4. Ai margini del teatro di prosa
p. 154-199
Texte intégral
1. Dina Galli: la caricatura continua di una pupattola priva di grazia fra la pochade e il teatro dialettale
1.1. Un’attrice da pochade
1Nel racconto dei suoi primi colloqui con Eleonora Duse d’Amico ricorda uno scambio di giudizi su Dina Galli: alle sue perplessità sulla comica, da lui definita una «pupattola» assolutamente priva di grazia, pare che la Duse avesse replicato essere invece la Galli la più grande attrice italiana. Un’affermazione che, nonostante lo scetticismo più volte denunciato da d’Amico nei confronti di alcuni giudizi della Duse, dovette allora colpire il critico: un attore che parla di un altro attore, infatti, nonostante la pressione esercitata dall’urgenza di esprimere la propria poetica artistica, può tuttavia cogliere qualcosa che al critico rischia di sfuggire: qualcosa che concerne spesso l’elaborazione di una tecnica (non tecnicismo) più che di una poetica, o meglio, il modo in cui le possibilità di un linguaggio artistico vengono sondate e quindi espresse attraverso una forte personalità d’attore; qualcosa cioè che, se non è sufficiente a comprendere un’espressione artistica in tutta la sua complessità perché appunto non ne interroga la poetica, è tuttavia un elemento insostituibile da cui muovere per formulare un giudizio critico. Forse proprio per questo motivo le parole della Duse colpirono tanto d’Amico il quale, ancora molti anni più tardi nell’articolo scritto in morte della Galli1, le ricorderà a testimonianza di quanto la sua ostilità verso la comica fosse stata cocciuta. Solo il confronto con la realtà del teatro straniero, scriverà in quell’intervento, gli permetterà infatti di mettere in parte in luce ciò che a lungo aveva rifiutato: un talento, una tecnica, una presenza scenica e un «fuoco» che la Galli avrebbe mantenuto fin nell’età matura e che, nel genere della commedia leggera, l’avrebbe resa unica e insuperabile. Qualcosa che, pur nella distanza di poetiche e di stili, anche Eleonora Duse aveva potuto cogliere e plaudire.

Tavola 11. Dina Galli in una caricatura di Onorato
MBA. Fondo Ruggeri
Ci sono dei lettori che debbono arrivare ai quarant’anni per capire l’arte, poniamo, di Alessandro Manzoni. Io dovetti addirittura passare quell’età per capire lo spirito di Dina Galli2.
2Complice di quel mutamento di giudizio, come si è detto e come d’Amico sostiene, fu certamente il confronto con la realtà del teatro straniero, ma forse ancor più il mutamento del contesto culturale italiano, l’attenuarsi di alcune polemiche (contro il repertorio francese perché francese e perché troppo “pepato”, contro l’attore-mattatore di cui la diva comica non era che una variante al femminile) che, all’indomani della seconda guerra mondiale, non saranno certamente più così calde e attuali come lo erano state durante tutti primi anni di attività critica di d’Amico. Attenuatasi l’urgenza di polemizzare sulle radici poetiche delle scelte stilistiche della Galli, il critico sarà allora più libero di interrogarsi e ammettere la grandezza, quantomeno “tecnica”, dell’attrice con un percorso in parte simile a quello che l’aveva condotto a rivalutare anni prima Ermete Novelli.
3E facciamo ora ritorno al marzo del 1915, al primo intervento su Dina Galli.
4L’intento polemico è presente fin dal titolo, Dina, che potrebbe sembrare innocuo o perfino indicare una particolare simpatia del critico nei confronti dell’attrice, chiamata direttamente e semplicemente per nome, se non si rivelasse fin dalle prime righe come polemico riferimento a una consuetudine invalsa in quegli anni fra il pubblico di teatro.
Le attrici di ieri il pubblico non usava chiamarle per nome […]. Quelle di ieri badavano a far dell’arte, e basta. Quelle d’oggi si distinguono anzi tutto per una loro maniera, un loro modo di fare, un loro stile di recitazione e un loro tipo di acconciatura, una loro cifra insomma3.
5Fra gli spettatori e queste nuove «piccole dive»4 si è creata come una complicità, un’atmosfera di famigliarità e di intimità che d’Amico individua come il volto speculare del loro essere puri fenomeni mondani che poco o nulla hanno a che fare con la vera arte. Dina Galli come Lydia Borelli come Tina di Lorenzo sono l’esempio di un teatro che vuole solamente divertire e che, per raggiungere il proprio scopo, non può scendere nella profondità dei sentimenti, ma deve piuttosto cristallizzarsi in una maniera recitativa e attingere nuove risorse per lo più da un repertorio francese leggero e, appunto, pepato e dal meccanismo comico ben levigato.
6Repertorio, compagnia e «maniera» stilistica sono le tre questioni su cui la riflessione di d’Amico si appunta e intorno alle quali si snoda la sua interpretazione dell’attrice: tre aspetti che giustamente il critico elenca uno dietro l’altro sottolineando così implicitamente che la peculiarità del teatro di Dina Galli consiste proprio nel modo in cui quegli elementi entrano in relazione reciproca.
7Un modo per comprendere il quale si deve ricordare il processo di ristrutturazione che aveva coinvolto il teatro italiano negli anni immediatamente precedenti al periodo che stiamo trattando quando, all’interno di quel vasto processo di industrializzazione della scena avvenuto nel primo decennio del secolo, alcune compagnie scelsero di specializzarsi nello sfruttamento di un singolo genere drammatico «prescelto non in base a criteri di qualità artistica, bensì dopo una calcolata disamina delle sue potenzialità commerciali»5.
Quel che distingue […] la ristrutturazione del mondo dello spettacolo italiano nel secondo lustro del Novecento è proprio il configurarsi d’una serie di utensili linguistici della scena formulati a misura del più redditizio commercio di prodotti “drammaturgici” le cui strutture elementari mirano in esclusiva al facile effetto: il piacere della rivalsa satirica e della sensuosità coreografica tipiche della rivista; il brivido nero del Gran Guignol; l’ammicco elegante ed equivoco e la frenesia comica della pochade6.
8La pochade fu uno di quei generi drammatici che, già presente nei repertori di alcune importanti realtà italiane alla fine ottocento (e il riferimento d’obbligo è qui a Virgilio Talli), raggiungerà il suo massimo sviluppo nell’epoca giolittiana quando compagnie come quelle della Galli (la Sichel-Galli-Guasti-Ciarli-Bracci prima e la Galli-Guasti poi) ne sfrutteranno al massimo le potenzialità commerciali attraverso quella specializzazione di cui si è detto.
9Non era dunque stato forse un caso che proprio con una pochade e proprio sotto la direzione di Talli la Galli avesse ottenuto il suo primo grande successo: nell’aprile del 1900 a Bologna la compagnia Talli-Gramatica-Calabresi diede per la prima volta la Dame chez maxime7 di Feydeau, testo già ampiamente conosciuto dal pubblico italiano e apprezzato nelle rappresentazioni di Emilia Sichel, Virginia Reiter e Teresa Mariani. Attrice giovane della compagnia, la Galli, che fino a quel momento non si era ancora distinta in modo particolare in nessuna recita, sostenne la parte della protagonista, la cocotte, che la prima attrice Irma Grammatica aveva rifiutato: il successo fu tale che in breve tempo sia la Reiter sia la Mariani decisero di togliere dal loro repertorio il testo di Feydeau. Enrico Polese commentò così la replica milanese del settembre:
La giovanissima attrice non à deluse le speranze che dava allorquando era ancora con Ferravilla ed à dato prova di essere già un’attrice notevole per la non comune comicità e spigliatezza di scena […]. Essa dà alla birichina cocotte parigina una interpretazione geniale ed efficacissima. Non eccessivamente sguaiata né eccessivamente timida; si nota in lei lo studio di non fare troppo8.
10E a proposito della direzione di Talli:
[l]’esecuzione generale risente della comicità del Talli, che se è sempre ottimo direttore, è insuperabile quando à da porre in iscena una pochade perché à il senso ed il gusto della caricatura9.
11Con il richiamo a Ferravilla e l’elogio di Talli, Polese indicò nel 1900 il terreno su cui la Galli si era formata e al quale continuerà ad attingere per tutta la vita: le sue radici di comica dialettale ingentilite nei panni della cocotte oppure della monella10, il gusto raffinato della caricatura, l’abilità straordinaria nell’improvvisazione mimica soprattutto del volto11, l’attenzione al complesso dello spettacolo oltre che alla propria individuale prova d’attrice, la predilezione per la pochade e per i meccanismi ben levigati e scintillanti propri di quel genere e in particolare – ma questo appartenne al gusto della Galli più che del maestro Talli – per la commedia «comico-sentimentale» della quale l’attrassero sempre quel «pizzico di pepe e quello spruzzo di limone messi insieme»12. A partire da quella recita iniziò per l’attrice un percorso abbastanza lineare di approfondimento e di contenuta variazione su quell’unico tema che l’aveva resa famosa in quell’occasione e che, se anche la costrinse entro coordinate (il teatro comico e ancor più la parte della cocotte o delle sue poco dissimili consorelle) che alcuni successivamente – d’Amico compreso – indicarono come suo limite principale, fu in realtà ciò che le permise di costruirsi un’identità artistica assolutamente unica e, insieme, perfettamente inserita all’interno del processo di industrializzazione di cui si è detto.
12Quindici anni dopo la sua prima recita della Dame chez maxime, d’Amico, sebbene con tutt’altro tono rispetto a Polese, sottolinea nel suo articolo gli stessi elementi che avevano favorito il successo personale della Galli ai suoi esordi: il repertorio «pepato» della commedia comico-sentimentale e la compagnia di complesso «ben formata e soprattutto ben affiatata»13. Quanto al terzo elemento, la recitazione, le critiche di d’Amico, che pur definisce la Galli «la nostra maggiore attrice comica», si appuntano innanzitutto sul fatto ch’ella si sia «ridotta e specializzata in quella tal cifra» tipica di un’artista «a mezza via fra il teatro e il caffè concerto», ma ancor più sul fatto ch’ella sia «sempre e soltanto la stessa indiavolata e incorreggibile monella»:
Ha accentuato in un repertorio immutabile e limitatissimo tutte le sue più comiche caratteristiche fisiche: par che ogni giorno gli occhi le s’ingrandiscano, il nasino le vada più per l’insù, la bocca sia più pronta alla smorfia, le mani le si snodino ancor di più in quegli inimitabili gesti ch’essa predilige. Ha accentuato e fissato le grazie della sua vocetta un po’ roca, le tonalità neutre dei suoi strilletti che mandano il pubblico in visibilio. Ha accentuato, con le sue toelette, quelle flessuosità serpentine e quelle movenze marionettistiche del suo svelto corpicino.
