6. Soluzioni
p. 285-311
Texte intégral
1. La crisi viene da lontano
La crisi – parlo naturalmente di quella del teatro – non esiste e non è mai esistita! […] Caso mai, se proprio si vuole parlare di crisi, fermiamoci a quella del cervello: questa è l’unica crisi che non nego nemmeno io: l’hanno creata questi ripudiati del teatro, le vere mosche cavalline della crisi.
(E. Petrolini, Un po’ per celia un po’ per non morir…, Roma, Cappelli, 1936)
1Nel gennaio del 1931 compare sulle pagine di «Pegaso» un lungo articolo a firma di d’Amico dal titolo La crisi del teatro1. Il testo, in realtà non così originale né per la scelta del tema né per l’argomentazione, ha tuttavia l’effetto di proporre con forza all’attenzione di tutti2 la questione del futuro del teatro italiano, in un momento di estrema difficoltà economica, organizzativa e artistica interna a quel mondo, ma anche di intensificato interesse delle istituzioni all’intervento diretto sul campo con lo scopo di realizzare anche qui quell’egemonia culturale che gradualmente sta investendo ogni settore della vita nazionale3.
2Di crisi – e facciamo qui riferimento solo al periodo di attività di d’Amico – si era parlato molto e a lungo fin a partire dal primo dopoguerra4 e poi ancora, in particolare, dal 1927 quando anche i botteghini dei teatri avevano segnalato una pesante flessione degli incassi degli spettacoli5. Al confronto di un cinematografo in continua ascesa, la recessione del teatro registrava non solo il lento sgretolarsi di un sistema organizzativo che, da anni ormai stretto nella morsa di un mercato sempre più brutale, mostrava ora in modo più evidente le sue fragilità e le sue contraddizioni, ma anche la confusione e lo sbandamento complessivo di chi dall’interno di quel mondo cercando nuove strade, si trovava a dover rispondere anche alle provocazioni che da altri luoghi (l’Europa) e da altri linguaggi artistici (il cinema) arrivavano perfino a minare la legittimità stessa della tradizione teatrale italiana. È inoltre del 1928 la chiusura dei mercati sudamericani che ha l’effetto immediato di acutizzare la crisi interna delle compagnie che dalle tournées in quei paesi avevano sempre tratto grandi benefici; è ancora di quegli anni l’organizzazione corporativa dei vari soggetti del mondo teatrale nell’intenzione del governo fascista di sostituire alla conflittualità di categoria, che era stata in precedenza una delle forme in cui la dialettica della crisi si era espressa, uno spirito di conciliazione in nome di un’unità gerarchicamente organizzata, dipendendo infine tutti sindacati dal medesimo ente riconosciuto dallo stato, la Corporazione Nazionale del Teatro.
3Il mondo della critica, da parte sua, si occupa in quegli anni di individuare le ragioni della difficile situazione, le sue cause concrete, proporre soluzioni praticabili e, talvolta, delineare nuove ipotesi teoriche complessive. Rispetto a quanto era accaduto in precedenza, la crisi appare fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta come qualcosa di più ampio, complesso, ma anche potenzialmente più fruttuoso: la crisi appare il luogo stesso della rinascita. Al negativo si viene ora a contrapporre come ineluttabile, senza soluzione di continuità e secondo una giustapposizione volontaristica e fideistica, il positivo di una nuova nascita e di una rinnovata conciliazione. È questa una tendenza che si riscontra più in generale in gran parte della cultura di allora e che certo deve molto al modo in cui il fascismo sta rielaborando proprio agli inizi degli anni Trenta l’idea della crisi: non dimentichiamo che sono gli anni che seguono la grande depressione economica che aveva investito anche l’Italia e che da un certo momento in avanti offre all’ideologia fascista il terreno favorevole per illudere dell’efficacia della propria proposta di novità che può così assumere i tratti dell’ineluttabilità storica e l’entusiasmo della rinascita alla vita dopo la catastrofe.
4È all’interno di questo contesto che deve essere collocata anche la riflessione di d’Amico sulla crisi del teatro, una forma di basso continuo, in verità, dei suoi interventi militanti che, tuttavia, solo a questo punto del suo percorso di critico da un lato e della situazione culturale, politica e artistica dall’altro si pone come nodo fondante per guadagnare alla sua proposta operativa la piena legittimità.
5La crisi, scrive d’Amico, viene da lontano, da sempre ed è ovunque. Forse, sostiene il critico, è la legge della vita, più probabilmente, è quella del teatro.
6Concependola come assoluta, decade la tensione a indagarne le ragioni storiche, a specificare i tratti dei soggetti che ne sono parte e cogliere la natura della conflittualità non risolta ch’essi pongono in campo. Delle due, infatti, l’una: o la crisi è il presupposto tanto assoluto quanto astratto da cui partire e di cui liberarsi con un gesto altrettanto assoluto e astratto al fine fra l’altro di giustificare l’avvento del nuovo e della Verità, oppure è il contesto concreto in cui operare, la specifica contraddizione presente nelle cose, la realtà che informa di sé anche il pensiero e l’azione di chi l’indaga criticamente, la condizione precaria che non si può liquidare ma solo frequentare fino in fondo nella ricerca di verità parziali ma concretamente radicate nella storia. O si ragiona all’interno di una concezione teleologica del mondo che ipostatizza la soluzione dei conflitti, oppure nella coscienza della parzialità della propria prospettiva critica, non si rinuncia tuttavia alla lotta per la conoscenza e, disposti ad assumere su di sé la crisi di senso attuale, non si abdica per questo alla responsabilità di cercare un senso e costruire la possibilità di un’alternativa. Due punti di vista questi molto distanti che, come si è visto, si aprirono nei primi del Novecento a percorsi di poetica critica e artistica molto diversi e spesso in conflitto fra loro, salvo poi subire, a partire dalla fine degli anni Venti, un progressivo assottigliamento delle loro diversità fino alla quasi totale afasia, nel corso degli anni Trenta, del punto di vista o pensiero che possiamo definire «della crisi».
7D’Amico, che si colloca in una prospettiva in cui un certo idealismo6 e un certo cattolicesimo si incontrano, esercitando l’uno sull’altro una pressione tale da costringersi reciprocamente ad assumere una particolare curvatura, e trovandosi ad agire all’interno di un contesto in cui quelle due prospettive di pensiero da un certo momento in avanti soprattutto7 e sempre più si intrecciano – certo entrambe snaturate nelle loro forme più ricche e complesse – abbraccia senza dubbio la prima delle due opzioni ricordate. L’idea di una storia come svolgimento e progressiva rivelazione di uno spirito umano eterno insieme a quella di una Verità assoluta che ha i caratteri della totalità da scoprire e contemplare si incontrano coniugandosi con un cattolicesimo culturalmente conservatore, poco disposto ad assumere su di sé le provocazioni del mondo e della difficile storia di quegli anni, lontano ormai dalle giovanili adesioni al modernismo e, soprattutto a partire dal 1929, in aperta sintonia con il clima di rinascita fascisticamente intesa che egemonizza buona parte della cultura italiana, anche di tradizione moderata, e del mondo cattolico8, anche di quella parte che anni prima aveva tentato una riforma interna alla Chiesa stessa9.
8Di ciò sono un documento efficace le parole scritte da d’Amico nel 1932 nel terzo numero della neo fondata rivista «Scenario» in un articolo dal titolo Tendenze nuove del dramma moderno:
Sicché quando il clima etico, sociale e politico, mutò nel modo che tutti sanno; quando si tornò a guardare ai valori della Vita come degnissima di essere vissuta, dono di Dio; quando fu trasmessa la nuova parola d’ordine “tempo d’edificare”; la gente trovò che il cosidetto nuovo teatro [i grotteschi] non era più così nuovo, era anzi in ritardo. E non solo, badiamo, come contenuto, ma come forma10.
9L’articolo, emblematicamente, si conclude così:
Noi crediamo alla verità del fatto, della carne [...]. Noi crediamo nella Legge [...]. Noi aneliamo a ricomporre la sintesi armoniosa fra Regola sociale, e aspirazione individuale: noi aspiriamo all’Ordine11.
10E facciamo ora ritorno al 1931.
