su di sé, che lavora contro se stesso per se stesso, colui che abbatte i muri della comunicazione e si inerpica sulla soglia dell’indicibile. Il teatro è qui inteso non come campionario di storie, bensì come composizione etica del mondo. È come l’uomo nuovo, colui che «produce cose che sono completamente avanti e oltre tutti i linguaggi e che possono solo indirettamente colpire gli altri».81 E il teatro, inteso etimologicamente come il “luogo dal quale si guarda”, è dove si mette a distanza il mondo per incontrarlo, per ri-conoscerlo e ri-conoscersi. Studiare il pensiero tea-trale di Buber può avere un senso solo se per teatro si intende un modo di stare al mondo. Luogo di incontro-scontro, luogo nel quale parliamo per la prima volta, il teatro può essere anche la vita, senza sipari di velluto rosso e senza il rumore dei passi che calcano le tavole della ribalta.
54Interrogazione dell’assente è sinonimo di studio del teatro. Affinché non si riveli un’impresa futile, lo studio di un fenomeno così anomalo come quello tea-trale deve necessariamente riprodurre la stessa dinamica che lo suscita, ovvero l’interrogazione dell’uomo, sostituto complesso di quell’assente negato di prima.
Notes de bas de page
1 «Da quando ho maturato una vita a partire da mie esperienze personali […] ho riconosciuto come mio dovere inserire la trama delle mie esperienze decisive che accaddero allora nel patrimonio del pensiero umano, non in qualità di “mie” esperienze, ma piuttosto come una visione che poteva avere un valore ed essere importante anche per altri, ed anche per uomini di genere completamente diverso rispetto a me» (M. Buber, Un resoconto filosofico cit., p. 39).
2 «Ho in più occasioni descritto il mio pensiero agli amici come uno “stretto crinale”. Voglio con questo esprimere il fatto che non mi sono messo a riposare sulla cima di un sistema che include una serie di affermazioni certe riguardo l’assoluto, ma che sono rimasto su uno stretto crinale roccioso tra due golfi, dove non c’è nessuna certezza di una conoscenza dicibile ma solo la certezza di un incontro con ciò che resta nascosto» (M. Buber, Between man and man, Routledge, London-New York 2003, p. 184). È stato Maurice Friedman a cogliere l’importanza di questa immagine chiarendo in che modo esprima una sorta di «santa insicurezza» e non una sana media misura che invece ignora i paradossi e le contraddizioni della vita per garantire una fuga salvifica (cfr. M. Friedman, The narrow ridge, in Id., Martin Buber. The life of dialogue, Routledge and Kegan Paul, London 1955, pp. 3-12).
3 M. Buber, Replies to my critics, in Id., The philosophy of Martin Buber, a cura di M. Fried-man e Paul Arthur Schilpp, Open Court, La Salle (Illinois) 1967, p. 689.
4 Ibid.
5 M. Buber, Between man and man cit., p. 138, corsivo nostro.
6 Cfr. M. Buber, Elie Wiesel, Elia (1963), presentazione di Paolo De Benedetti, Gribaudi, Milano 1998.
7 M. Friedman, What is man?, in Id., Martin Buber. The life of dialogue cit., p. 80.
8 M. Buber, Das Gestaltende, «Der Jude», i, 1916-17, pp. 68-72 ora in italiano in M. Buber, Il principio formante. Dopo un discorso (1912), in Id., Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo e sul sionismo (1899-1923) cit., pp. 92-98, corsivo nostro. Fino a nuova indicazione le citazioni sono tratte dallo stesso saggio.
9 M. Buber, Religiosità ebraica (1914), in Id., Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo e sul sionismo (1899-1923) cit., p. 193. Sul rapporto tra religiosità e religione e sull’influsso di Simmel si veda l’accurata monografia di F. Ferrari, Religione e religiosità. Germanicità, ebraismo, mistica nell’opera predialogica di Martin Buber cit.
10 M. Buber, Il rinnovamento dell’ebraismo (1910), in Id., Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo e sul sionismo (1899-1923) cit., p. 145. Fino a nuova indicazione le citazioni sono tratte dalla stessa fonte.
11 M. Buber, Io-Tu cit., pp. 65-66.
12 Cfr. M. Friedman, Martin Buber and the Theatre cit.
13 Cfr. A. Attisani, Smisurato cantabile, Edizioni di Pagina, Bari 2009; Jennifer Lavy, Theoteritical foundations of Grotowski’s total act, Via negativa, and Conjunctio oppositorum, «The journal of Religion and Theatre», iv, Autunno 2005; Richard Schechner, A Polish Catholic Hasid, in Aa. Vv., The Grotowski Sourcebook, a cura di R. Schechner e Lisa Wolford, Routledge, London-New York 1997.