13E conclude: «Così è diventata se stessa. Ma si è chiusa in quei limiti, da cui non esce più».
14Errore della Galli sarebbe dunque aver accentuato troppo qualcosa che le era proprio (le sue caratteristiche fisiche e il suo talento comico) tanto da ridurlo a una maniera recitativa dalle limitate facoltà espressive, in questo incoraggiata ma non interamente condizionata dall’uso di un repertorio, i «vaporosi e spumosi testi francesi», limitato e limitante: la sua voce si è fatta vocetta un po’ roca, le qualità mimiche del viso semplici smorfie, quelle del corpo movenze marionettistiche. Non solo Dina Galli, come Novelli, fa sempre un unico tipo, ma a differenza del grande mattatore, frequenta anche sempre un unico genere drammatico, leggero e inconsistente, artificiale e stilizzato di dove ella ha tratto le sue caratteristiche d’attrice; repertorio cioè che non è semplicemente il pretesto da cui partire per elaborare una recita, ma il luogo in cui maturare il proprio stile. Qui, forse più che altrove e proprio per quel processo di specializzazione di cui si è detto, il nesso fra lo stile di recitazione e il repertorio usato si fa per d’Amico stringente; ma poi qui, ancora una volta, pur nella mediocrità dei testi, il critico dopo aver accusato l’attrice a causa del suo repertorio, salva il repertorio contro l’attrice. Le pochades sono infatti «roba leggera, frivola, mussante: un nonnulla grazioso; da poche; dunque diremo: tascabile»14 come d’Amico le definisce nel 1915, «insipide e stupide» come ribadisce tre anni più tardi, ma sono «oh scandalo, travisate e incretinite soprattutto dalla loro traduzione e recitazione italiane»15. Nell’edizione francese infatti:
Il vuoto di queste pochades è tutto tenuto su da quel loro gergo rapido, da quel loro dialogo tutto tagli e scintillii, dalla stilizzazione di quella loro recitazione falsa, elegante e civettuola, a smorfie e a piccoli strilli. Tradotta nella nostra chiara, concreta e solida lingua, tutta cotesta roba ricasca giù pesantemente, ne svapora ogni profumo artificiale, il macchinario tanto farraginoso quanto poco consistente celato sotto la sua apparente levità si rivela nella sua pochezza grossolana16.
15Dalla versione francese a quella italiana (traduzione e “interpretazione” scenica) la pochade perderebbe così il ritmo e la scintillante levità, l’«arguzia signorile» e l’agilità che, pur nella sostanziale inconsistenza del genere, ne definiscono comunque i caratteri originari. In un articolo del 1922, scritto a commento dell’uscita in volume del dramma I pazzi di Bracco, d’Amico a proposito del repertorio comico e leggero francese scriverà:
In Francia c’è una notevole quantità di scrittori che, avendo appreso da una tradizione secolare la cosiddetta meccanica del teatro, campano più o meno onestamente servendosi d’una tal meccanica per annodare e sciogliere intrighi, riprendere e variare vecchie situazioni, distribuire sapientemente colpi di scena e finali a sorpresa; insomma per fare del teatro fine a se stesso, senz’alcuno scopo d’arte; per divertire il pubblico17.
16L’esempio della Francia non fa che marcare, per antitesi, la deficienza propria della nostra tradizione drammaturgica e, più in generale, della nostra cultura teatrale che non avrebbe mai maturato un’abilità nel produrre quel particolare tipo di commedia leggera, tutta colpi di scena ed equivoci, dall’ingranaggio perfettamente lubrificato, asettica e amorale, raffinata e meccanica.
In Italia […] gli autori di commedie francamente, dichiaratamente, solamente divertenti, mancano quasi del tutto. Ogni buon italiano che scrive la sua farsa in tre atti ci vuol mettere dentro la sua brava significazione, i suoi brani letterari, il suo anelito alla Vita, all’Amore, all’Ideale, e ad altre cose con iniziale maiuscola; ogni autore drammatico italiano vuole, componendo uno scherzo comico, risolvere un problema sociale, o morale, o filosofico18.
17La conseguenza è che le recite italiane, come si è già detto, tradiscono quasi ineluttabilmente lo spirito originario di questo tipo di repertorio19 salvo alcune, rare eccezioni: Gandusio o la Borelli e di lì a poco, soprattutto, Tofano sono lì a darne testimonianza. Ma non la Galli e non tanto perché ella cada in una retorica moralistica quanto perché, accentuando troppo e troppo ripetitivamente alcuni tratti della sua recitazione e sottolineando solo alcuni aspetti di quella drammaturgia, testimonia la perdita della grazia, dell’eleganza, della raffinatezza, che pur erano propri anche di alcune pochades, a favore dell’affermarsi di una «caricatura continua»20.
18Che cosa poi si intenda qui per grazia e che cosa per caricatura sono i due nodi che devono essere ora affrontati. Nel 1926 Marco Ramperti dedicherà a Dina Galli un lungo articolo pubblicato nell’ottobre su «Comoedia»:
Che cosa è mancato a Dina Galli per diventare la Rejane italiana? Risposta – approssimativa –: la sofferenza. Dina Galli non ha avuto, nella vita e nella scena, il coraggio di soffrire. Eppure a questo destino, che sempre è una aristocrazia e spesso è una grandezza, tutto la chiamava: la sensibilità, l’umanità, i nervi, la fralezza fisica, l’ingegno21.
19A quell’ilarità che è finta, che «sta sulle sue ciglia come il bistro e sulle sue labbra come un rossetto» e che l’ha resa famosa, la Galli avrebbe dunque sacrificato la cosa più importante, la grazia: dalla sofferenza alla grazia, ecco che Ramperti indica l’unica strada che, secondo la sua prospettiva critica, avrebbe potuto condurre questa attrice (e con lei ogni altra attrice) fino all’arte; diversamente, tutto si arresta alla mera acrobazia; finzione «magnifica di pertinacia, di brio, di movimento, d’effetto», ma null’altro; «parvenze esilaranti», ma non «l’ardente cuore sulla nuda mano». La donna, l’ardente cuore, il dolore, la passione e la grazia sono qui stretti da un legame di dipendenza che implicitamente nega qualunque altra via a un’attrice che voglia essere espressione di autenticità. E qui, sebbene non sia detto esplicitamente, è poi chiaro quanta parte abbia il repertorio scelto: «Ma che miseria signora! Non essere, sulla scena, che la Galli della pochade!»22.
20Non molto diversamente anche d’Amico esprime nei suoi interventi critici una posizione che sottolinea la priorità del la dimensione del dolore nell’espressione artistica di una vera e grande attrice (così la Melato e così anche la Duse). Eppure non è questa l’unica ragione che tiene Dina Galli lontana dalla grazia, tanto che, se Ramperti può anche difendere quei «rari istanti fuggevoli» in cui l’attrice rivelerebbe la sua profondità e autenticità, quelli in cui «ascolta se stessa anziché il pubblico lusingatore», in cui «sa mostrarci, anziché i trionfi effimeri della propria femminilità, il suo dubbio segreto, il suo anelito implacato, il suo affanno risorgente»23, d’Amico ne resta invece indifferente. Qualcosa lo frena an cora prima.
1.2. Una caricatura continua
21La Galli, e questo è il vero nodo, è solo una «pupattola straordinaria», declassata a «straordinario numero da caffè concerto»24, qualcosa di finto e di meccanico (la bambolabambina in opposizione alla donna) e insieme di smaccatamente spettacolare (il caffè concerto in opposizione al teatro). La pupattola manca infatti di passione (compreso il dolore) e di umanità, di una vita interiore e di una psicologia complessa, ma manca anche di grazia e di femminilità: è appunto ciò che non è compiutamente e organicamente formato (bambina) e ciò che non ha vita vera (bambola). Una «caricatura continua», forse talvolta gustosa, ma comunque incapace di rendere sia le note comico-sentimentali sia quelle – d’Amico non lo dice, ma il paragone con Lydia Borelli ne è un’indicazione – da femme fatale che, precipitata nell’intreccio piccante e frivolo della pochade, mantiene comunque intatti e privi di incrinature il suo fascino, la sua sensualità provocante, la sua (falsa) raffinatezza. È lontana altresì dalla strada di Ruggeri che, attraverso il distacco signorile e disinvolto da superuomo da salotto borghese, usa anche l’inconsistenza dei suoi «gentiluomini frigidi» per affermare la propria raffinata superiorità e dare «le ali a tutte le parole».
22In conclusione, la Galli manca di tre doti essenziali per un’attrice: adesione intima e profonda all’umanità del personaggio rappresentato, personalità autentica e femminile, espressività della voce che sappia restituire il lirismo della parola. Al contrario, sceglie parti inconsistenti e prive di autentica umanità e sentimenti oppure le rende tali; non ha grazia e grazia femminile in particolare; lontana dall’esaltare le potenzialità liriche della parola, accentua per contrasto una mimica quasi burattinesca e meccanica.
23Soprattutto, tende a fare la caricatura della parte che recita, tanto che anche Antonio Gandusio, che per un breve periodo di tempo farà compagnia insieme a lei, scriverà delle sue difficoltà ad «affiatarsi con la Galli, proclive ad andar a soggetto, a non studiar le parti, a non voler fare le prove e con una istintiva inclinazione a far la caricatura del personaggio che interpreta»25. Che sia proprio Gandusio ad averci lasciato questa testimonianza è un particolare da non sottovalutare: attore comico abituato a frequentare anch’egli la caricatura, Gandusio infatti è in grado di cogliere forse meglio di altri la specificità e la differenza della Galli, individuandola proprio in quell’«istintiva inclinazione a far la caricatura del personaggio che interpreta» e cioè nel trasferire l’elemento di deformazione comica dalla cosa (fare dei personaggi caricaturali) al modo (fare la caricatura del personaggio, ossia sottolineare attraverso il proprio stile di recitazione la distanza fra sé e il personaggio che si recita e rompere così qualunque forma di identificazione naturalistica).

