5. La nuova generazione
p. 200-284
Texte intégral
1L’ambiguità della posizione di d’Amico nei confronti della nuova generazione d’attori che, formatasi nello stesso periodo in cui anch’egli lavora alla costruzione di un proprio pensiero critico, avrebbe potuto rappresentare nel corso degli anni Venti il terreno su cui edificare qualcosa di nuovo, che meglio sapesse rispondere alle esigenze del mondo contemporaneo, è dovuta proprio al fatto che non da lì d’Amico attende un rinnovamento.
2In una lettera inviata a Cavacchioli nel novembre del 1924, d’Amico scrive:
Caro Cavacchioli,
per me il problema è nel sottrarre la direzione delle Compagnie agli attori. I grandi virtuosi, se ne nascono ancora, recitino per conto loro: noi andremo a sentirli per ammirar loro, non gli autori ch’essi deformeranno. Ma gli attori secondari (e intendo tutti quelli oggi viventi in Italia, salvo qualche vecchio, e qualche dialettale) bisogna farli diventare quel che devono, strumento del poeta.
Dove trovare chi sappia dominare e foggiare cotesto strumento? ecco il circolo vizioso. Regisseurs ce n’è in Russia, in Francia, in Germania, in America: in Italia manca perfino la parola. Bisogna inventarli. Se si comincia male, come è accaduto varie volte, si compromette la bontà della causa. Ma se non si comincia mai, si rinuncia a combatter per la causa. Quanto al programma mi par logico che ogni direttore abbia il suo: se no perché fa il Direttore? Io sono pel grande teatro eclettico, con annesse scuole di recitazione e di scenografia, nel quale si reciti da Shakespeare e da Molière a Shaw e a Pirandello: e ciò perché, come disse altri, prima di far l’eccezione in Italia si deve ancora crear la Regola. Ma se per ragioni di proporzioni, o economiche, o altro, s’ha da cominciare con un teatro piccolo, cominciamo da uno piccolo. Sia eclettico, sia legato a una determinata scuola poetica (ce n’è?) [...]. Attori? trovare i più malleabili, i più disposti a essere dominati; questa qualità per me deve prevalere anche sulla loro cultura; gente che possa diventar veramente strumento nelle mani del capo; però che siano attori1.
3A qualcuno dei rarissimi virtuosi rimasti – ma sono per lo più vecchi o dialettali – d’Amico concede solo l’episodica ammirazione di qualche critico. L’antico sistema – quell’odiato sistema basato sulle compagnie di ruolo capocomicali, nomadi, incolte e approssimative – si sta gradualmente sgretolando2 e non si vedono i presupposti perché a esso se ne sostituisca un altro, capace di connettere le diverse esperienze e, soprattutto, di ordinarle in un nuovo sistema di relazioni economiche che risponda alle esigenze della modernizzazione della scena.
4Vero è che la crisi c’è: crisi strutturale che investe la maggior parte delle compagnie le quali, fra il 1922 e il 1927, si riducono in modo consistente concentrandosi in poche aree geografiche collocate per lo più nel nord d’Italia3.
5Crisi sulla quale aveva certo inciso fortemente da un lato la stretta cui le logiche di monopolio stavano costringendo ormai da anni il mercato dello spettacolo e dall’altra – ma non è certo questione disgiunta dalla prima – la competizione serrata del cinematografo e di altre forme di intrattenimento. E se ormai la crisi è sotto gli occhi di tutti, tuttavia alle diverse prospettive critiche con cui si guarda in quegli anni il linguaggio della scena, il suo rapporto con la tradizione, quello con i processi produttivi e le forze economiche, corrispondono differenti chiavi di lettura non solo delle possibili cause, ma anche delle soluzioni percorribili nel futuro.
6D’Amico da parte sua, da un lato, continua caparbiamente a ribadire la sua antica posizione e focalizzare ideologicamente la gran parte delle ragioni dei mali presenti in un passato carico di storture, dall’altro, con scetticismo sostiene la mancanza di rimedi «almeno fin che la vita teatrale in Italia resti economicamente organizzata così com’è ora» e, aggiunge di seguito (apparentemente rinforzando la nota pessimistica ma in realtà indicando la soluzione ch’egli ormai crede l’unica percorribile), «soprattutto perché non si annuncia l’uomo, il riformatore, il rinnovatore»4.
7Ecco che, ancora una volta, fa qui ritorno il clima di attesa per l’avvento – quasi «epifanico» – di qualcuno che sappia risolvere le contraddizioni in cui si muove il mondo teatrale in questo caso, a differenza di quanto era avvenuto per Eleonora Duse, non solo simbolicamente, bensì attraverso un intervento concreto e, soprattutto, strutturale. In sostituzione del sistema teatrale antico, ormai definitivamente crollato, l’intervento dell’uomo nuovo (regisseur o maestro che sia) dovrebbe rappresentare la soluzione che, sull’esempio di ciò che sta accadendo nel resto dell’Europa, garantisca un futuro al teatro italiano e, soprattutto, garantisca la realizzazione di spettacoli di complesso, a direzione esterna, apparentemente attenti al rispetto del testo5.
8In realtà tutti ben sanno, e fra i primi lo sa bene anche d’Amico – che infatti da anni si sta muovendo con grande cognizione della già ricordata frase di Antonio Gramsci6 –, che non sarà mai sufficiente un uomo solo a mutare qualcosa, ma che invece è tutto un sistema economico e produttivo a dover supportare quale che sia la strada scelta per riformare il linguaggio della scena. È proprio ciò che sta accadendo in quegli anni e che, con la politica culturale del governo fascista, si consoliderà nel corso di quelli successivi: l’imporsi di un modello organizzativo che, se da un lato prevede il graduale impoverirsi della forza contrattuale degli attori e dei capocomici schiacciati dallo strapotere dei proprietari di teatro – spesso radunati in monopolii – e da quello degli autori, dall’altro, aumenta le sovvenzioni statali ai quei teatri che possono garantire l’attività di una compagnia almeno parzialmente stabile, caratterizzata da un organico di attori mediamente buono ma senza sorprese, omogeneo e capace di produrre spettacoli di complesso ben confezionati.
9Parallelamente, sui resti di una tradizione attorica che va via via impoverendosi, cresce fino a farsi regola diffusa una recitazione che è stata definita dell’«attore funzionale»7. Dove infatti il sistema delle compagnie organizzate per ruoli si va disgregando senza che sopravvenga a sostituirlo (eccetto rari sporadici casi quali quello di Talli) una nuova forma economico-organizzativa capace di assimilare e riformare (ma non liquidare) la ricchezza della tradizione passata, l’attore viene privato del contesto linguistico in cui elaborare il proprio peculiare stile d’artista in dialettico rapporto con la tradizione e si riduce a essere funzione di un ingranaggio che non può controllare e che non deve ostacolare.
L’attore dell’antilingua, costruendo il personaggio – ora pensoso, ora disinvolto, ora elegante –, non pensa; piuttosto si preoccupa di non sbagliare, di non fare errori di movimento, di ritmo, di pronuncia: un’idea o in intervento incontrollato della sua personalità potrebbero perderlo, perché egli è e si sente parte di un ingranaggio che deve funzionare senza sorprese8.
10All’interno di questo contesto il discorso di d’Amico sugli attori della nuova generazione si chiarisce rivelando pienamente il suo significato e la direzione verso la quale il critico intende procedere: attore funzionale – come modello in parte già presente sulla scena – e attore maestranza – come modello da formare – si inseriscono pienamente nel processo di industrializzazione della scena a cui manca, per farsi moderna e uscire così dalla crisi, più che l’intervento dell’uomo nuovo quello di una politica culturale che incentivi e stabilizzi una struttura economico-organizzativa se non interamente nuova, quantomeno efficace.
11Non di questo, o meglio, non solo di questo vorremo occuparci nei prossimi paragrafi dedicati a due attori come Sergio Tofano e Marta Abba il cui percorso non può venire identificato né con quello proprio dell’attore funzionale né con quello della maestranza bene addestrata. Si tratta certo di due esempi particolari che non esauriscono il panorama artistico di quegli anni. Interessanti più per le loro eccentricità che non per il contributo che diedero allo sviluppo di quella linea che va imponendosi sempre più e di cui d’Amico si fa strenuo difensore e astuto “apparatore”, forse proprio in virtù dell’indubbia forza e originalità artistica che li contraddistinguono, portano d’Amico a rendere il suo pensiero più ricco di sfumature e di articolazioni, più complesso e denso di stimoli di quanto i suoi articoli programmatici e teorici sul teatro del futuro non lascino supporre.
1. Sergio Tofano o la grazia elegante di stilizzato sapore grottesco
1.1. Sto: la grazia marionettistica
12Quando nel 1919 d’Amico scrive il suo primo intervento dedicato interamente a Sergio Tofano, curiosamente pone a titolo dell’articolo, anziché il nome dell’attore, la «sigla» Sto con cui Tofano era solito firmare le sue caricature, riconoscendo così fin da principio nella linea di continuità stilistica fra l’uno (il disegnatore) e l’altro (l’attore) la cifra che complessivamente caratterizza la personalità dell’artista.
13«Per noi il caricaturista, diciamo meglio, il disegnatore di così delicate eleganze, è tutt’uno con l’attore. Le qualità dell’uno e dell’altro si confondono» e non tanto perché si tratta sempre della medesima persona, quanto piuttosto perché il tratto stilistico che caratterizza i disegni di Sto, più noti allora di quanto non lo fossero la sua voce o il suo volto, resta sostanzialmente immutato nel suo modo di essere attore. Sia ch’egli reciti come nel caso a cui si riferisce l’articolo di d’Amico L’asino di Buridano, sia che incontri il repertorio di Pirandello, sia che porti sulla scena la sua creatura di carta – il signor Bonaventura – Tofano si distingue perché elegante, raffinato, essenziale, ironico, «pieno di grazia e levità», di quella «grazia marionettistica» che è propria dei «pupazz[i] di Sto»9.

Tavola 15. Sergio Tofano in Knock
Fot. De Antonis-Roma
MBA. Fondo Tofano
14Inoltre, fatto non indifferente per il critico, Tofano è «uno dei due o tre attori italiani laureati in lettere»: attore colto, dunque, di quel tipo di cultura letteraria maturata sui libri che è altro dalla sapienza delle cose del teatro inteso come linguaggio della scena – ma d’Amico sta in parte sottovalutando il peso e la forza del lunghissimo noviziato di Tofano nella compagnia di Talli. In nome di questa cultura, dell’eleganza signorile e della levità sobria e delicata che è propria dei disegni di Sto, d’Amico è disposto anche ad accettare, purché resti un’eccezione, la disumanità di una recitazione buona per «certe figure legnose, di comicità schematica»10, adatta a rendere anche le pochades francesi con la necessaria raffinatezza e con il senso esatto della definizione del quadro della finzione che Dina Galli invece, «pupattola assolutamente priva di grazia», non ebbe mai. Forse, ma per il momento è solo un’ipotesi, proprio il tratto asciutto, sobrio e sintetico dell’illustratore, che è costretto a restare entro i margini della pagina ed entro quei margini creare un mondo che ha tutta la levità della fiaba (sebbene di una fiaba particolare come vedremo), forse proprio quel tratto – che nell’attore diviene anche rispetto dell’assolutezza e dell’autonomia della fiaba recitata e dunque della quarta parete – fa di Tofano un’eccezione che rende la sua disumana «legnosità» accettabile anche agli occhi di d’Amico.
15Non più giovanissimo, sebbene le cronache si ostinino a definirlo tale, Tofano nel 1919 è nella compagnia di Virgilio Talli da ormai sette anni nel ruolo di brillante che già fu, proprio in quella stessa compagnia, di Alberto Giovannini morto prematuramente nel 1915. Al lungo magistero di Talli, da lui riconosciuto come l’unico vero maestro della sua vita11, Tofano deve certamente molto della definizione della sua identità stilistica che, ancora non perfettamente compiuta al tempo di questa recita, è tuttavia già abbastanza chiaramente delineata. Chiaro è innanzitutto il suo inserirsi all’interno del processo di rinnovamento del ruolo del brillante che Talli prima di lui, e soprattutto Giovannini, avevano già avviato nel corso degli anni precedenti12.
Sergio Tofano è giovanissimo: come attore è cresciuto alla scuola di Virgilio Talli ed ha dell’arte del Talli alcune delle più tipiche caratteristiche, come le aveva il compianto Giovannini […]. Talli, in Giovannini prima, oggi nel Tofano ha cercato di mantenere sulle scene italiane un tipo di attore che, dopo Bellotti-Bon, Garzes e Leigheb, andava scomparendo, il brillante; ma con dei criteri di modernità, quali accompagnano tutte le manifestazioni di questo insuperato maestro di scena. E come già di Giovannini, Talli tende a fare oggi del Tofano un attore promiscuo13.
16Sebbene il cronista della «Tribuna» non si soffermi qui ad argomentare, quell’accenno al promiscuo verso il quale il ruolo del brillante si piegherebbe leggermente è per noi un’indicazione preziosa. Coglie infatti il problema alla radice e individua, proprio nella commistione di generi (comico e drammatico) che caratterizza il percorso di trasformazione del ruolo del brillante agli inizi del secolo, la «modernità» del magistero di Talli in questo vicino a ciò che in campo drammaturgico stava avvenendo con i grotteschi.
17Anche se inizialmente in una posizione di subordine rispetto al maestro, Tofano da brillante tradizionale fattosi promiscuo esprime con il suo stile astratto e legnoso uno dei modi in cui quel percorso venne ad articolarsi. Quando molti anni più tardi, nel suo Teatro all’antica italiana, Tofano si troverà a dover descrivere il ruolo del brillante14, stenderà una pagina che può essere oggi considerata quasi un autoritratto:
[C]ontro di lui [il primo tipo di brillante del vaudeville e della pochade, «rumoroso, farraginoso, esplosivo, dinamico, pirotecnico, irrompente»] sta il brillante della commedia a tesi o del dramma sociale: conversatore garbato e pacato, arguto e acuto, elegante e galante, che si diverte a commentare in chiave ironica e con un pizzico di cinismo bonario gli avvenimenti di cui è testimonio. È quello che fa la morale. Un personaggio un po’ al di fuori della commedia che in un certo senso è il portavoce dell’autore e ne esprime le idee e la filosofia15.
18Attore sempre devoto al rispetto del testo, Tofano riconosce qui alla drammaturgia la funzione promotrice dell’innovazione e così facendo non restituisce invece in modo chiaro la ricca dialettica del rapporto fra il linguaggio della scena e la scrittura drammatica. Se è in parte vero che un certo tipo di drammaturgia (i grotteschi appunto) non può che costringere il teatrante che la frequenta a porsi il problema della crisi e della critica dei modi della rappresentazione di quella scrittura – e della tradizione recitativa di riferimento, ruoli compresi –, è dialetticamente altrettanto vero l’inverso. E cioè che è proprio di un certo linguaggio della scena influenzare, attraverso la critica delle forme espressive che usa, la scrittura drammatica ad esso contemporanea: nel caso particolare, le recite della compagnia Talli e poi gli attori come Giovannini e Tofano contribuiscono a dare compiutezza e vita artistica alla trasformazione di quel ruolo, attraverso un lavoro sullo stile che è l’espressione delle loro poetiche d’attori e che, non necessariamente, è in perfetta sintonia con le poetiche dei testi recitati, ma che influenzerà infine, come si è detto, la scrittura di alcuni drammaturgi di quegli anni. D’altra parte aggettivi come «garbato e pacato, arguto e acuto, elegante e galante», usati per descrivere il personaggio-coro dei drammi grotteschi, potrebbero essere impiegati in modo ancora più pertinente per indicare lo stile di Tofano che, da brillante, era solito recitare in quella parte. In conclusione: dalle tavole del palcoscenico l’attore guarda alla scrittura drammatica e vi coglie la radice e la causa di una trasformazione del linguaggio della scena (e anche del proprio stile) che invece, come testimonia il suo stesso percorso artistico, è solo in parte da attribuire ai repertori recitati perché è in parte, come si è detto, da attribuire alla pressione che la vita del palcoscenico esercita sulla drammaturgia.
19Facendo ora ritorno a d’Amico, è particolarmente indicativo del suo modo di leggere le questioni teatrali il fatto che nell’intervento su Tofano del 1919 il critico non faccia alcun riferimento alla trasformazione del ruolo tradizionale del brillante, né ricordi Giovannini, né sottolinei l’influenza del magistero di Talli. Ancora una volta sceglie la strada del ritratto avulso dalla storia e, in particolare, dalla storia del linguaggio della scena, abolendo in tal modo – ignorandola – quella trama sottile ma resistente che lega i percorsi artistici individuali dei singoli attori, che li stringe all’interno di una tradizione artistica viva e, se indagata con attenzione, dà ragione delle peculiarità dei singoli come delle affinità, delle rotture come delle continuità.
20Al termine del suo articolo d’Amico, nell’accennare alla differenza stilistica fra Tofano e molti altri brillanti, sposta infatti il discorso:
Altri brillanti notissimi hanno riportato in questa parte enormi successi di ilarità, sfruttandone tutte le risorse. Tòfano fu graziosissimo ed elegantissimo, senza eccedere in comicità: il che non vuol dire che il pubblico non rise dal principio alla fine16.
21Il confronto con la tradizione del brillante è qui ricondotto ad una questione di misura che, come si è già ricordato, costituirà anche il criterio con cui giudicare l’arte di Petrolini, attore appunto, fuori di misura, eccessivo: a differenza di Petrolini, così come a differenza di molti altri attori che recitano nel suo stesso ruolo, Tofano saprebbe fermarsi prima di dar fondo a tutte le risorse della comicità e non soltanto per i suoi doni di natura (per quella «fisionomia da tratti quasi immobili»)17, ma soprattutto perché attore colto.
22Come nel caso di Ruggeri, anche per Tofano si potrebbe ricordare l’espressione di d’Amico: «l’attore non nasce, si fa»18; come Ruggeri anche Tofano ha studiato, è elegante, raffinato, dotato del senso del limite che lo tutela dagli eccessi e dall’infrazione dell’ordine, ricco di una grazia che, al contrario, mancherebbe alla maggior parte degli attori italiani, marionettistico ma senza esasperazione, lieve come i suoi disegni. Una novità quella di Tofano che non si definisce tanto in relazione al repertorio da lui recitato, né alla trasformazione del ruolo del brillante nei termini in cui si è detto poco sopra (di commistione ciò fra comico e drammatico), bensì in relazione ad una piega particolare che il comico assumerebbe in lui: depurato dagli eccessi e dalle grossolanità, arginato entro i limiti di una cauta misura, reso aereo e fantastico dal tratto del disegnatore d’infanzia solito lavorare «più di gomma che di matita»19, recuperata alla sfera del comico anche una lieve traccia di mistero, Tofano si distanzia così dalla tradizione del brillante di cui, per esempio, Antonio Gandusio sarebbe invece uno degli ultimi rappresentanti.
23Attore che incarna il «brillante autentico; il solo, forse, rimasto a perpetuare il ruolo tradizionale». Gandusio infatti, in perfetta coerenza con le leggi del comico d’amichianamente intese, lavora accentuando «la sua storica legnosità (il brillante della tradizione è sempre stato più o meno marionettistico)» fino a stilizzarla «al punto da divenire una specie di maschera, di tipo fisso». Attraverso la tecnica dell’aggiunta parossistica, dell’esasperazione, dell’eccesso, dell’accentuazione di ogni spasimo, di ogni contrazione nella frenetica ricerca dell’effetto e del superamento del limite, Gandusio si fa marionetta impazzita e ribelle ai fili e, rifiutato il testo come argine e regola di disciplina, si nega ogni senso della misura: «suda, si sbraccia, si sgola, chiama a raccolta tutte le sue facoltà positive e negative, esaspera ogni incontro, ogni urto, ogni battuta» e così facendo trasforma il teatro in una «fornace d’ilarità»20.
24Tofano al contrario, attore colto e misurato, indica la strada moderna di una comicità raffinata ed elegante; una comicità schematica che prevede l’astrazione e la stilizzazione della marionetta, ma non l’esasperazione del fantoccio che d’Amico rimprovera ai grotteschi. Accade così che, dopo i ripetuti attacchi al «nuovo teatro», di cui Pirandello è riconosciuto come il rappresentante più illustre, ancora nell’aprile del 1921 in occasione di una recita dell’Uccello del paradiso da parte della compagnia Talli, d’Amico esprima un giudizio molto duro contro quel tipo di drammaturgia «scettica e stanca, incapace di fede nelle sue stesse creature, negatrice a priori d’ogni loro sostanza nell’atto stesso che le viene creando»: un’arte assistendo alla quale resta solo «un senso di sforzo deluso, e di scontenta aridità. Nella quale ultima temiamo sia il segreto e disperato movente di questi grotteschi, che il pubblico sano accoglie con poca persuasione»21. Ma quando qualche mese dopo il critico, intervenendo su Tofano, lo definisce «grottesco»22 non carica in questo caso l’aggettivo di alcuna nota polemica, facendo riferimento ancora una volta alla grazia marionettistica già segnalata in precedenza piuttosto che all’amaro scetticismo delle poetiche del «nuovo teatro». Così anche quando nel gennaio del 1924 esprime entusiasmo per la rappresentazione del Cammello di Cavacchioli, l’elogio non è certo riferito all’autore, ma solo alla recita di Tofano che, pur in una parte secondaria, è «l’unico godimento tutto visivo, dello spettacolo»23. Tofano è GianGiorgio, figlio dei Dentici e fratello della protagonista; un personaggio che appare solo nel secondo atto, ubriaco e vestito da Pierrot. La recita “seria” della famiglia piccolo borghese, tutta intenta a far fronte alla ribellione della figlia (Usignolo) che ne sta minacciando la compattezza, viene interrotta dall’apparire di questo Pierrot che, assolutamente disinteressato a ciò che sta accadendo in scena, come in una sognante e solitaria continuazione di una recita che forse ha appena concluso in teatro, non fa altro che ripetere le battute di un dialogo con Colombina, intercalandole qua e là con un «Sss… Poi te lo dico. Ora sono stanco» che sembra farsi talvolta risposta diretta alle provocazioni e alle domande degli altri personaggi. Di qui Tofano parte per disegnare un Pierrot lunare, elegante, carico di un languore delicato e di una grazia sottile; così lo descrive d’Amico:
Come invase con tutto quel suo perverso candore l’interno piccolo borghese, come fece sparir la persona nell’ampiezza di quelle vesti che parvero vuote, come s’atteggiò, con che stile disse le sue battute d’ubriaco, con che grazia di burattino sapiente strapiombò sul divano, afflosciandosi e abbandonandosi come un fantoccio di Jannetti24.
25Non un uomo: piuttosto, un fantoccio. Un Pierrot, appunto, «perfetto d’eleganza», astratto nei gesti e nelle parole, candido e perverso insieme – di quella lieve perversione che è lecita solo ai fantocci –; un attore, dunque, la cui cifra stilistica è qui tutta nella «grazia di burattino»25 – parente prossima della «grazia marionettistica» di cui aveva già scritto – che, come nei disegni di Sto, l’elemento surreale salva dal pericolo di aridità.
1.2. Le recite del 1928: fra Knock e il Signor Bonaventura
26È necessario attendere il 1927 perché Tofano si imponga sulle scene italiane e il 1928 perché d’Amico, in occasione di un corso di recite al teatro Argentina di Roma, ritorni a scrivere di lui ampiamente.
27Sebbene il critico avesse assistito alla prima assoluta di Ciascuno a suo modo a Milano nel 1924, non aveva infatti dedicato molte parole a Tofano che era stato in quell’occasione Diego Cinci. Senza porre alcuna attenzione al discorso metateatrale invece presente nel testo di Pirandello, liquidata la struttura dell’opera e la presenza degli intermezzi a questioni marginali, d’Amico aveva ridotto tutto alla facile e poco giustificata – quindi non credibile – vittoria della realtà passionale tanto su quella razionale di Cinci quanto sulla disperazione delle creature pirandelliane segnate dalla «catastrofica impossibilità di consistere in una certezza»26. Quando, a conclusione del II intermezzo infatti, il Nuti e la Moreno irrompono sul palcoscenico dopo aver visto lì rappresentata la loro vicenda “reale” e ripetono ciò che i personaggi della finzione (il Rocca e la Morello) hanno appena rappresentato facendo così «per forza, sotto i nostri occhi, senza volerlo, ciò che l’arte aveva previsto»27, il tutto avviene in modo troppo affrettato e poco credibile. La recita del 1924 in questo senso non avrebbe che messo in rilievo e accentuato i limiti strutturali del testo: la «realtà passionale» sarebbe stata resa fra l’altro con poca forza e incisività, tanto dalla Vergani e Cimara – che non si sarebbero aggirati in scena «come un turbine» come d’Amico avrebbe voluto – quanto da Tofano, che non sarebbe stato un abbastanza «passionato e vibrante ragionatore». Il limite dell’opera di Pirandello aggravato qui da una recitazione forse troppo contenuta, come di marionette «annaspanti nella loro monotona dialettica», avrebbe infine contribuito al sostanziale fallimento della pur «singolarissima commedia»28.
28Tofano, che non sarà mai «passionato e vibrante ragionatore», ma piuttosto gelido o contenuto e facilmente «monotono» dicitore, sarà certo più a suo agio più tardi quando, nei panni del gelido Knock, darà una delle sue più compiute prove d’attore.
29È il 1928 e la compagnia Almirante-Tofano-Rissone giunge a Roma con un repertorio che comprende, fra gli altri, Knock o il Trionfo della medicina di Jules Romains e le prime due commedie con protagonista Bonaventura (Qui comincia la sventura del Signor Bonaventura e La regina in berlina).
30Il successo personale che Tofano riscuote durante la stagione romana si deve proprio a queste tre recite che lo vedono protagonista e che, nel loro susseguirsi in un breve spazio di tempo, rivelano, in modo più esplicito rispetto al passato, quale sia la stretta relazione che intercorre fra le due passioni di Tofano, il disegno e la recitazione, e quanto ciò incida sullo stile complessivo dell’artista.