14 Cfr. M. Gallucci, Nostalgia di Orfeo cit., pp. 317-328.
15 Ivi, p. 319.
16 M. Buber, La Duse a Firenze (1905) e Tre ruoli di Novelli (1906), infra, pp. 215-228.
17 Ci si riferisce a Verkündigung (L’Annuncio a Maria), spettacolo diretto da Paul Claudel per l’inaugurazione della Società drammatica di Hellerau nel 1913. Buber e altri collaboratori disertarono la prima in segno di protesta (cfr. cap. iv).
18 M. Buber, Verbale del V Congresso sionista a Basilea (1901), in Id., Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo e sul sionismo (1899-1923) cit., p. 12. Le citazioni seguenti fino a diversa indicazione sono tratte dallo stesso discorso.
19 È utile cominciare a rilevare fin d’ora in che misura il sionismo culturale buberiano si distingua e si contrapponga alla corrente maggioritaria di Theodor Herzl, l’allora capo del movimento. La prospettiva di Herzl era secolare e laica, sostanzialmente quella tipica di un ebreo assimilato. In occasione del Quinto Congresso Buber tiene una relazione in sostegno dell’arte ebraica, ribadendo l’imprendiscibilità di un’educazione estetica del popolo e formulando una serie di proposte concrete in campo artistico e culturale. Sebbene il discorso sia accolto con clamore e applusi, Herzl vi si sofferma solo per alcuni istanti ignorando le richieste e procedendo con l’ordine del giorno. La guida di Herzl può sostanzialmente essere considerata come una strategia politica tout-court che nulla ha a che vedere con il Kulturzionismus del giovane Buber (cfr. M. Buber, Frühe jüdische Schriften 1900-1922. Werkausgabe, iii, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2007). Basti ricordare in proposito qualche frammento del breve manifesto sionista di Herzl: «Il popolo, ovunque, è soltanto un grande bambino che chiunque è in grado di educare. Ma, anche nelle condizioni più favorevoli, la sua educazione richiederebbe tempi così lunghi che… possiamo cavarcela più in fretta e in altro modo» (T. Herzl, Der Judenstaat, 1896, Loewitt Verlag, Vienna 1933, p. 14). Per una sintetica presentazione della figura di Herzl si veda la nota 31 del cap. I. Per approfondire la questione sulle dinamiche all’interno del movimento sionista e sulla figura di Herzl si veda Carl E. Schorske, La politica in una nuova chiave: un trittico austriaco, in Id., Vienna fin de siècle. Politica e cultura, Bompiani, Milano 1981, pp. 109-167. Buber dedicò inoltre due importanti scritti alla figura di Theodor Herzl: M. Buber, Theodor Herzl, «Freistatt» vi/29, 23.7.1904, pp. 593-596; M. Buber, Herzl und die Historie, «Ost und West», iv/8-9, agosto-settembre 1904, col. 583-594.
20 La lettura di Nietzsche rappresenta una costante irrinunciabile nell’iter culturale di Buber. Era stato proprio Nietzsche, sulla scorta di Burckhardt, a insistere sul significato del Rinascimento italiano, influenzando con L’anticristo del 1888 un’intera generazione di intellettuali e artisti di fine secolo. A soli diciassette anni Martin Buber decise di tradurre in polacco Così parlò Zarathustra e poi, quando seppe che un eminente poeta aveva già iniziato lo stesso lavoro, nonostante la proposta di una collaborazione, abbandonò il progetto. Quando adolescente studiava a Leopoli, Buber era solito a portare ogni giorno in classe alcuni testi di Nietzsche. Secondo Friedman e Mendes-Flohr, Buber introdusse una prospettiva nietzschiana nel movimento sionista. Al filosofo di Röcken, Buber dedica lo scritto Zarathustra (1896/97) e il necrologio Ein Wort über Nietzsche und die Lebenswerte (1900).