Tavola 12. Dina Galli in una caricatura di Onorato
«Il Dramma», 15 marzo 1935, p. 30
24Come questo avvenga è forse il nodo più interessante che si debba sciogliere quando si affronti lo studio della recitazione della Galli; un problema che costringe a fare ritorno alle radici dialettali dell’attrice e, innanzitutto, al magistero di Ferravilla. Come scriverà infatti molti anni più tardi Bernardelli, con parole che nel 1915 d’Amico non avrebbe certo sottoscritto ma che altrettanto certamente colgono nel vero, se anche la Galli fu «attrice elegante, dal fare garbato e signorile, l’interprete del parigissimo fra i repertori, la moderna, la spregiudicata», tuttavia «aveva su di sé e nella sua indole, un’impronta dialettale sapida e indelebile» che si riconosceva fra l’altro «in quella malizia aperta e ammiccante, in quella monelleria che pur tra gli artifici della pochade, avventava e diffondeva uno schietto, casalingo umore popolaresco»26. Far la caricatura del personaggio potrebbe così voler dire avere sempre quel «distacco mentale e mimico dalle formule usate, l’allargamento lievemente scanzonato del personaggio»27 che Renato Simoni ricorda come uno degli insegnamenti più preziosi di Ferravilla; o anche far affiorare, all’interno del meccanismo comico della pochade, la matrice della comicità dialettale, terrigna e legata all’osservazione del reale (non dei salotti borghesi ma della strada), più concentrata sulla macchietta del singolo personaggio che non sull’ingranaggio dell’insieme. Potrebbe infine voler indicare la consuetudine della Galli ad andare a soggetto, ad aprire cioè parentesi non previste dal copione che d’un tratto escono anche dagli argini della finzione per coinvolgere nel gioco scenico il pubblico, per farsi commento dei fatti o, ancor più spesso, del personaggio: commento scanzonato o malizioso, bonario e ironico. Ce ne dà un esempio Eugenio Bertuetti in un breve intervento dedicato all’attrice nel 1935:
Dire che la Galli è un po’ magra […] sarebbe superfluo, se di tale magrezza ella non si valesse in scena per salvare al momento opportuno situazioni critiche […]. Una sera la scena era lunga, monotona, mucillaginosa. Da molto, da troppo tempo gli spettatori non ridevano […]. Ed ecco una battuta venirle in salvamento: «I vostri seni, signora…». L’attrice spezza la frase in bocca al noioso spasimante con un soggetto, ribattendo tra scandalizzata e divertita: «Per carità, signore, non parliamo degli assenti…». E tutto fu salvo28.
25Non è certo questo lo slittamento petroliniano dal quale dista tanto quanto la caricatura dalla parodia; ma è certamente un segno della disinvoltura con cui la Galli tratta il testo (a cui si possono togliere e aggiungere battute), stabilisce il rapporto con il pubblico (talvolta con modalità poco consuete per il teatro di prosa e più vicine invece al caffè concerto), esce leggermente dal personaggio chiamando in causa la propria identità fisica di donna e di attrice a smascherare, tramite l’esplicito e ironico rifiuto della convenzione del fisique du rôle, ogni forma d’identificazione.
26In sintesi la Galli innesta, su quella matrice che potremmo definire dialettal-popolare, la comicità «a scatto di molla»29 richiesta dal repertorio pepato comico francese (e in parte italiano). Ne deriva un giuoco continuo e mai definitivamente risolto a favore dell’una o dell’altra fra l’“ingenua” e la cocotte, fra la comicità salace dello schietto umore popolaresco e le raffinatezze tutte meccaniche della pochade, l’una intervenendo sull’altra a smascherarne la finzione e a rinnovarne i tratti altrimenti facilmente stereotipati. Non solo il personaggio come caricatura, ma la caricatura del personaggio, come si diceva, che toglierebbe alla pochade la sua raffinatezza e ne esaspererebbe oltre i limiti tollerabili l’elemento della finzione: più finta ancora (perché esplicitamente finta) ma anche più schietta (pur nella sua artificialità) della cocotte della Dame chez maxime, la Galli uscirebbe dalla finzione drammaturgica e farebbe così lievemente inceppare il meccanismo previsto dalla pochade.
27E qui d’Amico coglie certamente un aspetto interessante della questione: se da un lato infatti la pochade è un genere caratterizzato da una netta componente d’artificio che l’allontana dal naturalismo di tanta produzione drammaturgica di fine Ottocento e dell’inizio del secolo successivo, dall’altro prevede, come prevedono quei drammi naturalisti, l’esistenza di una quarta parete a cingere il suo mondo di artifizi e a tutelare la macchina che inesorabilmente travolge i suoi personaggi. La tutela dell’assoluta autonomia del regno dell’artificio è, da questo punto di vista, il volto speculare della pretesa di rappresentazione naturalistica della realtà: qui come là la quarta parete ha il compito di custodire il mondo dell’illusione dal pericolo della rottura del patto sancito con il lettore/spettatore; qui come là, data la convenzione sulla quale poggia la finzione artistica, il gioco procede senza che mai le regole vengano messe in discussione tanto da imporsi nella loro assolutezza che è anche la ragione della loro astrattezza.
28Certo è che Feydeau rappresenta in parte un’eccezione giacché, pur appartenendo al genere, se ne distacca poi e proprio in relazione a quanto appena detto, attraverso la costruzione di personaggi cioè che sono la proiezione di modelli esistenti nella società e che, calati all’interno di un universo dominato dalla ferrea logica del comico, si rivelano solo gradualmente privi di libertà, destinati a soccombere al «gioco spietato di una divina allegria»30. Recitare una simile drammaturgia chiede fra l’altro all’attore di porsi il problema di quelle «stigmate della realtà» che permangono nei personaggi, evitando che si appiattiscano in banali e stereotopati burattini; insieme, chiede di giocare all’interno della struttura complessiva dell’opera, con quel meccanismo cioè che, come il fato – comico –, «attua irresistibile e ineluttabile la propria logica catastrofica», non come «qualcosa che cada dal cielo come una grazia», bensì espressione delle «cose del mondo in ciò che hanno di assurdo, di combinatorio, di ripetitivo, in sostanza di comico»31.
Spinto da una forza irresistibile, egli [Feydeau] realizza un processo di pantografia, di ipertrofizzazione, di elevazione a potenza, senza il quale sembra che l’epifania delle nostre assurdità quotidiane non possa aver luogo. E non importa se il processo si rivela una sorta di reazione a catena che, innescata, porta a conseguenze imprevedibili, conduce a una nuova realtà, a un universo autonomo, fiabesco e lucidamente razionale a un tempo, dove lo stesso autore sembra dimenticarsi, prigioniero del proprio sogno delirante. Le stigmate della realtà rimangono, non meno ineluttabili, fatalmente condizionate, dalla dimensione dei personaggi e dal loro linguaggio32.
29Forse, ma è per il momento solo un’ipotesi, per altra via e senza porsi il problema di una fedeltà al testo, stigmate della realtà permangono anche nella recitazione della Galli, quelle stesse che la tradizione dialettale a cui fa riferimento l’attrice le consegna come patrimonio prezioso.
30D’Amico che, come si è detto, riduce tutta la produzione pochadistica a divertimento vacuo, non si pone il problema di indagare le ragioni poetiche che sono alla base delle scelte stilistiche di un autore come Feydeau, non coglie la spietatezza del gioco che muove le vicende né le stigmate di realtà dei personaggi; d’altra parte però esige dalla realizzazione scenica una fedeltà a quegli aspetti formali che a lui paiono essenziali: richiede pertanto che venga mantenuto il «profumo artificiale», l’assolutezza e l’inesorabilità dell’ingranaggio e che, di conseguenza, i personaggi risultino funzionali alla logica della vicenda, pedine non troppo invadenti e assolutamente in tono con il contesto della rappresentazione.
31Dina Galli è, in questo senso, attrice troppo poco funzionale: tradisce le istanze del testo, ne rompe gli argini, ne trasforma in parte la sostanza, impone la sua comicità personale sul meccanismo comico complessivo e, usando anche testi di questo tipo come semplici canovacci33, afferma l’autono mia invadente e poco prevedibile dell’attore su quella della scrittura drammatica. Infine – e diremmo soprattutto – fa la caricatura del personaggio che recita anche attingendo alle sue radici dialettali, mette in discussione l’assolutezza dell’universo rappresentato, incrina la quarta parete e libera il personaggio dalla morsa dell’intreccio.
32Quand’anche l’attrice esce dalle consuete note comiche per toccare «delicate note umane», rimane comunque lon tana dall’espressione istintiva di un’interiorità e appare, piuttosto, ancora una volta figlia del caffè concerto. Così accade per esempio nella recita di Zazà che
mimò con la consueta, grandissima bravura [... ]. La passione non sopraffece mai in lei il temperamento: ella non divenne mai, come altre attrici (per es. la Reiter di tempo addietro) soltanto fiamma; restò sempre Zazà. Il che può certamente essere ed è, in certo senso, un motivo di lode per lei: soltanto, le note umane di ardore e di dolore parvero restare un poco soffocate, nei momenti più drammatici, nella solita cifra che, come abbiamo illustrato parecchie volte, ha appunto i caratteri del teatro di varietà34.
33Una cifra che, se d’Amico critica con determinazione, costituisce invece per Gobetti uno dei pochi tratti positivi che la Galli avrebbe conservato dopo il suo nefasto sodalizio con Guasti che l’avrebbe condotta a soffocare tutte le sue doti più fresche e autentiche irrigidendole in una statica maniera. L’«inappagata irrequietudine, la vivacità ironica, l’incertezza meditatrice», che avrebbero caratterizzato la recitazione dell’attrice nei primi anni, sarebbero state infatti gradualmente banalizzate per accondiscendere al gusto del pubblico e quel «recitare con ansia le commedie allegre come cose difficili e serie o addirittura come oasi poetiche» si sarebbe irrigidito in schemi falsi e vuoti.
Eppure quando ella si sforza di essere qualcosa e non il gioco del pubblico, l’antica efficacia ritorna: pensate com’è gustosa e misurata e armonica la satira del teatro di varietà che ella offre con superiore spensieratezza nel Teodoro e soci, pensate come sono vive (anche se troppo statiche e unilaterali) certe sue macchiette35.
34I tratti che avrebbero sempre reso la recitazione di Dina Galli interessante e peculiare sarebbero dunque, secondo Gobetti, da ricondurre a una parentela dell’attrice con il teatro di varietà, al gusto della macchietta, all’insofferenza per la chiusura della recitazione all’interno dei confini della rappresentazione di un’individualità psicologica e, inoltre, a quel tocco d’incertezza che già Varaldo aveva colto tanti anni prima36. Unita a un innato senso della misura, quell’incertezza avrebbe arricchito la recitazione della Galli allontanandola, attraverso la manifestazione del dubbio, dall’esagerazione e dalla semplificazione di una troppo sfacciata sicurezza e restituendo invece, a quel suo andare «a soggetto», l’imprevedibilità del gioco che non è ripetibile e che vive nel e del tempo presente della recita. Il nodo della questione e della polemica per Gobetti consisterebbe proprio nel progressivo scomparire di questo tratto dalla recitazione della Galli matura, a vantaggio di un percorso artistico che, assoggettato ai gusti del pubblico, ridurrebbe tutto a maniera; viceversa ciò che resterebbe di interessante per il critico – e che invece come si è detto è motivo dell’acuirsi della polemica di d’Amico – sarebbe proprio il permanere di quegli elementi che, ancora, fanno riferimento alla matrice del teatro di varietà.