Religio vuol dire legame, ecclesìa vuol dire adunata [...] parlare a un pubblico di teatro, vuol dire fare appello ai sentimenti che lo raccolgono, che lo collegano, che lo fanno uno. E parlargli da poeta, vuol dire scoprire, in cotesti sentimenti, i più nobili: vuol dire, se questi sentimenti fossero sopìti e nascosti, risvegliarli, rivelare l’assemblea umana a se stessa, farla riconoscere ne’ suoi sogni più puri, nelle sue aspirazioni più alte; fare, insomma, opera «religiosa». E consolare. Perché non è vero che, in passato, la grande tragedia, anche nelle sue luttuose catastrofi, fosse, di regola, eticamente disperata. Anche rappresentando la sconfitta dell’eroe, essa lo glorificava; anche uccidendolo materialmente, esaltava l’immortalità d’un’idea, d’una legge suprema, d’una fede [...]. Quando una fede tornerà alla Poesia drammatica, s’intende bene non per volonteroso proposito o per adozione di testi ufficiali, ma dall’intimo, organicamente e magari inconsapevolmente, in quanto i poeti torneranno a credere in qualche cosa; allora i loro appelli potranno essere raccolti, non dalle sole élites, ma dalle masse; il cui bisogno di fede è fatale12.
11C’è in queste parole di d’Amico, una sintesi lucida ed efficace del pensiero del critico in questi anni in cui spiccano gli elementi di continuità con il suo percorso di riflessione precedente, già più volte sottolineati nel corso di questo studio. In particolare, il bisogno di riconoscimento in una fede che unisca l’assemblea degli spettatori in un’ecclesìa, che fondi l’intesa vitale fra palcoscenico e pubblico e conduca alla conciliazione e alla consolazione ripropongono le questioni aperte fin dal 1921, ma qui con un’inquietante corrispondenza con l’ideologia dei tempi.
12La crisi di senso di cui anni prima Pirandello si era fatto lucido interprete e rispetto alla quale d’Amico aveva invece sempre mantenuto le distanze rifiutandosi di assumere fino in fondo il peso e la responsabilità intellettuale della sua verità, è ora finalmente dicibile – e non semplicemente come un fenomeno d’élite – proprio perché il clima storico sembra offrire i presupposti per la sua risoluzione. Senza chiuderla entro una dimensione esclusivamente economico organizzativa, ma dandole il più ampio respiro di una crisi generale di valori e di riferimenti della collettività, d’Amico ne individua il tratto caratterizzante nel suo essere crisi religiosa, di condivisione cioè e di legame sociale13. Denunciata però la sua esistenza, se ne prospetta insieme anche la soluzione, non ancora presente ma tuttavia investita dei tratti della certezza – «quando» e non «se» la fede tornerà –, dell’ineluttabilità e insieme di ciò che sfugge all’analisi storico critica – la fede tornerà alla Poesia drammatica dall’intimo, organicamente e magari inconsapevolmente –: perché dovrebbe tornare non è detto, ma certo è che tornerà e presto; in cosa si crederà, non si sa, ma in qualcosa che per la sua sola esistenza avrà il potere di radunare il pubblico (non solo l’élite ma la massa) in un’unica ecclesia, portarlo a rivelarsi a se stesso e, infine, consolarlo. Non che negli articoli scritti in occasione del ritorno di Eleonora Duse tutto quanto ora detto non fosse già in gran parte presente: eppure la sensazione di essere finalmente giunti al torno di tempo in cui non solo l’apparizione eccezionale (Duse) e neppure l’attesa dell’«uomo nuovo» di là da venire, ma qualcosa di più vicino, imminente e complessivo, capace di risolvere ogni contraddizione sta per realizzarsi è forte.
13Soffermiamoci ora sulle ultime parole del passo sopra citato in cui d’Amico riprende un’idea a lui cara e ribadita più volte in diverse occasioni: la contrapposizione fra un teatro fatto per rivolgersi a un’élite e un teatro che intende coinvolgere la folla o la massa, come viene definita in questo caso. Si sentono qui le eco della polemica contro i piccoli teatri, contro la drammaturgia dei grotteschi e in particolare contro Pirandello, ciascuno a proprio modo elitari: i primi in conseguenza di ciò che d’Amico riconduce a una intenzione di marginalità e che in molti casi fu invece l’espressione di un discorso articolatosi in piccole cellule che, non sempre per scelta, si ponevano al di fuori del sistema dominante (la regola) tentando percorsi eccentrici (l’eccezione tanto detestata dal critico) e non facilmente estendibili oltre la loro particolare esperienza; i secondi in ragione di un’elitarismo autoreferenziale che, pur nell’autentica denuncia dello smarrimento di un’epoca precisa, li rende incapaci di assumere su di sé la responsabilità che il proprio ruolo gli richiederebbe, arrivare cioè a toccare l’emotività di tutti gli spettatori attraverso un’arte che comunichi immediatamente a ciascuno valori eterni e assoluti e che, così operando, consoli.
14Non c’è in realtà alcuna contraddizione fra questo rifiuto dell’elitarismo, l’appello alla folla e l’affermazione di un punto di vista che si pretende assoluto, in quanto espressione della cultura alta. Il rifiuto di un confronto serrato con le contraddizioni di un’epoca, laddove queste finiscono per investire profondamente il linguaggio dato, tanto da rivelarne la fragilità e la precarietà di custode del senso, si unisce infatti con la presunzione ideologica, cara a buona parte degli intellettuali, di mantenere ancora integro il proprio ruolo di depositari dei valori universali. Il rifiuto di una posizione che certo è minoritaria nei fatti, ma che talvolta come nel caso di Pirandello lo è per la sua opera di denuncia dello stato di crisi, si unisce alla difesa di una supposta vera cultura che in gran parte non è altro se non il precipitato del pensiero delle classe dominante ertasi a garante assoluta della tradizione attraverso il controllo dell’istituzione. Ecco allora che l’uomo di cultura, in nome di una tradizione che è conservazione degli equilibri di potere, definisce ciò che è norma e ciò che è marginalità, non concependo la lotta contro il linguaggio e le sue regole – per come si danno in un certo contesto – come legittima espressione della dialettica storica che include il rischio che gli equilibri di potere vengano mutati.
15La difesa della Norma – e poi dell’Ordine, della Legge e così via – e l’intolleranza per l’eccezione elitaria sono dunque espressione del medesimo punto di vista, quello proprio di una poetica critica che dai tempi dei primi interventi sull’«Idea nazionale» fino agli anni Trenta, e poi ancora, resta sostanzialmente fedele a se stessa.
16L’ostilità nei confronti di quelle realtà che, in campo nazionale, denunciano apertamente il proprio carattere di frammento e in quanto tale si sottraggono alla regola, è una delle forme in cui si esprime l’ansia di trovare una soluzione che sappia eliminare ogni forza centrifuga in nome dell’unità, ogni possibile dissonanza in nome dell’armonia, ogni eccezione in nome della regola. È, non da ultimo, anche il segno di quei tempi. Non si dimentichi che in questi anni la quasi totalità delle testate di giornale, dalla quale certo non si sottraggono quelle per cui scrive d’Amico, ha perso l’autonomia di un proprio indirizzo culturale per divenire «strumento partecipe del progetto politico complessivo di cui si fa carico lo stato: un progetto rispetto al quale la singola testata diviene funzione e il giornalista funzionario»14. Senza con ciò sostenere che d’Amico si sia ridotto a mero funzionario del regime, è tuttavia evidente che il contesto in cui il critico si trova a operare in questi anni sarà, pur nella continuità del suo percorso precedente, un elemento da tenere in considerazione nell’indagine della sua strategia d’azione.
2. Proposte per risolvere la crisi
17Non è qui il luogo per fare una storia delle proposte di riforma che, inviate ai vertici governativi, rimasero inadempiute; basti ricordare che il 1931 arriva dopo anni di insistenti tentativi promossi da varie componenti della cultura e della scena italiana – critici, autori, attori – di indicare la direzione verso la quale muovere i primi passi per una riforma strutturale dell’organizzazione del teatro nostrano.
18D’Amico stesso già nel 1924 aveva dato l’avvio a una discussione aperta sull’«Idea nazionale» a proposito del rapporto fra teatro drammatico e stato. Dalla proposta avanzata da Lamberto Picasso, a quella di Chiarelli e Fracchia, da quella di Pirandello a quella di Marinetti, di Tumiati e di Liberati, tutti gli interventi pur nelle loro specificità si erano incontrati alcuni fondamentali punti, cari, come sarà presto evidente, anche a d’Amico: creazione di alcuni grandi teatri stabili (innanzitutto a Roma, ma anche a Torino e Milano) con compagnie stabili o semi stabili (o un’unica compagnia che avrebbe girato su tre piazze), politica di sovvenzioni pubbliche mirate a finanziare tali grandi strutture; insistenza sulla centralità del ruolo del direttore e, parallelamente, sulla necessità di controllo dell’indisciplina degli attori. Insieme, l’idea che il frantumarsi dell’antica tradizione dei comici (auspicata o meno non importa, ma da tutti vista come oggettiva) chiedesse un impegno maggiore nell’organizzazione di strutture adibite alla formazione dei nuovi attori, si stava facendo opinione comune diffusa. Franco Liberati, direttore della scuola Eleonora Duse di Roma, aveva inserito nel suo progetto anche una struttura per l’insegnamento della recitazione che avrebbe dovuto garantire «esecuzioni singole e di complesso impeccabili»15.