21 M. Buber, Address on Jewish Art, in Id., The first Buber: youthful wrintings of Martin Buber cit., p. 46.
22 Della stessa generazione di Herzl, Achad Ha-am (1856-1927, “uno del popolo”, pseudonimo di Asher Ginzberg) era una personalità di spicco del sionismo spirituale dell’Europa orientale, lavorava già dagli anni Ottanta alla definizione del movimento nazionale ebraico in direzione palestinocentrica. Al sionismo politico di Herzl, Ha-am opponeva un movimento culturale basato sull’educazione del singolo ebreo, sulla definizione di un’identità nazionale e su una rigenerazione culturale di matrice illuminista radicata nella tradizione haskalica. Nonostante la posizione decentrata di Achad Ha-am, le sue idee vennero accolte e riformulate anche in Occidente proprio grazie all’ala “democratica” del sionismo (Demokratische Fraktion) e dunque grazie al lavoro di Martin Buber. A Achad Ha-am il nostro filosofo dedica diversi scritti, come Die Lehre von Zentrum (über Achad-Haam); Vertrauen (zu Achad-Haams 70. Geburtstag); Der Wägende (zu Achad-Haams 60. Geburtstag); Achad-Haam Gedenkrede in Berlin; Achad-Haam Gedenkrede in Basel, tutti pubblicati in M. Buber, Der Jude und sein Judentum, Gesammelte Aufsätze und Reden, Lambert Schneider, Gerlingen 1993.
23 Asher D. Biemann, The problem of Tradition and Reform in Jewish Renaissance and Renaissancism, «Jewish Social Studies», viii, 1, Fall 2001, pp. 58-87.
24 L’Haskalah è anche detta “illuminismo ebraico” (la cui radice in ebraico è la stessa di sekel, che significa «mente, intelletto, cervello») e si diffonde nelle comunità ebraiche tedesche a partire dal xviii secolo per poi estendersi alla Galizia polacca e infine in Russia (all’incirca a metà del secolo successivo). L’Haskalah si sviluppa molto di più in Europa occidentale e solo in modo elitario in quella orientale e vanta tra i suoi esponenti anche Salomon Buber, nonno di Martin e figura fondamentale nella biografia e nel pensiero religioso del nostro filosofo.
25 Nel 1908 Buber ricevette una lettera da Leo Hermann che lo invitava a tenere alcuni discorsi presso l’associazione di cui era presidente, Bar Kochba. Si trattava di un circolo universitario ebraico fondato da Hugo Bergmann e frequentato anche dai quattro del cosiddetto Circolo di Praga ristretto, Max Brod, Franz Kafka, Felix Weltsch e Oskar Baum. Dalle lettere di Kafka sembra che lo scrittore fosse presente, in compagnia di Brod, in occasione del terzo discorso di Buber (Die Erneuerung des Judentums) del dicembre 1910 e poi nel 1913 sembra che avesse incontrato direttamente Buber dopo il discorso sul Mito degli ebrei. Tra gli interventi tenuti a Praga, le prime tre Reden tra il 1909 e il 1910 e le altre tre Reden tra il 1912 e il 1915, ricordiamo i già citati Il rinnovamento dell’ebraismo (1910) e Religiosità ebraica (1914). L’influenza del sionismo buberiano presso il circolo praghese è indiscussa ed è stata magistralmente argomentata da Giuliano Baioni in Kafka. Letteratura e ebraismo, Einaudi, Torino 1984, pp. 3-36.
26 Jizchak Löwy (1887-1942), attore polacco che Kafka conobbe nel 1911 a Praga e con cui strinse amicizia. Sui rapporti tra i due si rimanda alla lettura di Guido Massino, Fuoco inestinguibile. Franz Kafka, Jizchak Löwy e il teatro yiddish polacco, Bulzoni, Roma 2002; G. Baio-ni, Kafka. Letteratura e ebraismo cit., pp. 37-62.
27 Lettera di Franz Kafka a Martin Buber, 28 giugno 1917, citata in The letters of Martin Buber. A life of dialogue, a cura di Nahum N. Glatzer e P. Mendes-Flohr, Syracuse University Press, New York 1996, pp. 219-220.