31Se i critici si soffermeranno spesso, e non solo in occasione di queste recite, a sottolineare la sua origine di illustratore, sarà proprio perché in Tofano resterà sempre una predisposizione, per esempio, a vedere «le scene con l’occhio del caricaturista più che sentirle col cuore del poeta»29, a cogliere «nelle linee crude, l’essenza delle cose»30, a vedere insomma il personaggio «dal di fuori», «cioè, plasticamente, da artista figurativo»31.
Man mano che leggo una commedia il personaggio che mi interessa si comincia a svelare dal di fuori. Non è che io mi imponga questo sistema per arrivare poi al nocciolo del suo intimo; ma spontaneamente, senza udirlo, senza accorgermene. Mentre leggo il personaggio comincia a presentarmisi a poco a poco nei suoi aspetti esteriori: la figura, il viso, le particolarità del viso, il vestito, poi come si muove, come cammina. Tutto quello che fa parte, insomma, della sua apparenza32.
32A partire dall’esterno – dal disegno dipinto del personaggio – Tofano, attraverso una stilizzazione che «divora» ogni lembo di vita superfluo, riesce poi a «rendere la spiritualità d’un atteggiamento con un segno che più crudo non si potrebbe immaginare» e, come il disegnatore, a «darti un individuo con un tratto di penna»33. È come se, ricordando una bella espressione di Eugenio Bertuetti, Tofano avesse «dentro un gran fuoco, silenzioso anche questo e divoratore, in cui le sue creature – quelle che diventeranno le sue creazioni – cominciano, prima di nascere col morire di consunzione, di macerazione, di incenerimento. A mano a mano ch’egli le porta in sé s’assottigliano, si affinano, si spiritualizzano»34. Disseccato ogni umore sentimentale35, fatto estraneo qualsiasi cedimento emotivo, Tofano mantiene anche sul palcoscenico la predilezione per la forma stilizzata e astratta e, insieme, quel distacco dalla parte recitata lucido e ironico insieme (proprio di chi si sta osservando dall’esterno con serietà). Come già in passato, ma ora con maggiore compiutezza, Tofano mostra qui la cifra essenziale del suo stile, che non solo investe le recite in cui la dimensione fantastica del personaggio è più spiccata (non solo Bonaventura nelle sue varie avventure, ma anche il già citato Il cammello, Il sentiero degli scolari), ma risuona anche in Knock, per esempio, oppure in Volpone o, ancora, in Androcolo e il leone di Shaw.
33Rappresentato dalla compagnia di Tofano per la prima volta a Roma il 4 gennaio 1928, Knock o il trionfo della medicina riceve l’unanime consenso della critica – d’Amico compreso – soprattutto in grazia della presenza di Tofano nei panni del protagonista, il dottore folle che riesce a stravolgere nel breve spazio di tre mesi l’intera vita della cittadina in cui è giunto in sostituzione del dottor Parpalaid. Negando il rapporto d’identità fra normalità e salute e sostituendolo con quello opposto fra normalità e malattia, Knock assegna alla medicina l’altissimo compito di rendere l’uomo cosciente del proprio stato di perenne malato, non solo e non tanto per permettere a ciascuno di difendersi dai pericoli che «ogni istante […] assediano il nostro organismo», ma soprattutto, come il protagonista confida a Parpalaid, per dare alla vita di ciascuno «un senso e, in grazia mia, un senso medico»36. Il delirio di Knock più che un delirio di onnipotenza (la medicina può tutto), o un delirio di scienza (la medicina sa e spiega tutto), è il delirio del senso: la medicina fa prendere coscienza all’uomo della sua identità (di malato) e gli mostra l’unica prospettiva esistenziale che ne possa conseguire e che possa garantirgli un senso: a letto, senza quasi mangiare, senza lavorare, in un tempo scandito solo dal campanello dell’infermeria che ricorda a tutti, a orari fissi, l’unico appuntamento quotidiano, la misurazione della temperatura del corpo. Nel corso della vicenda che costringe infine l’intero paese a letto, Knock mantiene la sua impassibilità nella sicura conduzione del progetto di cui è il solo e unico mefistofelico regista. Così commenta d’Amico all’indomani della recita:
E il procedimento paradossale e farsesco, ma ricamato su un fondo essenzialmente lugubre conduce a un umorismo lievemente atroce, corso da un brivido impercettibile ma continuo, che dà a cotesta aspra comicità il suo sapore moderno37.
34Se è vero che, come prosegue d’Amico, «categorico, ermetico, e, a tratti, spaventevole, Knock è una di quelle parti che sembrano scritte apposta per lui [Tofano]; e raramente ci è capitato, in teatro, di godere una coincidenza così piacevole, fra un personaggio e il suo interprete», allora ciò significa che quell’«umorismo lievemente atroce», ricordato dal critico poco prima, non può che riferirsi anche Tofano: da quel suo stile scarnificato, stilizzato, alla sua «maschera ferma e funerea», a quella sua «smorfia leggermente ironica»38 in cui egli impietra le parole dell’autore, «a quel freddo umorismo che gli è proprio»39. Così, dalla «progressiva rarefazione del clima farsesco», «come in un’atmosfera fattasi improvvisamente spettrale», a un tratto «ci si rivela tutto il significato tragico dell’opera», «un senso di sconfinata pietà per questa nostra vita che traballa sul vuoto della morte»40.

Tavola 16. Sergio Tofano in Sto e l’isola dei pappagalli
Fot. Barzacchi-Milano
MBA. Fondo Tofano
35A parziale integrazione delle testimonianze di questo periodo, sebbene si tratti di un documento da usare con cautela, come traccia, ma, appunto, traccia parziale rispetto a ciò di cui ci stiamo occupando, ricordiamo qui la versione di Knock per la televisione in cui Tofano figura come regista e attore principale. Nonostante la distanza di tempo fra le due recite e, soprattutto, nonostante la ripresa televisiva, tuttavia il filmato ci restituisce, se non altro, l’indicazione di alcuni tratti stilistici della recitazione di Tofano che, in parte già ricordati, si possono cogliere qui nella loro riproduzione visiva e sonora: quei gesti precisi, contenuti, essenziali, privi di sbavature e di cedimenti emotivi, di una compostezza che confina con l’impassibilità, di una secchezza che talvolta sembra quasi goffa perché inceppa la fluidità del movimento; quella voce monocorde, dal ritmo lento e regolare, dal tono perentorio e leggermente ironico di chi vuol lasciar intendere di sapere ciò che gli altri non sanno, una verità che terrorizza e che solo lui pare poter padroneggiare; quelle pause e quei silenzi «tetri» che, più eloquenti delle parole, cadono a interrompere i dialoghi e a farsi commento dell’azione scenica: un’essenzialità e una secchezza infine che non sono tanto il frutto di un lavoro di sottrazione, bensì di un prosciugamento che salva gli spigoli del personaggio e ne sacrifica la carne; ancora, un tono didascalico sempre sopra le righe che a ogni frase e ogni passo infrange l’illusione di realtà e mostra non soltanto la finzione dell’ambigua recita condotta dal protagonista per convincere tutti gli abitanti a convertirsi alla nuova religione della medicina – prevista nel testo –, ma soprattutto la finzione dell’attore Sergio Tofano che recita le battute di Knock e che, proprio in virtù di quel tono didascalico, di quel modo di scandire troppo limpido e marcato le parole41, di quei commenti statici e silenziosi, strania lievemente l’azione e inserisce un elemento di epicità. Se un tratto resta, nonostante la pellicola e nonostante il fatto che il Tofano vecchio abbia ammorbidito in senso naturalistico la sua giovanile astrattezza, è proprio questo tratto epico42.
36Pochi giorni dopo la recita di Knock, Tofano porta per la prima volta sul palcoscenico l’ormai famosissimo protagonista delle sue storie pubblicate da anni sul «Corriere dei piccoli»: il signor Bonaventura. Il successo di fronte a un pubblico in gran parte, ma non esclusivamente, di bambini è straordinario. La critica si schiera quasi unanime nell’elogiare la compagnia e, in particolare Tofano. I più rubricano la recita come una simpatica, intelligente, divertente iniziativa per il pubblico piccino43, ma stentano poi a andare al di là di una definizione di genere sebbene, proprio la vicinanza temporale con la recita di Knock li costringa ad affrontare il problema dell’unità dello stile di Tofano e a ammettere che c’è una linea di continuità stilistica che resiste alle differenze dei copioni e dei personaggi: quel tratto angoloso e secco, stilizzato e essenziale, di cui si è già ampiamente parlato, ne è il segno. Fra le poche voci fuori dal coro, ricordiamo quella di Eugenio Bertuetti che, pur collocando come è giusto la recita all’interno del genere del teatro per bambini, ne coglie poi la specificità in una forma particolare di «grottesco che non strazia ma incanta»44: l’unità poetica e stilistica della recitazione di Tofano, tanto nei panni di Knock tanto quanto in quelli di Bonaventura, consisterebbe dunque nel particolare modo di declinare ciò che il critico – e d’Amico con lui, sebbene dando al termine un significato diverso – indicano come grottesco.
37E fermiamoci ora rapidamente su Bonaventura, personaggio tanto noto quanto frainteso, nato sulla carta nel 1917 e trasportato dopo 10 anni sul palcoscenico. Creato in un momento oscuro di storia, a ridosso della disfatta di Caporetto, Bonaventura sembra indicare la strada di un facile ottimismo, la fuga spensierata dalla cruda realtà della guerra. Eppure l’ineluttabilità con cui la fortuna lo premia irrimediabilmente al termine di ogni storia, in una continua iterazione a ripetere, smonta la credibilità dell’ottimismo di cui dovrebbe essere invece il simbolo. In polemica con il Fortunello (personaggio buono, sfortunato e retorico), Bonaventura subisce il destino che il suo nome gli assegna nella ferrea logica di una fiaba di cui è l’eroe, ma mai il promotore dell’azione. Disinteressato a capitalizzare il suo fortuito guadagno tanto quanto a usarlo in qualsivoglia modo, tratta quel milione, che al termine di ogni episodio fatalmente gli arriva nelle mani, con la stessa noncuranza degli altri oggetti di scena: il valore dei valori della nostra società, il denaro, si rivela allora un inutile enorme pezzo di carta che non muta il destino dell’eroe, pronto per una nuova avventura, povero e stanco come prima. Imperturbabile, etereo e impassibile, Bonaventura passa attraverso i vari episodi e non cambia mai, non l’espressione, non l’abito, non i gesti; sempre distratto, come capitato lì per caso, non reagisce emotivamente e, con una forma astratta di ironia, si fa involontario commento straniante delle passioni e dei turbamenti degli altri personaggi.
[E]gli non è alternativo rispetto a un regime o a un’epoca, ma nei confronti di un’idea della vita e di una visione del mondo. Gli “altri”, quelli che gli si oppongono, sono diversi da lui proprio perché si eccitano, perché si emozionano, perché si agitano: come il feroce Barbariccia che – per una splendida trovata grafica di Sto – cambia colore secondo i diversi stadi dell’ira. Perciò anche Bonaventura può diventare una maschera grottesca, una caricatura, ma egli, come capita a molti clowns, lo è solo in quanto costringe gli “altri” a proclamarsi diversi, ad asserire che le loro deformità sono normali45.
38Quando Tofano dalle pagine del «Corriere dei piccoli» porta Bonaventura sulle assi del palcoscenico, l’eredità di quei dieci anni di strisce illustrate non può che segnare, nonostante la differenza dei linguaggi, anche lo stile con cui il personaggio prende vita scenica: burattino di carta fu e burattino resta; il vestito, il cappello, il naso, le scarpette, il milione sono i medesimi; impassibile e imperturbabile allora come ora nella recitazione disseccata da ogni umore e astratta di Tofano. Le posture del corpo, come testimoniano i documenti fotografici delle recite, ricordano linee spezzate, forme geometriche asimmetriche, suggeriscono l’idea di un fantoccio che, come l’attore scrive in una didascalia particolarmente significativa della Regina in Berlina, ha qualcosa di meccanico tanto da aver bisogno di essere ricaricato:
(Levata di tasca una chiave fa finta d’infilarla in un fianco di Bonaventura e la gira ripetutamente come per dargli corda. Ad ogni giro Bonaventura ha un sussulto, poi comincia a dondolare sui piedi come un fantoccio meccanico, indietreggia a piccoli passi rapidi e stecchiti da automa finché infila la porta e scompare. Cecè lo segue)46.
39Come distratto, sempre fuori luogo, talvolta annoiato o anche stupito, Tofano-Bonaventura è un fantoccio, nel quale l’elemento meccanico pur presente non lo avvicina alla marionetta teorizzata negli anni precedenti dall’avanguardia futurista. In «quell’incantato e lungo sostare da quadro vivente in certi atteggiamenti dai quali si scioglie poi con una rilasciatezza cauta e stanca»47, in quei «gesti ampi e lenti arieggianti le fredde e stilizzate movenze delle marionette»48 e in quell’abbandono in «immobilità morbide e svogliate»49 si misura infatti la distanza dalla marionetta o dal manichino futuristi che, se indicano la strada della lotta contro il naturalismo e lo psicologismo, sono in ultima istanza l’espressione di un culto “modernolatra” per la nuova civiltà della macchina. Al contrario, Bonaventura esprime uno scetticismo un poco rassegnato e stanco, reso lieve dall’atmosfera fantastica e surreale, così come Tofano è caratterizzato, anziché dalla diretta e violenta opposizione avanguardistica, da un profondo senso di estraneità, un disagio o, come lo definirà Carlo Terron, una «timidezza morbosa» che si fa «perpetua espressione, resa vagamente irritante da una cipria d’ironia di chi si trova in un luogo da cui non vede l’ora di andarsene»50.
40E facciamo ora ritorno a d’Amico.
41È innanzitutto interessante notare che, all’indomani della prima della Sventura del Signor Bonaventura, come Bertuetti, anche d’Amico usa il termine «grottesco» per definire Tofano nei panni del suo personaggio di carta:
Tòfano attore, e Tòfano disegnatore sono tutt’uno; e le cose più carine che il primo ci dà, ce le dà quando diventa, con quella grazia elegante di stilizzato sapore grottesco, uno dei suoi propri pupazzi51.
42Lasciamo per il momento da parte quell’aggettivo «carine», che sembra quasi mettere in dubbio la legittimità artistica di ciò che si va giudicando e soffermiamoci invece sui termini successivi: la «grazia elegante» che richiama immediatamente alla memoria l’articolo del 1919 e, in particolare, lo «stilizzato sapore grottesco» che invece segna, rispetto a quel primo intervento, un mutamento di prospettiva. Innanzitutto il riferimento al grottesco non è qui vincolato alla così detta nuova drammaturgia che allora, con un ambiguo riferimento polemico, d’Amico aveva citato suggerendola come terreno in cui il giovane attore avrebbe potuto essere «utilizzato assai bene». Il «sapore grottesco «è qui invece un’espressione priva di connotazioni negative che vale come indicazione di poetica d’attore. In relazione di dipendenza dalla grazia elegante, primo ed essenziale tratto stilistico della recita, il grottesco sfugge alle tentazioni dell’eccesso; preventivamente posto all’interno del contesto di «cose carine», evita ogni legame con il «credo filosofico moderno» pessimista e senza speranze; infine usato come specificazione del termine sapore che ne ammortizza l’impatto (altra cosa sarebbe stata scrivere «elegante grazia grottesca») e a sua volta specificato dall’aggettivo «stilizzato», si ritrova privato in gran parte del suo potenziale corrosivo e critico. Del grottesco, resta appena un cenno: il residuo di quella che fu una poetica forte contro la quale valse la pena schierarsi; un termine che, privato della ricchezza e complessità di senso a cui rimandava, non coglie più il cuore di una poetica, ma semplicemente si arresta a richiamare ciò che di tecnico ed esteriore da quella poetica derivava. Quando nel 1954 d’Amico tornerà ancora su Bonaventura, scriverà una pagina che è un lucido e chiaro spaccato del modo in cui il critico costruisce il suo discorso da un lato sul grottesco e dall’altro su Tofano. Tutto il ragionamento è in questo scritto la conseguenza logica di un’idea di teatro molto precisa sintetizzata nelle ultime righe:
Se è vero che il supremo scopo del teatro è il ritrovamento di tutti i suoi spettatori nell’unità d’un generale consenso, non par dubbio che anche questi labili e teneri e festosi affreschi del poliedrico Sto siano a loro modo, ma per eccellenza, teatro52.
43Guardato da questa prospettiva, il proposito di Tofano che si muove in un contesto in cui dilagherebbe ancora «in forme tragiche o comiche, fiabesche o grottesche, ma sempre aspre, il pessimismo più desolato»53 appare carico di una tensione consolatrice: la «maschera» di Bonaventura infatti, in ragione della propria totale fiducia in quella che d’Amico definisce Provvidenza – traducendo la surreale fortuna del personaggio in una forma di immanentismo divino subordinato alla logica mercantile e poco evangelica del facile e certo (perché la provvidenza esiste!) guadagno –, quella maschera, appunto, offrirebbe allo spettatore il «rifugio delle sue brevi fantasie». In sintesi: l’ottimismo di Bonaventura contro il pessimismo desolato dei grotteschi.
44Fra questo discorso di d’Amico e l’espressione già ricordata con cui Bertuetti definisce la recita di Bonaventura – un «grottesco che non strazia ma incanta»54 –, sembra esserci un’affinità di giudizi che invece si rivela, a un’attenta analisi, solo un’apparente condivisione di termini. La fulminante definizione del critico torinese infatti, accostando «grottesco» e«incanto» con una formula che sfiora volutamente l’ossimoro, denuncia in modo chiaro la difficoltà di definire con precisione uno stile che, se avrà sempre con il grottesco alcune significative e interessanti affinità (come si è fra l’altro già notato a proposito della recita di Knock), a esso non arriverà forse mai compiutamente. Tanto nella forma astratta e surreale del mondo della fiaba di Bonaventura quanto nella maschera funerea di Knock, lo stile asciutto, stilizzato, astratto, raggelato ed epico di Tofano è più l’espressione di un «imbarazzo spirituale»55 come di uno che sia lì per caso, «quasi nuovo e straniero in una società di gente comune, ch’egli intende a fatica e i cui gusti tradizionali non fanno per lui»56, che il frutto di un’analisi spietata e dolorosa delle contraddizioni che dilaniano l’uomo contemporaneo. Nell’intenzione di segnare pudicamente la differenza di chi si sente «straniero» nella società in cui vive (il modo del teatro compreso), Tofano non ne svela poi fino in fondo la falsità né il vuoto né la perdita dei valori di riferimento; piuttosto, chiude il suo «imbarazzo spirituale» in una limpida e raffinata compostezza che lo isola e lo tutela, fra gli altri, anche dall’unico vero rischio a cui non può invece sottrarsi: la possibilità del crollo, eventualità imminente e ossessivamente presente nella coscienza dell’umorista. Lo stile di Tofano, ora tinto di surreale come nel grottesco che incanta di Bonaventura, ora raggelato nella «smorfia leggermente ironica» di Knock, batte il suo accento sulla compostezza temperata e compiuta anziché su quel lavorìo che costringe l’arte grottesca a mettere in discussione a ogni passo la propria forma, a triturare e sbriciolare non solo le certezze esterne, ma anche quelle interne, a camminare scosso dalla coscienza della voragine.
45Fra il 1928 e il 1932 d’Amico fa ritorno più volte sulle recite della compagnia Tofano senza mutare in modo significativo la sua prospettiva critica57. Individuato il crinale su cui si muove l’attore (fra Knock e Bonaventura) e il perno su cui ruota il suo stile (la grazia elegante e raffinata di sapore grottesco), il critico sottolinea di volta in volta brevemente l’impeccabile recitazione di Tofano, capace di mantenersi entro la misura anche in parti come il «grottesco imperatore» in Androcolo e il leone di Shaw, che l’attore rende «tiranno inutile e vanesio mantenendosi in uno stile saporito, senza mai sfiorare, come sarebbe stato facile, l’operetta»58; oppure nella «figura sorniona» di Clotario di Jean de la lune, «fratello turpe e scroccone» della protagonista che diviene nella recita di Tofano «segaligno e bizzarro»59 al punto giusto; o infine nei panni di un Mosca che, secondo l’adattamento del Volpone di Ben Jonson fatto da De Stefani, egli rende protagonista assoluto della commedia. In particolare d’Amico ricorda la scena finale del processo con Tofano «camuffato da imbroglione» come Porzia nel Mercante di Venezia, scena che definisce «parodica» e «caricaturale»60, non rendendosi conto di quanto differiscano l’uno dall’altro i due termini; se il primo infatti può riferirsi al testo originario di Jonson e il secondo all’adattamento italiano di De Stefani, l’uso sinonimico che ne fa il critico non suggerisce quale dei due sia il più adatto a Tofano in questa recita61.
46In conclusione, forse proprio per la peculiarità del suo stile in bilico fra umorismo e ironia, stilizzazione astratta e compostezza naturalistica, di cui si è detto, e forse anche per l’estremo riserbo caratteriale, Tofano si presenta alla critica del tempo (d’Amico compreso) come attore inconsueto nello stile, ma nonostante questo, lontano dalle polemiche e quasi unanimemente apprezzato o, in alternativa, cautamente ignorato. Se infatti la sua particolarità stilistica può incuriosire la critica, il garbo e la castigatezza, l’eleganza signorile e la levità surreale, costituiranno presto la ragione dell’accoglienza benevola anche di chi, non comprendendo le ragioni poetiche del suo stile, lo vede ora come esempio di moderna raffinatezza, capace di riscattare l’attore dalla guitteria in un modo simile a quello proprio di Ruggeri (d’Amico), ora come interessante ma solitaria esperienza di un teatro marginale (il teatro per bambini), ora come indicazione di un possibile percorso di incontro fra scena e mondo della cultura, ora come espressione di un ordine e una compostezza che sempre più nel corso degli anni Trenta si imporranno come criteri di giudizio estetico. Le parole che Alberto Cecchi scriverà nel 1932 su «Scenario», sono illuminanti.
Da ogni parte si vede tornar di moda un certo pudore, una certa compostezza, una certa chiarezza che fan pensare al classicismo. Si sente un bisogno d’ordine, di disciplina: si esercita un controllo sopra sé stessi e ci si mette sempre, è vero, davanti allo specchio, ma non certo per dire, ammirandosi: «Come sono bello, così scomposto dalla passione, quanto soffro, quanto mi glorio di soffrire!». Al contrario, le smanie, i vapori, le urla cominciano ad apparire per quel che sono, retoriche e anzi ridicole: gli spiriti bennati ne rifuggono, e tengono la compostezza e il dominio di sé stessi come massime doti62.
47Questa la ragione, secondo Cecchi, per cui il pubblico si sarebbe «accostato istintivamente allo stile di Tofano», il quale fra l’altro avrebbe nel frattempo in parte rinunciato «a quel tanto di caricatura che c’era nella sua prima maniera»63. Questa forse anche la ragione per cui, nel breve spazio che d’Amico nel 1929 dedica a Tofano nel Tramonto del grande attore, dopo un elogio al suo stile nei termini ormai conosciuti (attore elegante, «coltivato, raffinato, eccentrico»; uno dei pochissimi che abbiano uno «stile»), il critico conclude con una frase che sembra anticipare i futuri sviluppi e che, un po’ forzatamente, inserisce l’attore all’interno di un possibile prossimo rinnovamento della scena.
Noi crediamo senza adulazioni che Tòfano sia uno dei due o tre artisti nostri ancor giovani, sulla cui cultura e sensibilità si potrebbe contare, il giorno che qualcuno si decidesse a prenderli e a scaraventarli all’estero, per studiar in che modo oggi s’intenda, fuori d’Italia, l’arte della messinscena; e poi dar loro il còmpito di farsi avanti in mezzo a noi64.
2. Marta Abba attrice pirandelliana
2.1. Nostra Dea: la donna-fantoccio e l’attrice
48Quando, il 22 aprile del 1925, Marta Abba esordisce con la recita di Nostra Dea nella compagnia del Teatro d’Arte di Roma, la maggior parte dei critici presenti fra il pubblico, che sono lì per rendere omaggio a Pirandello, non può che notare con stupore la singolarità della giovane artista, inaspettatamente giunta a ricoprire il ruolo di prima attrice. Dopo gli anni trascorsi in semioscurità con Talli, Marta Abba fa qui il suo ingresso ufficiale nel teatro italiano, scavalcando rapidamente – troppo rapidamente secondo d’Amico come si vedrà – tutte le tappe che il giovane attore è invece solito percorrere prima di arrivare a sostenere parti da protagonista e imponendosi immediatamente per la peculiarità di uno stile che sembrerà presto non poter essere concepito se non in relazione con un certo tipo di drammaturgia e di direzione della scena propri della Compagnia e del suo direttore, Luigi Pirandello. Per questo motivo, almeno da principio la vicenda di Marta Abba e quella del Teatro d’Arte di Roma non potranno che correre parallele, l’una incidendo sull’altra. Eppure, come è facilmente intuibile, ai più e certamente a d’Amico, parve essere l’attrice solo un tassello di una più vasta costruzione e non, come invece più probabilmente fu, uno dei protagonisti di quella storia.