19Nel 1931 la battaglia che da anni d’Amico aveva iniziato contro il sistema del teatro all’antica italiano si poteva dire ormai, sul piano dell’egemonia culturale, assolutamente vinta: si trattava ora di concretizzare la soluzione e trovare, all’interno delle strutture governative, validi alleati.
20Ecco che a questo proposito un episodio mai troppo sottolineato, ma invece di fondamentale importanza, accadutonel 1930, può aiutare a comprendere meglio: in una lettera dell’agosto di quell’anno16 Forges-Davanzati avvisa d’Amico che Bottai ha fatto il suo nome per la presidenza della Corporazione dello Spettacolo appena formata, sostenendo fra l’altro la compatibilità di quell’ufficio con l’attività di critico teatrale. D’Amico, avvertito, rifiuta l’incarico dicendosi intenzionato a intensificare la propria attività nella scrittura di nuovi libri e per questo poco disponibile a un impegno tanto gravoso proprio nel momento in cui, fra l’altro, sta finalmente abbandonando anche l’insegnamento alla scuola di Santa Cecilia. Inoltre, aggiunge, la sua competenza relativa alle questioni economico – organizzative e sindacali del mondo dello spettacolo (lirica, operetta, cinema, varietà compresi) è molto scarsa:
21[...] dello stesso teatro drammatico i problemi economici non mi appassionano se non in funzione dell’arte; il che vuol dire che potrò interessarmi di alcuni autori, di alcuni attori, di alcune compagnie, di qualche buona iniziativa artistica; ma tutto il resto, per me, vada pure a rotoli, sarà tanto di guadagnato [...] Ognuno serva la buona causa nel modo che può; e il mio modo è quello di scrivere. Proprio adesso sto scrivendo per lui, Bottai, direttore d’una collezione di studi sui problemi italiani, un volumetto sulla crisi del Teatro. Lì dirò il fatto mio a tutti, senza peli sulla lingua; e dirò anche come si potrebbe, a parer mio, fare in Italia qualcosa che ci avviasse a riconquistare il primato perduto; o almeno creare per l’arte drammatica qualcosa non indegna di stare a pari di ciò che sono, per la lirica, l’Opera Reale o magari la Scala. Aggiungo dell’altro: il mio potrà non essere soltanto un progetto; potrà attuarsi, e in tal caso io stesso parteciperei alla sua attuazione. Ma, come vedi, si tratta di tutt’altra cosa che l’Ufficio dello Spettacolo: il quale ha da affrontare problemi di altra natura, e di carattere generale17.
22Parole queste che denunciano chiaramente la vicinanza di d’Amico ai vertici del governo e in particolare la stima del Ministro Bottai nei suoi confronti. Figura chiave nell’assestamento del fascismo di quegli anni, abile nel costruire, attraverso una strategia ben concepita e un’attenta mediazione fra elementi di radicalismo e conservatorismo, di rottura e di continuità, un consenso diffuso all’ideologia fascista fra gli intellettuali del tempo, Bottai pensa a una figura come d’Amico a capo della nuova Corporazione non a caso a pochi mesi dal Concordato, in un contesto in cui viene allentandosi sempre più il legame con l’idealismo di Giovanni Gentile che, per tutti gli anni Venti, era stato il riferimento filosofico e culturale privilegiato del fascismo. D’Amico rifiuta e insieme rilancia: rifiuta senza tanti ossequi perché sa di poterlo fare – Davanzati fra l’altro è suo ottimo amico –, ma trova lo spazio per riprendere, ed ora in dialogo diretto con un alto funzionario del governo, la sua proposta riformista, dicendosi sostanzialmente disinteressato a quanto possa accadere nella realtà esterna al suo progetto, ma interessatissimo a prendere parte attiva alla realizzazione dello stesso.
23La proposta di d’Amico, presentata l’anno successivo, prevede la costituzione a Roma di un «Istituto nazionale del teatro drammatico» con il compito di gestire due grandi teatri stabili (di almeno 1.500 posti) a Roma e Milano, modernamente attrezzati, in cui due compagnie stabili dovrebbero recitare per tre mesi consecutivi ciascuna, per un totale di sei.
24Si tratta di un progetto ampio e complesso che ha l’ambizione non già di «istituire un teatro» o di «sovvenire una compagnia»; bensì di «apprestare i mezzi per un’azione su vasta scala, organicamente e metodicamente diretta al rinnovamento artistico della scena italiana»18, investendo in modi diversi la realtà teatrale e tentando una radicale (sebbene prevista e desiderata da più parti) trasformazione del suo sistema organizzativo. Priorità del testo drammatico su ogni altro elemento del linguaggio della scena19, stabilità delle compagnie, centralità della direzione esterna del complesso di attori, repertorio definito dal presidente dell’Istituto (presumibilmente d’Amico stesso), creazione di un teatro sperimentale, di una scuola per la formazione degli attori e di una biblioteca20, infine contatto con le realtà teatrali europee: ecco gli elementi che caratterizzano la proposta di d’Amico che, del tutto omogenea al suo percorso precedente, ha forse trovato ora la via privilegiata per concretizzarsi. Non è un caso che nel Consiglio di amministrazione dell’«Istituto» figurino tutte le realtà che politicamente ed economicamente possono essere utili alla realizzazione del progetto e con le quali d’Amico è in qualche modo in contatto.
25Ministero delle Corporazioni, Ministero dell’Educazione Nazionale, SIAE, Governatorato di Roma e Comune di Milano, sono tutte realtà coinvolte nel finanziamento: la SIAE per le spese del teatro sperimentale, i due enti locali di Milano e Roma per quelle di ristrutturazione dei teatri, il Ministero dell’Educazione per quelle per la scuola di recitazione e la Corporazione dello spettacolo per ogni altra spesa necessaria.
26Nonostante le buone premesse – le conoscenze influenti del critico e il clima politico favorevole –, la proposta per la creazione dell’«Istituto nazionale del teatro drammatico» non troverà immediata risposta e solo qualche anno dopo e parzialmente inizierà a dare i suoi frutti con la fondazione a Roma dell’Accademia d’Arte drammatica.
27Eppure quell’ipotesi di d’Amico vale lo stesso per noi come indicazione dei nodi sui quali si appunta in questi anni l’interesse del critico e dove muove la sua strategia, per altro non molto dissimile nella sostanza da quella degli anni precedenti se non, in particolare, su due aspetti: il riferimento al teatro straniero da un lato e il discorso sulla formazione dell’attore dall’altro.
3. Teatro straniero
28Quanto al primo punto: frequentare le realtà teatrali straniere è ben presto per d’Amico un nuovo motivo di entusiasmo e l’opportunità per comprendere fenomeni che il solo contesto italiano non permette ancora di focalizzare con precisione (una per tutte: la regia); ma è anche, e soprattutto a partire dal 1927, l’occasione per rendere ancora più robusta la propria posizione di critico nei confronti di tutto il mondo del teatro e della politica e per intensificare l’egemonia del proprio pensiero – ora, appunto, rafforzata dal suo respiro internazionale, pur sempre bilanciato da un interesse operativo tutto nazionale. Perché poi gli stimoli e le provocazioni che provengono da quel teatro, proprio perché appartengono ad altro contesto rispetto a quello in cui agisce direttamente d’Amico, possono all’occorrenza essere ridimensionate, costrette entro confini ben precisi in nome della diversa tradizione d’appartenenza, accettate come frammenti di un contesto molto più ampio che non deve in questo caso essere ricondotto all’unità: in sintesi, resi funzionali al proprio discorso. C’è nel pensiero di d’Amico una compresenza fra un’intenzione teoretica volta alla definizione in termini assoluti delle questioni di estetica teatrale e una parallela tensione pratica che elegge a proprio campo di attività il contesto nazionale: la pressione che la necessità pratica di intervento esercita su una teoria che si vorrebbe invece generale fa assumere alla poetica critica di d’Amico una curvatura particolare anche in relazione alle esperienze di teatro internazionale, da un lato, valide come provocazioni e, dall’altro, alleggerite di parte della loro articolazione e complessità.