28 Le province ceche di Boemia, Moravia e Slesia erano entrate a far parte dell’impero asburgico, insieme al Regno d’Ungheria, nel xvi secolo. Quando nel 1867 all’Ungheria fu concessa una condizione di parità con l’Austria, i cechi si sentirono traditi dal governo centrale e cominciarono a reclamare lo stesso diritto. Nel momento in cui la loro guida venne assunta dai più radicali Giovani cechi, essi ritornarono al Reichsrat, che era stato abbandonato dai delegati precedenti, per chiedere che la lingua ufficiale divenisse il ceco e che venisse concessa maggiore autonomia alle province. Kazimierz Badeni, divenuto presidente del Consiglio e ministro degli Interni austriaco, dovendo trovare la maggioranza in Parlamento per far approvare la revisione decennale del compromesso con l’Ungheria, e allo scopo di garantirsela, si rivolse ai Giovani cechi, i quali chiedevano in cambio il riconoscimento ufficiale della loro lingua nelle province. Egli cercò di risolvere l’annoso problema ceco, presentando al Reichsrat nel 1897 due ordinanze atte a equiparare la lingua ceca a quella tedesca nelle province in questione. Queste proposte scatenarono un violento dissenso all’interno del Parlamento, soprattutto presso l’ala più intransigente legata al pangermanesimo e vennero dunque respinte. Badeni fu costretto a dimettersi e le tensioni in Parlamento proseguirono fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. Alla conclusione del conflitto, le province ceche poterono finalmente ottenere la tanto agognata autonomia tramite l’unificazione con la Slovacchia.
29 «Non per nulla un noto studioso americano della storia del sionismo ha scritto recentemente che il Bar Kochba praghese rappresenta l’esempio più stupefacente del carattere tedesco o addirittura teutonico del cultursionismo mitteleuropeo» (G. Baioni, Kafka. Letteratura e ebraismo cit., p. 30).
30 Lettera di Kafka a Buber, 11 maggio 1915, ivi, p. 31.
31 Fondatore del movimento sionista nel 1897, elaborò un vero e proprio manifesto del sionismo in Der Judenstaat (1896). Herzl rimase a capo del movimento fino alla morte avvenuta nel 1904 e se la sua figura può essere messa in parallelo con quella dell’allora capo del movimento sionista russo (Chibbat Zion) Yehudah Leib Pinsker, la posizione cultursionista di Buber deve essere pure ricondotta a quella del più grande successore e polemizzatore di Pinsker, il russo Achad Ha-am. Per un ulteriore approfondimento sul sionismo russo si rimanda a Lorenzo Cremonesi, Dall’assimilazione all’autoemancipazione. Le origini del movimento sionista, in Id., Le origini del sionismo e la nascita del kibbutz (1881-1920), Giuntina, Firenze 1985, pp. 55-130.
32 L’ala democratica si era costituita a ridosso del Quinto Congresso del 1901 quando una quarantina di delegati si erano stretti attorno a Chaim Weizmann (futuro primo presidente dello Stato d’Israele), Leo Motzkin e Martin Buber e avevano cominciato a formulare proposte in opposizione alla politica della dirigenza sionista (cfr. cap. iii). L’episodio relativo allo scontro con Herzl è ben sintetizzato in M. Friedman, Martin Buber’s Life and Work cit., p. 66.
33 M. Buber, Incontro (1986), Città Nuova, Roma 1994, p. 58.
34 La differenza tra «persona» e «individuo» è cruciale nell’opera di Buber. La partecipazione alla relazione, nella filosofia dialogica, rende l’io consapevole di non essere individuo ma persona. Mentre l’individuo, infatti, non è partecipe di alcuna realtà, argomenta Buber, la persona è in un legame costitutivo con gli altri, si delinea nella relazione. Questa distinzione terminologica è ancora più convincente se si pensa che persona è etimo latino di maschera, che per sua natura richiama la proiezione verso l’esterno, evoca l’essere-per-l’altro (cfr. M. Buber, Io-Tu cit., pp. 103-105).
35 A. Attisani, Smisurato cantabile cit., p. 130.
36 M. Buber, Theodor Herzl, in Id., Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo e sul sionismo (1899-1923) cit., p. 58. Le citazioni seguenti sono tratte dalla stessa fonte, enfasi nostra.
37 «Con una bandiera è possibile mettersi alla testa degli uomini e condurli ovunque si voglia, persino nella Terra Promessa. […] Una bandiera è la sola cosa per la quale gli uomini sono pronti a morire in massa, se qualcuno li trascina in massa» (T. Herzl, Der Judenstaat cit., p. 95).
38 M. Buber, Theodor Herzl cit., p. 56.
39 M. Buber, I creatori, il popolo e il movimento, in Id., Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo e sul sionismo (1899-1923) cit., p. 41.
40 «Visto che a una fiamma ne segue un’altra; la loro luce illumina prima il significato del passato, poi l’immagine orribile del presente. Si sta forgiando un programma umile: masse disperse sono riversate a creare una forma solida, gli strumenti dell’azione vengono innalzati attraverso la fatica e l’ardore, e lo spirito creativo del futuro vive nelle parole dell’amore creativo che vengono scambiate. Creo dunque sono: questo annunciano i fuochi di montagna a coloro che hanno poca fede» (M. Buber, Bergfeuer. Zum fünften Congresse, «Die Welt», v, 35, 30 agosto 1901, pp. 2-3). Fino a nuova indicazione tutte le citazioni sono tratte da questa fonte, corsivo e traduzione nostra.