49L’inaugurazione del Teatro Odescalchi e dell’attività della Compagnia era già avvenuta il 2 aprile con la Sagra del signore della nave e Gli dei della montagna, recite alle quali la Abba non aveva preso parte. Di quella prima serata d’Amico aveva scritto una cronaca che, comparsa sull’«Idea nazionale» il 4 aprile, testimonia quanto fosse vivo l’interesse del critico verso l’iniziativa di Pirandello. Nonostante le perplessità che più volte aveva infatti mostrato nei confronti dei piccoli teatri65, quello di Bragaglia compreso, il progetto del Teatro d’Arte, al quale egli stesso aveva in un primissimo tempo partecipato (era stato uno dei «Dodici» che avevano promosso l’iniziativa)66, appare infatti fin dal principio a d’Amico diverso dagli altri. E ciò non solo per la presenza del drammaturgo, né soltanto per la cura con cui vengono allestiti gli spettacoli e neppure solo per gli attori, i musicisti o lo scenografo coinvolti. Ciò che rende questa iniziativa differente è l’insieme di tutti quegli aspetti e il modo in cui vengono coordinati all’interno dei singoli spettacoli, senza che le piccole dimensioni del teatro penalizzino il risultato o facciano, di quella, un’esperienza votata alla marginalità. Al contrario, l’attenzione raffinata al complesso, la professionalità che investe ogni dettaglio, il repertorio di novità scelto con criteri che, se privilegiano le produzioni di Pirandello, a esse non si arrestano e non scadono d’altra parte in mediocri scelte di ripiego, sono gli ingredienti che rendono anche agli occhi di d’Amico il progetto interessante. Un «teatro sui generis, come non poteva non essere un teatro diretto da Pirandello», lontano dai «soliti dilettanti volonterosi e incerti» e dai «loro inadeguati repertori»67; un teatro che, sebbene d’eccezione, ha la forza di non confinarsi in un limbo da tutti ignorato. Non si dimentichi poi il carattere di stabilità della compagnia, il legame con l’Accademia di Santa Cecilia e, infine, l’appoggio di Mussolini che, solo qualche mese prima, con il suo discorso alla Camera del 3 gennaio e il successivo rimpasto ministeriale, aveva rafforzato la propria posizione politica rendendola di fatto quasi inattaccabile. Nell’idea di un teatro che lo stato finanzi e protegga, sottraendolo alla logica del libero mercato e dotandolo di strutture quali una sede stabile e una scuola per la formazione degli attori, l’appoggio del governo fascista non può che essere per d’Amico l’unica prospettiva credibile verso cui, strategicamente, avviarsi.

Tavola 17. Nostra Dea, Teatro d’Arte di Roma, 1925
MBA. Fondo Salvini
50Per questo e per gli altri motivi precedentemente detti, l’iniziativa di Pirandello dal punto di vista della struttura complessiva – senza entrare però all’interno delle questioni di poetica – sembra rispondere a molte delle istanze poste in campo da d’Amico in quegli anni. Ma non a una, fondamentale però. La stessa che aveva già spinto il critico a sottrarsi dal gruppo dei dodici sostenitori: l’urgenza di definire la «Regola» prima ancora di inseguire l’eccezione. Se ciò suona da un lato come l’espressione di buon senso, da un altro lato riflette in modo decisamente più inquietante, dati gli anni che l’Italia sta vivendo, un desiderio sempre più diffuso di ordine, di stabilità e di certezze che ricompongano i conflitti che ancora lacerano l’intero paese non solo dal punto di vista della vita teatrale, ma ben più visibilmente di quella politica e sociale. Come si è detto in precedenza, si tratta dello stesso bisogno di stabilità e di assoluto che aveva caratterizzato le reazioni della critica, e di d’Amico in particolare, nel 1921 di fronte all’evento-Duse, ora fattosi necessità impellente di una Regola: non più l’eccezionalità di un’artista che indichi con il suo stile sublime la possibilità di ricomporre intorno a sé una ritualità collettiva, ma la volontà di definire Principi e Norme che stabilizzino un Ordine come Normalità.
51Al contrario, Pirandello e il suo teatro d’Arte continuano a porsi nella prospettiva dell’eccezione che, estranea anche alla dimensione rituale dell’evento, non ha la forza per coinvolgere, al di là di un’èlite di adepti, la folla degli spettatori. Marta Abba, prima attrice della compagnia, non si sottrarrà al quello stesso destino.
52Facciamo a questo punto ritorno alla serata del 22 aprile. È in quell’occasione che D’Amico incontra l’attrice per la prima volta e sarà in quel teatro sui generis, di cui aveva poco prima scritto, che tornerà a vederla in seguito molte altre volte. Di qui, e non poteva essere altrimenti, il critico parte per delineare un ritratto d’attrice le cui coordinate essenziali resteranno da allora in poi strettamente vincolate al quel contesto, come se fosse il luogo, forse l’unico, in cui la specificità d’attrice della Abba può assurgere a un senso e a un pieno valore d’arte. Venuto meno lo sfondo, il contesto che la fa consistere in un’immagine, la Abba perderà agli occhi di d’Amico gran parte della sua forza e della sua personalità artistica: primo violino di una solida e affiatata orchestra, le mancherà poi, non tanto lo spartito su cui esercitarsi, bensì l’atmosfera, il complesso in cui inserirsi, la guida che la indirizzi e ne limiti gli eccessi, il contesto in cui la sua nota possa farsi manifestazione di un senso che, se anche da lei parte, si rivela poi come l’espressione di un’idea poetica più ampia (quella del poeta-direttore Pirandello).
53La prima recita della Abba al Teatro d’Arte vale dunque come esempio emblematico di quest’intreccio di elementi, essenziali per comprendere il nocciolo intorno al quale ruota la lettura che d’Amico dà dell’attrice.
54Protagonista straordinaria, secondo i critici del tempo, della commedia di Bontempelli, la Abba è insieme parte integrante e perfettamente armonizzata del complesso coordinato da Pirandello e rivelazione prorompente di un’individualità artistica spiccata.
55Quando nel 1947, per la riedizione delle sue opere teatrali, Bontempelli farà seguire al testo di Nostra Dea una nota illustrativa, fra le altre interessanti riflessioni a cui faremo ancora riferimento, a proposito della direzione di Pirandello scriverà:
La commedia si replicò per venticinque sere. Anche la regìa di Pirandello aveva fatto miracoli. Era riuscita a creare la più armoniosa unità tra gli aspetti burleschi e le radici tragiche del testo, lavorandosi a tutto tondo i personaggi tutti uno per uno; e uno per uno gli attori tutti […] s’impegnarono a fondo e recitarono come una matura orchestra in mano d’un maestro perfetto68.
56Marta Abba è il primo strumento di quell’orchestra in un concerto che, come la critica sottolinea all’indomani della prima, ha una partitura d’origine – il testo di Bontempelli – particolarissima, tanto che Pirandello si premura di far precedere la recita da un prologo che prima di ogni serata lui stesso legge in proscenio. Eccone il testo: «commedia innaturale, che ha un doppio senso segreto: che […] non deve essere giudicata con criteri comuni, che […] è tenue e paradossale nella sua esteriorità, ma ha un dramma nella sua anima nascosta e profonda»69, che alterna «continuamente i toni più diversi dalla comicità più piena e gioconda alla più tagliente indagine dell’animo umano»70. Quanto queste parole si riferiscano al testo, quanto invece allo spettacolo e quanto ancora possano richiamare la recita della Abba è questione che dovrà essere ora affrontata, poiché anche di qui dipenderà la comprensione delle pagine critiche di d’Amico su Marta Abba.
57E fermiamoci da principio sul testo.
58Scritta fra il 1924 e il 1925 su suggerimento di Pirandello per essere inserita nel repertorio della compagnia del Teatro d’Arte, Nostra Dea è l’espressione di una poetica che, se deve qualcosa all’influenza del drammaturgo siciliano, se ne distacca poi complessivamente in modo significativo71. La dissoluzione totale dell’integrità del personaggio, che vale come assunto di partenza di Nostra Dea, si congela infatti in una formula schematica e rigida che, se si distacca dallo psicologismo della commedia borghese, non ne mina in realtà i presupposti: l’alienazione dell’uomo nella società contemporanea – la «vacua nudità dell’Oggetto»72 a cui il soggetto si è ridotto – è trattata come dato di partenza constatato e confermato nella sua paradossale ovvietà.
59L’antipsicologismo che, condotto fino all’eliminazione completa della psicologia nella meccanizzazione totale dell’uomo, sottrae all’opera quel terreno privilegiato sul quale i grotteschi avevano lavorato per smascherare la falsità della commedia psicologica borghese73; il «realismo magico» che, negata la norma della verosimiglianza, ristabilisce poi un nuovo ordine che segue una sua logica fluida, credibile, fin troppo facile e soprattutto incapace di mostrare le contraddizioni di cui invece la realtà è carica; quell’«aura di paradosso»74 di cui anche l’autore scrive, che si scioglie in un gioco ironico, caricaturale75, poco graffiante, lontano dalla parodia nonostante l’amara realtà che mette in luce: questi non sono che alcuni aspetti di una poetica lontana dall’umorismo di Pirandello, volta più ad attestare (ironicamente) un dato di fatto che non a smontarlo criticamente. Il conflitto scompare e lascia il posto all’ironia e una rinnovata forma di incanto76. Si ricordi quanto Bontempelli scriverà un anno più tardi a proposito dell’ironia che può valere come dichiarazione di poetica e di una poetica, è qui chiaro, molto distante dal grottesco di Pirandello:
La tragedia delle cose permane, ma presentate in una luce di superiore interessamento, che ne rende maggiore il senso tragico e il senso lirico insieme; l’ironia concilia il dissidio tra Dionisio e Apollo. Per quel misterioso allontanamento, l’oggetto ironizzato non è se non l’oggetto reale stesso visto da un’altra atmosfera, è il mondo osservato con altezza e simpatia, con affetto e distanza, consunto ogni avanzo di brutalità, dalla regione dei semidei77.
60Così accade che Dea, la protagonista, che non ha alcuna identità propria, che non può pronunciare il pronome «Io»78, che prende voce, movimento, vita e personalità dall’abito che indossa, sia qui il simbolo dell’alienazione assoluta del soggetto accettata come dato privo di faglie e di contraddizioni. Luogo vuoto dell’assenza (non della perdita che implicherebbe una memoria e forse una nostalgia), è anche espressione dell’assenza di sguardo e, in particolare, di quello che è lo sguardo umano, lo sguardo prospettico.
61Se si può sostenere che lo stile sia sempre l’espressione di un tale tipo di sguardo, Dea è anche il simbolo della mancanza (ancora una volta non della perdita) della prospettiva stilistica. Se (con un’operazione critica che si pone consapevolmente al di là delle intenzioni di Bontempelli ma che può essere utile per fare ritorno alla recita della Abba) la si considera come metafora dell’attrice, allora è anche emblema dell’impossibilità totale – e non solamente della crisi – non solo dell’unità della creazione attorica, ma, ancor prima, di una coscienza artistica dell’attore, di un’intenzione, di una poetica, di una progettualità. Dea, manichino che indossa gli abiti e si trasforma in continuazione, può essere letta come l’immagine dell’attrice che, svuotata di identità e privata di sguardo prospettico, indossa i panni delle varie parti che deve recitare (stereotipi di parti). Non una parte, ma un’insieme di parti diverse, la cui unità, messa seriamente in pericolo, potrà risiedere solo in ciò che sulla scena esprimerà il «profumo» di cui parla Vulcano nel suo monologo del IV atto, unico elemento di unità delle molteplici personalità della protagonista.
62Parte difficilissima, quindi. Sfida decisamente interessante perché costringe l’attrice a fare i conti fino in fondo con ciò che proprio il confronto con un personaggio senza sguardo può paradossalmente sottolineare con più forza: il fondamento unitario del proprio stile.
63«La commedia era pericolosissima», scriverà Marta Abba in un articolo del 1936 ricordando quella sua prima recita: «paradossale, scoppiettante, camminava sul filo di un rasoio»79.
64Il giorno che segue la prima di Nostra Dea, la critica, che si sofferma per lo più ad analizzare il testo o a commentare la direzione di Pirandello e le scenografie futuriste di Marchi, sottolinea tuttavia con grande entusiasmo la magnifica prova dell’attrice. Se la commedia appare, come scrive Cardarelli, una «farsa» spettacolare «che si può paragonare meglio a una féerie, a un balletto, a una pantomima che a una commedia qualunque», tuttavia nella rappresentazione qualcosa di «tetro» e «orrido» pur nelle «borghesissime apparenze»80 si intravede: la recita sembra risentire del gusto per il grottesco di Pirandello, non molto evidente, come si è detto, nel testo. Se infatti, come scriverà Bontempelli nelle sue note, si mantiene in una misura di sobrietà senza incorrere nell’errore di una troppo accentuata esasperazione dei toni, tuttavia non scorre certo «chiara naturale e innocente»81 come il suo autore suggerirà. In sintesi, sembra che la recita carichi il testo di una nuova tensione conflittuale che riapre il campo alla dialettica e che mette in crisi l’ovvietà dello stereotipo.
65La Abba, notata innanzitutto per la versatilità e la duttilità del talento, la «pienezza di vita e di brio»82, «la vivacità spontanea e immediata»83, in una parte che sembra ai critici non richiedere «un grande sforzo di penetrazione spirituale»84, non può che risentire del taglio dato da Pirandello alla rappresentazione. Forse è ella stessa a contribuire nel creare quell’atmosfera che Paolieri certamente esagerando, ma non a caso, definirà «malata, da cocainomani»85.
In un costante clima d’astrazione, in un ambiente teso all’inverosimile anche nella cornice di reale apparenze, i personaggi si trascolorano e passano da smaglianti e vivide aureole a irrigidimenti spettrali86.
66Con un trucco pesante sotto gli occhi, muovendosi all’interno delle scenografie futuriste di Marchi, la Abba, ora «aggressiva, sfrontata, cinica crudele, sigaretta in bocca, e niente viscere in petto»87 nel tailleur noisette, ora «dolce, remissiva, passiva»88, ora «inerte e straziata, rivelata in pallida rigidità sotto la spoglia bianca» o ancora «obliqua e crudele se cinta d’una veste stretta e lucente che s’assomiglia a una serpe»89, esprime in questa recita i molteplici volti della protagonista e insieme i molteplici possibili volti di un’attrice. Forse proprio nell’eccezionale «vigore» della recita, che secondo Tilgher nel terzo atto era perfino eccessivo90, e in quella «corda tormentata senza tregua dallo spasimo al riso»91 in cui consiste l’unità dello spettacolo e che la Abba non sembra contraddire, si coglie anche la nota dominante dalla sua prova d’attrice, che cammina, appunto, sul «filo del rasoio». Il profumo di Dea-Abba consisterebbe allora proprio in questo vigore eccezionale, nella duttilità e mobilità straordinaria del talento espressivo dell’attrice che non si arresta al virtuosismo ma si fa tormento e irrequietezza, in un restare in bilico fra spasimo tragico e «irrigidimento spettrale», nella forza con cui spezza la recita e, con mutamenti talvolta bruschi e repentini, passa da un sentimento a un altro anche lontanissimo mantenendo integra l’intensità del proprio recitare.
67Anche d’Amico, che pur parla di «farsa», non può sottrarsi dal rintracciare qualcosa di amaro e violento che, sebbene in parte presente nel testo, è certo più fortemente presente e pertanto più nettamente percepito dal critico nella rappresentazione.
Dunque farsa filosofica. Farsa, perché il suo meccanismo è tutto esteriore e marionettistico: non ci spiega come e perché, dagli abiti, emani questa potenza che sul niente della donna-fantoccio alita una dopo l’altra tante anime diverse […]. Ma filosofica, perché questa esteriore, violenta e colorita rappresentazione d’una vicenda pagliaccesca metodicamente uguale eppur variata con una genialità piacevolissima di costumato umanista, ha il suo significato netto ed evidente, ironico e amarissimo92.
68In questa cornice la Abba «monella, passiva, dolce, sognante, perfida, compunta, implorante» dà saggi «data la natura della farsa, di carattere esteriore; ma se non tutti originali, tutti eccellenti»93: affermazione questa che è certo per d’Amico una dimostrazione di grande apertura, dal momento che si tratta di una farsa, filosofica, ma comunque farsa.
69D’Amico, sempre estremamente critico nei confronti della recitazione “burattinesca” che tollera solo nel caso in cui un tocco di raffinata eleganza sappia restituire in termini di “ordine” ciò che viene sottratto in termini di “sentimento”, sottolinea qui il carattere «esteriore» dei saggi della Abba, ma poi li definisce «eccellenti». Probabilmente il favore che il critico concede all’attrice è condizionato dall’eccellente lavoro di complesso della compagnia, da quell’omogeneità d’insieme che abbiamo ricordato all’inizio e che ha avuto in cura anche i minimi dettagli: inserito così coerentemente all’interno del disegno dell’autore e del direttore, anche il talento dell’attore può venire apprezzato e lodato. Eppure non sembra questa una ragione sufficiente a giustificare la lode del critico.
70Qualcosa di più rispetto al talento esteriore, ma ancora non specificato, lo ha colpito: di lì la speranza «nella rivelazione dello spirito di questa nostra attrice nuova»94.
2.2. Attrice pirandelliana
71La speranza si rivelerà presto come una fra le più interessanti realtà del panorama teatrale italiano in quegli anni finché, nella prospettiva di d’Amico, la Abba saprà restare primo violino della Compagnia del Teatro d’Arte, finché cioè il legame con il poeta-direttore Pirandello costituirà la garanzia di un senso, di una coerenza e di una continuità di percorso artistico anche al di là delle singole ed episodiche recite dell’attrice.
72Dopo la sua prima prova al Teatro d’Arte, la Abba verrà infatti presto riconosciuta quasi unanimemente dalla critica come la più fedele interprete dei drammi di Pirandello, in un modo che andrà a confermare e approfondire l’intenzione artistica che era stata alla base della recita di Nostra Dea. Se si guarda infatti al repertorio recitato dalla Abba in quegli anni non si può che cogliere, pur nella differenza dei testi, una continuità di fondo, nella quale continuità anche Dea può essere inclusa. C’è qualcosa di simile nel modo in cui la crisi dell’identità del soggetto si riflette su quei personaggi, nei quali la compattezza e l’integrità interiore vengono squassate, la coerenza psicologica distrutta, parole e gesti posti in continua contraddizione fra loro, emozioni e comportamenti resi volubili e soggetti a mutamenti repentini e spesso non immediatamente giustificabili. Se Dea aveva posto l’attrice di fronte al difficile compito di definire la propria identità stilistica in un modo che non poteva che negare l’interpretazione psicologica e l’immedesimazione nel personaggio, le parti scritte da Pirandello ripropongono di volta in volta alla Abba un problema simile, nonostante il fatto, non marginale, che in Pirandello la psicologia ritorni, pur nella sua forma di inferno della coscienza (dilaniata non annientata come in Bontempelli). Non è qui certo il luogo per analizzare la teoria del personaggio di Pirandello né il complesso e ambivalente rapporto dello scrittore con la rappresentazione teatrale, ma sarà in parte compito di queste pagine porsi di fronte al problema dell’incontro fra Marta Abba e quella drammaturgia, focalizzando l’attenzione sul linguaggio artistico dell’attrice più che sull’influenza che ella ebbe sulla scrittura di Pirandello.
La caratteristica comune, che si ritrova nelle realizzazioni degli attori pirandelliani più distanti, è quella della mobilità di toni e di accenti, unita al ricorso a bruschi, immediati passaggi che sostituiscono improvvisamente, senza alcun momento di transizione, un atteggiamento, uno stato d’animo a un altro95.
73Questo tipo di recitazione corrisponde appunto alle esigenze dei personaggi di Pirandello che, simili ai fantocci e alle marionette, sono mossi da meccanismi che non sanno controllare, orfani di una psicologia compatta e coerente, scossi da una passionalità intensa, intermittente, difficilmente contenuta entro gli argini di una ragione che si affanna nel tentativo – fallimentare – di ricomporre i frammenti in un ordine: personaggi non compiuti che, come Pirandello scrive al termine del suo saggio teorico sull’Umorismo, sono più simili alle ombre che seguono i corpi che non ai corpi stessi e che, nettamente distinti in femminili e maschili, radicano le loro differenti peculiarità sul medesimo terreno.
74Espressione dell’istinto, del flusso inarrestabile della vita che non può consistere in una forma, né trovare un pernio intorno al quale ruotare che sia capace di dare un senso e un ordine al suo vagare, il personaggio femminile porta sulla scena pirandelliana un dramma speculare rispetto a quello del raisonneur sebbene, in ultima istanza, affondato nel medesimo terreno. Come sul personaggio di Leone Gala, per esempio, e sulla sua pretesa di dominare gli eventi con la logica, così anche sulle figure femminili e la loro esasperata tensione alla vita, si scatena la macchinetta infernale dell’umorista che scompone, anziché comporre, il carattere nei suoi elementi e «si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze»96.

Tavola 18. Sei personaggi in cerca d’autore, Teatro d’Arte di Roma, 1925
,MBA. Fondo Salvini
75Come una buona parte della critica contemporanea ha sottolineato, i lavori di Pirandello successivi ai Sei personaggi e all’Enrico IV testimoniano l’affievolirsi della poetica dell’umorismo a favore di un misticismo ottimistico «giocato sull’identificazione positiva fra vita e arte, sull’ontologizzazione della prima e sull’ipervalutazione totalizzante della seconda», o, altre volte (ma le due soluzioni spesso si sovrappongono) a favore di «una forma di manierismo sin troppo facile»97. Le figure femminili sono in questa drammaturgia nella maggior parte dei casi le portatrici del nuovo sublime. Eppure forse non bisogna dimenticare che, dal punto di vista della recitazione dell’attore, il problema viene posto, e fra l’altro in modo particolarmente netto, nelle recite da Pirandello stesso dirette con la Compagnia del Teatro d’Arte a partire dal 1925 e quindi dopo la suddetta inversione di tendenza della poetica dell’autore. Ciò che interessa sottolineare ora è proprio la curvatura stilistica che le recite del Teatro d’Arte dirette da Pirandello assumono, curvatura che ha tratti di decisa continuità con il percorso fin lì condotto dal drammaturgo e con l’umorismo teorizzato ed espresso nella sua scrittura degli anni precedenti e tratti di parziale discontinuità, in quell’insistenza (dovuta certo anche allo scenografo e a alcuni degli attori della compagnia, Abba compresa) su una cifra di esasperazione espressionistica che investe trucco, costumi, scenografie, luci, recitazione e che non era invece la cifra predominante nei testi grotteschi che precedono il 1922. È da questo punto di vista L’uomo, la bestia e la virtù la recita più significativa, recita che d’Amico non recensirà, ma che qui citiamo nella testimonianza del critico torinese Bertuetti98 perché estremamente utile a chiarire il nostro successivo discorso.
76Dopo aver sostenuto che quest’opera è, insieme a «certe produzioni di Petrolini», l’unico vero, autentico grottesco italiano, il critico prosegue:
La messinscena attuata dall’autore ieri sera trasporta l’apologo nel suo vero ambiente, mentre le rappresentazioni precedenti lo facevano assomigliare troppo a una farsa senza intenzione alcuna se non quella di muovere al riso con una trovata, diciamo così, aristofanesca, qualche parola grassa e molte lepidezze […]. Apologo, satira, grottesco, sono i tre elementi di cui si valse in quest’opera per addolcire al pubblico “l’orlo del vaso” in cui c’era dell’autentico acido prussico. Il pubblico rise perché, ripeto, il canovaccio dei tre atti è quasi farsesco, ma non sempre la risata è sana. C’è un limite impercettibile fra il riso e la smorfia dolorosa, così impercettibile che al momento non ci accorgiamo di superarlo, ma ce n’avvediamo poi, quando la piaga comincia a bruciare e gli stimoli del riso si manifestano per quello che sono davvero: spietati colpi di bisturi alla nostra cretinissima vanità99.
77Segue poi un interessantissimo profilo della Abba che, inserito nel contesto appena definito, assume un significato di fondamentale rilievo critico:
Marta Abba dimostrò di possedere il senso della caricatura in maniera che non sarà facile superare e diede alla figura della moglie (coadiuvata dalla maschera e dall’abito intonatissimi) un risalto così ricco di evidenza che “la grottesca” apparve, come doveva, la sintesi esasperata e deforme d’una creatura viva100.
78Se forse questa recita costituisce il più estremo e rischioso dei lavori di Pirandello “capocomico”, non tuttavia deve essere considerata come un’eccezione, ma piuttosto l’indice di un’intenzione stilistica che resta complessivamente costante in tutti gli spettacoli da lui diretti e che, altrettanto certamente, segna anche lo stile della giovane Abba. L’attrice, che forse non frequenterà mai fino in fondo il grottesco, rivela in quell’occasione di avere il senso della caricatura o, meglio, della parodia, un tratto che resterà costante nella sua recitazione ogni qual volta si troverà di fronte a quel tipo di personaggi «che son fantocci e non creature, maschere tipiche e non anime, figurazioni sintetiche e grottesche di certi concetti puramente astratti»101, personaggi che non possono essere resi come quelli del tradizionale dramma borghese e neppure delle tragedie antiche.
79Proseguendo su questa linea, nell’impossibilità di trattare tutte le recite della Abba, analizzeremo alcuni episodi particolarmente significativi per illuminare il profilo dell’attrice e il ritratto che di lei d’Amico compone nel corso di questi anni.
80Il 27 marzo 1926 la Abba è a Roma nei panni di Evelina Morli, protagonista di Due in una commedia che, caduta nel 1920 nella recita data dalla compagnia di Emma Gramatica, si afferma ora sostenuta da un largo successo. La ragione risiede, secondo d’Amico, oltre che nella maggior fama raggiunta dal drammaturgo nel corso degli anni, nella maggior fedeltà al testo degli attori di Pirandello «alcuni anche mediocri, e non sempre composti in una compiuta armonia, ma tutti entrati (a dispetto delle teorie dei Sei personaggi) nel carattere delle loro maschere»102. Marta Abba, in particolare, avrebbe dato prova di «valentia», in una recitazione attenta a rendere le minute sfumature delle battute e a dare loro il giusto rilievo drammatico senza cadere nel pericoloso eccesso di sofismi dialettici. Nessun accenno a ciò che sia Praga sia Ramperti noteranno nella replica milanese, un certo stile manierato dell’attrice e quella «carrettella» alla fine dell’ultimo atto che avrebbe strappato l’applauso entusiasta del pubblico. Eppure l’uso del termine «maschera», anziché personaggio, e l’espressione «vigore drammatico», riferito al testo e indirettamente anche alla recitazione della Abba e posto lì a indicare fra l’altro il contrapporsi dello stile dell’attrice ai sofismi della dialettica, sono due elementi che danno il senso di una continuità nel percorso della comica. Sebbene d’Amico non lo dica esplicitamente, infatti, quel coniugare maschera e intensità drammatica è ciò che lega lo stile dell’attrice alla poetica del suo maestro-direttore e che corre come un filo sottile, ma resistente, a legare le sue diverse recite in questo periodo.