1.3. L’atmosfera di famigliarità
35Facciamo infine ritorno a quell’«atmosfera di famigliarità», di cui d’Amico aveva scritto con tono decisamente polemico nel 1915, e mettiamola in relazione all’immagine che Émile Zola trattando del vaudeville molti anni prima aveva usato per indicare il particolare tipo di rapporto fra palco e platea che quel genere di teatro richiedeva.
Di un capolavoro il pubblico diffida sempre un po’: teme che questo non tenga conto di lui. Ma davanti a Niniche,è come uno di quei ragazzi che trovano una pozza di acqua sporca, e vi guazzano dentro a proprio agio, come se fossero a casa loro37.
36Dal vaudeville francese di fine Ottocento al teatro pochadistico italiano uno dei più significativi elementi di continuità consiste forse proprio in ciò di cui scrive Zola: quel senso di sicurezza nel divertimento che conferma nelle proprie certezze, che usa il linguaggio della consuetudine e che si limita alla variazione nella combinazione di intrecci conosciuti; quel senso «famigliarità» con ciò che già è noto e che ripercorre i tracciati già definititi e spesso stereotipati.
37A ciò si aggiungano, nel caso di Dina Galli, ancora due elementi: da un lato la fluidità del meccanismo spettacolare dovuto al particolare affiatamento della sua compagnia38 e dall’altro lo stile di recitazione dell’attrice che, attingendo alla tradizione della comicità popolare e del teatro di varietà, se mina la quarta parete, stabilisce per altra via un rapporto di grande prossimità fra palcoscenico e platea.
38A rendere più complesso il discorso, d’Amico fa poi un accenno alle «piccole dive» del teatro. Implicitamente, il critico chiama qui in causa il più ampio fenomeno del divismo femminile italiano che, esploso negli anni che precedono la prima grande guerra, molto deve alla diffusione del cinematografo e all’influenza che il nuovo mezzo ebbe sul processo di trasformazione della femme fatale di ottocentesca memoria nella moderna «diva» da schermo.
39Manifestazione di costume più che non di arte, il fenomeno del divismo italiano, se da un lato segna una maggiore valorizzazione dell’attore all’interno del film, dall’altro indica la strada di un felice connubio fra l’industria del cinema e la costruzione di miti che appaghino desideri e aspirazioni di una platea piccolo borghese. Consacrata non solo nel genere storico ma anche da quello così definito del «cinema in frac»39, la diva attraverso «la costruzione di una galleria di moduli, di una serie di stereotipi che, con leggere varianti, possono riprodursi di film in film»40 crea un’atmosfera di prossimità con lo spettatore che trova lì la conferma delle proprie proiezioni fantastiche.
40Dina Galli, che certamente non può competere con la bellezza della Bertini o della Borelli e che dal cinema rimarrà a lungo distante, sarebbe per d’Amico una «piccola diva» perché, non diversamente dalle altre, si sarebbe costruita un’immagine e una maniera su cui fondare la propria identità d’artista e su cui guadagnarsi il consenso del pubblico: immagine artificiale e artificiosa, sempre uguale a se stessa, fatta di gesti, acconciature, trucco e abiti che si riassumono in una formula stereotipata, nel senso di prevedibile perché prevista, famigliare perché immediatamente riconoscibile, priva di dettagli spiazzanti e perturbanti. Insomma il precipitato del già detto, già saputo, già visto, del cliché e della rarefazione di ogni tensione cognitiva41.
41Eppure c’è chi, come Eugenio Bertuetti, sostiene che a partire dalla seconda metà degli anni Venti, quella maniera avrebbe trovato una via per superare se stessa, lacerare la veste dello stereotipo e infrangere l’ovvietà del suo contenuto: senza mutare il proprio corpo «(due linee, quattro angoli acuti, mani bizantine e un vasto stupore nello sguardo)», né gesti, né intonazioni, la Galli li avrebbe resi tuttavia «più marcati, meglio disegnati in quello appunto che era il loro lato caricaturale, beffardo, pagliaccesco»; la sua recitazione si sarebbe fatta più consapevolmente critica, tanto da far prevedere per il futuro un possibile incontro con il «grottesco di 173 Pirandello» o la «fantasia di Bontempelli»42. L’incontro non avverrà, ma l’indicazione di Bertuetti resta comunque preziosa ed è lì a indicare una strada possibile e, soprattutto, la realtà di una recitazione che, pur rasentando il pericolo della semplificazione manieristica e autoreferenziale, sarebbe invece riuscita a esprimere un’autentica riflessione sul linguaggio usato proprio attraverso l’approfondimento anche straniante di alcuni suoi dettagli stilistici. La vivacità ironica, l’incertezza meditatrice, l’inappagata irrequietudine ricordati da Gobetti, sembrano tradursi ora in una maggiore consapevolezza dell’attrice matura rispetto al proprio linguaggio recitativo, in un’accentuazione vigile dei suoi tratti stilistici, in una sfida al rischio della maniera: un modo diverso insomma per articolare la poetica della caricatura continua e straniata che fu la sua nota peculiare fin da principio.
42A molti anni di distanza dal suo primo intervento, da cui la nostra riflessione ha preso l’avvio, d’Amico si ricrederà in parte e riconoscerà innanzitutto «l’autenticità della verve» della Galli, la sua vena tanto «spiritata e pepata e indiavolata» da non trovare concorrenti in tutta Europa, implicitamente ammettendo, come primo se non unico criterio di valutazione di un’attrice comica, non la coerenza o la profondità della sua poetica, bensì la forza comunicativa della sua recitazione. Solo in alcuni rari momenti, i migliori, la comicità della Galli sarebbe infatti arrivata «all’umorismo vero: forzando i limiti dei suoi poveri testi, si colorava di patetico, si confessava sentimento, trepidazione, sbigottimento, pudore»: d’Amico non lo dice, ma forse solo allora si sarebbe potuto parlare di arte.
Ma anche in altre parti, comprese quelle di donna matura o di vegliarda, anche parodiando le vecchie dive della rivista, la sua vena rimase, fino all’ultimo, così spiritata e pepata e indiavolata, da far concludere che, di tutte le nostre attrici comiche, la più giovine era lei, Dina43.
2. Le «maschere» di Petrolini
Io, nella mia vita, non ho fabbricato che «giocarelli» per fare divertire la gente. E sempre soffrendo un sacco di piacere ho fabbricato tante scemenzuole e «giocarelli»44.
2.1. La gioia di recitare
43D’Amico rivolge a Petrolini un’attenzione tardiva, laddove invece fin dal 1910 gran parte della critica ha già iniziato a riconoscerlo come uno degli artisti più significativi della scena italiana. Scarso interesse rivolge anche al Varietà, una forma di spettacolo che, nella prospettiva da lui assunta, pagherebbe l’autonomia dal testo drammatico con la perdita del principale valore d’arte accordato al teatro e con esso anche dell’unico modo per non spegnersi immediatamente nell’effimero del tempo della recita.
44Anche quando, a partire dal 1922, Fregoli prima e Petrolini poi costringono d’Amico a un confronto diretto con quella realtà45, anche allora la riflessione del critico non supera i confini delle figure dei due artisti evitando così di confrontarsi con la specificità di questo teatro, con la sua tradizione, la sua storia e le trasformazioni che va subendo in quegli anni. Nelle pagine critiche di d’Amico, Petrolini e Fregoli sono infatti lì a indicare solo le punte di un mondo sommerso, il suo affiorare alla superficie (che si misura soprattutto nel raggiungimento di una notorietà tale da concedere ai due artisti l’accesso ai palcoscenici di teatri riservati alla prosa o da occupare le colonne della cronaca teatrale di alcune importanti testate di giornale). Ma quale sia l’origine di quegli attori, quale la tradizione a cui appartengono, quale il contesto artistico che li fece maturare, tutto resta insondato e la storia, ancora una volta, si propone come il susseguirsi di una serie di individualità artistiche, più o meno importanti, ma sempre e comunque isolate.

Tavola 13. Ettore Petrolini in Fortunello in una caricatura di Petrolini
«Il Dramma», 15 luglio 1936
45Nel 1922 in un articolo dedicato a Fregoli prima e in uno lungo riservato al solo Petrolini poi, d’Amico ci dà la prima testimonianza del suo incontro con l’attore.
Interessante specialmente notare, poiché Fregoli è romanissimo, quanto ci sia di affine tra lui e il romanaccio Petrolini, e che cosa debba a lui quest’ultimo, e che cosa si salvi di tutti e due, dell’ingenuo Leopoldo e del ruvidissimo Ettore, nel modo d’intendere il ridicolo del teatro tragico e melodrammatico, nell’arte di smontare il sublime con un passo di più, con una nota tenuta un secondo di più, con un grido prolungato d’un attimo o mutato improvvisamente di tono46.
46Se il confronto Fregoli-Petrolini permette a d’Amico di cogliere le affinità fra i due attori, è d’altra parte sempre quel confronto a guidarlo nel focalizzare la loro differenza radicale che, sintetizzata in due aggettivi densi di significato, mette in luce un elemento di centrale importanza nella poetica di Petrolini: la ruvidezza, che spicca in relazione all’ingenuità di Fregoli, è il modo particolare in cui il comico esprime l’arte di smontare il sublime che, in parte proprio in virtù di quella ruvidezza, si potrebbe indicare – ma d’Amico sintomaticamente non lo fa – come grottesco47. A rendere più chiaro il discorso, ricordiamo ancora ciò che il critico nel 1937, in un saggio dedicato a Fregoli, dopo aver riportato la frase appena citata aggiungerà di seguito: «Ma Petrolini, oltre a conoscere il varietà, aveva annusato anche la mala vita; e aveva altra tempra; e viveva in altri tempi; e i tre o quattro lustri che lo dividevano da Fregoli davano alla sua beffa tutt’altra ferocia e potenza»48. Dunque ruvidezza, ferocia e coscienza della realtà (anche della «mala vita»).