41 Claudia Sonino, Esilio, diaspora, terra promessa: ebrei tedeschi verso est, Mondadori, Milano 1998, p. 87.
42 A differenza di Herzl, che identificava la questione ebraica con la lotta all’antisemitismo, per Buber essa rappresenta la questione interna e propria dell’ebraismo e si può elevare universalmente alla crisi dell’uomo occidentale (cfr. M. Buber, Il problema dell’uomo, 1943, cit.).
43 M. Buber, Bergfeuer. Zum fünften Congresse cit., p. 35.
44 Elisha ben Abuja, nato a Gerusalemme prima del 70 d.C., era un maestro della Legge, uno studioso di filosofia greca che secondo alcuni abbandonò l’ortodossia religiosa. Considerato eretico, gli fu attribuito il nome di Acher [diverso] e venne messo al bando da tutta la comunità. Buber riprende questa figura in un ciclo di poesie Zwei Tänze. Aus dem Cyklus Elisha ben Abuja, genannt Acher, in B. Feiwel (a cura di), Junge Harfen. Eine Sammlung jungjüdischer Gedichte, Jüdischer Verlag, Berlin 1903, pp. 31-33. La versione inglese si trova inoltre in M. Buber, Elisha ben Abuja, called Acher, in Id., The First Buber cit., pp. 129-132. Tutte le citazioni, fino a nuova indicazione, sono tratte dalla stessa fonte. Il rifiuto di Elisha, la sua ribellione verso la sordità della Legge e la condizione di solitudine e d’incomprensione che caratterizzano questa figura affascinarono pure Franz Kafka, il quale s’ispirò probabilmente all’apostata per tratteggiare il personaggio dell’agrimensore K. nel Castello (cfr. Elisha Ben Avuyah, in G. Massino, Fuoco inestinguibile cit., pp. 41-46).
45 M. Buber, Die Flamme – Aus dem Zyklus “Acher”, «Ost und West» ii, 8, giugno 1902, p. 369.
46 «La più grande testimonianza della vita è la creazione e la forma più diretta di creazione è l’arte».
47 Buber spiega l’iniziativa in Eine jungjüdische Bühne, «Die Welt», v, 45, 8 novembre 1901, pp. 10-11.
48 Habima [Habimah, la scena] fu fondata da Nahum Zemach nel 1909 a Białystok, città nel nord della Polonia. La compagnia, spostata prima a Varsavia e poi, nel 1915, a Mosca, ricevette appoggio e patrocinio da Stanislavskij. La sua storia è piuttosto travagliata (si rimanda per questa alle memorie di Raikin Ben-Ari, Habima, pref. di Harold Clurman, Thomas Yoseloff, New York-London 1957) e qui ci limitiamo a ricordare che la scelta della lingua ebraica (lingua peraltro scelta dal futuro Stato d’Israele) e non dell’yiddish, colloca l’Habima nel cuore degli ambienti ebraici più conservatori e ortodossi. La produzione tea-trale di Habima contempla lavori importanti come Il Dybbuk (tradotto dall’yiddish da Chaim Nachman Bialik) del 1922 con la regia di Vachtangov. Anche dopo la collaborazione con il celebre allievo di Stanislavskij, nonostante si dovesse per ogni spettacolo trovare un nuovo regista e un testo opportuno, ci furono buoni lavori (come Il diluvio di Henning Berger) anche se sempre segnati da proposte discordanti e discussioni all’interno del gruppo guidato da Zemach. Molti degli attori si dispersero così nel corso dell’ultima tournée del 1926-7, chi a Berlino, e chi, come Zemach, negli Stati Uniti. Qui, non appoggiati dalle élite ebraiche, i membri di Habima non ebbero grande fortuna mentre coloro che decisero di andare in Palestina poterono invece costituire il Teatro Nazionale del nuovo Stato. Per un approfondimento sul teatro ebraico, e in particolare sul versante sovietico in questi anni e sul Goset (teatro ebraico in lingua yiddish), si rimanda al dettagliato lavoro di Picon-Vallin (Béatrice Picon-Vallin, Le Théâtre juif soviétique pendant les années vingt, L’Age d’Homme, Lausanne 1973) e soprattutto al più recente studio di Attisani (A. Attisani, Solomon Michoels e Veniamin Zuskin. Vite parallele nell’arte e nella morte, Accademia University Press, Torino 2013). Martin Buber scrive nel 1929 un breve articolo in cui invita Habima a non fossilizzarsi sugli spettacoli ebraici bensì ad allargare il proprio repertorio accogliendo testi stranieri (Kleist, Schiller fra gli altri). In questo scritto, che pubblichiamo per la prima volta in italiano in coda al volume, è evidente la modalità con cui Buber si avvicina alla tradizione: essa non viene per nessun motivo considerata come un tesoro da proteggere e custodire ma come un fondamento vivente che necessita dunque continuamente di una riformulazione.