81È necessario tuttavia attendere che la Abba vesta i panni di Tuda perché questo discorso si chiarisca.
82Il 14 gennaio 1927 a Milano al Teatro Eden va in scena la prima assoluta di Diana e la Tuda. La direzione è di Pirandello, la Abba è Tuda, Pilotto è Giuncano, Ruffini è Sirio, le scene sono di Guido Salvini; il 10 marzo lo spettacolo replica a Roma con un mutamento nelle parti dei protagonisti (Giuncano è ora recitato da Picasso e Sirio da Carnabuci).
83Forse per una particolare predilezione per il testo o forse perché colpito dalla recita milanese, d’Amico dopo aver recensito la prima, scrive anche la cronaca della replica romana. Stupisce in questi due articoli innanzitutto il modo in cui il critico descrive l’opera di Pirandello: nel primo è definita «scabra, angolosa, senza fioritura né allettamenti»103, caratterizzata da un «dialogo rotto e ansante» che, «passando per continui sottintesi, lancia molte volte qua e là con atteggiamenti sinistri, sprazzi di luce vivida su rivelazioni di desolata umanità», in un clima complessivamente «irrespirabile e oscuro»104; stupisce perché il critico usa termini che sembrano riferirsi piuttosto che al testo di Pirandello, in verità poco «scabro» e «angoloso», alla sua rappresentazione. E l’ipotesi trova conferma nella seconda cronaca, quella alla recita romana:
Quello stile rotto, scarno, ingrato e disperato che i lettori e ascoltatori di Pirandello conoscono da un pezzo, qui è divenuto esasperazione al punto, che le battute si inseguono e s’inchiodano l’una sull’altra, e tre o quattro personaggi compongono in tumulto un periodo solo. E si direbbe che, in un furore di nudità, il poeta abbia strappato di dosso alle sue creature non solo le vesti ma la pelle, le abbia scorticate e addirittura scarnificate: il dramma è tutto ossa, se ne sente lo scricchiolìo. E i personaggi si compiacciono di questa ostentazione; fanno con frenetica lucidità, la propria anatomia; come in certe antiche rappresentazioni di martiri, vanno in giro scoprendosi il cuore e cervello, e mostrandoseli a vicenda105.
84A riprova di quanto andiamo sostenendo, si noti come questo incalzare di immagini del pezzo di cronaca che ci restituisce innanzitutto l’elemento dell’esasperazione – «il furore della nudità» – della recita, sia lontanissimo dal tono equilibrato e contenuto con cui d’Amico si esprime quando, ritornando brevemente sull’opera – non sulla recita – nel suo Teatro italiano, scriverà poche ma indicative righe che, fra l’altro, concentrano tutto il senso del lavoro di Pirandello nella figura di Giuncano non così centrale invece nella cronaca:
Diana e la Tuda vuol essere in qualche modo la glorificazione della Vita vivente, contro l’arte vana: espressa nella tragedia di un vecchio (ricordare Quando noi morti ci destiamo) che, riandando con la memoria l’esistenza trascorsa nell’inseguire e fermare le belle forme, rimpiange l’avere, per esse, rinunciato al solo bene reale, ossia amore, passione, vita106.
85In sintonia con la cronaca di d’Amico, anche il critico del «Messaggero» di Roma nella sua recensione allo spettacolo sottolinea la medesima sensazione di esasperazione che, anziché travolgere di passione, agghiaccia. Quei «personaggi diabolicamente intelligenti e riflessivi», che «si scavano dentro con rabbia e quasi con sadismo», che si «spiano vivere […] per strappare alla vita i tristi segreti e la beffarda crudeltà delle sue leggi e della sua logica», sarebbero protagonisti di un dramma che «invece di premere e ardere nella passione si astrae e si agghiaccia nel pensiero»107 Per chiarire questo che è, secondo la nostra prospettiva, è uno nodi non solo di quella recita ma anche dello stile della Abba, è necessario ricordare l’intervento di Eugenio Bertuetti all’indomani della replica torinese. Il critico, che in occasione dell’Uomo la bestia e la virtù aveva dato prova di cogliere con grande profondità il cuore del grottesco pirandelliano, scrive:
Se qualcosa offende l’arte di Pirandello, se la impastoia, se la rende irta, sconvolta, è proprio tutto quel fango di umanità bruta in cui s’avvoltola maledicendo. È la bestemmia del prigioniero che s’insanguina le mani a furia di graffi e di pugni nella frenesia di rompere i muri, di uscire, di vedere!108.
86Di seguito, a proposito dei personaggi o, meglio, del modo in cui in quell’occasione vengono recitati, scrive:
I personaggi son più che creature: arrivano quasi al simbolo pur restando come sono: sangue e nervi. Hanno visioni sconfinate, cervelli duttilissimi, parlano a volte un linguaggio che direi eroico, eppure li avvinghia e brucia l’amore terreno, hanno i piedi legati all’erba folta, li immiserisce talora il piccolo dettaglio di una vita volgare. C’è insomma portato al più alto diapason, l’uomo semidio, con la sua carne che si sciupa, le sue miserie che lo logorano, e il divino segno dell’anima immortale109.
87Ecco che nella tensione esasperata che eccede la misura umana e quasi sconfina in qualcosa di «sublime» e nel corrispettivo impastoiarsi nel fango di un’umanità bruta e talvolta volgare, sta forse il segreto della recita. Il «furore di nudità» e quell’ostentazione con cui, come «nelle antiche rappresentazioni di martiri», i personaggi andrebbero scoprendosi cuore e cervello ci restituiscono un’esperienza estetica (della recita e non del testo letto) non così dissimile da quella appena descritta di Bertuetti o da quella del critico del «Messaggero». Sarebbe allora proprio quel particolare tipo di esasperazione e di eccesso, quel rabbioso sadismo con cui si scrutano i protagonisti, il modo che hanno di urlare la loro bestemmia, con ostentazione e frenetica lucidità, a provocare un senso di ghiaccio.
88A questo proposito d’Amico commenta: «[l]’atmosfera è incandescente, ma d’un fuoco come d’astri lontanissimi, che a noi non dànno calore»: frase questa importantissima e su cui dovremo ancora ritornare anche per il richiamo quasi letterale a quello che è forse il ritratto più bello di Marta Abba scritto nel 1935 da Bertuetti. L’attrice fu in certi momenti «addirittura troppo brava»110 nella duplice figura di «modella tutta istinto» e di»avversaria dialettica degli altri disputanti eroi». Di Tuda, che rappresenta la vita, che è «mutevole primitiva, limpida, profonda, tutta istinto, selvaggia, spesso indomabile, sovente ermetica»111 la Abba, «protagonista rabbrividente e spaventosa», sottolinea le ambiguità e le violenze: «una giocosità dolcemente volgare» nel primo atto, una «nevrastenia miracolosa» nel secondo, «una dannazione eterna dell’anima»112 nel terzo.
Gli occhi, quei chiari occhi di Tuda che poi diventan buchi pieni d’orrore, di disperazione, li vedemmo. Ne sentimmo il fascino. E certe pause tutte sottointesi, e certi mutamenti repentini, guizzi, passaggi bruschi dalla luce all’ombra e viceversa, li rese con una bellezza rara davvero113.
89Tutti questi dettagli tratteggiano una recitazione che conferma e rimodella, arricchisce e approfondisce ciò che la Abba aveva già mostrato nei panni di Dea, ribadito in quelli della Figliastra, esasperato in quelli della Signora Perella, per citare solo alcune recite, e che, d’altra parte, risponde anche alle esigenze del direttore drammaturgo. Se, come sostiene Bertuetti, nella recita dell’Uomo la bestia e la virtù la Abba aveva dimostrato di avere il senso del grottesco, qui, in un contesto profondamente diverso, fra il continuo mutamento dei registri di recitazione, in un impasto di elementi di nevrastenia, di volgarità, di dolcezza, di disperazione e quel gelo che nonostante tutto si impone, la Abba conferma in parte e in parte sviluppa quella cifra stilistica di allora. Qui, nei panni di Tuda, a rappresentare la vita e l’istinto che, si è detto, sono da sempre i valori di cui la donna nell’universo di Pirandello si fa portavoce, la Abba mostra insieme le passioni e la loro paralisi per parossismo, l’urlo di ribellione e la sua recita ostentata, quell’assaporare «le parole con un gusto forse soverchio, succhiandosele come caramelle, dove piuttosto avrebbe dovuto lasciarle correre»114. Non l’istinto lasciato correre, bensì un gusto soverchio che potrebbe confinare pericolosamente con una forma di manierismo, ma che sembra invece affermare qui il rifiuto prepotente – e quasi sprezzante – tanto a fondersi con il personaggio quanto a concedersi allo spettatore115. Una recitazione, scriverà Bertuetti nel suo intervento del 1935 facendo eco alle parole di d’Amico prima ricordate, che «ha le qualità del vetro: trasparenze gelide»116.
Spicco di particolari, architetture precise, sinuosità iridescenti e scivolose, culmini taglienti, spigolature crudeli, e dentro ci deve essere una fiamma – lo vedi, lo senti –, ma il calore non c’è. Fiamma del diavolo che non consuma, non chiede che di bruciare, d’incenerirsi117.
90Da un lato la smania, la frenesia, la volontà delirante di infondere calore e dall’altra uno «sforzo che va oltre il bersaglio», una «tensione più su dell’umano […] una esasperazione nuda, che subito scambi per artificio (a torto! Ben inteso, ma che ti raggela)». In questo soprattutto la Abba sarebbe, secondo Bertuetti, attrice pirandelliana: nella condivisione di un medesimo mistero, in quel saper vivere come seppe il maestro «nelle atmosfere astrali e scaldarsi al sole sotto zero delle stratosfere»118. Proprio attraverso un’esasperazione che corre sul filo del rasoio della tragedia e che, invece, si rattrappisce per eccesso mostrando l’impossibilità del sublime tragico, la Abba recita l’orrore del vuoto da cui parte il suo grido, sottolinea l’abisso che la separa dallo spettatore, il gelo in cui si rapprende in un pathos che si fa incomunicabile.
91D’Amico, che pure aveva colto qualcosa di tutto questo, non proseguirà nella linea d’interpretazione accennata nella sua cronaca a Diana e la Tuda: riconosciuta nella Abba essenzialmente l’attrice pirandelliana, non proporrà poi una lettura complessiva del suo stile che vada al di là delle singole recite, come se la sua recitazione disordinata, violenta, gelida, potesse trovare un ordine, di volta in volta diverso, solo all’interno della cornice dello spettacolo attorno a lei costruito.
2.3. Una polemica con la capocomica
92Quando nell’agosto del 1928 Pirandello decide di sciogliere la compagnia, divenuta ormai un «incubo» dopo gli insuccessi dell’ultimo periodo, le forti perdite finanziarie e la delusione per il tramonto della speranza che il governo fascista possa intervenire a sostegno del teatro119, d’Amico ha già smorzato gran parte del suo entusiasmo per l’iniziativa di Pirandello. In un articolo apparso nel numero di ottobre-novembre di «Comoedia» il critico, intervenuto già più volte sulle ragioni della crisi della scena italiana, riprende la sua vecchia tesi contro il «relativismo […] soggettivismo […] solipsismo» del teatro moderno nel quale non c’è «nulla che trascenda l’individuo, non esiste legge assoluta al di sopra di lui, non esiste verità conoscibile»120, bensì solo il «tormento». E il tormento, se può essere motivo d’interesse per una piccola élite, non può invece coinvolgere le folle, laddove il teatro è arte sociale che deve rivolgersi alle «grandi masse». Uscire dalla crisi significa pertanto trovare innanzitutto qualcuno che sappia nuovamente pronunciare una parola di fede e poi formare attori che se ne facciano fedeli interpreti.
93Come si sa, questa lettura della realtà teatrale a lui contemporanea non è nuova per d’Amico. Nel 1926, a cinque anni di distanza dal ritorno di Eleonora Duse in un panorama culturale e politico decisamente mutato, il critico aveva individuato la soluzione della crisi nell’avvento (epifanico) di un uomo nuovo, «il riformatore, il rinnovatore»121. Ora, nel 1928, superata in parte la polemica contro il regisseur, d’Amico chiarisce con maggior precisione quale funzione debba avere l’uomo nuovo che si attende. Identificato dapprima con lo scrittore di genio, viene poi definito come un riformatore della scena: attento a ciò che accade fuori d’Italia, capace di organizzare la formazione di nuovi attori, di farsi maestro, di creare «l’interpretazione d’insieme», di tradurre «il testo, dal libro, alla vita del palcoscenico», di intonare, disciplinare, plasmare gli artisti.
94In questa prospettiva la figura di Pirandello risulta fuori tempo e il progetto da lui portato avanti solo apparentemente vicino all’ipotesi di d’Amico perché, in ultima istanza, resta il frutto di un pensiero e una sensibilità artistica che non possono essere comunicate alle grandi masse; espressione di un tormento e non parola di «fede», inadatto a soddisfare l’esigenza, che si fa sempre più urgente, di formazione di nuovi attori: in definitiva il Teatro d’Arte resta un atto di buona volontà da parte di un «letterato improvvisatosi conduttore di compagnie»122.
95Accadde così che la notizia dello scioglimento della compagnia di Pirandello non rappresenti per d’Amico un episodio particolarmente rilevante dal punto di vista delle prospettive di sviluppo futuro del teatro italiano. Al contrario, dal punto di vista del percorso artistico di Marta Abba, il fatto assume un’importanza decisiva: il primo violino, perduta la sua orchestra, tenterà di formarne una nuova bruciando così le potenzialità che pur aveva dimostrato di possedere e facendosi esempio vivente, se mai ci fosse stato bisogno di nuove prove, dell’ineluttabile fallimento di un teatro d’attore svincolato dalla direzione di un maestro che sappia costruire un buon repertorio e una compagnia di complesso affiatata ed equilibrata.
Si ricordano le speranze sorte qualche anno fa sulla rivelazione di questa attrice: la più promettete energia apparsa, finora, tra la giovane generazione. Speranza poi non diremo delusa, ma forse un poco deviata, dal fatto che il repertorio della Abba, piuttosto sui generis, presto sembrò trattenerla in una sorta di campo chiuso […]. Ma il rimpianto è sempre quello: di veder la sua virtù così disordinatamente dispersa, nel quadro di una compagnia che effettivamente non la inquadra; compagnia meno che mediocre, senza direttore, senza stile123.
96Come in molte altre occasioni, d’Amico ribadisce qui la necessità che ci sia un quadro, che il quadro abbia un’omogeneità di stile e che il dettaglio, rappresentato dal singolo attore, vi si inserisca all’interno ordinatamente e organicamente: non è previsto né che il quadro sia semplicemente una cornice priva di una tela dipinta con criteri di omogeneità, né che il dettaglio (l’attore) si inserisca sì all’interno del quadro ma scompaginandone consapevolmente l’ordine (uno sguardo prospettico che spiazza la prospettiva complessiva del dipinto). Avendo fino a quel momento subordinato sempre lo stile della Abba a qualcos’altro (la rappresentazione del complesso, la direzione, il testo), d’Amico si trova ora nell’impossibilità di confrontarsi autenticamente con ciò che l’artista è, con il suo stile e il suo percorso d’attrice.
97La polemica scoppia violenta l’anno successivo, al termine di una serie di rappresentazioni al teatro Valle in cui, fra le altre, la Compagnia della Abba aveva rappresentato la Penelope di Maugham, La buona fata e La pietra di paragone di Molnár124. Il tono degli interventi di d’Amico è aspro e pungente fin dalla recensione alla Penelope, recita con cui la Abba si alienò il favore di tutta la cronaca romana, tanto da suscitare il commento sarcastico di Cecchi «un’attrice eccezionale che ogni sera, per così dire, sbaglia treno»125 e quello ancor più offensivo, dato ciò che il critico aveva già scritto su Gandusio, di d’Amico: «anche nel comico e nell’ironico sembra provare un po’ troppo la nostalgia d’un agitato spirito tragico, d’una sorta di parossismo che rischia di fare di lei la Gandusio delle nostre comiche»126.
98Eccessiva, agitata, priva di quello stile inglese che l’ironia del testo avrebbe invece richiesto nella Penelope; ineguale anche nella Buona fata, la Abba riceve al termine delle recite un attacco diretto da parte di d’Amico.
99Come accade ogni qual volta il critico ha intenzione di affondare maggiormente il suo colpo, al fine di mettere in discussione non solo il singolo episodio, bensì la legittimità di un intero percorso artistico, d’Amico sposta il piano della polemica e dalla critica allo stile passa a un’altra forma di attacco. Accusare così violentemente Marta Abba di aver avuto la «disgrazia», a cui «non c’è rimedio», di «salire alle prime parti quasi di colpo, scavalcando i ruoli minori», di non aver fatto la gavetta utile a imparare un «metodo paziente e regolare», significa presupporre l’impossibilità per un’attrice (e per di più d’istinto come la Abba) di un’autonomia nella definizione della propria identità artistica. Ancor più, significa negare che possa avere uno sguardo sulle cose, forse sbagliato, ma suo, frutto di un lavoro di ricerca stilistica che in altri casi ha dimostrato anche di dare i suoi frutti. Suggerirle poi una «guida seria, esperta, intelligente e moderna che incominci dal mettere un po’ di scolastico se non proprio classico ordine nella sua dizione e nel suo contegno»127, significa esautorare l’attrice della facoltà di scegliere il proprio percorso di formazione che, importantissimo per un artista, oltre a non aver mai termine, non è mai prevedibile e né definibile dal qualcun altro che non sia dall’artista stesso.
100Ricondurre poi ai «tempi tristi» una colpa che si rivela «universale» – «quella di buttarsi alla brava, dicendo addio a ogni seria disciplina interiore ed esteriore, e fidandosi esclusivamente delle proprie forze naturali»128 –, significa togliere all’artista l’unica forza autentica che ha: quella di incidere sulla storia ponendosi a combatterne l’ovvio e naturale decorso.
101La replica della Abba è immediata: dall’orgogliosa difesa dei propri maestri, a quella del proprio stile «aderente al mio spirito, che può anche dispiacere, pazienza! Ma alla quale non rinunzierei certo in favore d’una tecnica consuetudinaria, comune a tutte le attrici»129. Più interessante la risposta di d’Amico che ora scopre tutte le sue carte: dopo aver rapidamente archiviato le brevi esperienze della Abba precedenti all’incontro con Pirandello, sottolinea l’importanza degli anni trascorsi accanto al drammaturgo, da cui l’attrice sarebbe uscita piena di qualità «greggie […] convulsa nella blanda persona, frenetica nella gesticolazione, ansante nella dizione; e, che è grave, senza più controlli»130. La Abba in sintesi mancherebbe ora di uno stile e, cioè, come d’Amico specifica subito dopo, di armonia: «non quella data e ricevuta, come cosa morta, da una tradizione livellatrice», ma quella che corrisponde all’ordine interno, al rispetto della misura e all’omogeneità fra le parti. I dislivelli e le dissonanze proprie dell’attrice restano agli occhi del critico l’espressione di una disordinata esplosione di talenti e non assumono mai il senso di una scelta poetica e, dunque, di un consapevole lavoro sullo stile.
102Non è tuttavia il solo d’Amico a muovere critiche pesanti alla Abba capocomica. Alberto Cecchi, per esempio, solo pochi mesi dopo l’episodio appena ricordato, dedica all’attrice alcune pagine decisamente polemiche nelle quali, dopo avere anch’egli sottolineato la sua mancanza di disciplina, le rimprovera una monotona ripetitività. A partire dalla prima recita con la Compagnia del Teatro d’Arte, la Abba avrebbe infatti ripetuto sempre i medesimi «caratteri in una parola isterici di Nostra Dea» che l’avevano allora resa famosa, accentuandoli in una forma di manierismo violento ed esasperato: «identica a se stessa in ogni occasione e contingenza»131 l’attrice si sarebbe da allora condannata all’immobilità che, in una prospettiva critica che intende l’attore quale interprete del testo, è condanna pesantissima.
103Ciò davanti a cui entrambi i critici si rifiutano di interrogarsi è la linea di continuità su cui si muove il percorso di Marta Abba a partire dalla recita di Nostra Dea, per continuare con quelle dirette da Pirandello e giungere infine al periodo del suo capocomicato: un percorso di ricerca stilistica che è fatto di ossessioni, ripetizioni e di variazioni sul medesimo tema e che, se non può certo essere ricondotto completamente all’incontro con la drammaturgia di Pirandello, certamente lì dovette trovare ricco materiale su cui lavorare per approfondire e dare corpo alla sua poetica d’attrice. Rimosse le ragioni di poetica, il percorso stilistico perde il filo e la ragione.
2.4. Infine: Trovarsi
104Nel settembre 1932 Pirandello, ritiratosi a Castiglioncello per terminare la stesura di Trovarsi, scrive a Marta Abba.
[I]n fondo, la commedia è delle più semplici: il difficile è trovar l’assoluto, con una donna che è attrice e che vuol essere donna, e come donna non si trova e rischia di non trovarsi più come attrice, e poi come attrice si ritrova, ma non trova più l’uomo che la faccia essere anche donna… Eh, perché il vero assoluto – inaccettabile nella vita – è quello che dice Salò nel primo atto: o donna o attrice; che è poi quello che ho detto sempre io per me: “la vita, o si vive o si scrive” […]. Come “trovarsi” così? Ci si perde e ci si ritrova; e allora come le altre … – e nulla più d’assoluto! Questa mancanza d’assoluto fa che Donata non possa essere un’eroina; è la crisi d’un’attrice, che non si supera, perché lei stessa non vuole o l’una cosa o l’altra, vuole insieme le due cose, che non sono possibili se non relativamente e dunque senza conclusione vera. Bisogna trovarne una momentanea, e che sia bella! La troverò132.
105Pirandello afferma qui due cose di fondamentale importanza: Donata non è un’eroina133, giacché l’assoluto è fuori dall’orizzonte della sua storia; Donata è la portavoce di una crisi che non potrà venire superata definitivamente, ma solo relativamente, in un finale che vale come conclusione «momentanea», soluzione necessitata.
106Se infatti, in una conclusione che capovolge i Sei personaggi e apre la strada ai miti134, la protagonista rinuncia alla vita e riconosce all’arte e alla sua libertà creativa l’unica via percorribile per trovare un’identità propria, tuttavia l’ultima didascalia e la battuta finale della protagonista sono lì a indicare che una crepa, una piccola faglia, c’è. In seguito alla recita davanti allo specchio in cui nella sua camera d’albergo l’attrice ripete la scena che ha appena sancito il suo successo in teatro, Donata, «che sarà caduta a sedere su una poltrona presso la lampada violacea, con le braccia rilassate e le mani vuote, ma la testa alzata, come a cogliere con un vano sorriso sconsolato l’eco di quegli applausi», alzatasi «di scatto», «aprendo le braccia» pronuncia enfaticamente – troppo enfaticamente, appunto, come in una recita – la sua ultima battuta: «Vero è soltanto che bisogna crearsi, creare! Allora soltanto, ci si trova»135. Un finale questo che, se è catartico e consolatorio, non lo è poi fino in fondo: la scelta di Donata è solo apparentemente assoluta o, meglio, vorrebbe esserlo; ma la protagonista non è un’eroina e, come non sa chiudere gli occhi e abbandonarsi alla vita (il primo dei due assoluti), così non può trovare nell’arte la ricomposizione immediata di sé (il secondo assoluto): può volerlo, può alzarsi di scatto e recitarlo, ma non lo possiede ancora. Di lì alla soluzione dei grandi miti teatrali il passo è certo breve, ma non ancora compiuto del tutto.
107Ciò che interessa sottolineare a questo punto è proprio lo spazio e il rilievo che la Abba nella sua recita del 1933 dà a quel senso di impossibilità dell’assoluto di cui Pirandello le aveva scritto. Sembra infatti, dalle cronache allo spettacolo, che la sua recitazione abbia tentato di accentuare questo aspetto. Se infatti Tieri coglie il senso di solitudine amara che resta a dominare la scena («Poi la realtà si ricompone, e la donna è sola, per sempre») e Simoni lapidario commenta «quella che pare la liberazione finale, è la catastrofe. Non la consolazione, ma la rassegnazione»136, fra tutti il più chiaro è Antonelli che, posta in dubbio l’assolutezza del finale catartico («Tutto il segreto del trovarsi è dunque in quel suo creare e ricrearsi incessantemente? Forse. Ma per sé, Donata Genzi, per sé nella vita, non sarà mai nessuno»)137, poi chiarisce:
Trovarsi a furia di crearsi è tuttavia un’ansietà, non un punto fermo, a cui l’uomo aspira: non un orientamento definitivo dello spirito. Quest’orientamento è impossibile? Donata Genzi arriva artisticamente a questa conquista deludendo la vita, ossia cercandosi nella finzione. Luigi Pirandello ha un demone dentro di sé che non gli dà tregua. L’arte sua ha un nome: inquietudine. Anche trovandosi nella finzione, Donata Genzi non riesce ad afferrare il suo io. Ella riesce soltanto a placarsi, ossia a trovare una illusoria ragione di essere138.
108Un placarsi momentaneo, appunto. Non l’assoluto.
109D’Amico, che assiste alla prima romana di Trovarsi e che ormai da qualche tempo ha smorzato i suoi toni polemici nei confronti della Abba, forse perché apprezza maggiormente la formazione della sua compagnia o forse perché riconosce un miglioramento nella cura che ella pone ad allestire i suoi spettacoli, esprime un giudizio abbastanza positivo tanto sull’opera di Pirandello quanto sulla recita dell’attrice. Anche nella sua cronaca, per lo più dedicata al racconto della trama, la parte più interessante e significativa si concentra sull’interpretazione dell’ultima scena.