29In ultima analisi la questione principale resta il teatro in Italia e la risoluzione della crisi in territorio nazionale.
30È del giugno-luglio del 1927 una delle prime esperienze di confronto con il contesto teatrale europeo.
31D’Amico partecipa al Congresso della «Société Universelle du Théatre» tenutosi a Parigi quale inviato speciale della «Gazzetta del popolo» e della «Tribuna». Reduce dall’incontro con alcuni dei più significativi rappresentanti del teatro europeo (da Piscator, a Baty, a Gémier), stende un resoconto della giornata di discussione che, significativamente, pare essersi sviluppata tutta intorno alla questione del metteur-en-scène, nel tentativo di definirne ruolo, diritti e, in prima istanza, identità (creatore, arrangiatore o ancora interprete?). Si tratta certo di una ghiotta occasione che il critico sfrutta per ribadire ancora una volta, ma ora con interlocutori illustri, la priorità della scrittura drammatica sugli altri codici spettacolari, messinscena compresa. Nel polemizzare con Baty, che sostiene essere il metteur-en-scène un vero e proprio collaboratore dell’autore, come lui creatore e perciò al pari suo in diritto di venire tutelato economicamente, d’Amico continua a difendere con forza la sua posizione di un tempo ribadendo, come già molti anni prima con Croce, l’esistenza di una sola Verità del testo, ontologicamente data, a cui qualunque interpretazione non può che tendere. Sostenere come fa Baty (e con lui molti altri) la creatività del metteur-en-scène significa negare al verbo del poeta-scrittore l’esclusività creativa, laddove il Verbo che, al pari di quello divino, è il primum indiscutibile, l’unica autentica creazione, l’esemplare originario a cui fare riferimento, il luogo in cui la sacralità è conservata e, pertanto, può essere recuperata, non è soggetto a usura, non deve essere tradito, è l’unico elemento da cui si può partire per fondare un teatro che sia ancora espressione di una fede condivisa.

Tavola 20. Copeau
S. d’Amico, Storia del teatro drammatico, vol. IV, Milano, Garzanti, 1958 (1a ed. 1939-40), tav. 60
32Si noti in particolare come la matrice culturale cattolica a cui d’Amico riconduce, in questi anni in modo sempre più spesso manifesto, le radici del suo pensiero connoti con maggiore precisione rispetto al passato termini quali verità, fede, verbo, creazione, rinascita, chiarendo il solido retroterra a cui si riferiscono e la forza con cui intendono proporsi all’attenzione dei lettori. Non sarà pertanto strano il fatto che, per esempio, il critico usi come arma a suo favore la cattolicità della propria posizione in antitesi a Baty che, pur cattolicissimo, proprio nel sostenere la creazione dell’opera del metteur-en-scène, avrebbe fatto piuttosto riferimento a «teorie immanentiste, soggettiviste, idealiste, protestanti, pirandelliane, crociane, e tutto quel che si voglia; ma cattoliche no»21.
33Definiti i limiti entro i quali il metteur-en-scène si deve muovere – essere un interprete come gli altri – d’Amico ne ammette poi la necessità («non se ne può fare a meno», «fuori di lui non c’è salute»), riconoscendogli implicitamente la forza di realizzare l’unità del complesso («l’armoniosa visione complessiva»). Interezza e integrità vengono elevati a valore d’arte e la figura del futuro regista incomincia a delinearsi come possibile garante di ciò che invece l’attore solo non potrà mai assicurare: trovare un equilibrio armonico fra le parti, contenere il pericolo della deflagrazione dell’ordine, normalizzare in un quadro le intemperanze dei singoli attori e il rischio ch’essi si facciano testimoni, in prima persona, sulla scena, attraverso il loro stile, di ferite che non si rimarginano. Per il momento in modo ancora incerto, ma poi in forma sempre più definitiva, la regia – un certo tipo di regia di cui il contesto europeo è in parte la testimonianza positiva – si prospetterà agli occhi di d’Amico come l’unica strada percorribile per risolvere la crisi.
34La regia, infatti, può realizzare quell’operazione di sintesi che rende coerenti e funzionali a un unico punto di vista tutti gli elementi che partecipano della messinscena: il frammento isolato può così trovare la sua collocazione e la sua coerenza all’interno del progetto demiurgico del regista e rivelare il suo significato intimo e profondo nel rispetto della parola drammatica. Ma la regia, guardata come accade a d’Amico in quegli anni anche nei suoi elementi di raffinata e spesso imponente spettacolarità, fra l’altro dovuta all’uso sapiente dei più moderni strumenti scenotecnici, è anche – e in prospettiva ancora più del cinema – l’arte capace di radunare ed entusiasmare la grande folla. Quell’elemento, da principio ricondotto a mero orpello visivo e superficiale, si rivela in alcuni particolari casi potente mezzo di comunicazione, capace di catturare le menti e coinvolgere i sensi di un insieme vasto di spettatori: senza mai arrivare ad abbracciare l’idea di un teatro che si risolva nella spettacolarità dei suoi giochi scenici, d’Amico si fa tuttavia in questi anni più duttile22 e, soprattutto, più sensibile a cogliere e salvare dello spettacolo la forza magnetica e suggestiva, purché resa con raffinatezza e purché non fine a se stessa. Le rappresentazioni dirette da Reinhardt per esempio – e per eccellenza – hanno nell’esperienza di d’Amico questo tipo di significato: dai primi incontri in Germania, allo stupore per il pubblico tedesco sempre particolarmente devoto durante le rappresentazioni teatrali – come spinto da un bisogno organico di adunarsi e sentirsi uno –, alle recite del maggio fiorentino nel 1933 e ancora al Faust con scena multipla a Salisburgo sempre nel 1933, ciò che più colpisce il critico è proprio la «trasposizione visiva» dell’opera drammatica.
35Così nel Sogno d’una notte di mezza estate, per fare un esempio, al «mondo della leggenda e a quello delle fate, egli [Reinhardt] s’è proposto di introdurci soprattutto per la via degli occhi; e c’è mirabilmente riuscito, con suggestioni sottili, e con una sorta di semplice magnificenza»23. Anche senza dover fare riferimento alle grandiose operazioni registiche di Reinhardt, la compattezza, la raffinatezza stilistica e la disciplina di alcune compagnie straniere sono per d’Amico la prova viva che quell’arte del complesso a cui da anni pensa è possibile: impeccabile, armonico, levigato, forse un poco frigido, lo stile degli attori inglesi24; classicista, «conservatrice di testi e loro impassibile editrice», ordinata e rigorosa la compagnia della «Comédie française»25; «adunati in uno stile eccellente» in uno spettacolo di cui si riconosce insieme la «spirituale unità» e il «fascino disperato» gli attori di Baty26; fatto di discrezione e delicatezza, senza ostentazione e dalla rara efficacia nella resa dei personaggi lo stile degli attori norvegesi27; dalla cura impeccabile e la squisita composizione d’insieme (con qualche perplessità sull’attore protagonista) quello della compagnia ceca, espressione fra l’altro di un vivace e compatto spirito nazionale28.
36Al termine di ciascun articolo scritto in qualità di inviato in terra straniera, come rispondendo a precise regole di retorica, d’Amico inserisce il riferimento al contesto italiano: lamenta il più delle volte l’assenza ora di disciplina, ora di stile, ora di strutture stabili ora di compagnie di complesso, ora dell’uomo nuovo ora della scuola moderna, riconfermando in ogni occasione l’urgenza di una trasformazione della scena con un tono e uno spirito che dicono già l’imminenza di tale rinascita. La testimonianza non importabile di una realtà attorale così distante da quella propria della tradizione italiana è già il segno vivo che altrove esiste un’alternativa; che l’Italia è in ritardo29 nel trovare la sua alternativa; ma che, forse, questa è vicina.
37Non certo dal singolo attore, anche se straniero, si attende la riapertura dei giochi e la soluzione della crisi; piuttosto dalla convergenza fra una solida riflessione teorica e una profonda riforma del sistema organizzativo, convergenza che, d’altra parte, in molti paesi europei si è già verificata.