49 M. Buber, Address to Jewish Art cit., pp. 47-49.
50 Cfr. Aa. Vv., Jüdische Künstler, a cura di M. Buber, Jüdischer Verlag, Berlin 1903.
51 Originariamente Buber scrisse questo saggio per la rivista «Ost und West» nel 1901, poi lo riprese qualche mese dopo per «Die Welt» e infine gran parte del materiale confluì in un più esteso saggio all’interno del volume del 1903 dedicato ai sei artisti ebrei. Entrambe le versioni sono consultabili anche in inglese nell’edizione curata da G. G. Schmidt (M. Buber, Lesser Ury, in Id., The art and the artists of the fifth Zionist congress, 1901. Heralds of a new age cit., pp. 65-86).
52 La versione della maggior parte dei critici dell’epoca è che Ury producesse opere dilettantesche e che fosse incapace di limitare i contorni delle forme annegando i contorni delle figure nel colore: «What shall happen to German art if we tolerate such scrawling in her hollowed halls! No trace of correctness in the lines, of harmony in the composition, of harmony in colour schemes, of the genuine immortal beauty of old masters!» (Adolphe Donath citato nell’esauriente volume di G. G. Schmidt, cit., pp. 120-150). Si rimanda sempre al volume citato per eventuali approfondimenti sulla figura di Lesser Ury e sul difficile rapporto del pittore con la città di Berlino.
53 Nell’introduzione a Jüdische Künstler, [Artisti ebrei, in M. Buber, Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo e sul sionismo (1899-1923) cit., pp. 44-49] il filosofo si riferisce direttamente a Wagner: «Ancora Richard Wagner poteva negare alle doti di intuizione sensibile degli ebrei la facoltà di generare pittori e scultori». Le basi dell’antisemitismo artistico e culturale erano già dunque state autorevolmente tracciate da Wagner nel 1850 con il libello Das Judentum in der Musik [L’ebraismo nella musica] in cui si dichiarava che l’ebreo non era capace di vera creatività poiché estraneo alle radici dell’anima tedesca, sola condizione in grado di produrre arte genuina, cioè tedesca. Nella visione di Wagner l’ebreo era capace soltanto di una sterile imitazione e agiva da parassita non solo nella sfera economica ma anche in quella culturale.
54 Adhir Cohen, Aesthetic education and Buber’s thought, «Journal of Aesthetic Education», xiv, 1, gennaio 1980, p. 69.
55 «Solo ora la legge religiosa diventa onnipotente. Il corpo umano è spregevole. La bellezza è un valore sconosciuto. Guardare è peccato. L’arte è peccato. […] L’educazione delle generazioni ha luogo esclusivamente come strumento della legge. Ogni creatività viene soffocata nel suo primo divenire» (M. Buber, Artisti ebrei cit., p. 47). Le citazioni seguenti fino a diversa indicazione sono tratte dalla stessa fonte.
56 «Il chassidismo è la nascita del nuovo ebraismo. Il corpo umano diventa il prodigio del mondo, la bellezza sgorga da Dio, guardare significa congiungersi a Dio. La legge non è scopo della vita; scopo della vita è l’amore. Fine dell’uomo è essere egli stesso legge» (Ibid.).
57 «Unisci un essere a tutti gli esseri, e ottieni ciò che gli è davvero proprio. Metti un individuo nel mondo, i muri cadono, le rigidità si dissolvono, l’anima si sveglia, il grande Pan è nato di nuovo. L’artista usa il colore per questo proposito. La forma separa, il colore unisce» (M. Buber, Lesser Ury, versione da «Die Welt» cit., pp. 45-46, traduzione nostra).
58 «È un estatico. Dioniso vive in lui» (Ibid.)
59 Secondo Giorgio Colli il termine estasi compare in Grecia nel quarto secolo a.C. e indica «un’anomalia fisiologica, in quanto allontanamento, distacco dalle regole naturali» (G. Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 1981, p. 61).