110«Attraverso una quantità di ritorni a ormai celebri asserzioni pirandelliane» l’opera si conclude «con un atto di fede, fede diremmo attivistica e pragmatistica, in quella che per Pirandello può essere suprema consolazione dei mortali: creare». Nell’atto di fede finale d’Amico vede attenuarsi il pessimismo amaro e solipsistico del drammaturgo, sebbene ciò non basti (si tratta pur sempre di una fede definita ambiguamente «attivistica e pragmatistica») a convincerlo del tutto. D’altra parte la Abba, complessivamente elogiata per la recitazione dei due atti precedenti, lascia qui il critico perplesso: «mi parve», scrive «che l’affanno prevalesse un po’ troppo in certe ritmate, e quasi viziate, cadenze della sua dizione»139. È quest’ultima un’affermazione importante che sembra cogliere un tratto significativo della recitazione della Abba e che, se posto in relazione alla cronaca di Simoni, può aiutare a chiarire e la prova dell’attrice e la posizione critica di d’Amico:
Quest’aura di tragedia è un poco tremolante e abbacinante. C’è nel procedimento del Pirandello, quasi l’affanno della sottigliezza, una persistenza del tramutare in coscienza il sentimento, che dà talora nella dialettica e qualche volta nell’oscurità140.
111Ecco che dal confronto delle testimonianze inizia a profilarsi una strada esegetica possibile. L’affanno della sottigliezza e della persistenza nel tramutare il sentimento in coscienza, se certamente si riferisce allo stile del dramma, ci offre tuttavia anche una spia sullo stile dell’attrice e su quel suo lavorìo incessante – sottile e persistente – volto a scomporre i due dati di partenza più evidenti della sua recitazione (l’indole della tragica e il temperamento dell’istintiva) privando l’uno dell’assolutezza e l’altro dell’immediatezza141. L’affanno di Pirandello corre parallelo all’affanno ostentato «in troppo ritmate e viziate cadenze della dizione» della Abba che, nell’ultima scena e probabilmente proprio nella scena della recita davanti allo specchio, continua a cercarsi nella finzione, senza potersi placare. La battuta finale vale perciò non tanto, come sostiene d’Amico, come atto di fede che il pragmatismo e l’attivismo vorrebbero risolutrice efficiente di ogni inquietudine, ma come atto di volontà o forse recita di quella volontà. Soluzione momentanea, comunque.
112A chiarimento di questo nodo, si possono leggere ora le parole che nel novembre di quell’anno Vincenzo Tranquilli pubblicherà su «Scenario», in un lungo articolo dedicato a Marta Abba:
Credo che nessun teatro abbia impegnato un’interprete nel pensiero, in maniera così tagliente scarnificante come il teatro di Pirandello. Esso è il grido straziante di un’umanità che ha scomposto chimicamente gli elementi razionali e spirituali di cui è costituita, e si contempla vivere nella tragica e umoristica deformazione che questi elementi assumono ai suoi occhi. Questo è il grido di Marta Abba. Questo il travaglio di cui ella è l’interprete142.
113Questo grido e questo travaglio sembrano perdersi nelle pagine di d’Amico in un frastuono di altre impellenze, di altri progetti che sottraggono l’attenzione del critico a un teatro che ha la colpa di estraniarsi sempre più, come aveva scritto qualche anno prima nel Tramonto del grande attore, «dal gran pubblico per arrovellarsi e lambiccarsi intorno a problemi, anche intimamente drammatici, ma interessanti solo per un’élite. Che luce, che consolazione» prosegue d’Amico «se domani tornasse a una fede comune, e riadunasse religiosamente il popolo, in una certezza!»143.
114Resta da indagare a questo punto ancora un aspetto, in verità secondario per ciò che riguarda Marta Abba, ma significativo per il percorso di riflessione di Silvio d’Amico in quegli anni. Ci offrono la possibilità di affrontarlo due interventi del critico di poco successivi a quello su Trovarsi: uno relativo alla recita della Vedova scaltra e l’altro alla Ruota di Cesare Vico Lodovici.
115Qui, senza toccare gli entusiasmi del critico della «Gazzetta del popolo» di Torino che definirà la Abba «la nostra più grande attrice»144, d’Amico afferma una rinnovata disponibilità verso l’artista e, soprattutto, sembra attenuare le sue diffidenze nei confronti del ruolo di capocomica da lei assunto145. Anche il richiamo, nella prima delle due cronache, alla recita di Nostra Dea è piuttosto una notazione di carattere stilistico che non pretesto di polemica: la Abba, tentando nuovamente quel «mutevole gioco» di allora, sarebbe stata qui «una Rosaura vivace, alle volte un pocolino spiritata, e piacevolmente caricaturale nelle grandi scene dell’ultim’atto, dove apparendo come inglese, francese e spagnola» avrebbe mescolato «con grazia al testo goldoniano qualche accento dei rispettivi idiomi». Ma poi nell’analisi di queste due recite d’Amico coglie l’occasione per porre un problema più ampio che supera gli episodi citati e che, come lo stesso critico accenna, avrebbe bisogno di più spazio per essere approfondito e articolato. Il riferimento è all’allestimento scenografico del russo Strenkowski, di cui si apprezzano le doti ma che nella commedia di Goldoni avrebbe risentito un po’ troppo del gusto per il balletto russo146, mentre, nel secondo atto della Ruota, avrebbe ecceduto in una forma di esteriorizzazione più propria del cinema che non del teatro.
Ma qui la discussione, a volerla proseguire sino in fondo, diventerebbe grossa: contentiamoci di ripetere che noi al valore lirico di queste contaminazioni cinematografiche, a teatro, ci crediamo poco. E non solo per la estrema difficoltà di eseguirle con una buona tecnica scenica (che, in tutt’i casi non può naturalmente regger nemmeno da lontano il confronto con quella del Cinema). Ma anche perché la visione, a teatro, per noi ha da essere di regola un commento, un’integrazione della parola, e non viceversa. [Qui, invece] quella che prevale decisamente, facendosi la parte del leone, è la mera visione; e la parola si rattrappisce, cinematograficamente, come un suo commento arido, marionettistico147.
116La «tecnica scenica» avrebbe dunque tentato qui l’impresa – impossibile – di sostituirsi alla poesia e, sebbene conseguendo risultati più che apprezzabili, avrebbe fatto perdere allo spettacolo parte della sua intensità, della «reale potenza drammatica», recuperata solo nel più tradizionale terzo atto.
117Il problema è qui solamente accennato, ma comunque posto in modo chiaro.
118La polemica contro la tendenza alla spettacolarizzazione e all’influenza del linguaggio cinematografico sul teatro si fa immediatamente difesa della recitazione ma, come sarà ormai chiaro, in funzione della più importante difesa della Parola – e del Teatro come interpretazione della parola del Poeta. Non tanto – come sarebbe stato possibile e lecito – una polemica contro la spettacolarizzazione delle forme in cui il teatro veniva storicamente a darsi in quel periodo – complici molti fattori compresa la nascita di una vera e propria industria cinematografica –, bensì la difesa attenta del territorio di competenza del teatro: la Parola e tutto ciò che quel termine, nella prospettiva critica di d’Amico, portava con sé; tutto ciò che, dopo la definitiva sconfitta del grande attore, un’altra concezione del teatro, che si andava sempre più affermando anche nel linguaggio della scena italiano, rischiava di mettere a repentaglio.
119Già dieci anni prima un’attrice particolarissima, e non a caso di origine russa, aveva posto il problema all’attenzione del critico: l’attrice è Tatiana Pavlova.
3. Tatiana Pavlova: interprete visiva e direttrice di scena
3.1. Interprete visiva
120Se c’è qualcosa che rende particolare il rapporto fra d’Amico e questa «scintillante signora della scena»148, di origine russa, dallo stile tanto inconsueto per il nostro teatro da scatenare con il suo arrivo in Italia contrastanti reazioni e più di un dibattito, è certamente qualcosa che il critico inizia subito a focalizzare, già a partire dai suoi primi interventi sull’attrice. Quando poi, nel 1929, le dedicherà un capitolo del suo Tramonto del grande attore, non farà altro che rielaborare sinteticamente il contenuto delle cronache scritte in occasione di quelle sue prime recite.
121L’anno dell’incontro è il 1923: sono in piena attività sui palcoscenici italiani Emma Grammatica (mentre la sorella Irma trascorre lunghi periodi in riposo), Alda Borelli, Maria Melato, Dina Galli e, poi, Ruggeri, Zacconi, Tumiati, Falconi, Gandusio, Picasso, tutti attori di cui d’Amico si è già ampiamente occupato nelle sue cronache sull’«Idea Nazionale»; Eleonora Duse è ancora in vita, ma ormai lontana e il suo esempio e la strada da lei indicata non sembrano essere per il momento fertili di nuove rivelazioni; al contrario, la sua partenza ha lasciato un vuoto difficile da colmare.
122Frattanto, nel gennaio, con l’inaugurazione del Teatro degli Indipendenti, Anton Giulio Bragaglia ha iniziato a far sentire con forza il peso della sua presenza artistica all’interno del panorama teatrale italiano.
123Quando il 7 aprile 1923 l’«Arte drammatica» dà la notizia che Tatiana Pavlova, giunta in Italia due anni prima e chiamata a Torino per lavorare all’Ambrosio film, ha intenzione di formare una compagnia propria, la notizia non sembra suscitare alcuna particolare reazione: pochi mesi dopo, con l’aiuto di Giuseppe Paradossi, la compagnia è pronta ed esordisce a Roma, al teatro Valle il 3 ottobre, con Sogno d’amore di Kossorotoff. L’episodio scuote la critica romana che all’indomani esprime reazioni fra l’entusiasmo e lo sconcerto per l’allestimento complessivo dello spettacolo e una sostanziale perplessità sulla recitazione della capocomica a causa, innanzitutto, della sua dizione stentata e faticosa. Ciò che appare quasi immediatamente chiaro è quanto la tradizione, a cui l’attrice fa riferimento sia distante da quella all’interno della quale non solo gli attori, ma anche la critica e il pubblico italiani hanno formato il proprio gusto e poggiano i propri parametri d’interpretazione estetica. È un esempio questo, come ce ne saranno in seguito altri – ma con la differenza che la Pavlova, naturalizzata italiana, da allora in poi lavorerà sempre sulle nostre scene – di incontro fra due culture teatrali, due mondi e due modi di vedere il linguaggio della scena: di qui la perplessità e la diffidenza149, ma anche la curiosità e il fascino tanto per il gusto raffinato dei costumi o delle scenografie quanto per lo stile di recitazione dell’attrice; di qui i toni ora aspri ora benevoli, ma sempre come incerti di tutte le primissime cronache. È come se, pur volendo confinare questo piccolo evento a un episodio marginale della vita del teatro, qualcosa fin dal principio fosse stato scosso e avesse costretto parte della critica italiana a interrogarsi sulle ragioni di quel fascino che l’attrice indubbiamente esercitava e sulle possibili ripercussioni che il suo arrivo avrebbe potuto avere sul contesto teatrale italiano.
124D’Amico in questo senso non fa eccezione. Colpito e affascinato, non nasconde tuttavia le sue numerose perplessità sullo spettacolo di cui rileva ora la «cura squisita con cui ella [Pavlova] e suoi attori si studian d’interpretare la visione dell’autore»150 e la fedeltà allo spirito del testo più che alla sua lettera, ora il venir meno del primato della voce, il prevalere dell’aspetto visivo dello spettacolo (mimica, luci, costumi, rapporto fra l’attore e le scenografie), ora i difetti di pronuncia dell’attrice che rendono difficile decifrare e giudicare la sua recitazione ma anche la squisitezza dei suoi atteggiamenti e la delicatezza della sua mimica. Il termine che ricorre con maggior frequenza negli interventi di d’Amico è l’aggettivo «visivo», riferito non alla Pavlova soltanto, ma al quadro d’insieme da lei costruito: perché la Pavlova non è solo attrice, ma è anche capocomica attenta alla direzione del complesso spettacolare151. Proprio sulla peculiarità di tale direzione, insieme alla particolarità recitativa dell’attrice russa, si inizia a interrogare allora la maggior parte della critica italiana, d’Amico incluso. Una direzione che potremmo definire, con tutta l’approssimazione che questo termine porta con sé, «cromatica» e che incontra perfettamente o in quanto suo prolungamento o in quanto suo contesto linguistico lo stile dell’attrice. Il «segreto di tradurre in colori la successione dei suoni musicali»152, di cui quattro anni dopo scriverà Lucio Ridenti, è infatti, come Ridenti stesso proseguendo specifica, non vezzo bensì «elemento necessario» anche alla sua recitazione.

Tavola 19. Tatiana Pavlova in una caricatura di Onorato
MBA. Fondo Onorato
Voi [il critico si riferisce direttamente all’attrice] non potete parlare, in palcoscenico, se una luce non colora, armonizzandole, le sfumature delle vostre intonazioni […]. Naturalmente, due o tre tinte sarebbero sufficienti – quelle del riflettore – a stabilite l’atmosfera graduale della vostra interpretazione, ma voi ne cercate altre, molte altre per colorarvi tutta: nelle parrucche blu, verdi, arancione, e negli abiti che hanno sempre – oltre la ricercatezza d’un gusto che non s’insegna e non s’impara – il tono adatto alle parole che dite, alla creatura che voi siete in quell’istante153.
125Ritorneremo fra poco sulla recitazione della Pavlova. Ora è necessario, pena non comprendere i motivi della benevolenza di d’Amico, ricordare che se gli attori della sua compagnia «comunicano non solo con gli orecchi dello spettatore ma anche, moltissimo, co’i suoi occhi»154, se gli scenari e i costumi sono curati come raramente accade di vedere sui palcoscenici italiani155 e la luce assume un importante valore espressivo, l’intenzione dell’artista russa, agli occhi del critico, sembra essere innanzitutto quella di interpretare l’opera drammatica. Che cosa poi s’intenda in questo caso per interpretazione rimane piuttosto vago; ma ciò che già nei primi articoli risulta chiaro è che l’aspetto del quadro complessivo e quello particolare dell’attrice Tatiana Pavlova sono i due volti speculari di una poetica in cui l’elemento visivo sembra prendere il sopravvento sulla parola, ma non sullo spirito del testo; in cui viene fatta salva cioè l’interpretazione. Spesso tradita, tagliata in molte sue parti con un atteggiamento che potrebbe essere assimilato a quello del mattatore, l’opera del poeta viene infatti sottoposta a una traduzione del proprio spartito dialogico discorsivo in uno eminentemente gestuale e visivo, ma non per questo liquidata come accessorio dello spettacolo.
126E qui d’Amico, forse affascinato dalla calcolata precisione con cui i dettagli sono coordinati nell’insieme, dalla raffinatezza un po’ esotica del gusto d’arredamento scenico, dall’uso sapiente delle luci e, non da ultimo, dalla «grazia» «artefatta e impeccabile»156 della recitazione della Pavlova, si mostra disposto a concedere all’attrice molto di più di quanto non sia solito fare. Su quel repertorio che l’«Arte drammatica» due anni dopo definirà «postribolare»157, non un cenno; sui difetti di pronuncia della Pavlova, da molti per questo motivo pesantemente criticata, qualche appunto, ma non il duro e intransigente incalzare dei giudizi caratteristico dei suoi interventi; sulla mediocrità dilettantesca degli attori della compagnia (eccetto il Bertramo) una tolleranza dovuta innanzitutto alla compostezza armonica data dall’insieme. Su tutto un tono di curiosità aperta e disponibile e in particolare il fascino su di lui esercitato da una diversità così ben confezionata da forzare le categorie di interpretazione consuete del critico in una direzione che stupisce per la distanza rispetto ad altre sue dichiarazioni e, in particolare, da quelle relative alla distinzione fra il linguaggio proprio del teatro (che è linguaggio della parola) e quello del cinema (linguaggio dell’immagine).
127Nel dicembre 1923, attaccato per il modo in cui aveva recensito poco prima le recite romane della Pavlova, d’Amico replica con due articoli che compaiono a distanza di pochi giorni sull’«Idea nazionale»: da un lato, insiste sulla raffinatezza della composizione scenica complessiva e, dall’altra, sul tocco ironico e cerebrale ma comunque incapace di indurre alla commozione, di una recitazione in cui l’elemento dell’artificio è spiccato almeno tanto quanto lo è nei fondali interni della recita di Miss Hobbs «stilizzazioni attinte alle riviste illustrate anglo-americane», o alle «scene e i costumi di Romanzo» che «sembravano stampe colorate»158. Sintesi dei due elementi: lo spettacolo.
Perché insomma il merito della Pàvlova e dei suoi compagni – in cui non si scoprì da nessuno una grande arte, ma un metodo nuovo… per queste scene – era ed è quello di offrire al pubblico appunto ciò che esso ha sempre domandato […]: uno spettacolo (vedi l’etimologia della parola)159.
128Qualche mese dopo sul «Resto del Carlino» d’Amico specificherà meglio: se infatti «spettacolo viene da “spectare”, guardare», ne consegue che il pubblico, abituato alla noia di un teatro realista e naturalista, grigio alla vista e tedioso all’ascolto, finalmente «si senta allargare il cuore davanti a un palcoscenico lieto di colori raggianti, o teneri, o delicati»160 e non sia più costretto a sentire mortificata la propria fantasia.
129Alla rigida e intransigente esigenza di dare voce al poeta e interpretare fedelmente il testo – fino al limite di ridurre gli attori a corretti dicitori – subentrano qui le esigenze dello spettacolo inteso proprio come costruzione di un complesso innanzitutto visivo, in cui ogni tratto sia armonico con l’insieme, in cui predomini il gusto fantasioso per i colori e le forme, in cui soprattutto l’esigenza di esprimere efficacemente l’interiorità dei personaggi non occupi più il posto prioritario rispetto a tutto il resto.
130Eppure, deve ammettere d’Amico, uno «spettacolo» non è vera arte; c’è un solco di divisione fra i due termini che, se permette di elogiare l’uno – quando sia ben confezionato, s’intende –, evita però pericolose confusioni con l’arte.
131In questa prospettiva è chiaro che l’artificialità evidente e smaccata e il carattere visivo della recitazione della Pavlova, così come dell’insieme da lei diretto, sono peculiarità di uno spettacolo e non del Teatro che, sebbene non possa fare a meno né dell’artificio né dell’elemento visivo, nella Parola custodisce il nucleo profondo del suo senso. Spettacolo intelligente, dilettevole, costruito con stile e, in quel preciso momento storico, strategicamente da difendere.
132Tre anni più tardi, sebbene all’interno di un discorso in parte differente e nell’esigenza di opporsi alle teorie che sostenevano il dispotismo del metteur-en-scène, d’Amico ci suggerisce una chiave di lettura delle ragioni di tale strategia. Dopo aver ricordato l’arrivo di Pitoëff in Italia, l’attività di Bragaglia (che da poco aveva inaugurato il suo teatro) e l’esperienza del Teatro del colore a Milano, d’Amico riconosce in quelle esperienze, che molto hanno in comune con l’aspetto “spettacolare” delle recite della Pavlova, un valore innanzitutto di reazione contro la «sazietà per la messinscena veristica che aveva trionfato in Europa sulla fine del secolo scorso»161. Certo è che nel 1923, quando la polemica con Zacconi è ancora viva né è sopita quella contro la commedia borghese, l’esigenza di ribellione «alla decadenza del naturalismo e del verismo borghese»162 deve apparire ancor più urgente e le recite di Tatiana Pavlova, confezionate con quella raffinatezza e precisione che solo una straniera (russa) avrebbe potuto dar loro, giungono in Italia a soddisfare proprio quell’esigenza.
Siamo sazi della fotografia e del microscopio. Il teatro vuol essere spettacolo, continuazione e arricchimento della realtà, domanda altra logica che quella verista, invoca la liberazione dalle quattro pareti grigie dalla sala vetrata che dà nel giardino, dal salone da ballo e via dicendo. Perciò il pubblico […] và al cinematografo163.
133Gusto e raffinatezza di scenari, sapiente uso delle luci164, omogeneità e armonia recitativa del complesso non sarebbero però sufficienti a reggere la benevolenza di d’Amico se, infine, non ci fosse anche la Pavlova attrice. E questo per due motivi: uno riguarda nello specifico il suo tipo di recitazione, che andremo ad analizzare fra poco; l’altro riguarda invece il tipo di direzione dello spettacolo che ella, proprio in quanto attrice, può realizzare. La direzione dello spettacolo così come in futuro la regia, dovrebbero infatti mantenere nella visione di d’Amico la centralità dell’attore-interprete per evitare che l’insieme naufraghi in una sconnessa esibizione di elementi scenografici. Nel caso specifico, la presenza di Tatiana Pavlova attrice e direttrice insieme permette di realizzare l’unità necessaria anche se, per arrivare al secondo dei due motivi sopra enunciati, non si tratta nel suo caso – almeno da principio – di una grande attrice. Infatti «sempre, scopertamente, compone e recita» e non vive, come faceva invece la grande Eleonora Duse; per questo motivo «non ci commuove quasi mai», ma «dà una gioia principalmente cerebrale e visiva». Proprio nella sua artificialità, «in questa sua composizione, cerebrale, gradevole e raffinata […] consiste il suo stile»165 che è il suo modo di rendere visivamente, con la mimica, con l’uso degli abiti, delle parrucche colorate, del trucco, degli oggetti in scena, lo spartito drammatico. Uno stile che la lontananza dalla tradizione recitativa italiana rende di difficile comprensione per gran parte dei critici: marchiato per lo più come «maniera» che infastidisce proprio perché non si sa a cosa farla risalire, perché stona con ciò a cui si è abituati ad assistere, perché, per esempio, «il nostro modo latino e la sua maniera slava, di tradurre, per intonazione e per segni tangibili, i movimenti interiori»166 non collimano. Uno stile che risulta perciò troppo eccentrico per gran parte del nostro mondo teatrale: con quella sua carenza di calore, di spontaneità e di sincera umanità, quel cerebralismo un poco artificioso accentuato anche dai suoi difetti di pronuncia, con quella dizione di voce sempre stridula eppure alla fine musicale, con quella uniformità («è uniforme ed uguale in quasi tutte le produzioni, à quasi le stesse mosse»)167, con quel volgere «le spalle al pubblico e in tal positura pronuncia[re] alcune tra le battute più importanti della parte»168, con i suoi «piagnucolii da pupa meccanica»169, il suo recitare quasi sempre sussurrando a cui fanno da controcanto movimenti talvolta frenetici ed esasperati.
134Stile infine che, come d’Amico intende sottolineare, è per questi motivi – certo non intenzionalmente ma nei fatti – un’opposizione al realismo recitativo e rientra così perfettamente all’interno della strategia che il critico persegue e di cui si è detto sopra.
135Discontinua, spesso eccessiva e sopra le righe, esasperata nei toni, marcatamente finta, ma infine raffinata, la Pavlova è tuttavia tanto lontana dalla così detta «signorilità» ruggeriana quanto dal lirismo tragico di Maria Melato, che sono gli altri percorsi conosciuti dalla scena italiana per differenziarsi dal realismo. Non è certo il suo quel tipo di fascino con cui, solo due anni prima, Eleonora Duse era riuscita a superare i confini stessi del teatro per farsi occasione di rito collettivo; piuttosto la seduzione propria dello spettacolo che conduce il teatro al limite opposto, alla teatralità visiva e impeccabile, dai contorni netti e definiti, lontana dalla sublimazione vocale che, nelle recite della Duse, si faceva allusione ad un oltre indefinito, lontana dal lirismo melodico di Maria Melato così come da quello decadente di Ruggeri. Nessun senso del mistero, nessun dramma celato, nessun oltre in cui incontrare ritualmente il pubblico; ma, d’altra parte, nessuna forma di gretto e grigio realismo.
136In un gioco raffinato e impeccabile che, in una quasi matematica previsione di ogni dettaglio del quadro complessivo, coinvolge la direttrice tanto quanto l’attrice, consiste uno dei principali motivi di piacere per lo spettatore e certamente, per Silvio d’Amico una delle ragioni di maggior fascino della Pavlova: nulla dell’approssimazione del guitto italiano; tutto invece «matematicamente precisato e ordinato: dove ad ogni sua battuta il compagno che recita con lei deve risponder col gesto o col passo fissato»170.
137Così la descrive Piero Gobetti nel 1923:
Tatiana Pavlova, ossia gioco e signorilità [...]. Ascoltate da lei le parti comiche, le fantasie variopinte, in costume, i capricci mondani e vi accorgerete che la sua tecnica è di natura sopraffina. Per trovarle il suo mondo e una sua misura bisogna pensare al Settecento francese e veneziano [...]. Tatiana Pavlova è un giocattolo troppo fine e prezioso, signorilmente sicuro e moderato, perché noi lo possiamo pensare fra le la-crime di una tragedia convulsa; le sue arguzie troppo amabili per i drammatici destini di Giuseppe Adami, autore carissimo al cuore di Maria Melato. Meglio la selvaggia bizzarria di Miss Hobbs, meglio i capricci di Mirandolina171.
138Il tipo di gioco raffinato che Gobetti riconosce alla Pavlova risponde in parte alla sua idea di un attore che sappia essere interprete critico dell’opera recitata, con quel tanto di freddo e lucido distacco di cui Alda Borelli è l’esempio contemporaneo più illustre. Al contrario d’Amico, che coglie qualcosa di molto simile, ne dà poi un’interpretazione che risponde alla propria poetica critica, molto lontana come si sa da quella di Gobetti. In un giudizio ambiguamente in bilico fra l’elogio della diversità e la notazione di un limite, d’Amico riconosce infatti a questa raffinata attrice un tratto molto peculiare: quell’«arte di composizione» che, se «è tutt’altra cosa dalla nuda spontaneità a cui mirano le attrici nostre»172, in ultima istanza, è forse ciò che le impedisce per il momento di essere una grande attrice. La Pavlova infatti «scopertamente compone e recita»173,
come confessando chiaramente “vedete, io non sono una donna, sono un’attrice; che non è, ma rappresenta, questa o quella donna”. In altri termini, certe creature di questa raffinata civetta dell’arte, ci appaiono come quei disegni antirealistici per eccellenza, dove ogni figura è ben nettamente stilizzata da una linea che ne rileva, con amabile sfacciataggine, in contorno174.