47Di contro all’ingenuità di chi fu uno straordinario pantomimo, ma restò «facile e bonario»49, la diversità di Petrolini si fa qui chiara proprio in relazione al modo particolare con cui il comico affronta ed esprime «il ridicolo del teatro tragico e melodrammatico». Una diversità questa che d’Amico non rinnegherà mai, ma alla quale sembrerà non dare forse il dovuto rilievo, quasi che quell’«arte di smontare il sublime» fosse uno degli aspetti della recitazione di Petrolini e non, come altri invece già allora sottolinearono, la ragione poetica prima della sua arte. Accade così che nell’articolo del 20 giugno 1922 interamente dedicato a Petrolini d’Amico non riprenda il discorso avviato ma ponga invece in primo piano quella «gioia di recitare», intesa come talento scenico, frutto dell’istinto più che non del genio cosciente di sé e del contesto (teatrale e non) in cui opera, che fu forse l’aspetto di Petrolini da lui più amato.
Petrolini ha in comune con pochissimi attori (con Musco, per esempio) la qualità in cui risiede il principal segreto del gusto col quale lo si ascolta sempre, qualunque scempiaggine dica: la gioia di recitare.
È questa gioia, è questo sentirsi veramente in casa sua soltanto sul palcoscenico, questo avvertire la docilità e anche la servilità dal pubblico, questo sapersi in possesso d’una vena a cui può dare sfogo con una libertà che nove volte su dieci divien licenza, questa gioia tranquilla e soddisfatta, quella che lo rende così felice e sicuro50.
48Fa ritorno qui, sebbene in un contesto molto diverso rispetto alle riflessioni su Maria Melato, la questione del talento istintivo e del suo rapporto con la libertà: come le doti naturali e istintivamente passionali della Melato se non controllate e non educate – da altri – non possono superare il piano dell’espressione, forse intensa, ma confusa; così il talento di Petrolini, proprio perché spesso non contenuto da un “giusto” senso del limite, facilmente – nove volte su dieci – scade in volgarità e in superficiale licenza. Eppure proprio quel sicuro e quasi sfrontato modo di vivere la sua naturale e istintiva ricchezza di talenti, rende quest’attore irresistibile.
49Il discorso sul limite e il suo rapporto con il talento da un lato e quello sulla straordinaria presenza scenica di Petrolini e la sua «gioia di recitare» dall’altro sono due aspetti centrali della riflessione di d’Amico che è a questo punto necessario affrontare distintamente.
50Quanto alla prima questione, si sottolinei innanzitutto ch’essa viene posta all’interno della dicotomia fra talento istintivo e interprete d’eccezionale efficacia e non all’interno di quella fra talento – che si esprime nel regno dell’apparente libertà – e artista – che elabora il proprio talento in relazione al contesto in cui opera e che, accolto coscientemente il limite, ne fa il fondamento del proprio stile. Il limite, nel discorso di d’Amico, sembra avere poco a che vedere con la costruzione consapevole di uno stile artistico e sembra al contrario indicare solo un rigido confine entro il quale l’attore/interprete si deve muovere. Un limite che è innanzitutto la parola – specchio dell’anima – a suggerire e che è il testo scritto, che in quanto scritto è previsto, a organizzare coerentemente. Partendo da questa prospettiva d’Amico può così sostenere:
[L]a vena di Petrolini è disciplinata, contenuta dalla necessità d’interpretare una commedia, diciamo così regolare, di disegnare una macchietta o un carattere secondo le parole più o meno rigidamente stabilite da un autore – che talvolta può essere lo stesso Petrolini – nello svolgersi d’una vicenda scenica dalle cui rotaie non si può uscir fuori, accade il piccolo miracolo dell’arte, per cui la regola infrena, scevera, polisce, condensa51.
51Il limite è regola e la regola è la parola scritta. E non importa che a definirla sia talvolta Petrolini stesso: l’essenziale è che ci sia, che possa fungere da argine e, soprattutto, – d’Amico non lo dice ma è sottointeso – che costruisca una trama o se non altro un personaggio il quale, per quanto rozzamente sbozzato, si faccia portatore di una pur elementare interiorità psicologica. Quando al contrario prende il sopravvento il Petrolini delle parodie, del non-sense e delle filastrocche, il limite e la regola facilmente sfumano per lasciare il posto all’«illusione della satira» dietro la quale si celano semplicemente «stupidaggini»52. Senza un testo scritto che garantisca l’organicità e la logicità della struttura di ciò che viene recitato, dovrebbe infatti intervenire qualcos’altro a definire i limiti entro cui l’attore si può muovere, un limite diverso e, se è possibile, una nuova regola: il senso della misura. Gli eccessi d’idiozia di Petrolini saranno invece fuori della misura a cui d’Amico pensa, fuori del buon senso comune – che è proprio ciò contro cui quell’idiozia si scaglia –, fuori da quei limiti che l’esistente, e d’Amico con esso, in forza della consuetudine, vorrebbero rendere naturali.
Ah se la fantasia dei miei critici fosse più fertile e meno volgare, potrebbe fare di me l’eroe inconcludente del ridicolo, il prototipo della nullità fatta persona e attore, il cavatappi dell’ilarità, il giullare della gioia senza scopo53.
52E d’Amico, che giustamente sottolinea quella gioia di recitare su cui torneremo in seguito, non coglie invece il senso di quell’«idiozia sublime», «sola fuga possibile da questo mondo troppo logico»54 che alla gioia è intimamente legata nel suo paradossale rifiuto del «dolorismo», nella sua denuncia dell’ipocrisia e nella difesa di una poetica del «controdolore», per usare una definizione di Palazzeschi55 in questo senso molto vicino a Petrolini. A conferma di ciò, ricordiamo ciò che nel 191656 Pietro Pancrazi aveva scritto individuando una linea di continuità fra Govoni, Palazzeschi e Petrolini e cogliendo qualche anno più tardi nell’attore «forse l’ultimo estremo momento»57 dell’umorismo, quello della completa ed estrema cretineria accompagnata da un’esatta coscienza critica della propria posizione d’artista. In questo senso la filastrocca «ho comprato i salamini e me ne vanto» è forse l’espressione più limpida di quella «tragicomica sfida al senso comune» che, secondo ciò che Petrolini amava definire il suo «sistema filosofico» che «non ammette contraddizioni, non ammette repliche: t’inchioda lì amici e nemici», è una lotta non contro tutti bensì «contro il senso comune di cui ho il buon senso d’infischiarmi»58.
53Annullata invece quella che Ettore Romagnoli in un famoso intervento pubblicato sull’«Ambrosiano» in due puntate due anni dopo definirà «acutezza ipercritica», si perde la forza corrosiva delle recite di Petrolini, il senso del suo «furor grottesco» e l’estrema «serietà» non solo di «quelle immani caricature che smascherano e scorbacchiano il carattere melodrammatico ed oleografico di tante figure adorate dalla sensibilità borghese», ma anche di quei tipi di cui invano si cercherebbe l’originale nella realtà, perché «non hanno umanità», sebbene abbiano «incoercibile vita» – «vita negativa, demoniaca, assurda»59: l’eroe di Salamini, Teopompo Becchi, Fortunello.
54La loro comicità apparentemente «meccanica», che «sfugge a ogni controllo», che segue una «logica alogica», non necessita della trama, né del personaggio, né di un legame di verosimiglianza con la vita reale, ma, sfruttando la struttura libera che è propria del varietà, si fa invece direttamente sperimentazione linguistica, in questo avvicinandosi all’operazione creativa della lirica.
Non è vero che non voglion dire,
vogliono dire qualcosa.
Vogliono dire …
come quando uno si mette a cantare
Senza saper le parole60.
55Il riso, liberato qui da qualunque riferimento diretto alla realtà e da qualunque volontà di significare ma certo non da quella di avere un senso, esprime attraverso un «gioco sospeso tra il disperato e il comico, tra il doloroso e l’idiota, tra la risata contro il pubblico e la risata contro se stesso»61 la lotta contro un mondo e un modo di fare teatro con la radicalità di chi arriva a capovolgere la pretesa stessa di significare e di rendersi comprensibile in un «rovesciamento terapeutico di ciò che patologicamente sta alla rovescia»62. Come Palazzeschi anche Petrolini «sovverte e nega impietosamente gli strumenti stessi della sua arte e insieme rovescia e profana ora con crudele e grottesca ora con lieve e ilare fantasia i miti e i valori di cui l’agonizzante cultura romantico-borghese si affanna a tutelare la fittizia sacralità»63. Ma, avverte una voce, «[i]l divertimento gli costerà caro / Gli daranno del somaro»64: come per l’interlocutore conformista in Lasciatemi divertire così per d’Amico le «piccole corbellerie» del poeta e le «scemenzuole» di Petrolini rappresentano un’idiozia troppo pericolosa per essere ammessa nel regno della coscienza e, come vedremo, verranno rubricate all’interno del regno dell’istinto.
56E torniamo ora alla gioia di recitare. Tratto raramente sot tolineato dalla critica e che d’Amico ha invece il merito di mettere in rilievo, la gioia di recitare sembra indicare qualcosa di molto semplice e, insieme, per nulla scontato: il fatto cioè che l’attore manifesti, con una forza che si fa irresistibile per lo spettatore, la passione che lo muove e insieme il piacere autentico per il gioco che lo vede protagonista. Non una condizione psicologica dell’attore o tanto meno dei singoli spet tatori; non solo lo straordinario fascino scenico, l’eccezionale carisma che Petrolini ebbe più di qualunque altro attore a lui contemporaneo65; ma neppure soltanto quella sicurezza con cui, come d’Amico specifica, il comico costruisce il suo gioco. Quella gioia, infatti, sembra indicare anche dialetticamente l’esperienza che, liquidando ogni forma di appagamento psicologico, spoglia lo spettatore del suo piccolo io privato per farlo sprofondare in una logica sconosciuta. La gioia come spreco totale di sé che costringe il pubblico a intravedere per un attimo la verità: che quella gioia cioè non ha posto nel mondo dell’efficienza, della produttività e dall’autoconservazione: «Tutto sbagliato, tutto un mondo da rifare». E si può richiamare qui nuovamente Aldo Palazzeschi e con lui quel modo di lanciare una sfida radicale al mondo adulto, integrato, efficiente, la «scelta del gioco in una società fondata sul lavoro, del principio di piacere in un mondo governato dalla repressione»66. Come in Palazzeschi, anche in Petrolini, la desublimazione stilistica è dunque il frutto di un’istanza polemica contro il sublime (da quello magniloquente del grande attore ottocentesco, a quello decadente e rugger-dannunziano, a quello dello stile floreale lidaborelliano), ma esprime anche un’autentica esigenza di puro divertimento, sprezzante di ogni contenuto definito serio dal mondo dell’alta cultura.