60 «Un momento in cui centinaia di flussi vitali si uniscono – questo è il paesaggio di Ury» (M. Buber, Lesser Ury cit., p. 46, traduzione nostra).
61 M. Buber, Il principio formante. Dopo un discorso (1912) cit., p. 92, corsivo nostro.
62 «Vuole dissolvere l’unicità e i moti dell’anima dell’essere rappresentato in sfumature di colore. Tuttavia la realtà gli si oppone con troppa forma e limitazione. L’individuo, staccato dall’ambiente, ha linee rigide e decise che non si lasciano dissolvere. Non si staglia dallo sfondo come colore, ma come forma. Spesso Ury combatte questa realtà conferendo una vita colorata allo sfondo. […] Anche qui a lui e alla sua idea si contrappone la bruta forma di ciò che è individuale. […] (Ury) domina la materia senza trascurarla, la integra in modo così completo sullo sfondo impersonale che essa comincia a cedere, a dissolversi e a fondersi. I contorni rimangono ma il valore scompare. Gli uomini non sono diversi da tutte le altre cose, sono integrati» (M. Buber, Lesser Ury cit., pp. 46).
63 «Il mondo ha per l’uomo due volti, secondo il suo duplice atteggiamento. L’atteggiamento dell’uomo è duplice per la duplicità delle parole fondamentali che egli dice. Le parole fondamentali non sono singole, ma coppie di parole. Una di queste parole fondamentali è la coppia Io-Tu. L’altra parola fondamentale è la coppia Io-Esso. […] E così anche l’io dell’uomo è duplice» (M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi cit., p. 59).
64 «Circa venticinque anni fa stavo male. Non ne potevo più di lottare contro l’irragionevolezza e l’egoismo umano […] trovai consolazione nella Bibbia… così ebbi l’idea di dipingere Geremia. Si pose la questione di come dipingerlo, se mentre camminava, sedeva o mentre stava in piedi. Mi ricordavo sempre della figura seduta creata da Michelangelo… Poi qualcosa di meraviglioso accadde… Un pomeriggio tardi me ne stavo sul divano dello studio […] Diventava sempre più buio… Improvvisamente guardai in alto… Vidi nello specchio la mia figura prostrata sul divano. In quel momento seppi che quella sarebbe stata la postura del mio Geremia, sdraiato su un immenso sfondo scuro» (Ury citato in G. G. Schmidt, The art and the artists of the fifth Zionist congress, 1901. Heralds of a new age cit., pp. 140-141).
65 «E ad un tratto lo si vede chiaramente. Un vecchio che giace in terra quieto. […] Dalla sua barba fluttua il blu dell’universo. I suoi occhi rivolgono alla distanza infinita una domanda enorme. La sua bocca è ostinata e lui si soffoca in un dolore sovraumano. La mano destra sostiene la grossa testa scolpita con linee monumentali. La mano sinistra giace abbandonata eppure poderosa – con le ossa robuste, ben tornita, gigante e infusa di spirito che illumina la pelle grigia e tesa – la mano di un profeta e di un rivoluzionario. […] Ci sembra come se l’indicibile blu della notte si annidi tutto in questa mano meravigliosa, come se la mano stessa creasse quel blu dal proprio potente desiderio dorato. […] È colui che è forte, colui che il Signore ha fatto diventare un imponente muro di ferro contro il popolo. Il vagabondo che ha dovuto lasciare la propria casa. È colui che sa, colui il cui cuore pesa nel petto e colui che non trova riposo perché in tempo di pace la sua anima sente il suono delle trombe, il grido di battaglia e un omicidio dopo l’altro […]. È colui che è abbandonato ma vive tra gli altri in una terra desolata nella luce del giorno sotto un cielo scuro. È colui che è onesto e retto, colui che scaglia in faccia ai sovrani le parole della propria missione e che resiste alle loro ire. È colui che è stigmatizzato e maltrattato, messo alla gogna, incarcerato e gettato in una fossa di fango […]. È colui che è guidato dalla passione, che si lascia spingere dalla vendetta nei confronti delle masse ma è colui il cui cuore è appeso al popolo. È colui che è stato scelto, colui che il Signore tiene in benevola considerazione» (M. Buber, Lesser Ury cit., pp. 80-81, traduzione nostra).
66 M. Buber, Il principio formante. Dopo un discorso (1912) cit., pp. 93-94.
67 «Il passaggio interiore da queste bozze al quadro è il passaggio dallo storico al monumentale. Lo storico presenta un momento nella storia mentre il monumentale presenta l’eternità in un momento» (M. Buber, Lesser Ury cit., p. 50, traduzione nostra).