139Nella distanza fra la «pupattola assolutamente priva di grazia»175 – la Galli – e la «marionetta impeccabile»176 – la Pavlova – si esprime tutta la distanza fra una recitazione in cui l’evidente elemento di artificialità ha ancora un legame forte con la tradizione italiana del guitto e con il teatro di varietà e una recitazione in cui, invece, l’artificio è come sterilizzato da ogni tentazione tanto d’improvvisazione quanto di rottura della quarta parete.
140Il gioco raffinato e artefatto della Pavlova richiama il pubblico e lo diverte (come accade nello spettacolo del cinematografo), in un godimento «visivo» «cerebrale» e «sentimentale»177, a cui è importante aggiungere, “impermeabile” alla presenza del pubblico.
Piena di capricci, elegantissima, anima volubile, incomprensibile e musicale, con la voce che a volte scoppiava improvvisa come un colpo di pistola, a volte prendeva dei toni squillanti di ragazza che fa il suo primo discorso serio, a volte poi si rifugiava melodiosamente in un indistinto cinguettio, facendo vivere e agire ogni oggetto che le capitasse sottomano, gettandosi distesa sui mobili, salendovi sopra, non facendo un gesto a vuoto, non lasciando scoperta una battuta, senza mai curarsi del pubblico, la Pavlova occupò di sé, ieri sera, dal principio alla fine, l’attenzione degli spettatori178.
141Con ciò si vuole qui sottolineare un fatto importante anche per comprendere l’originaria simpatia di d’Amico per l’artista russa: la distanza cioè che separa lo stile di Tatiana Pavlova – attrice e direttrice – dalle poetiche che si pongono all’interno di una prospettiva coscientemente antinaturalistica, nel senso di critica dei fondamenti ideologici del naturalismo. Non occultare un certo tipo di artificialità può significare porsi al di fuori di un certo canone naturalistico attraverso una forma forse implicitamente straniante, ma non significa per questo mettere in discussione ciò su cui quel canone in ultima istanza si basa: la propria assolutezza linguistica, impermeabile a ciò che invece nella modernità corrode dall’interno il principio di corrispondenza fra la convenzione artistica e la realtà.
142Ciò che l’arte antinaturalistica assume coscientemente all’interno del proprio linguaggio è la crisi che ha investito l’idea stessa di una corrispondenza fra soggetto e mondo, fra l’ordine delle idee e l’ordine delle cose, fra l’universale e il particolare. Partendo da altri presupposti rispetto a quelli dominanti sulla scena italiana e riferendosi a un diverso gusto estetico (decisamente poco nostrano), Tatiana Pavlova rispetta tuttavia la quarta parete, la chiusura cioè del mondo della finzione entro ben precisi argini che ne tutelano l’autonomia e l’assolutezza. Nonostante alcune dissonanti forzature del linguaggio che frequenta, resta comunque interna alla logica della finzione rappresentativa e la sua distanza dallo stile del realismo primonovecentesco italiano (un certo canone proprio del naturalismo), non può che renderla agli occhi di d’Amico per il momento valida alleata della sua battaglia culturale.
3.2. Da Strinberg a Rosso di San Secondo: la Pavlova «grande attrice»
143Il 22 ottobre del 1923 Tatiana Pavlova mette in scena La signorina Giulia di Strindberg: nonostante le contrastanti reazioni del pubblico e della critica, d’Amico, che ha assistito alla recita, esprime allora il suo giudizio forse più positivo sull’artista.
144La Pavlova avrebbe infatti evitato in questa recita di mostrare «allo scoperto, com’era solita fors’anche per la continua preoccupazione dell’eloquio, il continuo lavorìo della sua composizione, e le bravure dell’arte sua», ma, «come divorata da una fiamma», sarebbe riuscita da «grande attrice» a dare l’impressione «irresistibile della vita». All’arte raffinata della composizione palesemente finta, si sarebbe sostituita quella, più facilmente assimilabile all’interno della nostra tradizione, dell’espressione intensa delle passion; all’«ammirazione ragionata» e alla «compiacenza squisita» nei confronti dell’una, d’Amico ammette di essere passato a una «partecipazione affannosa» di fronte «alla ripugnante vicenda, di cui sentimmo tutto il dramma mostruoso»179 dell’altra. Come a dire: assistere a uno «spettacolo» impegna la vista e la ragione, ma non tocca corde profonde; assistere invece all’interpretazione d’una «grande attrice» costringe a una partecipazione che può farsi affannosa, che coinvolge emozioni e sentimenti e, attraverso quelli, conduce alla comprensione intima e profonda del dramma. E il cerchio si chiude nella consueta identità fra intensità di sentimento, interpretazione del testo e grande arte.
145Ma non basta. Proprio qui, nella recita in cui la Pavlova sembra aver raggiunto agli occhi di d’Amico una delle sue massime espressioni d’arte, il testo di partenza è invece «vecchissimo e superato», caratterizzato da un «naturalismo» «conservatore» e «misogino»180: un dramma pieno di «vizi ripugnanti» che solo «lo stile perfetto di questa signora della scena» ha potuto riscattare dagli abusi di un realismo volgare e farne un’opera scenica di una «potenza inaudita»181. Se la Pavlova è per d’Amico grande interprete e grande attrice, lo è anche in quanto, in questa recita, si sa prendere le giuste libertà nei confronti del testo che, non a caso, è di matrice naturalista e, ancora meno a caso, è straniero182. La grandezza dell’artista sarà allora quella di esprimere ciò che l’autore non ha saputo pienamente – l’umanità e l’interiorità psicologica dell’individuo – in un’interpretazione che non può semplicemente ridursi alla pratica necessità richiesta dal testo di dare voce e volto a ipotesi letterarie di uomini (i personaggi) nel testo già previsti. Implicitamente e senza volerlo fino in fondo, d’Amico dice qui qualcosa di molto diverso da quanto ha sostenuto altrove: l’interprete può, e la Pavlova ne è qui un esempio, non solo rivelare ciò che talvolta è nascosto nel testo, ma anche, attraverso un rapporto dialettico che prevede una presa di distanza critica dal dramma scritto, esprimere una verità umana potente e intensa che l’autore non aveva previsto.
146Due anni dopo, in occasione della recita dell’Ufficiale della guardia di Molnár, rispondendo a un articolo di Gherardi il quale aveva sostenuto essere la Pavlova una semplice «derivazione dei balletti russi», d’Amico scrive una lettera pubblicata sul «Resto del Carlino» e, riprendendo considerazioni già fatte in precedenza, chiarisce:
[I]o non mi sono mai scandalizzato del fatto ch’ella non riproduca la cosìdetta “vita qual è”: per la buona ragione che la sua arte non è realistica, e non tende alla nuda imitazione del vero, ma a stilizzazioni raffinate e preziose […]. Il suo stile è, per me, quanto di più intelligente e di più fine io abbia goduto a teatro nell’interpretazione sia di certi autori contemporanei sia di certi drammi romantici che ella ci fa accogliere attraverso la delizia di un ripensamento impercettibilmente ironico183.
147La «signora» Tatiana Pavlova non solo riesce, di fronte a un melodramma datato come la Signora dalle camelie, a offrire al pubblico una forma di «ripensamento ironico, con un lieve tòno parodistico»184 dell’opera, ma poi ha anche l’abilità rara di condurre lo spettatore a commuoversi alla fine del quart’atto, sostituendo al gioco «il palpito»185.
148In virtù della sua esotica e asettica raffinatezza distante dall’istrionismo del comico italiano e, forse, soprattutto in virtù del fatto che le sue interpretazioni sono sempre inserite all’interno di un lavoro attento agli equilibri del complesso e non solamente all’esibizione del mattatore, la Pavlova è l’eccezione che conferma la «Regola» tanto insistentemente ribadita da d’Amico nel corso degli anni. Un’eccezione, potremmo dire, blindata: se l’attrice esprime qualcosa che nel testo non è previsto, ciò può accadere perché il testo, appunto, è mediocre; se riesce, in rapporto dialettico con l’opera, ad affermare la sua grandezza artistica, ciò avviene nel rispetto della misura, dell’equilibrio fra le forze in campo, della raffinata cura del dettaglio e, insieme, dell’armonia del complesso; infine, se l’equilibrio delicato fra i vari elementi che prendono parte alla recita è raggiunto, è perché la Pavlova è attrice e direttrice insieme e riesce là dove in seguito, quando si troverà a collaborare con scenografi dalla forte personalità come per esempio Strenkowski, non riuscirà più.
149In questo quadro si inserisce anche l’incontro fra la Pavlova e la drammaturgia di Rosso di San Secondo di cui l’attrice russa verrà riconosciuta per alcuni anni quale interprete privilegiata. I testi di Rosso, sempre tesi fra l’esasperazione dei tratti, le atmosfere spesso allucinate di matrice espressionistica e l’intimismo dei sentimenti, offriranno infatti alla Pavlova l’occasione per approfondire il suo percorso di ricerca stilistica che, accanto al gusto per l’artificio, per l’elemento visivo, per i colori e le luci, si fa sempre più attento ora all’espressione dell’interiorità dei sentimenti umani («le corde più intimamente umane»). Così avviene nella recita della Scala per esempio, portata sulle scene prima a Milano (il 16 novembre 1925) e poi a Roma (il 12 gennaio 1926). Qui per la prima volta la Pavlova nei panni della protagonista Clotilde piange in scena con lacrime “vere” a testimonianza, secondo i più, di un’arte giudicata finalmente comprensibile, intensa e lontana dall’antico tocco artefatto. «Quelle lacrime» commenta Praga alla prima milanese «provarono ch’ella sa, quando vuole, entrare – come si suol dire – nella pelle del personaggio, e viverne la vita. E allora ella perde o corregge di molto i suoi difetti, abbandona quelle “pose” e quella “maniera” che …. piacciono tanto alle sue ammiratrici». Non più «manichino ma una creatura umana che vive e che soffre»186, la Pavlova «ha parlato con un abbandono accorato, è stata una donna massacrata dalla vita, uno straccio sfilacciato, piena d’amore, di rinuncia, di desideri […] rimanendo tuttavia in una linea di sobrietà e di compostezza difficilissima da trovare»187. E d’Amico, in perfetta coerenza con il discorso impostato nella cronaca alla Signorina Giulia, ma senza più sottolineare il distacco critico dal testo, commenta:
Nella parte della donna abbiamo visto, mirabile collaboratrice del successo, una altra Pàvlova, non più l’intelligentissima utilizzatrice di grazie ironiche, ma una grande attrice autentica, che ha parlato, e soprattutto ha pianto, con le voci dell’anima188,
150in una parte tutta stretta intorno all’unica corda della sofferenza della protagonista: una donna completamente «schiantata» dal dolore perché defraudata della propria identità (di madre e di moglie), degradata dal marito al ruolo di mantenuta e ridotta infine alla rassegnazione, il cui unico intenso sentimento vitale è quello della maternità.
151Ancora più esplicita in questa direzione sarà l’anno successivo la recita di Tra i vestiti che ballano dove la Pavlova veste i panni della protagonista, Anna Orlova, personaggio nel quale si fondono il dramma della profuga russa (già presente nell’Avventura terrestre) e quello della maternità intesa come un assoluto189.
Ecco dunque un sentimento, la maternità, che fa vibrare questa attrice, e, miracoloso invero, la rende sulla scena semplice, sincera, umana. Mamma, Tatiana Pàwlova non si mette più in posa, non si dimena, non guarda il soffitto, non pone i piedi sulle sedie, non ridacchia con artificio che urta. E piange, piange delle lacrime vere che commuovono190.
152L’attrice, che molti ancora stimano per «l’artificio vano e sottile», in quest’occasione recita «perdutamente, colla voce, coi gesti, cogli atti, colle sillabe, coll’animo»191: «distaccata e lontana da ogni cosa» nel primo atto, sofferente e silenziosa nel secondo fino all’urlo «di terrore e d’amore»192 al ricordo della figlia morta, infine pacata nei toni nell’ultimo atto, la Pavlova induce anche d’Amico ad abbandonare per il momento ogni riserva su di lei, persino quelle che aveva espresso solo un anno prima in occasione della recita di Una cosa di carne di Rosso di San Secondo. In quell’occasione la Pavlova fu Micaela: un personaggio quasi amorfo, figura «inerte, passiva»193 che ella, complice il trucco come sempre particolarmente curato, rese mirabilmente come una «grande bambola di piacere, un raffinato animale da vendersi all’amatore di lusso»194, «terribile» in «quel suo molle presentarsi e abbandonarsi»195; una «cosa di carne», appunto, o, come la definì Ruberti «una donna sublimemente paradossalmente stupida»196, così come è previsto nel dramma di Rosso di San Secondo. Nell’ultima scena però – quasi a confermare l’artificiosità di un atto che a giudizio di d’Amico, è solo «cattiva letteratura sentimentale» – la recitazione della Pavlova secondo il critico non sarebbe stata efficace, non sarebbe riuscita a rendere con verità espressiva i sentimenti della protagonista tanto che le «concitazioni e le grida del suo risvegliarsi alla maternità» sarebbero parse «lievemente artefatte»197. Ancora una volta l’artificio contro la verità del sentimento. Eppure quel dialogo fra i due protagonisti nell’ultima scena del dramma è già nel testo un dialogo dai tratti quasi farseschi, dove il sentimento della maternità, che sembrerebbe sigillare la vicenda permettendole di ricomporsi in nuovo ordine armonico, si rivela per ciò che è: qualcosa di recitato ma non di vissuto. Micaela, nel testo di Rosso di San Secondo, recita la parte della madre, la ostenta in quel gioco puerile con il marito, ma non è madre; e Saverio Prassi, che sembra convertito alla logica del cuore della moglie, alla fine, dopo aver sbattuto per terra il fantoccio che poco prima aveva cullato come fosse suo figlio, conclude secco dicendo «Al diavolo! Non ho risolto nulla!»198. Nell’un caso – il testo – come nell’altro – l’attrice – d’Amico chiede qualcosa che non può trovare lì: l’intensità di un sentimento vissuto in pienezza. E all’uno come all’altra rimprovera l’artificiosità del modo d’espressione, senza porsi qui come altrove il problema se proprio della pienezza e l’uno e l’altra avevano intenzione di parlare.
3.3. Verso la regia
153Gli entusiasmi suscitati dalla recita di Tra i vestiti che ballano, non evitano che, un solo giorno più tardi, d’Amico si scateni con un duro attacco contro la rappresentazione della Donna sullo scudo, «spettacolo» in cui la compagnia della Pavlova avrebbe fatto l’errore di invertire le priorità dei codici linguistici che concorrono alla costruzione di un evento teatrale, ponendo la messinscena, che dovrebbe «essere serva, e non padrona»199, in una posizione di assoluto predominio su tutti gli altri codici. Particolare non irrilevante: il maestro di scena è Strenkowski. Otto giorni dopo, la cronaca alla Notte del sabato di Benavente non fa che riproporre sostanzialmente le medesime critiche in uno spettacolo che, se sa far presa solo sugli occhi, può essere giudicato tutt’al più come opera di coreografia, ma non certamente d’arte teatrale.
154A distanza di qualche anno, quell’aspetto così peculiare degli «spettacoli» della Pavlova (la cura per l’elemento visivo) che tanto aveva colpito il critico, si traduce in un dato profondamente negativo. Ora, diversamente da allora, i veri antagonisti del teatro auspicato da d’Amico non sono più né il gretto e grigio realismo né il mattatore. Gli avversari sono altri: dalla nuova drammaturgia priva di speranza di cui si è ripetutamente parlato, a una forma di direzione della scena attenta agli aspetti scenografici più che all’interpretazione verbale della drammaturgia, una «teatralità» nuova che poco si affida all’attore e molto invece all’opera del metteur-en-scène.
155Prova ne sia – una fra le altre – la polemica che durante l’inverno dell’anno precedente aveva coinvolto Bragaglia e d’Amico in uno scontro sulle pagine della «Fiera letteraria». Si tratta di un episodio su cui è necessario soffermarsi brevemente per chiarire all’interno di quale contesto si inseriscano le riflessioni di d’Amico a tre anni di distanza dall’esordio della Pavlova sui palcoscenici italiani. L’inizio si può far risalire al settembre del 1926 quando, poco prima della pubblicazione della Maschera mobile, Bragaglia scrive un articolo il cui titolo – Riteatralizzare il teatro – pone in campo il concetto fondamentale su cui ruoterà tutta la polemica successiva: l’idea cioè che alla «morte del teatro letterario» debba subentrare un «teatro “teatrale”», un teatro «non anemico», non «d’analisi psicologica»200, ma vitale, animato dal «movimento teatrante delle macchine a mutazione», recitato da attori nuovi che, come aveva già scritto nel 1924, recuperino l’antica tradizione italiana dell’improvvisazione e che indossino le maschere; un teatro, infine, in cui l’elemento visivo domini su tutto il resto, parola, innanzitutto.
156L’appello di Bragaglia per riteatralizzare201 il teatro del 1926 deve essere letto come un appello polemico contro il dominio assoluto e incontrastato del poeta e dell’attore (e quindi della parola) sull’aspetto visivo della rappresentazione teatrale, a favore di una rinnovata spettacolarità che sappia attingere alle nuove tecnologie moderne e, anche in virtù dell’appoggio di quelle, possa mantenersi in vigile competizione con il cinematografo. Si arriverà così a una forma di drammaturgia diversa da quella che si è soliti intendere facendo riferimento al solo elemento letterario; una drammaturgia composita, articolata nei tre aspetti del testo drammatico, dell’apparato scenico e della recitazione, in una forma di paratattico accostamento dei tre, senza che un principio cardine (o una figura cardine) faccia ruotare intorno a sé tutti gli altri elementi in una sintesi organica. Di qui la frantumazione dell’integrità dell’autore nelle tre figure del letterato, del direttore-apparatore (altrimenti detto allestitore) e dell’attore, tutti e tre compartecipi in pari grado della creazione dell’opera scenica202, senza che a uno di essi venga attribuita la responsabilità complessiva della creazione. Manca, in colui che in quegli anni è certamente uno dei principali interlocutori e oppositori di d’Amico, una vera e propria idea di regia perché manca, come manca in tutto il panorama italiano, «dell’idea di regia, la concentrazione dei poteri, l’ipoteca totalizzante sullo spettacolo»203.
157La replica di d’Amico è immediata e netta. Innanzitutto il critico ribadisce con forza l’idea dell’organicità dell’opera d’arte, intesa quale sintesi unitaria, armonica e compiuta nella quale c’è e deve essere riconoscibile il principio dominante che la informa. In secondo luogo difende l’idea di un autore unico (e despota) anche nella rappresentazione teatrale, che non si differenzierebbe in questo dalle altre arti. In terzo luogo, in diretta conseguenza di quanto appena detto, se «sempre c’è un despota, e due servi» i casi, nel teatro, possono essere soltanto due: o «[i]l servo è il poeta, ridotto a nient’altro che a fornitore di materia prima: e despota può essere, oggi il metteur-en-scène, come ieri era l’attore» oppure, ipotesi di cui sarebbe auspicabile la realizzazione, «il despota, l’ideale despota di un regno di Poesia, resta il poeta»204. E con queste parole si giunge all’ultimo passaggio del ragionamento: la difesa della parola, ancora una volta, contro ogni altra esigenza spettacolare – nel significato di «visiva» – tanto che, come d’Amico confermerà in un articolo scritto nove anni più tardi «[s]e questa formula “teatro teatrale”, ha ancora un significato accettabile, esso non può essere […] che relativo alla Parola».
Anche la teatralità, parola chiassosa e impudica è in certo senso qualcosa che proviene da un fatto intimo, spirituale; da un modo di vedere, ed esprimere con la parola, le cose: modo che è proprio di un poeta e non di un altro, di una società e non di un’altra, di un popolo e non di un altro. […]. Quanto a scenografi, scenotecnici e macchinisti, ben vengano, e siano accolti con tutti gli onori; ma dove si tratti di teatro drammatico, a esclusivo servizio della Parola205.
158È chiaro a questo punto che il giudizio espresso da d’Amico nel 1927 sugli spettacoli della Pavlova, non può che portare con sé il peso delle recenti polemiche, tanto più che la forza della novità, che certo giocò a favore dell’artista russa nei suoi primi spettacoli, si è attenuata.
159Di qui la distanza verso spettacoli in cui l’elemento scenografico assume una certa autonomia rispetto alla recitazione e, forse soprattutto per la presenza invadente di Strenkowski, il cui lavoro evidentemente la Pavlova non riesce a integrare compiutamente nel proprio disegno complessivo, non risulta così armonicamente fuso con gli altri codici. Come nello scontro con Bragaglia, d’Amico attacca qui innanzitutto la mancanza di organicità complessiva e, specularmente, il prevalere dell’aspetto scenografico su quello dell’interpretazione della parola.
160Se il Verbo è il cardine su cui deve ruotare il teatro e intorno al quale può costruirsi organicamente l’opera scenica, non può che essere l’attore l’unico reale officiante del rito, perché l’unico ad avere voce sul palcoscenico: non ci sono luci, macchinari, vestiti, scenografie in grado di sostituirsi alla voce dell’attore e comunicare con la medesima forza e fedeltà i sentimenti, i conflitti interiori e i moti dell’animo umano previsti nel dramma. Se una direzione complessiva della scena è, a questo punto del percorso di riflessione di d’Amico, accettata e perfino auspicabile, lo è solo nella misura in cui si pone al servizio del dramma e solo se, in tale prospettiva, si occupa di coordinare gli attori, anch’essi a loro volta al servizio del Verbo del Poeta206.
161Quando 1929, in un contesto ancora una volta mutato soprattutto per una maggiore conoscenza delle esperienze europee di regia, d’Amico interverrà sulla rappresentazione di Mirra Efros di Gordin, le sue lodi saranno qui rivolte tanto all’attrice quanto alla direttrice207: grande in una «recitazione tutta tenuta un tono sopra»208 e grande anche nella direzione di quella che d’Amico, scusandosi per il francesismo, definirà allora mise-en-scène e che invece Enrico Rocca209 indicherà come «régie», usando un termine che, sebbene anch’esso mutuato dal francese, è evidentemente carico di significati: solo tre anni dopo, nel primo numero del periodico teatrale diretto da d’Amico, Bruno Migliorini confermerà ufficialmente il suo uso nella lingua italiana. Con uno stile diverso rispetto alle recite del 1923 ma con la medesima sintesi delle due funzioni di attrice e direttrice, Tatiana Pavlova realizzerà nello spettacolo di Mirra Efros qualcosa che è particolarmente vicino all’idea di teatro di complesso che d’Amico sta maturando in quegli anni: una «totale interpretazione scenica»210, una mise-en-scène finalmente intesa come organica sintesi dei codici linguistici della scena in funzione interpretativa, lontano dalla mera spettacolarità della visione e più attenta invece restituire il dramma interiore dei personaggi; capace infine – in una «recitazione tutta tenuta un tono sopra» con «quella russa compiacenza negli accenti caricati e grotteschi»211 – di potenziare e «mettere in valore fin nei minimi particolari» anche un «commedione» di per sé non così interessante come quello di Gordin e, di conseguenza, capace di offrire al pubblico un «godimento intero».
162Pochi mesi dopo usciranno, raccolte nel Tramonto del grande attore, le pagine dedicate a Tatiana Pavlova. Posto all’interno della sezione italiana a indicare la completa assimilazione dell’artista entro il panorama culturale nostrano, il capitolo a lei intitolato è una rielaborazione degli interventi precedentemente scritti che ripropone, nell’organizzazione del materiale e nello sviluppo del ragionamento, la doppia immagine dell’artista che d’Amico aveva già consegnato alle sue cronache: da un lato l’attrice raffinata, «marionetta incantevole» che recita «per dir così, allo scoperto»212, che marca con leggerezza l’artificio nelle parti da brillante; dall’altro l’artista dal fondo «romatico», nel senso di melodrammatico articolato nelle sue varie sfaccettature (dalla leggerezza un po’ oleografica del Romanzo di Sheldon, alla dolcezza accorata di Resurrezione, dalla drammaticità urlata dell’ultimo atto dei Vestiti che ballano o dell’Uragano, al romanticismo freddo della Carmen di Mérimée, all’accentuazione caricata e quasi grottesca di Mirra Efros). Capolavoro recitativo resta l’interpretazione della Signorina Giulia in cui le note spaventosamente perverse di Strindberg vengono rese dalla Pavlova «con una potenza inaudita, e insieme carattere impeccabilmente aristocratico», le due autentiche doti interpretative di questa «scintillante signora della scena»213. Nulla o quasi nulla delle ultime perplessità di d’Amico sulle messinscena dell’artista russa e sulla sua collaborazione con Strenkowski.
163Eppure quegli stessi dubbi faranno ritorno negli anni successivi per rivelarsi allora, talvolta, dura critica. È il caso per esempio della messinscena del Revisore di Gogol (diretto da Sharoff) prima e della Locandiera (diretta da Guido Salvini) poi, dove, nonostante la cura dell’allestimento, la raffinatezza dei costumi, la compattezza dell’insieme, sulla tensione drammatica prende ancora una volta il sopravvento il gusto coreografico per le stilizzazioni leziose di un balletto da fantocci e marionette. Il tratto un poco caricato e artificioso che la Pavlova sembrava saper calibrare bene in alcune recite del passato, si rivela ora, e in particolare nella Locandiera – nonostante la collaborazione con l’italianissimo Guido Salvini –, espressione di uno stile che tende allo spettacolare e che danneggia «l’essenziale, umano, incantevole gioco psicologico» della commedia di Goldoni. La verità è che, nonostante le intenzioni di fedeltà all’originale dichiarate da Salvini solo un mese prima in un articolo pubblicato sull’«Ambrosiano»214, l’allestimento risulta poi molto poco fedele al testo di Goldoni, non solo per gli interventi diretti sul copione (l’aggiunta di un’intera scena finale) ma anche per il tono complessivo, per il quadro d’ambiente estetizzante, costruito «alla maniera dei Ballets russes di Diaghileff»215 più che a quella degli interni popolari di una locanda italiana, per la recitazione – soprattutto della protagonista – elegantemente stilizzata, «graziosamente meccanica», lontana dalla schiettezza popolare del dialetto italiano. Sebbene tutti i critici intervenuti sulla recita ne notino l’infedeltà – nella lettera e nello spirito – al testo, non tutti sono però così polemici come d’Amico. Fra gli altri ricordiamo Bragaglia che, dichiaratosi «partigian[o] di ogni forma di alterazione» del testo drammatico, nota con favore l’infedeltà dello spettacolo tanto più perché in opposizione alla tendenza della cultura italiana recente a ridurre in chiave psicologistica la drammaturgia di Goldoni216. Nonostante ciò la forma assunta dall’elemento spettacolare e coreografico, che pure il regista a differenza del critico dal punto di vista teorico difende, non risponderebbe per Bragaglia alle esigenze del testo goldoniano e, in particolare, tradirebbe il suo spirito autenticamente popolare.