38Ecco che, da questo punto di vista, l’incontro con alcune particolari figure del panorama europeo – Copeau, Reinhardt, Tairov, Dancˇenko – offre a d’Amico l’occasione per rafforzare la propria posizione teorica. Con i loro spettacoli ma anche con le loro utopie di fondazione di un nuovo teatro, con la loro pratica ma anche con l’elaborazione di un pensiero che intende investire il linguaggio della scena nel suo complesso, questi uomini pongono il critico di fronte ad alcune fra le questioni fondamentali del Novecento teatrale. Fra le altre l’attore, il suo ruolo, la sua identità e, insieme, la sua educazione. Riformare la scena significò allora per molti mettere in discussione radicalmente un teatro di cui si sentiva l’inadeguatezza a esprimere la mutata temperie culturale; per alcuni significò fra l’altro iniziare una ricerca delle tecniche relative ai processi creativi del recitare, dare vita a luoghi protetti (scuole, studi, piccole realtà teatrali) in cui sperimentare nuovi percorsi e avviare un discorso di formazione dell’attore.
39Divulgatore in parte, ma pro domo sua, d’Amico diffonde attraverso colloqui e interviste il pensiero di questi artisti presso il pubblico italiano, ne confronta le teorie con quanto accade in territorio nazionale, ne coglie suggestioni e ne critica in alcuni casi le posizioni (Tairov per esempio).
40Di tutti il riferimento più amato è certamente Copeau che d’Amico conosce a Parigi nel 1926, con cui mantiene a lungo un buon rapporto e che fra l’altro tenterà di chiamare alla presidenza dell’Accademia d’Arte drammatica a Roma, senza tuttavia riuscire nell’intento.
41Di Copeau lo colpiscono in particolare alcuni tratti che si possono così sintetizzare: l’attività di critico e direttore della «Nouvelle Revue Française», l’atteggiamento schivo di fronte a ogni forma di spettacolarità, l’intenzione di recuperare un teatro in qualche modo delle origini, l’austerità di vita e di magistero, la semplicità dello stile, l’utopia di un teatro popolare che soprattutto negli anni Trenta tende verso una forma di spettacolarità celebrativa e liturgica.
42Infine e sopra tutto l’interesse per la formazione dell’attore, sorretta nel suo caso da un’idea di riforma totale dell’arte teatrale, nel senso di radicale rinnovamento etico a partire dall’uomo, in prima istanza dall’attore, in seconda dallo spettatore. La scuola come luogo privilegiato di formazione del singolo all’interno della compagnia, intesa come «cellula madre», «organicamente unita perché informata dal medesimo spirito»30, si fa spazio alternativo a quello occupato dall’istituzione dei teatri ufficiali, luogo di relazioni autentiche, di recupero delle tradizioni d’origine, di rinnovamento etico del teatro e, non da ultimo, di formazione del pubblico. Fin a partire dal 1927 il maestro francese è per d’Amico esempio illustre di un percorso che, a modo suo e in terra italiana, il critico vorrebbe intraprendere e verso il quale già da anni, e per molti ancora, intende sensibilizzare il pubblico nostrano: fondare una scuola per la formazione dell’attore.
43E se è funzionale alla strategia di d’Amico ricordare l’ascetismo del metodo di Copeau, la dedizione completa richiesta agli allievi, il senso di comunità che informa il lavoro di tutti, l’essenzialità e il classicismo stilistico delle recite al Vieux Colombier, ciò nonostante resta chiaro anche l’abisso che separa la sua proposta da quella del regista francese. D’Amico, oppositore del teatro d’eccezione, sebbene si ponga in questo caso con un atteggiamento di maggiore tolleranza specie per lo spirito religioso che sembra informare l’agire di Copeau, non può che sentire la distanza fra la sua strategia tutta interna alle istituzioni date e quella di migrazione continua verso la periferia scelta dall’altro; per quanto il fascino esercitato su di lui sia forte, resta nel critico romano la determinazione ad un’azione diretta sull’istituzione, a mutare la Regola senza porsi mai nella prospettiva dell’eccezione. La sua lotta per un ordine nuovo definito e controllato dal centro del potere istituzionale appartiene a una strategia molto lontana da quella sposata da Copeau fino agli anni Trenta e, tuttavia, si rivela sensibile alle suggestioni che da quella diversa realtà possono arrivare.
44Quando poi nel corso degli anni successivi il maestro francese muterà in parte la sua poetica il rapporto fra i due si intensificherà. Dopo la chiusura del Vieux Colombier infatti e le prime esperienze dei Copiaus l’attività di Copeau si concentra sulle letture e sulle conferenze, mentre la sua teoria sul teatro tende, a discapito della ricerca sul linguaggio della scena, a dare sempre maggior spazio a un’idea di regia intesa come interpretazione del testo drammatico.
45Nel 1926, per esempio, in un intervento dal titolo Une renaissance dramatique est-elle possible? Copeau sostiene essere il poeta e solo il poeta il detentore della verità intesa come unità perduta, «entità originaria da ricostruire» durante lo spettacolo31.
46Anche la tensione utopica per la creazione di un teatro popolare, che aveva sempre caratterizzato l’attività di Copeau, muta in questi anni in parte il suo significato, facendo ora riferimento a un’idea di popolare sempre più annacquata e astratta, priva di reali riferimenti storico-sociali, tanto vasta e idealisticamente omogenea da farsi sfondo neutro e indifferenziato su cui proiettare le fantasie di unanimità e di comunanza di valori. Dal popolo così inteso alla folla armonica, entusiasta, radunata in nome di un’unica fede, il cui spirito critico è negato attraverso la sublimazione di un’intesa meramente presunta e immaginata, il passo – che pur c’è – è tuttavia breve32.
47Per questi motivi non sarà un caso se, a partire dal 1933, il rapporto fra d’Amico e Copeau si intensificherà – invitato in Italia dal critico, Copeau sarà uno dei protagonisti del Maggio fiorentino con la spettacolare rappresentazione all’aperto del Mistero di Santa Uliva – e se la presenza del francese sulle pagine di «Scenario» sarà sempre più frequente e perfettamente in linea con la politica culturale del periodico e del suo direttore in particolare. Un caso fra tutti: nell’ottobre del 1934 d’Amico pubblica la traduzione italiana dell’intervento che Copeau intende fare al Convegno Volta ma che poi, trattenuto a Parigi per lavoro, verrà letta durante l’ottava seduta. L’articolo, comparso su «Scenario» nell’ottobre, corrisponde essenzialmente al testo francese poi pubblicato negli atti del Convegno, ma con una differenza significativa – il titolo – che indica il preciso, nonché apparentemente innocuo, intervento del direttore: Le spectacle dans la vie morale des peuples viene tradotto con La crisi religiosa del teatro, espressione certo più esplicitamente d’amichiana rispetto a quella originaria della relazione. E, a rafforzare la nostra ipotesi, ricordiamo che d’Amico al Convegno Volta avrà premura di anticipare la lettura dell’intervento di Copeau con parole che hanno anche in quel caso la funzione di focalizzare proprio su quei due termini – crisi e religiosa – il nocciolo non solo del discorso del maestro francese ma anche di molti degli interventi che lo avevano preceduto: così per Wilmotte, come per Bontempelli, così per Marinetti, come per Pirandello33. Ecco allora che, in ricerca di referenti che possano testimoniare prospettive concrete verso le quali la strada da lui indicata per il rinnovamento della scena italiana possa procedere, D’Amico elegge in questo contesto Copeau a riferimento assolutamente privilegiato.
48Eppure, altrove, qualcos’altro gli consiglia cautela. Perché infine, non si dimentichi, la prospettiva di d’Amico è pur sempre una prospettiva nazionale34 e il teatro straniero, per quanto grande e moderno sia, resta pur sempre straniero, mentre quello italiano, per quanto mal messo e in ritardo, resta infine l’unico contesto su cui è possibile operare, l’unico della cui tradizione si conoscano le radici, del cui linguaggio si comprenda la ricchezza e l’articolazione e sulla cui organizzazione, soprattutto, d’Amico possa sperare di incidere.
49Se dunque nel 1935 il critico penserà proprio a Copeau come direttore dell’Accademia d’arte drammatica, lo farà certamente con l’intenzione di dare lustro alla nuova istituzione, ma anche nella prospettiva di creare un interregno nell’attesa vigile che qualcuno, all’interno del panorama italiano, abbia l’autorità e la sapienza di reggere l’incarico.
50Sarà Mussolini a negare il permesso alla candidatura di un francese.
51D’Amico ripiegherà allora sul nome di Tatiana Pavlova, russa naturalizzata italiana, teatrante a tutto tondo (regista e attrice insieme), intimamente legata a Dancˇenko e nelle sue dichiarazioni pubbliche sempre più vicina alle posizioni teoriche del critico. Saranno sufficienti due anni di collaborazione per mettere in luce le divergenze che invece allontanano i due e che porteranno alla definitiva rottura nel 1938.
52Non a caso, il direttore che succederà alla Pavlova sarà un italiano: Orazio Costa.