57Ancora una volta d’Amico intuisce, ma solo fino a un certo punto: non coglie quanto quella gioia sia una forma di pienezza che non è mai completa e appagata perché sempre consapevole di sé, vicina più a quel «soffrire un sacco di piacere» di cui parla Chicchignola al termine della vicenda che lo vede protagonista che non a una beata incoscienza. Come Chicchignola, infatti, anche Petrolini non fa altro che fabbricare «scemenzuole e giocarelli» e come lui «sempre padrone della sua volontà che guida secondo gli eventi», «non riesce a conquistare la desiderata felicità» e conclude «tutto con quella apparente gaiezza che in sostanza non è altro che una feroce ironia»67. La gioia di recitare e la feroce ironia non sono che i due volti speculari di una poetica e uno stile che anche in questo si rivelano pienamente grotteschi.
2.2. «L’arte di Petrolini è una cosa di cui lui, Petrolini, non deve discorrere»
58Dopo i primi brevi articoli di d’Amico del 1922 e prima ancora della recensione sul Medico per forza, è con la pubblicazione di Abbasso Petrolini68 e con la polemica scatenatasi in quell’occasione, che il critico e l’attore iniziano un reale e diretto confronto. L’occasione è fornita da un articolo di d’Amico.
S’è qualcuno immaginato mai al mondo un essere meno cosciente e riflesso, più greggio e più istintivo di Petrolini? Non è Petrolini, per eccellenza, il figlio della tradizione delle vecchie maschere più o meno improvvisatrici, che venendo quotidianamente a tu per tu col pubblico butta giù alla brava i suoi lazzi dal palcoscenico?69
59È vero che, ammette d’Amico, gran parte di ciò che appare frutto d’improvvisazione è in realtà il «frutto di ricerche, tentativi, prove e riprove»; ma come il piano della tecnica non è quello dell’arte, così anche la consapevolezza del mestiere non è la coscienza critica del proprio fare artistico e, se della prima bisogna tacere (si tratta appunto dei trucchi del mestiere), della seconda, con discrezione, qualche attore, eccezionalmente, può parlare.
60Le dichiarazioni di poetica sono concesse a Eleonora Duse ma, ovviamente, a «Petrolini no». E invece in Abbasso Petrolini
il nostro Ettore non s’è contentato di riprodurre i giudizi pronunciati da critici di tutti i calibri sul conto suo; ma s’è messo a discutere, sul serio, della sua arte, e del suo significato, e dei suoi imitatori, eccetera; con un piglio tale che, a un certo punto ci ha preso il terrore di trovare anche qui dentro il «problema centrale»70.
61Petrolini essere «greggio e istintivo», moderna maschera, figlia di quella tradizione che il critico vuole interrotta nel teatro di prosa, ma che è disposto a tollerare nel teatro di varietà, dotato dell’autenticità propria dell’istintivo, ha esagerato ed è uscito fuori dal campo che gli compete: si è tolto la maschera per filosofeggiare, per spiegare, per manifestare le sue intenzioni. Atto non lecito.
62Il 13 gennaio Petrolini risponde a d’Amico con una lettera che viene pubblicata con una sola censura sull’«Idea nazionale» il 17 gennaio. La riportiamo nella sua versione integrale.
1923, 13 gennaio, Bergamo.
Carissimo D’Amico
Il trovarobe m’ha fatto una bella ficozza in testa... È l’eterno rancore del trovarobe per il capocomico.
Ma io nu la pianto – con tutto che per ora m’ha fregato in pieno (perdono per l’espressione greggia) voglio dire le solite due parole.
Il trovarobe ha il privilegio di non conoscermi perfettamente – come Pancrazi –. Se il trovarobe parlasse ventisette minuti con me, mi chiederebbe perdono e mi regalerebbe una sigaretta! Io esagero – ma il trovarobe è proprio il vero figlio... (niente paura) dell’esagerazione fatta persona. Non si metta a piangere per questo, il trovarobe, perché l’esagerazione è internazionale! Mi affido al mio solito istinto e faccio (per l’ultima volta) la sintesi dell’esagerazione. L’esagerazione è il nostro peccato originale, il nostro difetto radicale, il principio dei nostri vizi, la causa principale della nostra abbondante prosopopea, la sorgente di tutti i nostri errori, la causa di molti nostri dispiaceri, se non ci rende cattivi, vendicativi, pettegoli, violenti e infelici, essa ci rende per lo meno ridicoli. Niente è più freddo dell’esagerazione. Però l’esagerazione è nata insieme a me e al trovarobe – questa è l’unica mia consolazione!
vado bene?
Anche io parlando con il critico x o con il cronista y, ho provato feroci e comiche delusioni, ma ho poi pensato che a questo mondo tutti abbiamo il sacrosanto diritto di essere imbecilli, vanitosi, inconcludenti e maligni.
vado bene?
Se il trovarobe avesse letto la pagina 228 del mio zibaldone «Abbasso Petrolini», avrebbe constatato che più sinceri di così si muore!
Ora dato il valore della ficozza, chiudo lo sportello del pensiero e da oggi in poi sarò amorfo in tutto. Sia fatta la volontà del trovarobe – lui può parlare di me, ed io non posso parlare né di me né di lui! Perché? E qui si può rispondere con quel magico (perché sì)
Ad ogni modo l’articolo pur definendomi come una specie di cane da caccia mi servirà egualmente, io conservo tutto, tutto fa. Anzi lo farò musicare e quando sarò a Roma me lo vedrà rappresentato, faccio bene?
Tanti saluti da mia madre, vecchia tradizione delle maschere, da mio padre comico dell’Arte, dai miei fratelli Gianduia e Brighella, dai miei zii Pantalone e Capitan Spaventa, e da tutti quegli altri parenti che m’hanno fatto conoscere i miei critici. W sempre Landr´ú´. E chi se ne frega della Duse71.
Una stretta di mano col piacere di presto rivederci mi creda sincero
Ettore Petrolini72.
Brescia Teatro Sociale.
63La censura, ovviamente, riguarda il «chi se ne frega della Duse» ridotto a «chi se ne … della Duse», dove non è chiaro se la soppressione del termine si debba a un moralismo puritano oppure ad un atteggiamento di tutela verso l’intoccabile Duse.
64Segue il commento di d’Amico: «“Viva la faccia!” come dice Musco di ritorno a Roma, nell’Aria del Continente. Que sto sì che è del Petrolini autentico, genuino e pastoso»73. Stupisce in queste poche righe il tono tanto entusiasta del critico e, ancor più, il riconoscimento di autenticità tributato a un Petrolini nei panni di scrittore che tratta problematiche legate al suo fare artistico. Abbasso Petrolini è operazione non lecita; la lettera, che pure è un duro attacco contro d’Amico e contemporaneamente, per chi ha orecchi per intendere, una difesa di poetica, è invece lecita. Anzi: d’Amico reagi sce con entusiasmo, accoglie quelle parole come legittime e certamente non per ciò che vogliono significare (perché il contenuto della lettera non può che trovarlo in disaccordo), quanto per il modo in cui sono espresse. E il modo è, come sul palcoscenico, quello della maschera e non, come in Ab basso Petrolini, quello del critico.
65Rivelando in questo una certa affinità con la riflessione estetica di Benedetto Croce – per altri aspetti invece duramente criticato –, d’Amico nega il momento riflessivo quale elemento della dialettica interna all’opera artistica: la poesia (anche quella d’attore) deve essere tutelata nella sua purezza lirica e la riflessione bandita in quanto elemento corruttore dell’organicità dell’arte; un discorso questo che vale tanto per Petrolini quanto, come è evidente da quel cenno al «problema centrale», per Pirandello. Pur nella distanza dei due casi infatti, d’Amico sembra accomunarli proprio in forza del ruolo che la riflessione gioca nelle loro poetiche che, non dimentichiamolo, frequentano entrambe, pur in modi diversi, il grottesco: una riflessione che, come aveva scritto Pirandello, si insinua fra i sentimenti, ne smonta i congegni e ne scarica la molla74; che gioca di contrappunto con quell’umanità che il critico vorrebbe invece preservare nella sua purezza e compattezza o con quella maschera che vorrebbe mantenere entro i confini di un istintività serena e genuina.
[C]he non ce lo dica, che non ci faccia nemmeno saper bene le intenzioni che aveva quando buttò là questo o quel gorgheggio; abbandoni agli spettatori il compito di fare il resto, e lavorare ognuno per conto suo75.
66Alla maschera il compito di esprimersi con tutta la vitalità dell’istinto, al colto spettatore invece quello di riflettere, di sezionare l’opera e di scegliere ciò che è opportuno e giusto e ciò che invece deve essere rubricato come stupidaggine o volgarità perché fuori dai limiti. Guardando da questa prospettiva, d’Amico si sente legittimato a censurare la parola «frega» e nello stesso tempo può tollerare, svuotandoli di senso, alcuni altri passaggi nodali della lettera di Petrolini: che cosa sono infatti quell’elogio dell’esagerazione se non una polemica contro la misura piccolo borghese e quel cenno al «magico perché sì» se non una difesa della logica paradossale contro il buon senso d’amichiano? Eppure d’Amico sorvola, in nome della maschera. E non si rende conto che proprio dopo quei saluti «da mia madre, vecchia tradizione delle maschere, da mio padre comico dell’Arte, dai miei fratelli Gianduia e Brighella, dai miei zii Pantalone e Capitan Spaventa, e da tutti quegli altri parenti che m’hanno fatto conoscere i miei critici», accostare il nome della divina Duse a quel famoso Landrù che, accusato di aver ucciso e poi bruciato le cinque donne che aveva sposato, nonostante le prove schiaccianti contro di lui aveva continuato impassibile e ironico a negare la propria colpevolezza fino alla condanna a morte nel 1919, non è una semplice provocazione fine a se stessa, né solamente uno sberleffo contro la seriosità del dusismo in quegli anni imperante. Petrolini ha il coraggio di nominare e plaudire ad una figura che, citata di seguito a tutte quelle che i critici indicano come la sua famiglia d’origine, sembra quasi proseguirne l’elenco, ma, proseguendonlo, ne interrompe tuttavia l’apparente festosa allegria e lo spirito buffonesco. Landrù maschera moderna, cruda e spietata è il segno di una frattura ma, insieme, indica anche la strada per il recupero di quell’elemento carnevalesco e nero che, dopo aver informato di sé parte della tradizione delle maschere antiche, nel corso del tempo si era perduta, spegnendosi e illanguidendosi la sua memoria in una immagine edulcorata di una buffoneria popolare del tutto pacificante.