68 Con questo audace riferimento, Buber adoperava uno dei mezzi propri della strategia comunicativa sionista e cioè il paragone con il mondo cristiano. Si ricorreva infatti spesso a quest’ultimo nella convinzione che il lettore sarebbe stato in grado di riconoscere il mondo ebraico solo in opposizione a quello cristiano. Occorre ricordare qui come la critica a questo tipico atteggiamento sionista fosse un costante argomento di Kafka a partire dal suo abozzo di recensione a Die Jüdinnen (1916) di Max Brod (cfr. Franz Kafka, Diari – 1911, in Id., Confessioni e Diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1972, pp. 163-164).
69 «In dem anderen auf das über ihnen allen ausgespannte eine Schicksal» (M. Buber, Lesser Ury cit., p. 59).
70 «All’estrema sinistra, a completare la scena, siede un giovane uomo sognante. Tiene la testa fra le mani e il suo sguardo è verso un altro mondo. Non vede nulla, la sua anima si riempie dei poemi del passato. Forse nasce qui persino un poema del futuro. Non si lamenta, non cerca nulla e nulla riconosce, non si dispera; affonda gli orrori nel suo stato d’animo pieno. Ma in questo stato d’animo c’è lutto e consapevolezza, disperazione e desiderio di scoperta; il suo stato d’animo lo unisce ai cieli e alle acque. […] Un canto è nato, […], il canto della nuova Gerusalemme» (ivi, pp. 58-59, traduzione nostra). Qui Buber, grazie al sapiente uso di coppie oppositive nella scelta dei termini, sembra tratteggiare il prototipo del nuovo ebreo: colui che si alimenta del grandioso passato (non dimentichiamo che il personaggio è rivolto verso Est) e lo riformula nel qui e ora dando vita a un nuovo inizio.
71 «Conosce gli abissi della sofferenza e del pericolo fino alle profondità più recondite, tuttavia il suo sguardo libero e fiero attraversa le acque verso terre lontane, verso nuovi inizi, nuove lotte. Qui vediamo libertà, audacia, forza e futuro. Il suo sguardo è pronto per cominciare la battaglia in cerca di una vittoria, il suo corpo è come ricavato dalla roccia eppure è agile come una giovane palma» (ivi, p. 57, traduzione nostra). In questo personaggio Buber sembra leggere i tratti distintivi del giovane sionista pronto all’azione e il fatto che questa figura sia rivolta verso Ovest indica chiaramente come per il filosofo la sede dell’attività sionista sia proprio l’Occidente, là dove l’uomo del Galut deve essere risvegliato.
72 M. Buber, I creatori, il popolo e il movimento cit., p. 39.
73 «La sua piccola mano, che si protende dall’ampia manica, è come uno specchio magico, nel quale si riflette l’immagine annebbiata di una bellezza passata. I personaggi, nell’intero quadro, hanno mani nobili per forma e espressione. Ma quella di questa donna anziana esprime il destino. La storia che si intravede da questa mano – del modo in cui è diventata così povera e pregna di significato – è la testimonianza della tragedia più grande e silenziosa. Ury spesso esprime l’indicibile sotto forma di una mano nobile. Eternità…» (M. Buber, Lesser Ury cit., p. 57, traduzione nostra).
74 «Ewigkeit sprich aus diesen stummen Menschen, die nebeneinander, nicht miteinander dasitzen […]» (ivi, p. 53).
75 A. Cohen, Aesthetic education and Buber’s thought cit., p. 66.
76 Il mondo ordinato è, secondo Buber, il mondo che nasce dalla relazione Io-Esso, il mondo dell’esperienza oggettiva che permette all’uomo di conoscere le cose. Si veda il capitolo seguente e l’analisi di Daniel, cinque dialoghi estatici.
77 M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi cit., p. 81.
78 A. Poma, La parola rivolta all’uomo occidentale, in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi cit., p. 28.
79 Buber rifiuta sia un’idea di trascendenza che collochi Dio fuori dal mondo, sia la concezione panteistica di un’identificazione di Dio con le cose. La trascendenza di Dio, secondo Buber, prevede che l’uomo non debba superare il mondo per arrivare a Dio né staccarsene: per giungere a Lui occorre incontrarlo restando nel mondo.
80 M. Buber, I creatori, il popolo e il movimento cit., p. 43.
81 Ibid.
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