4. La scuola, la rivista, l’Enciclopedia: l’approdo all’istituzione come cemento di un’egemonia culturale raggiunta
53Una rivista specializzata nelle «arti della scena»; una scuola per la formazione del moderno attore; la collaborazione, per la cura di tutte le voci teatrali, con l’iniziativa culturale più ambiziosa che il fascismo abbia realizzato – l’Enciclopedia Italiana di scienze lettere ed arti diretta da Giovanni Gentile –: ecco tre diversi percorsi per un’unica politica culturale che, dopo anni di instancabile attività del suo promotore, trova ora i contesti ufficialmente riconosciuti per estendere la propria egemonia.
54La crisi potrà ora iniziare a essere efficacemente affrontata. Ma in vista di quale teatro? Di quale attore, che è ciò che più interessa il nostro studio?
55Ricordiamo a questo proposito ancora tre documenti, tutti a firma di Silvio d’Amico, collocati ciascuno all’inizio dei tre percorsi sopra indicati: l’articolo pubblicato nel secondo numero di «Scenario» dal titolo Spirito della Commedia dell’Arte; la voce Attori dell’Enciclopedia Treccani (1930) e un intervento sulla neo fondata Accademia d’arte drammatica comparso nel 1936 sulla «Gazzetta del popolo».
56Quanto al primo, a conferma dell’ormai conosciuta posizione nei confronti del comico dell’arte, emblema dell’attore di tradizione italiana, modello di tecnica raffinatissima, ma non espressione di poesia, d’Amico conclude:
Sicché anche la Storia della Commedia dell’Arte, a considerarla come uno sforzo verso la poesia vera e propria (poesia da pojèo, fare, costruire) sarebbe la storia di un fallimento: quel che rimane d’essa non è un’opera duratura, è un abbagliante ricordo […].
E se oggi i maestri della scena moderna tornano con nostalgia alla Commedia dell’Arte, vi tornano non nel senso romantico, dei celebratori di un contenuto poetico, ch’essa non ebbe; ma nel senso tecnico, come a un modello dell’arte dell’attore. Di quell’arte che non vogliamo fine a sé [sic] stessa, ma a servizio del poeta; per la creazione di quel tutto armonioso che da Eschilo in qua è stato il sogno e la mèta, affascinante appunto perché non mai pienamente raggiungibile, del grande Teatro35.
57E così dicendo, in apertura della sua impresa editoriale d’Amico definisce con chiarezza, come aveva fatto ai suoi esordi di critico teatrale, il rapporto con la tradizione, i limiti dell’arte (a cui l’attore non appartiene, se non nella misura del mestiere tecnico) e il pericolo della rivalutazione che invece da altre parti anche autorevoli (Copeau e Reinhardt per fare solo due esempi), altri stanno tentando della Commedia dell’Arte italiana.
58Quanto alla voce Attori36 dell’Enciclopedia, il critico ritorna polemicamente nelle conclusioni sulla peculiarità del sistema teatrale italiano e sul «ritardo» che, soprattutto per la mancanza di un intervento diretto dello stato quale garante e sostenitore della stabilità delle compagnie, caratterizzerebbe la nostra scena rispetto a quelle straniere.
59Infine, nell’articolo del 1936 d’Amico offre una limpidissima descrizione dell’idea di formazione d’attore sottesa all’insegnamento della Pavlova e, più in generale, all’intero percorso formativo previsto dalla neo fondata Accademia:
Prendere un attore già padrone del suo corpo e dei suoi nervi, della sua mimica e della sua voce; spersonalizzarlo, ossia farlo uscire dal suo io quotidiano; poi, ridottolo così a materia inerte, infondere in questa materia un’anima, l’anima del personaggio da rappresentare, e fargliela esprimere nella parola e nel gesto; e poi intonare, coordinare tutti i personaggi in un quadro d’insieme, in un ritmo, in un clima, in una visione, quella che il regista ha avuto studiando a fondo il dramma, per trasportarlo alla vita materiale della scena – converrete che non è lavoro da esordienti37.
60Finalità, ultima, ripetiamolo ancora, non è certo quella di creare nuovi artisti, perché
al Teatro, al medio Teatro, a quello che deve interpretare complesse opere d’arte e dar vita ad armoniosi spettacoli, una individualità non basta, occorre un insieme; occorrono maestranze; occorre la regia, occorre lo stile. È di questo che andiamo in cerca38.
61Per conseguire armoniosi spettacoli di complesso registicamente diretti e interpretazioni fedelmente condotte nel rispetto dello spartito drammaturgico, è necessaria un’educazione appropriata dello strumento (attore-maestranza). Alla Regola – il prodotto spettacolare medio ben confezionato – dovrà pertanto corrispondere un’altra regola: «l’attore considerato in astratto per la sua medietà», l’attore cioè educato a essere funzionale a qualcos’altro (lo spettacolo considerato in astratto nella sua medietà), capace di rifornire il mercato esistente e quello futuro di ciò di cui necessita per uno sviluppo senza incidenti di percorso. Un attore mediamente bravo (dal punto di vista dell’efficacia interpretativa) che funzioni, così definito da Claudio Meldolesi, dell’antilingua recitativa. Si tratta cioè di quell’attore che «non pensa», piuttosto «si preoccupa di non sbagliare»; l’attore che
dal forziere dell’arte grande-attorica portò via soltanto ciò che gli serviva: non certo la capacità di far pensare il corpo, bensì qualche “cosa bella” di questo o quell’attore-guida e la virtù di “tenere la scena”; virtù che era stata di servizio in precedenza, per far passare i tratti deboli degli spettacoli come fossero frasi ausiliarie, e che divenne invece il primo requisito chiesto dagli impresari. Il distacco dai ruoli fece da corollario a questo più grande distacco39.
62La creazione di un luogo istituzionalmente riconosciuto, finanziato dallo stato, in cui offrire una formazione d’attore (e di regista) vestita dei tratti della professionalità accademica (diversa dal professionismo del comico dell’arte) e della «cultura», protetta da tentazioni di autonomia poetica, sterilizzata da residui di una tradizione scenica antica ancora a tratti presente sulla scena, si incontrerebbe con l’esigenza di ridurre il «ritardo» del teatro italiano, senza tuttavia spingersi a investire il linguaggio della scena nella sua complessità prospettandone una radicale rifondazione, come era avvenuto in Europa.
63C’erano voluti anni prima che tutto ciò, da quando d’Amico l’ebbe in animo da principio, si realizzasse concretamente: c’era voluto un quadro politico favorevole, una complessiva normalizzazione del pensiero dei critici teatrali e, soprattutto, un forte indebolimento della tradizione recitativa maturatosi nel corso dei primi trent’anni del Novecento e di cui non solo d’Amico, né solo la legislazione fascista, ma anche l’industrializzazione della scena italiana era stata responsabile.
64In conclusione – perché dobbiamo andare a concludere anche se l’attività di d’Amico proseguirà ancora per molti anni – l’Accademia d’arte drammatica di Roma, «Scenario», la collaborazione all’Enciclopedia italiana sono i contesti all’interno dei quali d’Amico intende proseguire la sua attività militante iniziata vent’anni prima sulle pagine dell’«Idea nazionale». Eppure, da un altro punto di vista, sono anche un traguardo, segno di una vittoria così come di un declino: con il parziale chiudersi dell’esperienza del comico della tradizione italiana e certamente della sua egemonia artistica, viene costretta alla sospensione infatti anche quella dialettica che per anni aveva riempito le pagine delle cronache, animato il conflitto delle interpretazioni, evidenziando le fessure possibili per lo svilupparsi di un’altra o altre storie, per la resistenza di una tradizione d’attore. Le cronache teatrali dei primi vent’anni di attività di d’Amico soprattutto, di cui abbiamo trattato nel corso di questo studio, conservano il calore e la fertilità di quella tensione che era ancora nelle cose e che informava di sé anche lo sguardo di chi, come d’Amico, avrebbe voluto arrivare alla nuova regola di conciliazione ben prima di quanto ciò non avvenne; perché infine quelle pagine restituiscono al lettore di oggi, nella parzialità della prospettiva che le definisce ma anche nel radicarsi all’interno del complesso e contraddittorio contesto storico culturale di quegli anni, una vivacità polemica che si fa talvolta acuta nella penetrazione dell’oggetto, talvolta ottusamente rigida nel rifiuto della sua comprensione, ma quasi sempre testimonianza e alimento di una dialettica storica ancora feconda, ricca di «eccezioni», di esperienze artistiche e di pensieri critici irriducibili a una qualsivoglia astratta sintesi organica, frammenti di una realtà di crisi e in sé espressione dell’impossibile, nonché desiderata, sua soluzione.