2.3. Petrolini interprete del Medico per forza
67Nel maggio del 1923 Petrolini è a Roma al teatro Manzoni dove non solo ottiene un enorme successo di pubblico, ma convince anche la critica più diffidente che è accorsa al teatro forse perché attratta, come suggerisce Martini, dal «duplice richiamo, molieriano e pirandelliano»76: il repertorio prevede infatti Agro al limone (adattamento da Lumìe di Sicilia) e Il medico per forza.
68Scarnificato nella trama e nei dialoghi, ridotto a un solo atto in due quadri, Le médicin malgré lui di Molière diviene per Petrolini uno straordinario canovaccio su cui tessere la trama dei suoi lazzi: il risultato, da alcuni criticato a causa dell’irriverenza nei confronti del testo originario, è per altri una «trasposizione grottesca» capace di animare, ravvivare e rendere moderni «i tre atti del grande comico francese»77, un canovaccio vecchio di due secoli.
69Stranamente d’Amico, sebbene sottolinei qualche «inconveniente» a cui condurrebbe la «lieta sbrigliatezza»78 del comico, è tutto dalla parte di Petrolini: gli interventi e le licenze che l’attore si permette nei confronti della commedia di Molière non paiono inquietarlo affatto. E se la ragione di ciò non è qui ancora chiara, è però sufficiente scorrere le cronache di d’Amico fino al settembre, alla recensione cioè sulla rappresentazione del Tartufo della compagnia di Gustavo Salvini, perché insieme alla posizione del critico nei confronti di Molière si chiarisca anche il suo giudizio sul Medico per forza. «Molière appartiene per eccellenza a quella corrente di “naturalisti” che, credendo alla bontà essenziale della Natura madre, si schierano per essa e per l’istinto contro le costrizioni dei “virtuosi”»79; una corrente che qualche anno più tardi d’Amico definirà «areligiosa se non irreligiosa», la stessa «che occupa per così dire il centro della storia di tanta Commedia, dalle “operette” di Menandro e di Plauto alle “pochades” del tempo nostro; quell’ottimistica indulgenza alla carne contro la Legge, ai giovani contro i vecchi, ai pupilli contro i tutori, agli amanti contro i mariti» alla quale lo scrittore francese avrebbe dato una «giustificazione etica»80. A differenza della lettura del Tartufo proposta proprio nel 1929 da Ramon Fernandez nella sua biografia di Molière – Tartufo e Don Giovanni testimonierebbero l’inizio di una crisi del comico, l’invasione del dubbio e dell’incertezza nell’universo della commedia, l’impossibilità di distinguere tra il vero e il falso e dunque l’impossibilità di un giudizio comico capace di liberare la risata81 –, d’Amico vede nel Tartufo solamente un rozzo e violento attacco contro «il Cristianesimo puro e semplice» e, nell’opera complessiva di Molière, l’espressione di un’«[u]manità paga di sé» e di un «naturalismo ottimista»82, incapace di approfondire la complessità spirituale dell’uomo e di esprimere il senso del mistero che gli appartiene. Più che il Medico per forza è innanzitutto il Tartufo a dover essere messo sotto accusa e proprio per motivi tanto di contenuto (la polemica contro l’ipocrisia religiosa è vista come una battaglia non solo contro i falsi devoti bensì contro tutti i devoti e dunque contro la religione stessa) quanto di stile: quell’«ottimistica indulgenza alla carne contro la Legge» determinerebbe infatti «quel quid di magnificamente concreto ma senza fremiti, di stupendamente definito e perciò in certo senso limitato, di chiarissimo e quindi non mai misterioso»83 che caratterizzerebbe lo stile complessivo di Molière in ogni sua opera.
70Il solo Misantropo, in quanto «commedia, almeno per noi posteri, non comica; la commedia amara, la commedia inquieta, la commedia eroica»84, si sottrarrebbe a questa condanna.
71In tale prospettiva il Medico per forza si riduce a farsa popolare e niente più, farsa tutta incentrata sul motivo della «ciarlataneria dell’ignorante che ammanta la propria vacuità di parole difficili» e sulla «pretesa di violare i pudori femminili in grazia della sua scienza taumaturgica»85.
72Tale Molière, quale Petrolini che avrebbe «ritrovato la propria buffoneria in ogni tratto della farsa, con una bella e sana e colorita facilità»86. Nulla nell’articolo di d’Amico rimanda a quella «grinta lustra e arcigna e matta: una alle gria aspra, schiamazzante, straripante e aggressiva che sapeva di scherno feroce e di burla puerile»87 che invece Renato Simoni aveva colto nella serata milanese. Nulla di «quella grande forza di grottesco» e di «quelle grida in falsetto aggiustate per contrappunto, nella penultima scena, alle grida di protesta del padre Geronte» o di quell’«umore beffardo» che Petrolini avrebbe dato «alla musica stessa» secondo il critico del «Secolo»88. Al contrario una lieta sbrigliatezza; una recitazione la cui istintività e allegria ben si accompagna con l’ottimismo naturalistico di Molière e il cui atteggiamento irrispettoso dell’integrità del testo non è elemento così grave una volta che la commedia è stata ridimensionata a semplice «scherzo» o «petite bagattelle».

Tavola 17. Ettore Petrolini
E. Petrolini, Benedetto fra le donne, Bologna, Cappelli, 1933
Il bello si è che Petrolini questa farsa di Molière la recita benissimo. E per puro istinto […]. Quello a cui Copeau e i critici francesi sono giunti per riflessione, Petrolini l’ha imbroccato naturalmente, senza sforzo89.
73Eppure, come spesso accade nelle sue cronache, sul finale il tono polemico di d’Amico si inasprisce:
Se nel ridurla così in due quadri, con aggiunta di strofette musicali, Petrolini avesse dato al primo uno scenario meno indecente (creda Petrolini che neppure ai tempi di Molière c’erano delle foreste col tappeto in terra), anche l’esecuzione d’insieme sarebbe stata buona90.
74È sufficiente che d’Amico inserisca qui un periodo ipotetico dell’irrealtà («Se […] l’esecuzione d’insieme sarebbe stata buona») per mettere in discussione il tono delle affermazioni precedenti. A conferma di quanto polemicamente Petrolini rimarcherà a d’Amico ricordando i suoi «articoli tordo sassata, in cui predomina sempre la sassata»91, qui la sassata segue una logica precisa: scenari meno raffazzonati e forse più realistici avrebbero aiutato più che la recitazione di Petrolini, già elogiata, l’esecuzione d’insieme: dei comici e insieme della rappresentazione complessiva. Chiusi attore e drammaturgo entro i confini della farsa, perdonate anche per questo le licenze del primo a discapito del secondo, d’Amico attacca Petrolini in ciò che resiste alla propria logica spettacolare: se in ogni tratto della recita Petrolini sa infatti essere grande come lo fu il comico dell’arte, è poi incapace di inserire tutto questo suo talento all’interno di una ben definita e curata esecuzione d’insieme in cui il senso del limite, il gusto realistico per gli scenari, la coerenza del personaggio e il rapporto con gli altri personaggi si integrino organicamente in un tutto privo di fratture. Comico di eccezionali doti istintive, tanto più se contenute dalla necessità di interpretare, manca a Petrolini la visione d’insieme. Nato come maschera, tale rimarrà.
2.4. Le maschere di Petrolini
75Di maschere e non semplicemente di maschera parla d’Amico, non tanto perché i tipi rappresentati da Petrolini siano molti quanto perché, ed è l’aspetto più importante, due sono secondo il critico i modi in cui si può intendere il termine maschera e Petrolini li frequenterebbe entrambi: ci sono infatti «i tipi comici stilizzati nell’irrigidimento di certe caratteristiche fisse e nella ripetizione di certe formule, che tutti conoscono e riconoscono», il Dottore, Brighella, etc.; ma c’è anche la maschera di Pulcinella, per esempio, che non ha un carattere definito ed è piuttosto simile agli antichi clowns del teatro di Shakespeare, «interpreti generici (e diremmo corali) della folla plebea di un dato paese, delle sue aspirazioni e delle sue debolezze magari delle sue virtù»92.
76Quanto alla prima forma, d’Amico non si discosta di molto da ciò che la critica andava scrivendo allora.
77Più interessante invece la riflessione sulla seconda forma di maschera che il comico frequenterebbe e di cui il critico inizia a scrivere, appunto, suggerendone la peculiarità che la distingue dall’altra, solo a partire dal 1933.
78Da un lato, come definirà con maggiore precisione nel 1936, Petrolini maschera di se stesso non è altro che l’interprete «corale della folla plebea di un dato paese, delle sue aspirazioni e delle sue debolezze e delle sue elementari sensualità (gola, caccia al quattrino) e della sua rassegnazione, della sua vigliaccheria e del suo spirito, perché no?, filosofico, e spesso d’un rozzo popolaresco buon senso, tra credulo e scettico, tra canzonatore e canzonato»93, dove è piuttosto evidente che il proposito di individuare le specificità stilistiche di Petrolini nel suo attingere alla genuinità rozza e semplice del mondo popolare, cela l’intenzione di relegarlo ai margini appunto della raffinatezza intellettuale del mondo dell’alta cultura.
79Dall’altro lato, Petrolini maschera di se stesso è anche – e qui è l’intuizione più acuta di d’Amico – maschera di primo grado che entra ed esce dalla parte che l’altra maschera (quella delle singole macchiette o dei singoli personaggi) prevede, «che si introduce fra i fantocci dell’autore, e si diverte a pigliarli in giro con la loro povera umanità, ed eziando con quella degli spettatori»94. Espressione di un modo di frequentare il linguaggio della scena che si è fatto gesto, voce, intonazione, sguardo, accento, passo, rapporto con il pubblico, infine sintesi di tutto ciò (quell’inconfondibile sintesi) in un’individualità artistica precisa e irripetibile. In altri termini, la maschera di Petrolini è l’essenza del suo stile denudato di qualunque ipoteca rappresentativa, quel basso continuo su cui poi si innestano tutte le altre canzoni e che qua e là, fra un motivo e un altro, sguscia fuori all’improvviso.
[Q]uando Petrolini, ormai allo scoperto e senza più nessun impegno neanche formalmente “obbiettivo”, recitava se stesso […]. Vederlo, dico, entrare in scena sul pretesto d’una “parte” qualsiasi; e nel raccoglier via le battute fornitegli dal suggeritore, rivelarle e variarle e arricchirle e moltiplicarle e deformarle al punto di farne tutt’altra cosa, sostituendo 193 a tutte le parole dell’autore altrettante e più parole sue, e trovando ogni angoletto compreso il meno significativo, in ogni passaggio compreso il più indifferente, lo spunto per un pizzico, un morso, una scottatura, che lasciavano il segno, o facevano il buco95.