164Bragaglia e d’Amico si ritrovano qui dopo tante polemiche a prendere posizione di fronte al medesimo spettacolo con perplessità e fascinazioni in parte simili, ma riconfermando infine sostanzialmente le loro differenti prospettive. Se per il primo il nodo della questione sta nel come l’elemento spettacolare – necessario in teatro – viene frequentato e, nel caso della Pavlova, nel perché il suo modo non sia in sintonia con quello di Goldoni, per il secondo la questione è ancora una volta vista da una prospettiva che nega legittimità artistica a tutto ciò che in teatro può ostacolare il primato della parola e la sua funzione di canale privilegiato per l’espressione dell’animo umano. L’ostacolo, come d’Amico aveva intuito fin dal principio ma ora colto con maggior nettezza e senza ambiguità, è lo spettacolo: spettacolo visivo, ma non ancora per la massa217.
165Siamo nel 1932; sono trascorsi 19 anni dal primo intervento su Tatiana Pavlova. Un diverso contesto storico-culturale ha posto in campo nuove tensioni e nuove lotte: se resta inalterata l’idea di teatro (espressione della parola del poeta e, tramite quella, manifestazione di un’umanità intesa come soggetto metastorico, in realtà ipostatizzazione dei tratti psicologici propri di un ben preciso soggetto storicamente, socialmente e culturalmente determinato, quello di cui d’Amico è rappresentante), mutano però gli avversari diretti (dal gretto realismo allo spettacolarismo di stampo cinematografico, dal mattatore al metteur-en-scène), mutano le prospettive dichiarate a cui tendere (da una rinascita spirituale alquanto vaga alla molto più concreta e ordinata rinascita fascista)218, muta, nella continuità dell’intenzione di fondo, la strategia d’azione (dall’intervento diretto e assiduo in forma di recensione sulla cronaca teatrale dei quotidiani, all’ampliamento della produzione di saggi teorici spesso ora pubblicati in forma di libro, alla direzione di un periodico di argomento teatrale, «Scenario», all’intensificazione di un’attività volta allo sviluppo di strutture che su scala nazionale si occupino di organizzare la vita teatrale approfittando ora dell’interesse del governo fascista per la costituzione di organismi statali di gestione e controllo di tale attività).
Notes de bas de page
1 S. d’Amico, Lettera a Enrico Cavacchioli, 6 novembre 1924, conservata presso il MBA, Fondo Silvio d’Amico, sezione «Corrispondenza».
2 Id., Decadenza dell’arte drammatica, in «La Tribuna», 28 settembre 1926.
3 G. Pedulla, Il teatro italiano al tempo del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 85-97.
4 S. d’Amico, Decadenza dell’arte drammatica cit.
5 Sul rapporto di d’Amico con il teatro straniero e sull’influenza che la conoscenza di quella realta esercito sulla sua riflessione critica, rimandiamo all’ultimo capitolo di questo studio.
6 «[L]’organizzazione pratica del teatro e nel suo insieme un mezzo di espressione artistica: non si puo turbarla senza turbare e rovinare il processo espressivo, senza isterilire l’organo “linguistico” della rappresentazione teatrale […]. Si parla di depravazione del gusto, di decadenza dei costumi, di dissoluzione artistica. L’origine di questi fenomeni vistosi e da ricercare unicamente nel mutarsi dei rapporti economici tra l’impresario del teatro, divenuto industriale associato in un trust, il capocomico, divenuto mediatore, e i comici soggiogati alla schiavitu del salario»: A. Gramsci, Emma Grammatica, in «Avanti!», 1919, ora in Id., Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 447.
7 C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi cit.
8 Ivi, p. 32.
9 [S. d’Amico], Le recite all’Argentina. «Sto», in «L’Idea nazionale», 30 maggio 1919.
10 Ibid.
11 E a questo punto interessante ricordare quanto nel 1928 Tofano affermera in un’intervista concessa a Vittor Pisano: la dichiarazione di «gratitudine infinita» per Virgilio Talli «che mi ha insegnato a muovermi sulla scena, a recitare, a camminare perfino» e preceduta da un’altra, almeno altrettanto importante, in cui Tofano denuncia il suo debito nei confronti degli attori comici del cinema: «[d]opo Talli i miei piu grandi maestri sono stati gli attori cinematografici americani: probabilmente Sennet e i suoi epigoni; forse Chaplin e Lloyd e forse piu tardi anche Keaton». Dal confronto con quel tipo di attore Tofano trovo probabilmente una conferma e lo stimolo per approfondire la propria ricerca su una comicita astratta e stilizzata, attenta all’aspetto figurativo e insieme anche al dettaglio concreto, disciplinata all’interno di una cornice (come quella dello schermo cinematografico) definita e “chiusa”, e tutelata dalla quarta parete.
12 In particolare sulla storia del ruolo del brillante che precede gli anni qui trattati e sulla figura di Claudio Leigheb, ricordiamo E. De Pasquale, Il brillante si fa ragionatore. Claudio Leigheb e il teatro dei ruoli, Roma, Bulzoni, 2001.
13 [s.i.a.], La serata di Sergio Tofano all’Argentina, in «La Tribuna», 30 maggio 1919. Il corsivo e nostro.
14 Non e un caso che Tofano avesse scelto come argomento della sua tesi di laurea proprio la figura del brillante all’interno del teatro italiano dell’Ottocento.
15 S. Tofano, Il teatro all’antica italiana cit., p. 31.
16 [S. d’Amico], Le recite all’Argentina. «Sto» cit.
17 Ibid.
18 s. d’a. [S. d’Amico], Ruggeri al Valle in «Creso si diverte», in «L’Idea nazionale», 15 dicembre 1915.
19 O. Del Buono, Dalla matita di un angelo il Signor Bonaventura, in «Il corriere della sera», 21 agosto 1986.
20 s. d’a. [S. d’Amico], Gandusio, in «L’Idea nazionale», 23 ottobre 1921.
21 s. d’a. [S. d’Amico], «L’uccello del paradiso» di E. Cavacchioli all’Argentina, in «L’Idea nazionale», 24 aprile 1919. Per la polemica di d’Amico con i grotteschi, si veda anche il capitolo 3 del presente lavoro.
22 Cosi viene definito nella recita di Tristi amori (s. d’a. [S.d’Amico], «Tristi amori» e la Compagnia Talli all’Argentina, in «L’idea nazionale, 5 novembre 1921) e «atrocemente grottesco» nella parte del becchino nell’Amleto ([S. d’Amico], «Amleto» all’Argentina, in «L’Idea nazionale», 6 dicembre 1921).
23 S. d’Amico, «Il Cammello» di E. Cavacchioli all’Argentina, in «L’Idea nazionale», 13 gennaio 1924.
24 Ibid.
25 Ibid.
26 S. d’Amico, «Ciascuno a suo modo» di Luigi Pirandello, al Valle, in «L’idea nazionale, 24 ottobre 1924.
27 L. Pirandello, Ciascuno a suo modo, secondo intermezzo corale, in L. Pirandello, Maschere nude, Milano, Mondadori, 1958, p. 196.
28 S. d’Amico, «Ciascuno a suo modo» di Luigi Pirandello, al Valle cit.
29 e. bert. [E. Bertuetti], Sergio Tofano, in «Gazzetta del popolo », 27 agosto 1927.
30 Id., Un attore personale: Sergio Tofano, in «Gazzetta del popolo», 31 marzo 1927.
31 P. Lissia, L’arte plastica di Sergio Tofano, in «Il Dramma», 13 marzo 1934, p. 37: «Pare che egli arrivi al dominio ed all’espressione del personaggio dopo averlo elaborato lentamente e fabbricato nella mente e nella fantasia come un fantoccio. Lo vede, cioe, plasticamente, da artista figurativo: lo disegna, ripulisce e perfeziona dal di fuori, nella forma, nei contorni e ne fa una figura interessante, in bozzetto. Poi vi soffia dentro l’anima, gli mette al posto giusto il cuore che deve avere, i polmoni, il sangue […]. La vita», ibid.
32 Si tratta delle parole pronunciate da Tofano durante un’intervista radiofonica del 1963 alla RAI per il programma «Il mestiere dell’attore»; ne e conservata una copia in audiocassetta al MBA, che conserva anche un dattiloscritto di Tofano dal titolo Ricordi in cui, alla sezione La vocazione d’attore, sono riportate le stesse parole.
33 e. bert. [E. Bertuetti], Un attore personale: Sergio Tofano cit.
34 E. Bertuetti, Ritratti quasi veri. Tofano, in «Il Dramma», 1 marzo 1935, p. 30.
35 In occasione della morte di Tofano, Roberto De Monticelli scrivera: «ecco che invento sulla scena un suo sommesso modo di patire. Tratteneva l’emozione sull’orlo della reticenza. Prosciugava i suoi personaggi da ogni patetica umidita»: R. De Monticelli, E morto a 87 anni Sergio Tofano. Caro Bonaventura, in «Il giorno», 29 ottobre 1973.
36 J. Romains, Knock o il trionfo della medicina, scena VI atto III, in «Comoedia», 15 febbraio 1925, p. 190.
37 S. d’Amico, «Knock, o il trionfo della medicina» di Jules Romains, all’Argentina, in «La Tribuna», 5 gennaio 1928.
38 e. bert. [E. Bertuetti], Un attore personale: Sergio Tofano cit.
39 Fort., Knock o il trionfo della medicina» di Jules Romains all’Argentina, in «L’impero », 5 gennaio 1928.
40 Le citazioni di questa frase provengono tutte dallo stesso articolo: f. m. m. [F. M. Martini],«Knock, o il trionfo della medicina» di Jules Romains, in «Il Giornale d’Italia», 5 gennaio 1928.
41 Si ricordi qui, in nota, cio che Tofano scrisse sul suo maestro Talli: «Quello della dizione era per lui un chiodo fisso! Diceva che era la base di tutta la recitazione, ce l’aveva con gli attori in generale di cui, diceva, meta delle parole non si afferrano, ed esempio egli stesso di una dizione cristallina, non tollerava smozzicamenti, sbavature, accozzi di sillabe; spietato addirittura contro l’abitudine, cosi diffusa ancor oggi, di inghiottire nei finali delle parole tutte le sillabe dopo l’accento tonico»: S. Tofano, Regia italiana di ieri, in Aa. Vv., La regia teatrale, Roma, Belardetti, 1947, p. 188.
42 Ricordiamo qui, in nota, che nel marzo del 1931 d’Amico scrivera parole di elogio per la recita di Knock della compagnia francese diretta da Jouvet, il primo che aveva portato in scena il testo di Romains. Di lui il critico ricorda l’«incesso di miope trasognato e categorico», gli «sguardi avventati sul vuoto», le «pause stupefatte e misteriose», la «sua mimica da fanatico» e i «suoi tic» che disegnavano perfettamente il personaggio di Knock, qui definito «ciarlatano mistico», all’interno di un quadro di una «classica evidenza burlesca» (s. d’a. [S. d’Amico], Le recite di Jouvet. «Sigfried» e «Knock», in «La Tribuna», 3 marzo 1931). Nessun cenno di comparazione con la recita di Tofano; eppure con il sottolineare da un lato l’aspetto piu burlesco che umoristico della recitazione di Jouvet e dall’altra il suo talento direttoriale, d’Amico implicitamente segnala anche la distanza, ma non la superiorita, di questa recita da quella dell’attore italiano. Nonostante la particolare cura dedicata dalla compagnia francese all’allestimento complessivo e nonostante l’indubbia bravura del suo direttore e capocomico, Tofano continuera infatti a distinguersi con nettezza per la cifra stilistica, piu vicina all’umorismo che al burlesco, con cui tratteggia il personaggio di Knock.
43 Sul «Resto del Carlino» il giorno successivo alla recita all’Arena del Sole di Bologna comparve una critica da questo punto di vista eloquente: «Si tratta di dare una lezione agli autori italiani e stranieri, una lezione indimenticabile sul modo come interessare il pubblico e costringerlo a considerare lo spettacolo teatrale come un divertimento e non come preoccupante gioco per societa intellettuale […]. Bonaventura viene avanti senza problemi centrali da porre senza tesi da svolgere, senza retropensieri da scoprire all’improvviso di fronte a platee esterrefatte e tristi. Bonaventura viene con la serenita olimpica della sua assenza di pretese e dice “Signori, non sono un capolavoro. Non ci ho mai pensato. Sono soltanto una bizzarria che si contenta di farvi ridere per un quarto d’ora”»: [s.i.a.], «Il Signor Bonaventura» all’Arena. Uno spettacolo memorabile, in «Il Resto del Carlino», 31 luglio 1928.
44 [E. Bertuetti], Il Signor Bonaventura fra i bambini al Carignano, in «Gazzetta del popolo», 18 marzo 1927.
45 A. Faeti, Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l’infanzia, Torino, Einaudi, 1972, pp. 308 e 311.
46 S. Tofano, La regina in berlina, atto II, scena 3, in S. Tofano, Il teatro di Bonaventura, Milano, Adelphi, 1986, p. 138.
47 E. Contini, Un’ora con Sergio Tofano, in «Il Messaggero», 9 gennaio 1929.
48 Ibid.
49 Ibid.
50 C. Terron, L’Antiattore. Sergio Tofano figlio della timidezza, in «Il Dramma», agosto- settembre 1965, p. 10.
51 s. d’a. [S.d’Amico], Il Signor Bonaventura all’Argentina, in «La Tribuna», 7 gennaio 1928.
52 S. d’Amico, L’ottimismo di Bonaventura, in «Il Tempo», 16 gennaio 1954.
53 Ibid.
54 e. bert. [E. Bertuetti], Il Signor Bonaventura fra i bambini al Carignano cit.
55 E. Contini, Un’ora con Sergio Tofano cit.
56 e. bert. [E. Bertuetti], Sergio Tofano cit.
57 Sono questi anni in cui si intensifica la corrispondenza, per altro mai interrotta, fra il critico e l’attore e in cui sono molti gli appelli che Tofano rivolge a d’Amico affinche gli consigli copioni di autori italiani adatti alla sua compagnia. Valga come esempio questa lettera dell’agosto 1930: «Siamo disperatamente alla ricerca di novita italiane. Se non ne facciamo ci fucilano per lo meno: ma che colpa ne abbiamo se gli autori non ci danno niente? Io mi sono rivolto e raccomandato a tutti, anche a quelli dei quali, in confidenza, o meno fiducia: da tutti o avuto delle belle promesse ma niente piu. […] se ti venissero in mente altre commedie o almeno un’altra commedia italiana non piu nuova ma che valga la pena di ritirar fuori e che sia, naturalmente, adatta alla nostra compagnia, ti sarei gratissimo se me l’indicassi»: Lettera a Silvio d’Amico, Alassio, 15 agosto 1933, conservata presso il MBA, Fondo Silvio d’Amico.
58 S. d’Amico, «Androcolo e il leone» di G.B. Shaw all’Argentina, in «La Tribuna», 26 gennaio 1928.
59 Id., «Jean del la lune» di M. Achard, all’Argentina, in «La Tribuna», 13 febbraio 1930.
60 s. d’a [S. d’Amico], «Volpone» di Ben Jonson, all’Argentina, in «La Tribuna», 7 febbraio 1930.
61 L’adattamento del Volpone fatta da De Stefani ne e in realta un rifacimento farsesco che, soprattutto nelle scene finali, stravolge completamente il senso della commedia di Jonson, privandola di tutto cio che la rendeva «una satira, tanto aspra quanto impietosa, di una societa che colloca il denaro, l’oro, al centro della vita». «E un mondo cupo e degradato, fin animalesco, quello che emerge, con tanta teatrale corposita, dal Volpone: questa Venezia e un inferno dal quale non v’e dannato che si salvi» (A. Lombardo, Teatralita di Ben Jonson, in B. Jonson, Volpone, Milano, Rizzoli, 1996, pp. 314-315.). L’adattamento italiano, che pone assolutamente in secondo piano il personaggio di Volpone, si conclude con l’idillio vittorioso di Mosca che strappa l’eredita al padrone e sposa Serpina, tutto in un’atmosfera, appunto, farsesca e banalmente convenzionale.
62 A. Cecchi, Sergio Tofano, in «Scenario», 10 settembre 1932, p. 12.
63 Ivi, p. 14.
64 S. d’Amico, Il tramonto del grande attore, Milano, Mondadori, 1929, p. 146.
65 Il 9 gennaio dello stesso anno, d’Amico era intervenuto con un articolo polemico contro il fenomeno dei «piccoli teatri» italiani, espressione piu di un velleitarismo dilettantesco, che non di una vera forza di rinnovamento della scena. Altrove – in Francia per esempio con il Theatre Libre di Antoine – in paesi in cui «l’eccezione ha avuto ragione d’esistere perche c’era la regola, e chiaro che cio e potuto avvenire o in quanto essi servivano a lanciare opere di cosi nuovi caratteri estetici che il pubblico dei grandi teatri non le avrebbe accettate, o in quanto servivano a introdurre nuovi metodi di recitazione». I limiti dei nostri piccoli teatri italiani sarebbero innanzitutto due: da un lato una recitazione che denuncia piu che l’individuazione di una nuova strada, la mediocrita e l’impotenza ad agire di «mestieranti»; dall’altro la mancanza di una direzione che sappia «scegliere» il repertorio, insegnare agli attori «l’umilta» e coordinare i lavori anche con coreografie adeguate: S. d’Amico, I piccoli teatri, in «L’Idea nazionale», 9 gennaio 1925.
66 Sul «Convegno» di Milano il 30 agosto 1924 era comparso un articolo in cui si rendeva noto l’atto costitutivo di un teatro detto «Teatro dei Dodici» (dal numero dei suoi promotori) diretto da Pirandello e con sede a Roma. Fra i firmatari figura anche d’Amico. Quando poi a ottobre si passera alla formalizzazione legale dell’atto, alcuni nomi saranno gia scomparsi dalla lista dei sostenitori: Alvaro, Ferrero, Viola e d’Amico il quale in una lettera inviata a Vergani fra le ragioni addotte a motivo della sua scelta, oltre l’incompatibilita dell’impegno con la sua attivita di critico teatrale, denuncia anche la sua perplessita a lavorare per un teatro d’eccezione quando ancora non si e definita la regola (in A. d’Amico - A. Tinterri, Pirandello capocomico. La compagnia del Teatro d’Arte di Roma. 1925-1928, Palermo, Sellerio, 1987, p. 14).
67 S. d’Amico, Il “Teatro dell’Arte” di Pirandello, in «L’Idea nazionale», 4 aprile 1925.
68 M. Bontempelli, Nota a Nostra Dea, in Id., Opere scelte, Milano, Mondadori, 1978, p. 950. La Nota fu scritta da Bontempelli per l’edizione del suo Teatro del 1947 (Milano, Mondadori).
69 Sono queste le parole del prologo pronunciate da Pirandello prima della recita di Nostra Dea, cosi come le ricorda Lanza nella sua cronaca alla rappresentazione torinese del dicembre di quello stesso anno: d.l. [D. Lanza], «Nostra Dea», in «Gazzetta del popolo», 29 dicembre 1925.
70 Il passo del programma di sala e riportato in A. d’Amico e A. Tinterri, Pirandello capocomico. La compagnia del Teatro d’Arte di Roma. 1925-1928 cit., p. 97.
71 Questo sembra fra l’altro indicare anche Tilgher nella sua cronaca alla prima: «cio che per Pirandello e causa di profondo tormento e d’infinita desolazione, per Bontempelli e oggetto di fredda ironica distaccata contemplazione e occasione a mille funambolesche fumisterie»: A. Tilgher, «Nostra Dea» di Massimo Bontempelli, in «Il Mondo», 24 aprile 1925.
72 A. Barsotti, «Nostra Dea», l’automa liberty, in Aa. Vv., Massimo Bontempelli. Scrittore e intellettuale (Atti del convegno, Trento, 18-20 aprile 1991), Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 254.
73 G. Livio, Teatro in rivolta, Milano, Mursia, 1976, p. 128.
74 M. Bontempelli, Nota a Nostra Dea cit., p. 953.
75 Martini, nella sua cronaca alla prima romana, scrive: «Orbene a me sembra che cotesta intimita dolorosa non sia in “Nostra Dea” sufficientemente raggiunta o sia rimasta per lo piu allo stato intenzionale e che cio si debba al carattere stesso della caricatura, troppo decisamente staccata dalla verita umana che essa intendeva deformare, quando proprio in una ininterrotta mescolanza con quella verita avrebbe trovato il suo piu doloroso rilievo»: F. M. Martini, «Nostra Dea» di Massimo Bontempelli», in «La Tribuna», 24 aprile 1925. Il corsivo e nostro.
76 In un articolo dedicato al rapporto fra Pirandello e Bontempelli, Renato Barilli, facendo particolare riferimento a Nostra Dea, avvicina la poetica di Bontempelli a quella del post-moderno e definisce lo scrittore con un termine, non casualmente, traslato dall’architettura, «pre-postmoderno»: R. Barilli, Pirandello e Bontempelli: dalla seconda alla terza eta, in Aa. Vv., Pirandello e la drammaturgia tra le due guerre, Agrigento, Centro nazionale di studi pirandelliani, 1985, pp. 261-275. Riteniamo che questo giudizio valga per Nostra Dea e altre opere di Bontempelli, ma non per tutte: in particolare, per restare al teatro, Guardia alla Luna, ma anche nella narrativa La via intensa, La vita operosa, e poi parte della raccolta poetica Il purosangue, tutti testi scritti prima della reazione novecentista dello scrittore e la sua adesione al clima metafisico dei «Valori plastici».
77 Bontempelli [M. Bontempelli], L’ironia, in «La Fiera letteraria», 17 gennaio 1926, p. 6. I corsivi sono nostri.
78 «Marcolfo. Ci si mette con la faccia vicina, cosi. Poi io dico: “Cara, io – voglio – bene – a – te …”. Allora lei dice: “Caro…” / Dea. “Caro” e poi? / Marcolfo. E poi dice: “io…”. / Dea. “I – i” …’i – o”. E difficile (stanchissima). / Marcolfo. Non puo… / Dea. Non vuol dire niente»: M. Bontempelli, Nostra Dea, atto II, in Id., Opere scelte, a cura di L. Baldacci, Milano, Mondadori, 1978, pp. 651-652.
79 M. Abba, La mia vita d’attrice, in «Il Dramma», 1 luglio 1936.
80 V. Cardarelli, «Nostra Dea» di M. Bontempelli, in «Il Tevere», 23 aprile 1925.
81 M. Bontempelli, Nota a Nostra Dea cit., p. 953. A conferma del nostro discorso ricordiamo qui quanto Bontempelli aveva sostenuto nel 1924 a proposito della recitazione dell’attore. In un articolo dal titolo Come si debbono recitare i drammi e le tragedie, aveva indicato nel buffonesco la vera natura del teatro e il corretto registro per la recitazione. In una forma di presa di distanza ironica dalla seriosita falsamente sublime di tanta arte a lui contemporanea aveva concluso: «E non occorre osservare quanto fascino avrebbe un manifesto che annunziasse la riesumazione della “Francesca da Rimini di Silvio Pellico tutta da ridere” o promettesse gli Spettri per serata d’onore del brillante», parole queste che ricordano a distanza di anni il Manifesto del varieta e la tensione ironica e iconoclasta che lo informava (ma non l’intenzione piu propriamente parodica o grottesca che, se era appartenuta allo scrittore nel suo primo periodo, non appartenne invece al movimento futurista): in «Comoedia», 15 maggio 1923, p. 12.
82 V. Cardarelli, «Nostra Dea» di M. Bontempelli cit.
83 p. r., Nostra Dea di M. Bontempelli al teatro Odescalchi, in «Il popolo», 24 aprile 1925.
84 A. Tilgher, «Nostra Dea» di Massimo Bontempelli cit.
85 F. Paolieri, «Nostra Dea» 4 atti di M. Bontempelli, in «La Nazione», 7 marzo 1926.
86 C. D’er. [C. d’Errico], «Nostra Dea» di M. Bontempelli al Teatro d’Arte di Roma, in «L’impero», 23-24 aprile 1925.
87 S. d’Amico, «Nostra Dea» di Massimo Bontempelli all’Odescalchi, in «L’Idea nazionale », 24 aprile 1925. Sono queste parole che si riferiscono alla recita della Abba, sebbene sembri che d’Amico stia parlando del testo di Bontempelli: il colore dell’abito indossato da Dea in questa scena infatti e nella commedia un «rosso chiaro vivace» e non, come il critico specifica e come fu nello spettacolo, «noisette ». Di conseguenza le parole da lui usate per definire Dea possono essere interpretate come indicazioni sulla recita dell’attrice.