Notes de bas de page
1 S. d’Amico, La crisi del teatro, in «Pegaso», gennaio 1931.
2 Molti saranno gli articoli in risposta all’intervento di d’Amico. Fra gli altri: E. Rocca, Cronache teatrali. Crisi teatrale = crisi religiosa, in «Lavoro fascista», 8 gennaio 1931; A. Valenti, Sempre della crisi, in «La Fiera letteraria», 18 gennaio 1931; C. Pavolini, Sulla crisi del Teatro, in «Il Tevere», 30 marzo 1931; O. Gibertini, La crisi del teatro e un progetto serio, in «Corriere emiliano», 14 aprile 1931; F. Bernardelli, La crisi del teatro, in «La Stampa», 15 aprile 1931; Id., La crisi del teatro. Il pubblico e gli interpreti, in «La Stampa», 17 aprile 1931; Id., La crisi del teatro. Battute d’aspetto, in «La Stampa», 24 aprile 1931.
3 Se nel corso di tutti gli anni Venti il governo fascista aveva mantenuto un atteggiamento sostanzialmente cauto e poco interessato alle questioni relative alla vita e all’organizzazione dello spettacolo, il nuovo decennio e la raggiunta stabilità del regime alla guida del paese segnano una maggiore intenzione interventista. Da un lato – qui come in ogni settore – la diffusione dell’ideologia corporativa (la costituzione della «Corporazione dello Spettacolo» è del 1930) mira a rimuovere la tensione conflittuale fra le categorie in nome di una superiore conciliazione, che è poi salvaguardia degli interessi economici delle componenti più forti (proprietari dei teatri e delle compagnie); dall’altro, il controllo della produzione (la nuova legge per la censura dei testi è del 1931) e la politica delle sovvenzioni (cui si aggiungono i premi e gli anticipi), la creazione dell’«Ispettorato generale del teatro» nel 1935 (diventato l’anno successivo «Direzione generale del teatro»), contribuiscono al processo di normalizzazione della scena in funzione di una razionalizzione del suo sviluppo, ovviamente poco artistico e molto industriale. Per la precisazione delle questioni relative all’organizzazione teatrale di questi anni e all’intervento dello stato, si vedano E. Scarpellini, Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista, Firenze, La nuova Italia editrice, 1989 e G. Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo cit.; in particolare sul corporativismo e il regime delle sovvenzioni il primo capitolo di Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi cit. Per un’articolata definizione dei nodi problematici che caratterizzano la scena italiana negli anni del fascismo e per un approfondimento dei mutamenti come delle continuità con l’epoca giolittiana, si vedano gli studi di Gigi Livio (Prima ipotesi sulla storia e l’interpretazione del teatro nell’epoca fascista e Nasce l’industria teatrale in Italia: il regista contro l’attore) raccolti in Id., Minima theatralia. Un discorso sul teatro, Torino, Tirrenia Stampatori, 1984.
4 Si veda a questo proposito il capitolo 5 del presente studio.
5 Nel 1924 la SIAE registra un incasso totale per il teatro di 58 milioni che si dimezza quasi nel corso dei nove anni successivi, tanto che nel 1933 sarà di 31 milioni. Per l’indicazione dei valori e delle cifre della crisi, si vedano D. Alfieri, La vita dello spettacolo in Italia nel decennio 1924-1933, II-XI dell’Era fascista, Bologna, SIAE, 1935 e G. Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo cit.
6 Si vedano fra l’altro a questo proposito le pagine illuminanti di Antonio Gramsci sul carattere teologico-speculativo dello storicismo idealistico di Croce. Nonostante le dichiarazioni in merito del suo autore, infatti, la filosofia di Croce rimane «una filosofia “speculativa” e in ciò non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, appena liberate dalla più grossolana scorza di mitologia»: A. Gramsci, La filosofia di Benedetto Croce, in Id., Il materialismo storico cit., pp. 237.
7 Si fa qui riferimento ovviamente al periodo che segue il Concordato del 1929 fra Stato e Chiesa.
8 Sul rapporto del mondo cattolico con il fascismo rimandiamo a M. Isnenghi, L’Italia del fascio, Firenze, Giunti, 1996; F. Traniello, Pensiero politico cattolico e modello totalitario negli anni ’30, in Aa. Vv., L’idea di un progetto storico. Dagli anni ’30 agli anni ’80, Roma, Studium, 1982 e P. G. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime, Roma-Bari, Laterza, 2000.
9 Quel Romolo Murri, che anni prima era stato fra gli esponenti della corrente modernista, aveva fondato il movimento democratico cristiano e poi era stato scomunicato nel 1909 e al quale, come si è detto, d’Amico si era da principio legato, nel 1929 pubblica un libro dal titolo sintomatico Fede e fascismo. Qui, nel tentativo di definire il concetto di fede ponendola in relazione ai tempi nuovi, Murri usa parole che restituiscono con efficacia il clima di totale adesione al fascismo – di cui si finiscono per giustificare perfino le violenze – di gran parte del mondo cattolico, appiattito in un conservatorismo conformista che la ridondanza della retorica fascista riempe di velleitarie promesse di rinnovamento.
«Sincerità, spontaneità, disinteresse, fervore di azione, entusiasmo, volontà, esaltantisi nella consapevolezza e nel possesso di un valore comune; sete intensa e operosa di una verità universale in atto, di una azione che trovasse un segno comune oltre tutti i particolari interessi, che fosse capace di riempire ed inebriare le anime e di tradursi in gesti, individuali o collettivi, dentro i quali si racchiudesse e dai quali si schiudesse il destino di un popolo [...]. Ogni valutazione di realtà e di indirizzi storici che sono in pieno svolgimento, è un atto di fede: affermazione personale di valori che debbono farsi storici e fiducia nell’opera di quelli che da essi prendono le mosse e nell’efficacia di quest’opera, suscitatrice di consensi, di energie, di iniziative che chiariscono ed estendono ed inquadrano nel largo e possente respiro della vita di un popolo»: R. Murri, Fede e fascismo, Milano, Alpes, 1929, pp. 28 e 35. Simili posizioni e, in particolare, la difesa di un’idea organicistica e antidemocratica dello stato autoritario erano già presenti negli articoli di Murri pubblicati sul «Resto del Carlino» dopo il 1922.
10 S. d’Amico, Tendenze nuove del dramma italiano, in «Scenario», aprile, 1932, p. 34.
11 Ivi, p. 35.
12 Id., La crisi del teatro cit., p.
13 D’Amico verrà attaccato anche duramente per la sua definizione della crisi in senso religioso, soprattutto da coloro che ricondurranno le sue parole a una posizione strettamente confessionale. Da tali attacchi d’Amico si difenderà sulle pagine di «Scenario» in un corsivo non firmato ma suo e poi sulla «Tribuna», nella rubrica «Passaggi a livello», il 9 aprile 1933.
14 M. Isnenghi, L’Italia del fascio cit., p. 139.
15 Riportato in G. Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo cit., p. 104.
16 R. Forges-Davanzati, Lettera a Silvio d’Amico, 16 agosto 1930, anno VIII, lettera manoscritta conservata al MBA, Fondo d’Amico, sezione «Corrispondenza».
17 S. d’Amico, Lettera a Forges-Davanzati, Castigli, 24 ago 30, lettera dattiloscritta conservata al MBA, Fondo d’Amico, sezione «Corrispondenza».
18 S. d’Amico, Progetto per la creazione d’un Istituto nazionale del teatro drammatico, p. 2; il progetto è conservato nell’Archivio Centrale di Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri (1931-33), b. 3, f. 2-12; una copia è conservata anche nel Fondo d’Amico del MBA, sezione «Teatro e stato».
19 Così nel progetto si indicano fra i principali scopi: «dare finalmente agli autori italiani quei mezzi di fedele e intelligente espressione scenica, su cui oggi non possono contare», «creare nuovi e moderni interpreti – sia attori, sia scenografi, sia regisseur – riformando l’insegnamento artistico»: ibid.
20 Per la scuola d’Amico prevede la ristrutturazione della già esistente Scuola Eleonora Duse e per la biblioteca-museo la sede del Burcardo, utile poi anche per fondare una rivista di studi teatrali e una casa editrice.
21 S. d’Amico, Adunata teatrale a Parigi. Conclusioni: la messinscena, in «Gazzetta del popolo», 20 luglio 1927.
22 Ricordiamo che nei confronti di Tatiana Pavlova d’Amico aveva dimostrato fin dal principio di subire il fascino per la raffinatezza un po’ esotica dei suoi allestimenti nei quali lo spettacolo, inteso proprio come costruzione di un complesso innanzitutto visivo, prevaleva decisamente sull’espressione dell’interiorità dei personaggi e sulla resa fedele del testo.
23 S. d’Amico, Il maggio fiorentino. Shakespeare nel giardino di Boboli, in «Gazzetta del popolo», 1 giugno 1933.
24 Id., Attori inglesi, in «Gazzetta del popolo», 30 giugno 1927.
25 Id., Romanticismo alla «Comédie», in «Gazzetta del popolo», 14 luglio 1927.
26 Id., I francesi al Festival, in «Gazzetta del popolo», 16 luglio 1927.
27 Id., Teatro dei nostri giorni, in «Gazzetta del popolo», 29 marzo 1928.
28 Id., Insegnamenti d’un piccolo teatro, in «Gazzetta del popolo», 18 ottobre 1930. Sullo stesso numero della «Gazzetta del popolo» in cui compare quest’ultimo articolo dedicato al piccolo teatro di Praga, viene pubblicata anche la prima risposta di d’Amico a Zacconi relativa alla polemica sul Tramonto del grande attore. A proposito di questa polemica si veda il primo capitolo.
29 In un intervento polemico del 1928 contro Nino Berrini, che avrebbe avuto il torto di ridurre la crisi del teatro a una questione di borderò, ribadendo la sua consueta tesi, d’Amico solleva ancora una volta la polemica contro il comico italiano, guitto e incolto, indicando come unica soluzione percorribile la comparsa di direttori in senso forte, sull’esempio delle esperienze europee. In questa circostanza d’Amico che, fino a pochi anni prima si era mostrato avverso alla figura troppo invadente del direttore demiurgo, sostiene la tesi del così detto ritardo del teatro italiano in relazione alla modernizzazione registica di molte esperienze d’oltr’alpe («Noi siamo in ritardo di almeno trent’anni sull’ora europea», «Bisogna mettersi al passo»). S. d’Amico, Crisi del teatro. D’Amico risponde a Berrini, in «Gazzetta del popolo», 2 agosto 1928. Ritardo dunque sui tempi, ritardo rispetto a una tabella di marcia, ma sopratutto ritardo in relazione a un’idea di modernizzazione normalizzante del teatro che tuttavia non è la stessa che ha animato i riformatori europei. Perché poi ciò che il critico chiede non è tanto quell’opera di radicale rifondazione del linguaggio della scena che caratterizzò alcuni dei più significativi percorsi di quegli anni in Europa, bensì una forma per razionalizzare e normalizzare l’esistente anche sfruttando le novità estere quali modelli di riferimento, privati tuttavia della loro complessità d’origine. Un ritardo ambiguo, dunque, perché quel «passo» non sarà mai – né vorrebbe esserlo – quello del teatro italiano.
30 F. Cruciani, Jacques Copeau o le aporie del teatro moderno, Roma, Bulzoni, 1971, p. 127. A questo scritto, a cui si aggiunga anche dello stesso Cruciani il più recente Registi pedagoghi e comunità teatrali nel novecento (e scritti inediti) (Roma, Editori associati, 1995), facciamo riferimento per un’analisi approfondita della poetica di Copeau e, in particolare, del nesso fra rinnovamento del linguaggio della scena e riflessione pedagogica nella generazione dei registi del primo Novecento.
31 M. I. Aliverti, Jacques Copeau, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 89. Così scrive Copeau: «Questa unità vi ho detto che si cerca di ricostruirla in una unione quasi irrealizzabile tra diversi operai del teatro, o meglio ancora nella persona del regista completo che, tramite l’identificazione con l’opera che produce sulla scena, ci restituisce un’immagine indebolita del Poeta»: cit. in Ibid. (tit. orig J. Copeau, Une renaissance dramatique est-elle possible?, in «Revue Générale», 15 aprile 1926).
32 L’attenzione a una certa idea di popolare è in quegli anni diffusa. Ricordiamo qui in nota che anche Massimo Bontempelli usa quel termine nel suo intervento al Convegno Volta, ma in un modo molto diverso da quanto fa d’Amico e, come ha sottolineato Gigi Livio, proprio di una «tendenza, che all’interno dello spettacolo fascista ci fu», ma che rimase minoritaria, «a un rinnovamento totale dei moduli spettacolari» (G. Livio, La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento, cit., p. 257). Popolare, dunque, per Bontempelli perché antiborghese, rivolto a un pubblico «passionale ed eccessivo» simile a quello degli stadi e non certo ordinato e conciliato come quello radunato in chiesa a celebrare il Verbo del Poeta e voluto da d’Amico.
A conferma di quanto detto, ricordiamo come Bontempelli conclude il suo intervento: «Naturalmente, una civiltà teatrale non può accontentarsi di un solo atteggiamento. Accanto al teatro per masse il teatro minore, quotidiano, dovrà continuare a vivere, con i suoi fini particolari: dovrà riprendersi, diciamo coraggiosamente, il teatro per i borghesi, il teatro d’abitudine, d’ordinaria amministrazione. Ma la esistenza dell’altro, dello spettacolo a vaste linee, a sentimenti elementari, avrà un benefico influsso anche sul teatro quotidiano per i necessari borghesi. Così accadrà che alla somma loro, cioè alla nuova vita teatrale che una creazione a grandi linee potrà dare all’epoca nuova, finirà per essere affidato in gran parte il còmpito di sborghesizzare la borghesia, che è il compito principale della “rivoluzione continua”»: M. Bontempelli, Teatro di masse (quarta seduta), in Convegno di Lettere, 8-14 ottobre 1934, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1935, pp. 147-148.
33 «E tuttavia» aggiunge il critico «io tradirei il pensiero di Jacques Copeau se vi dicessi che il suo messaggio si limita a riaffermare una così generica “religiosità”. No, la parola che il Copeau pronuncia è precisamente, inequivocabilmente cristiana»: dall’intervento all’ottava seduta di Silvio d’Amico, in Convegno di Lettere cit., p. 292. Così si concludeva la relazione di Copeau commentata da d’Amico: «La question n’est pas de savoir si le théâtre d’aujourd’hui empruntera son attrait de telle ou telle experimentation, puisera sa force dans l’autorité de tel maître de la scène plutôt que de tel autre. Car il faut qu’il soit vivant, c’est-à-dire populaire. Pour vivre, il faut qu’il l’homme des raisons de croire, d’espérer, de s’épanouir. Ce foyer d’une chaleur nouvelle, j’ose dire, quant à moi, que nous ne le trouverons que dans une religion d’amour»: J. Copeau, Le spectacle dans la vie morale des peuples, (ottava seduta), ivi, p. 297.
34 Ne sia una prova il seguente episodio. Poco dopo le rappresentazioni del Maggio fiorentino del 1933, il critico intervenendo su «Scenario» insiste sulla necessità di formare registi italiani, laddove l’uso di quelli stranieri (Copeau compreso) sarebbe un «ripiego, di natura sua imperfettissima», non essendo costoro in grado di coordinare la recitazione degli attori con la perfetta padronanza del linguaggio. La stessa Rappresentazione di Santa Uliva avrebbe peccato secondo d’Amico proprio in questo senso, perché non sarebbe stato possibile a Copeau penetrare con profondità il ritmo tipico dell’ottava quattrocentesca e impostare così correttamente la recitazione degli attori. La soluzione che d’Amico consiglia alla fine dell’articolo è, come già nel 1931, quella di inviare i giovani aspiranti registi all’estero, per lunghi periodi di formazione a diretto contatto con esperienze di regia più interessanti del panorama europeo: S. d’Amico, Per una regia italiana, in «Scenario», giugno 1933, p. 511. A proposito del nazionalismo di Silvio d’Amico si veda anche R. Alonge e F. Malara, Il teatro italiano di tradizione, in Aa. Vv., Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, vol. II: Il teatro borghese. Settecento-Ottocento, Torino, Einaudi, 2000, pp. 595-596.
35 S. d’Amico, Spirito della Commedia dell’Arte, in «Scenario», marzo 1932, p. 18.
36 Id.,, Attori, in Enciclopedia Italiana di scienze lettere ed arti, vol. V, Milano-Roma, Bestetti & Tumminelli, 1930, pp. 299-308.
37 Id.,, Scuola di regìa drammatica, in «Gazzetta del popolo», 16 giugno 1936.
38 Ibid.
39 C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi cit., p. 33.

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Il critico e l’attore
Silvio D’Amico e la scena italiana di inizio Novecento
Donatella Orecchia
2012