88 Ibid.
89 C. D’er. [C. d’Errico], «Nostra Dea» di M. Bontempelli al Teatro d’Arte di Roma cit.
90 A. Tilgher, «Nostra Dea» di Massimo Bontempelli cit.
91 C. D’er. [C. d’Errico], «Nostra Dea» di M. Bontempelli al Teatro d’Arte di Roma cit.
92 S. d’Amico, «Nostra Dea» di Massimo Bontempelli all’Odescalchi cit.
93 Ibid.
94 Ibid. Il corsivo e nostro.
95 C. Vicentini, Pirandello. Il disagio del teatro, Venezia, Marsilio, 1993, p. 167.
96 L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, poesie e scritti varii cit., p. 158.
97 R. Luperini, Introduzione a Pirandello, Bari, Laterza, 1996, pp. 102-103.
98 Si tratta della prima rappresentazione dell’Uomo, la bestia e la virtu data dalla Compagnia del Teatro d’Arte, messa in scena di Guido Salvini, direzione di Pirandello con la Abba nella parte della Signora Perella, Ruffini in quella di Paolino, Palmarini in quella del Capitano Perella. Tutti gli attori, eccetto Paolino e Pulejo indossavano le maschere di Giovanni De Rossi. Lo spettacolo sara a Roma il 12 aprile di quell’anno.
99 e. bert. [E. Bertuetti], Un apologo e il grottesco al Chiarella, in «Gazzetta del popolo « 26 giugno 1926.
100 Ibid.
101 Ibid.
102 S. d’Amico, «Due in una» di L. Pirandello al Valle, in «La Tribuna», 30 marzo 1926. Il corsivo e nostro.
103 s. d’a [S. d’Amico], Diana e la Tuda di Pirandello all’«Eden» di Milano, in «La Tribuna», 16 gennaio 1927.
104 Id., Diana e la Tuda di Pirandello all’«Eden» di Milano cit.
105 S. d’Amico, «Diana e la Tuda» di Pirandello all’Argentina, in «La Tribuna», 13 febbraio 1927.
106 Id., Il teatro italiano cit., p. 134.
107 [s.i.a.], «Diana e la Tuda» di Pirandello all’Argentina, in «Il Messaggero», 11 marzo 1927. Riccardo Bacchelli, nella sua cronaca allo spettacolo pubblicata sulla «Fiera letteraria», scrive parole che confermano questi dati: «Il bell’impeto della signorina Abba dovrebbe farsi un po’ dimesso e meno militante e categorico. Tuda non e un’eroina, e una vittima»: R. Bacchelli, «Diana e la Tuda» 3 atti di Luigi Pirandello, in «La Fiera letteraria», 23 gennaio 1927, p. 5.
108 E. Bertuetti, Diana e la Tuda. Tragedia in tre atti di Luigi Pirandello al Carignano, in «Gazzetta del popolo», 5 febbraio 1927.
109 Ibid. I corsivi sono nostri.
110 S. d’Amico, «Diana e la Tuda» di Pirandello all’Argentina cit..
111 E. Bertuetti, Diana e la Tuda. Tragedia in tre atti di Luigi Pirandello al Carignano cit.
112 A. Cecchi, «Diana e la Tuda» di Pirandello all’Argentina, in «Il Tevere», 11 marzo 1927.
113 E. Bertuetti, Diana e la Tuda. Tragedia in tre atti di Luigi Pirandello al Carignano cit.
114 S. d’Amico, «Diana e la Tuda» di Pirandello all’Argentina cit.
115 Accade cosi che anche nella recita della Donna del mare, sfida quanto mai ardua data la memoria ancora viva dell’evento-Duse, Marta Abba manifesti «qualcosa di acerbo, di duro, di non completamente terso che rende la sua recitazione qualche volta disuguale e spesso la allontana un po’ troppo dal pubblico», una «specie di prepotenza […] che e si personalissima, ma che e anche una ribellione a fondersi completamente col personaggio e ad avvicinarsi a chi l’ascolta»: [E. Bertuetti], «La donna del mare» di Ibsen al Teatro Carignano, in «Gazzetta del popolo», 20 febbraio 1927.
116 E. Bertuetti, Ritratti quasi veri. Marta Abba, in «Il Dramma», 15 febbraio 1935, p. 26.
117 Ibid.
118 Ibid.
119 Cosi scrive in una lettera del 28 luglio a Marta Abba: «Se il governo volesse veramente fare qualche cosa per i teatri non dovrebbe consultare nessuno. Ha consultato tanti e tante volte, e non ha fatto mai nulla. E seguita a consultare gente che non potra mai mettersi d’accordo, perche in contrasto d’interessi, e segno che vuol dare a vedere di darsi cura del teatro, ma che in fondo non fara nulla ancora, e chi sa per quant’altro tempo […]. La politica entra da per tutto. La diffamazione, la calunnia, l’intrigo sono le armi di cui tutti si servono. La vita in Italia si e fatta irrespirabile»: Lettera a Marta Abba, Nettuno 8 luglio 1928, in L. Pirandello, Lettere a Marta Abba, a cura di B. Ortolani, Milano, Mondadori, 1995, p. 38.
120 S. d’Amico, In margine ad una crisi. Domande e risposte, in «Comoedia», 15 ottobre- 15 novembre 1928, p. 5.
121 Id., Decadenza dell’arte drammatica, in «La Tribuna», 28 settembre 1926. Un mese dopo, nel corso di un dibattito sulla crisi del teatro che, stimolato dal suo articolo precedente aveva visto intervenire fra gli altri Bragaglia, Marinetti, Eugenio Bertuetti, Enrico Rocca, d’Amico scrive: «Noi crediamo che dei teatri scuola possano adempiere a una funzione utilissima, da tutti i punti di vista, estetico, sociale, morale. Ma l’amabile Enrico Rocca ha un bell’accusarci di “aspettazione messianica”; per coordinare, disciplinare, animare un’impresa di questo genere, ci vuole un uomo: un Antoine, uno Stanislavski [sic], un Copeau, insomma un artista nuovo. Se costui non appare, ogni discorso e inutile»: S. d’Amico, Si attende un maestro, in «La Tribuna», 15 ottobre 1926.
122 Id., La crisi, la crisi, la crisi, in «La Tribuna», 8 luglio 1928. L’articolo e una sintesi del soggiorno di d’Amico a Parigi.
123 s. d’a [S. d’Amico], L’addio di Marta Abba, in «La Tribuna», 25 maggio 1930. I corsivi sono nostri.
124 Il titolo originario dell’opera di Molnar non e La pietra di paragone, ma il Carnevale.
125 al. ce. [A. Cecchi], «Penelope» di Somerset Maugham al Teatro Valle, in «Il Tevere», 19 marzo 1931.
126 s. d’a [S. d’Amico], «Penelope» di W. S. Maugham al «Valle», in «La Tribuna», 20 marzo 1931. Pirandello che si trova in quel momento a Parigi, lette le cronache sui giornali italiani, scrive una lettera irosa e durissima che rivela quanto i rapporti fra lo scrittore e complessivamente tutta la critica romana si fossero ormai incrinati. Il principale avversario e qui proprio d’Amico, definito «porco prete» che «[m] eriterebbe di essere preso a sputi in faccia e a calci nel sedere!» e che osa «ancora parlare di Te come d’una “promessa”, osa parlare di “parossismo alla Gandusio”»: Lettera a Marta Abba, Parigi 21 marzo 1931, in L. Pirandello, Lettere a Marta Abba cit., p. 694.
127 S. d’Amico, Marta Abba, in «La Tribuna», 1 aprile 1931.
128 Ibid.
129 S. d’Amico, Polemichetta con Marta Abba, in «La Tribuna», 3 aprile 1931. Alla lettera segue sullo stesso numero la replica immediata di d’Amico. Di questa polemica si trovano tracce anche nel carteggio fra l’attrice e Pirandello il quale la consiglia di non continuare la polemica: «Hai tempo ancora a far la Tua vendetta e a prenderti la Tua rivincita, un artista non deve mai polemizzare coi suoi critici. Hai fatto bene a scrivergli come gli hai scritto; ma hai visto che conto ha tenuto lui dei Tuoi dati e dei tuoi fatti? Il critico ha il giornale dalla sua, e l’ultima parola la dira sempre lui»: Lettera a Marta Abba, Parigi, 7 aprile 1931, in L. Pirandello, Lettere a Marta Abba cit., p. 117.
130 S. d’Amico, Polemichetta con Marta Abba cit.
131 A. Cecchi, Quartetto d’attrici, in «Quartetto. Rassegna italiana politica, letteraria e artistica», settembre 1931.
132 Lettera a Marta Abba, Castiglioncello, 9 settembre 1932, in L. Pirandello, Lettere a Marta Abba cit., p. 1027.
133 «L’umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri per conto suo, sa che cosa e la legenda e come si forma, che cosa e la storia e come si forma; composizioni tutte, piu o meno ideali, e tanto piu ideali forse, quanto piu mostran pretesa di realta: composizioni ch’egli si diverte a scomporre; ne si puo dir che sia un divertimento piacevole»: L. Pirandello, L’umorismo cit., p. 158.
134 G. Guglielmi, La prosa italiana del novecento. Umorismo. Metafisica. Grottesco, Torino, Einaudi, 1986, pp. 114-139.
135 L. Pirandello, Trovarsi, atto III, in L. Pirandello, Maschere nude, vol. II, Milano, Mondadori, 1958, p. 968.
136 R. Simoni, Trovarsi, in «Corriere della Sera», 24 marzo 1933, ora in Id., Trent’anni di cronaca drammatica. 1933-1945, vol. IV, Torino, ILTE, 1958, p. 31.
137 L. Antonelli, Una novita al Teatro Valle. «Trovarsi» di Luigi Pirandello, in «Il Giornale d’Italia», 15 gennaio 1933.
138 Ibid.
139 S. d’Amico, «Trovarsi» di Luigi Pirandello al Valle, in «La Tribuna», 15 gennaio 1933.
140 R. Simoni, Trovarsi cit., p. 31.
141 La testimonianza di Bertuetti sembra rafforzare la nostra ipotesi esegetica. A proposito della recita dell’ultimo atto, il critico torinese descrive una Abba «tutta occupata a sottolineare, a chiarire, a semplificare, mentre l’empito incalzante delle argomentazioni e la piena dei sentimenti e la smania l’angoscia il terrore avrebbero potuto avere voce piu travolgente e accenti piu tragici» (E. Bertuetti, «Trovarsi». Tre atti di Luigi Pirandello, in «Gazzetta del popolo», 15 febbraio 1933).
142 V. Tranquilli, Appunti per un ritratto di Marta Abba, in «Scenario», 10 novembre 1933, p. 582.
143 S. d’Amico, Tramonto del grande attore cit., p. 255. Si tratta dell’ultimo capitolo dal titolo «L’attore e la grazia».
144 [s.i.a.], «Ruota» di C. V. Lodovici, in «Gazzetta del popolo», 3 marzo 1933. Ricordiamo qui in nota che tutta la critica fu unanime nel lodare la recitazione di Marta Abba in queste recite, in particolare sottolineandone l’equilibrio stilistico, la disciplina, la la sicurezza impeccabile e nel registro comico e in quello tragico. Giudizi complessivamente positivi saranno confermati anche qualche mese dopo, in occasione delle prime rappresentazioni di Quando si e qualcuno di Pirandello.
145 Simili elogi verranno confermati nel novembre di quell’anno negli articoli sulla recita di Quando si e qualcuno di Pirandello, che d’Amico recensira due volte, una in occasione della prima a San Remo e l’altra della replica romana.
146 S. d’Amico, Marta Abba al Valle. «La vedova scaltra» di Goldoni al Valle, in «La Tribuna», 12 gennaio 1933.
147 Ibid.
148 Id., Il tramonto del grande attore cit., p. 133.
149 Fra i piu accesi e agguerriti detrattori dei primi spettacoli della Pavlova ricordiamo Marco Praga che, dopo aver assistito alle repliche milanesi commenta: «la signora Pavlova e, per ora, un ottimo rappresentante della mediocrita […]. La piu inconcludente delle attrici del “boulevard” le rassomiglia; e di sincerita, di spontaneita non c’e da parlarne nell’arte sua»: M. Praga, Il fenomeno russo, 2 dicembre 1923, ora in M. Praga, Cronache teatrali 1923, Milano, f.lli Treves, 1924, pp. 262-263.
150 s. d’a [S. d’Amico], Tatiana Pavlova al Teatro Valle, in «L’Idea nazionale», 5 ottobre 1923.
151 Quando dieci anni, dopo in un’intervista concessa ad Alberto Casella, le verra chiesto il motivo della sua decisione di assumere anche il ruolo di regista, la Pavlova rispondera: «Non mi improvviso regista. Lo sono sempre stata. Senza metterlo sui manifesti. Ma tutta la mia fatica di attrice e regia […]. Quasi tutte le commedie del mio repertorio, sono state registicamente preparate da me, nel senso piu largo della parola regia […]. Del resto e chiaro: io non comprendo il teatro, se non sotto la specie della direzione, categoricamente. Come non comprendo l’opera teatrale, se non sotto la specie dello spettacolo»: Tatiana Pavlova “regista”. Intervista di Alberto Casella, in «Comoedia», ottobre 1934, p. 19.
152 L. Ridenti, Ingrandimento: Tatiana Pavlova, in Id., Il terribile venerdi, Milano, Sonzogno, 1928, p. 57.
153 Ivi, p. 58.
154 s. d’a [S. d’Amico], Tatiana Pavlova al Teatro Valle cit.
155 Cosi per esempio, in un articolo pubblicato sull’«Arte drammatica», viene detto «La decorazione scenica del Romanzo e di una bellezza e di un effetto senza precedenti: le toilettes portate con una grazia sovrana dalla Pavlova erano tre capolavori dei piu grandi sarti parigini»: Il notiziere, Notiziario romano, in «L’Arte drammatica», 20 ottobre 1923.
156 s. d’a. [S. d’Amico], La Pavlova in «Romanzo» di Sheldon, al Valle, in «L’Idea nazionale», 17 ottobre 1923.
157 Il Notiziere, Notiziario romano, in «L’Arte drammatica», 14 febbraio 1925, p. 2.
158 il trovarobe [S. d’Amico], Ancora d’arte scenica, in «L’Idea nazionale», 7 dicembre 1923.
159 Ibid. Il corsivo e nostro.
160 Ludro [S. d’Amico], Corriere romano. Spettacolo da «spectare». Le maschere russe a Roma. La «crisi» risolta, in «Il Resto del Carlino», 5 giugno 1924.
161 S. d’Amico, Quello che mette in scena. L’avvento di un despota nuovo sulla scena del teatro drammatico, in «Comoedia», 20 aprile 1926, p. 12.
162 il trovarobe [S. d’Amico], «La maschera mobile», in «La Tribuna», 17 giugno 1926.
163 S. d’Amico, «La Favola del Lupo» di Francesco Molnar, in «La Fiera letteraria», 10 gennaio 1926, p. 3.
164 La Pavlova «cerca e spessissimo trova il dramma delle cose accanto a quello delle persone: la bizzarra commedia delle luci (poste agli angoli piu impensati e dirette e colorite nei moti piu inattesi) per preparare gli animi alle illogicita delle commedie dei sentimenti»: M. Ferrigni, Cronache teatrali. 1931, Milano-Roma, Tip. Treves-Treccani-Tuminelli, 1932, p. 5.
165 [S. d’Amico], Gli altri e noi. Ancora della Pavlova, in «L’Idea nazionale», 22 dicembre 1923.
166 E. Albini, «La signorina Giulia» di August Strindberg, in «Avanti!», 27 novembre 1923, ora in E. Albini, Cronache teatrali 1891-1925, Genova, ed. del Teatro Stabile di Genova, 1972, p. 421.
167 Pes [E. Polese Santarnecchi], Cronache dei Teatri Milanesi, in «L’Arte drammatica », 5 aprile 1924, p. 1.
168 M. Praga, Il fenomeno russo cit.
169 Id., L’Ufficiale della guardia, 6 aprile 1924, in Id., Cronache teatrali 1924 cit., p. 89.
170 Pes [E. Polese Santarnecchi], Cronaca dei teatri milanesi, in «L’Arte drammatica », 24 novembre 1923.
171 P. Gobetti, Tatiana Pavlova, «Il Contemporaneo», 15 giugno 1923; ora in P. Gobetti, Scritti di critica teatrale cit., pp. 660 e 662-663.
172 s. d’a [S. d’Amico], Tatiana Pavlova, signora delle camelie, in «L’Idea nazionale», 30 ottobre 1923.
173 S. d’Amico, Tatiana Pavlova, in «La lettura», 1 luglio 1928, p. 512.
174 Ibid.
175 s. d’a [S. d’Amico], Dina Galli, in «L’Idea nazionale», 24 marzo 1918.
176 S. d’Amico, Tatiana Pavlova, in «La lettura» cit., p. 512.
177 Ivi, p. 509.
178 V. Cardarelli, «L’Ufficiale della guardia» di F. Molnar al Valle, in «Il Tevere», 30 dicembre 1924. Altra cosa da cio che stiamo qui sostenendo e l’interruzione delle recite a cui la Pavlova sara costretta talvolta, a causa dei fischi e dei rumori del pubblico: in quel caso non si trattera infatti di un gioco fra palcoscenico e platea, ma dell’interruzione del gioco per chiarirne le regole, che sono appunto, quelle dell’impermeabilita dei due ambienti.
179 S. d’Amico, Strindberg e la «Signorina Giulia», in «L’Idea nazionale», 24 ottobre 1923.
180 Ibid.
181 Id., Tatiana Pavlova, in «La lettura» cit., p. 514.
182 «Nonostante il nostro tenace e rigoroso principio del rispetto ai testi, noi non crediamo rappresentabile il dramma, se non a patto di ridurlo ai due quadri di vita nuda, ch’esso contiene»: Id., Strindberg e la «Signorina Giulia» cit.
183 Id., La Pavlova e il teatro visivo, in «Il Resto del Carlino», 28 giugno 1925.
184 Id., Tatiana Pavlova, in «La lettura» cit., p. 33.
185 Ibid. A proposito di quella stessa recita il critico della «Fiera letteraria» scrive: « Ne guasta quel tanto di stilizzato e artificioso che scenario e attori ci fanno vedere. Specie la signora Pavlova [...] ci offre un saggio di recitazione fra caricaturale e patetico veramente mirabile» (A. Franci, A Milano, in «La Fiera letteraria», 8 luglio 1928).
186 emmepi, «La scala» e i cavoli a merenda, in «L’Illustrazione italiana», 29 novembre 1925, p. 451.
187 al. ce. [A.Cecchi], «La scala» di Rosso di S. Secondo al Quirino, in «Il Tevere», 13 gennaio 1926. Commenti molto simili vengono pubblicati anche sull’«Arte drammatica » (21 novembre 1925), sul «Corriere della Sera» a firma di Renato Simoni (17 novembre 1925), sul «Secolo» (17 novembre 1925).
188 S. d’Amico, «La Scala» di Rosso di S. Secondo, in «La Fiera letteraria», 24 gennaio 1926, p. 6.
189 Rosso di San Secondo«soprattutto con l’attribuire all’amore materno quei caratteri di assoluto per cui esso a tratti sembra identificarsi con una necessita essenziale e incorruttibile della razza umana ed averlo cosi trionfalmente messo a confronto con la vanita di una assurda concezione della vita nata dal dolore e pure indegna di quel dolore – ha concepito e attuato un’opera di evidente attualita, destinata a trovare echi profondi nel nostro spirito»: F. M. Martini, Cronache del teatro di prosa 1926-27, Roma, Edizioni dei dieci – Sapientia, 1928, p. 117.
190 M. Praga, Cronache teatrali 1926, Milano, Flli Treves, 1927, p. 327.
191 R. Bacchelli, «Tra vestiti che ballano» di Rosso di San Secondo, in «La Fiera letteraria », 12 dicembre 1926, p. 6.
192 [s.i.a.], «Tra vestiti che ballano» di Rosso di San Secondo al Teatro Valle, in «Il Tevere », 12 gennaio 1926.
193 Vice [S. d’Amico], «Una cosa di carne» di Rosso di San Secondo, al Valle, in «La Tribuna», 22 gennaio 1925.
194 Ibid. Anche Umberto Fracchia («Una cosa di carne» dramma o pochade in 3 atti di Rosso di S. Secondo al Manzoni, in «Il Secolo», 24 marzo 1925) sottolinea questo aspetto della recita che, come e ormai chiaro, non e separabile dallo stile peculiare della Pavlova: «Tatiana Pavlova si e presentata con una truccatura sorprendente, dando a Micaela una figura fisica che difficilmente potremo dimenticare».
195 Vice [S. d’Amico], «Una cosa di carne» di Rosso di San Secondo al Valle cit.
196 G. Ruberti, «Una cosa di carne» di Rosso San Secondo al Valle, in «Il Giornale d’Italia», 22 gennaio 1925.
197 Vice [S. d’Amico], «Una cosa di carne» di Rosso di San Secondo, al Valle cit.
198 P. M. Rosso di San Secondo, Una cosa di carne, atto III, in Id., Teatro 1911-1925, a cura di L. Ferrante, Rocca di San Casciano, Cappelli, 1962, p. 537.
199 [s.i.a.], «La donna sullo scudo» di Gilbertini e Betti, al Valle, in «La Tribuna», 20 febbraio 1927.
200 A. G. B. [A.G Bragaglia], Riteatralizzare il teatro, in «La Fiera letteraria», 12 settembre 1926, p. 6.
201 Il riferimento alle riflessioni di Fuchs, reso esplicito da Bragaglia che lo cita in apertura del suo Teatro Teatrale, non e in realta chiarificatore data la distanza di poetica dei due: Fuchs «parlando di riteatralizzazione del teatro, non intende un ripristino degli stereotipi del mestiere, dimenticati o vilipesi a causa del demiurgismo letterario. Intende riferirsi al soffio religioso che anima la scena nelle epoche in cui il teatro e cerimonia evocatrice del dio […]. La religione del teatro di Bragaglia e, invece, interamente secolarizzata: la sua magia e quella degli effetti, del trucco, delle diavolerie»: U. Artioli, Bragaglia e il teatro teatrale all’epoca degli «Indipendenti», in «Il castello di Elsinore», n. 19, 1994, p. 80.
202 «Il cosidetto “autore” e personalita poli fisionomica. Ognuna delle arti di imitazione, che concorrono alla evocazione scenica ha un suo autore. L’autore del risultato teatrale non puo essere uno solo»: A.G. Bragaglia, La trinita del drammaturgo, in «La Fiera letteraria», 3 ottobre 1926, p. 6.
203 U. Artioli, Bragaglia e il teatro teatrale all’epoca degli «Indipendenti» cit., p. 74. «In fondo, dietro l’acre polemista, sta l’irenico fautore di un’aura medietas che allinea per giustapposizione i vari gangli dello spettacolare, come se l’unita potesse emergere per pura paratassi; sta l’eclettico predicatore di tutti gli stili, per il quale metodo, concentrazione e rigore sono sinonimo di rigidita» (ibid.).
204 S. d’Amico, Unita e trinita del dramma, in «La Fiera letteraria», 10 ottobre 1926, p. 6.
205 Id.,, «Teatro teatrale», in «La Tribuna», 15 novembre 1935.
206 Anni dopo la Pavlova in un’intervista rendera esplicita la sua poetica di attrice e direttrice nei confronti del testo drammatico: «Sono attrice, e il regista non potra soffocare ne in me ne in alcuno dei compagni lo spirito attivo della personalita. Sono regista, e l’attrice non pretendera mai da me la bella parte, l’effetto, il monologo, roba d’altri tempi. Non sono autore. Ma, attrice e regista, compenso le pretese dell’una e dell’altra, con l’equilibrio della mia sensibilita per l’opera d’arte e del rispetto che ho verso il poeta ». Ma poi aggiunge, in riferimento all’autore: «Non lo diminuisco mai: lo esalto. Lo completo. Lo limo, lo affino. So dove la sua letteratura puo minare il teatro, e intervengo con il bisturi. So dove la sua tecnica puo diminuire la poesia, e intervengo chiedendogli di rifare una scena. Tutto questo e al servizio della regia»: Tatiana Pavlova “regista”. Intervista di Alberto Casella cit., p. 20. Dichiarazione questa, come ben si puo notare, molto distante dalla poetica critica di d’Amico.
207 Dopo quell’esperienza ne succederanno altre simili e talvolta anche piu riuscite, in collaborazione con direttori quali Sharoff, Nemirovič -Danč enko che la Pavlova chiamera in Italia nel 1932 e di cui si ricorda innanzitutto la direzione del Valore della vita e Salvini (in particolare nella Locandiera del 1933); ma a quel punto d’Amico sara sempre meno interessato a riflettere sull’arte di Tatiana Pavlova e sempre piu concentrato invece sulla direzione degli spettacoli.
208 S. d’a [S. d’Amico], La serata della Pavlova con «Carmen» al Teatro Valle, in «La Tribuna», 12 febbraio 1929.
209 E. Rocca, Ribalte e Sale da Concerti. «Mirra Efros» di Jacopo Gordin, commedia ebraica inscenata con gusto dalla Pavlova riporta un successo al Valle, in «Lavoro fascista», 6 gennaio 1929.
210 [S. d’Amico], «Mirra Efros» di Giacobe Gordin al Valle, in «La Tribuna», 6 gennaio 1929.
211 S. d’a. [S. d’Amico], La serata della Pavlova con «Carmen» al Teatro Valle cit.
212 S. d’Amico, Tramonto del grande attore cit., p. 131.
213 Ivi, p. 133.
214 G. Salvini, Introduzione alla Locandiera, in «L’Ambrosiano», 7 dicembre 1931.
215 A. G. B. [A. G. Bragaglia], La Locandiera della Pavlova all’Argentina, in «L’Illustrazione italiana», 13 gennaio 1932.
216 A sostegno della sua tesi, riporta l’epigramma che Pirandello scrisse in occasione del centenario goldoniano:
«Anima arguta, anima latina,
sai? Ti festeggia, grato, il tuo paese,
ma ha preso stanza Osvaldo norvegese
nella locanda di Mirandolina» (ibid.).
217 A questo proposito si veda il prossimo capitolo.
218 S. d’Amico, Tendenze nuove del dramma italiano, in «Scenario», aprile, 1932, p. 35. Faremo ritorno su questo importante articolo nel capitolo successivo.

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Il critico e l’attore
Silvio D’Amico e la scena italiana di inizio Novecento
Donatella Orecchia
2012