80Già nel 1926 e a differenza di quanto era avvenuto tre anni prima, il critico si sofferma con entusiasmo sui famosi “slittamenti” di Petrolini, quelle «trovate estemporanee» con cui «senz’alterare il tono delle sue macchiette: sia che non trovasse di suo gusto la luce del riflettore, sia che si sentisse infastidire dal pianto di uno dei soliti bambini in un palco», sia che qualcuno durante la recita di Gastone gli gridasse «voce!», Petrolini scivolava «improvvisamente e inaspettato nello spirito del pubblico»96 con «un’allusione, una smorfia, un fischietto, una falsa intonazione, un motto ironico, una malignità qualche volta»97: senza uscire mai completamente dalla finzione e cioè mantenendo la maschera di se stesso, il comico strania le sue creazioni, le smonta, ne sospende il gioco, improvvisa, entra in dialogo diretto con il pubblico. Capovolgendo – ma solo apparentemente – la posizione del 1922, d’Amico mostra di apprezzare anche il Petrolini più «anarchico» che arriva a smontare l’ordine interno della recita e con esso le «rotaie» su cui sarebbe dovuta procedere. Nonostante ciò, la forza parodica che muove l’arte del comico resta insondata. Prova ne sia il fatto che Gastone, Amleto e Fortunello vengono troppo rapidamente liquidati come espressioni di «orgiastica imbecillità» il primo, di «labile e inimitabile umorismo» il secondo e di «pagliaccesco acrobatismo»98 il terzo che, se non sono fraintendimenti, certo dicono ancora troppo poco sull’arte di Petrolini.
81Anche quando, anni più tardi – nel 1945 –, d’Amico riporterà testimonianze preziose su alcune recite di Petrolini, qualcosa di essenziale gli scivolerà ancora fra le dita. Ricordiamo, a titolo di esempio, un solo episodio. Una sera, racconta il critico, l’attore «spiegava in scena, a un ignorante che gli aveva domandato chi fosse Paride: “Paride, capiscimi bene, era un uomo bellissimo e affascinantissimo, come chi dicesse un Rodolfo Valentino dell’antichità. Solo che poi Paride morì di morte naturale, mentre Rodolfo Valentino è morto di bellezza!”». E qui continua d’Amico: «l’ironia, come si vede, arriva alla lirica»99. Commento questo esattissimo che tende tuttavia a stemperare la tensione parodica della frase, lo strazio che lì viene espresso per una bellezza tanto volgarizzata nel mondo contemporaneo da non trovare oggi più immagini che la rievochino se non quella di Rodolfo Valentino, misero eroe dei nostri giorni, che lontano da essere il pomo della discordia di una guerra di eroi, è solo l’emblema del vuoto di valori su cui si regge la nostra società; impossibilitato a morire di morte naturale in un mondo in cui nulla è più naturale, non può che morire proprio travolto dal mito che lo aveva reso famoso, soffocato dalla falsa bellezza di cui è stato incoronato in una società che si avvia a divenire la società dell’«estetica», dell’apparenza del bello e del suo mercato. Dietro le parole di Petrolini si sente risuonare l’eco di Gastone, il bell’attore «fotogenico», «convinto di possedere un profilo divino, uno sguardo irresistibile, un sorriso enigmatico e tenero, insomma una bellezza quasi sovrumana»: l’attore «vuoto senza orrore di se stesso».
82Anche lo slittamento, che d’Amico coglie e impara con il tempo ad apprezzare, viene spesso interpretato come mera tecnica della tenuta di scena, come accade, per fare un esempio, nella recensione alla recita dell’Avvocato Bonafede. Attingendo liberamente al Congedo di Renato Simoni, il comico fa del dramma di una madre una «commedia di carattere», il cui protagonista assoluto, l’avvocato Bonafede, rappresenta il tipo dell’«uomo borghese, romano, romanissimo», «coraccione», «debole e a scatti violento»100. Qui, secondo d’Amico, Petrolini si sarebbe servito del testo solo «come di un pretesto, diciamo così, aristofanesco, per una girandola di comicità verbale, frammentaria, violenta e saporita, con una dizione che a volte sembrava una sassaiola»101,
[m]a questo senza curarsi di dare unità alla sua creatura, o tutt’al più costruendola mattone per mattone; e qualche volta addirittura scoprendo (come pare facesse proprio Aristofane) il gioco al pubblico, quasi che la finzione del personaggio gli pesasse, ed egli fosse ansioso di ridiventare Petrolini102.
83Dedicatosi, secondo la lettura di d’Amico, alla prosa per un «bisogno di “organizzarsi” entro forme più vaste e composite»103, Petrolini non sarebbe in grado – qui come altrove – di reggere poi il gioco, tenderebbe sempre a sgusciarne fuori, a slittare fuori dalla finzione rompendone l’organicità e riproponendo ancora una volta la sua maschera «quasi che la finzione del personaggio gli pesasse».
Forse, quand’egli deve costruire un carattere oltre alla cornice dell’atto unico, e allargarne la misura fino ai tre atti, non sempre il respiro gli regge: figlio come accennavo del “varietà”, egli è l’artista moderno, d’impressioni rapide (anche quei famosi “slittamenti” fuor del personaggio, pei quali non vogliamo fargli dispiacere ricordandogli Aristofane, in opere d’un certo stile possono stonare irrimediabilmente)104.
84Lo slittamento, che come pratica della tenuta di scena all’interno di uno spettacolo fondato sulle maschere funziona, che nella logica spettacolare del varietà è accolto come regola strutturale, compromette invece in modo inaccettabile l’unità del personaggio («creatura») previsto nelle recite di drammi in tre o più atti105.
85Soprattutto, compromette ciò che correttamente d’Amico individua come uno dei nodi centrali della poetica di Petrolini e che nel saggio del 1945 viene affrontato più che altrove in modo chiaro ed esaustivo: la questione del vero e del suo rapporto con la finzione.
Petrolini ci teneva assai a essere un riproduttore fedelissimo della “verità” […] creatore di sapide figurette da monologo e di personaggi da breve commedia, fu ossessionato dall’idea di essere “vero” […] la vita vissuta, la “verità di cui Petrolini andava in cerca, non doveva poi esser la fotografica copia di certi lineamenti esteriori; doveva essere il frutto d’un’osservazione così amorosa, d’una così perfetta comunione con l’oggetto rappresentato, da far rinascere quell’oggetto, spontaneamente, dentro l’interprete106.
86D’Amico dimostra qui, con l’aiuto delle parole tratte dai testi scritti dell’attore, di aver colto bene sia la radice del vero di Petrolini, l’osservazione diretta della vita («Vita, sensibilità, naturalezza … Questo è per me il teatro! Io sulla scena porto tutto quello che nella vita ho osservato e rubato. Perché io rubo sempre, ovunque, e a tutti»)107, sia quanto quel vero si distanzi poi da un’immagine fotografica della vita e miri invece a coglierne, a rubarne, il succo («quando studio qualche tipo, spogliandolo dei suoi cenci e della sua povera carne, arrivando fino alla sua anima che egli non conosce, e la rivesto poi a modo mio, di dolore, di scemenza, d’incoscienza o di poesia, allora io mi trucco»)108. Dalla verità intesa come riproduzione dell’esteriorità, all’autenticità intesa come assimilazione del profondo significato del reale, pare che il critico e l’attore si incontrino qui perfettamente.
87Ma poi d’Amico aggiunge la consueta postilla che rapidamente, come si è già sottolineato in altri casi, ridimensiona o capovolge ciò che la precede. «A questa “obiettiva” verità» infatti «Petrolini restava coloritamente, incomparabilmente fedele quando il suo personaggio doveva vivere i dieci o dodici minuti del monologo macchiettistico, o per i venticinque o trenta minuti dell’atto unico»109. Nel caso in cui il lavoro fosse invece più lungo «era difficile che, anche durante la sua recitazione, sotto i tratti di quel personaggio, non riscappasse fuori, qua e là, lui in persona, Petrolini». Il vero è per d’Amico «obbiettivo», ossia verisimile, se è organicamente chiuso all’interno delle regole della finzione del personaggio o della maschera: l’interruzione di quella finzione tramite lo slittamento ne rompe l’unità, la credibilità e dunque la verità, soprattutto se, invece del suo repertorio di macchiette, il comico recita la parte di un personaggio drammatico. È qui evidente che il sospetto che proprio nei giorni in cui Petrolini recitava a Roma L’avvocato Bonafede colpì Alberto Cecchi non sfiorò allora né sfiorerà mai d’Amico:
Come Flaubert, Petrolini – ne abbiamo il sospetto – tende ad esaurire qualsiasi argomento gli venga sotto mano, con il suo parlare tra virgolette, con il suo prendere in giro ogni cosa, arrivarne in fondo, rendere amaro, con le sole parole, con il solo stile, quello che vorrebbe essere dolce e romantico e amoroso110.
88Nei drammi con tre atti come nelle macchiette più proprie del varietà, sembra suggerire Cecchi, lo slittamento ha per Petrolini sempre il medesimo valore: arrivare fino in fondo e capovolgere il gioco all’interno del quale la finzione si inserisce, mostrarne le regole lavorando dall’interno di quel linguaggio, «denunciare l’inautenticità attraverso l’autenticità, senza astrarsi dalla dialettica reale degli eventi del teatro e coinvolgendo in questa dialettica anche gli spettatori […]; l’attualità teatrale non diventa immediatamente spettacolo ma, grazie a Petrolini, spettacolo critico, e la sua arte parla veramente un linguaggio satirico universale»111.
89La «verità» del suo fare teatro consisterà allora proprio in quel «bucherellare a feroci colpi di spillo»112 che ricorda Mario Corsi in uno dei suoi articoli, non solo costruendo le sue macchiette e la sue parodie, ma anche slittando fuori da quelle, mettendo in questione l’autonomia e la finzione stessa del teatro. Con la parodia Petrolini non investe semplicemente e con distacco ora questo (Ruggeri) ora quell’altro (Duse, Pavlova, Zacconi) aspetto del linguaggio della scena, ma, come anche attraverso la sua sublime idiozia, mette in discussione radicale il linguaggio stesso che sta usando nel momento in cui lo usa.
90Ridurre come fa d’Amico tutte le “parodie” di Petrolini a «cose» ch’egli «faceva sottogamba, per scherzo»113 significa ancora una volta, nonostante alcune acute intuizioni, ridimensionare l’opera di quest’attore e porla, dopo averne riconosciuta l’eccezionalità, ai margini del teatro vero dove si esprime la vera poesia, il teatro di prosa.
91In questa prospettiva ha buon gioco d’Amico nel citare a sostegno della sua posizione una lettera inviatagli da Petrolini nel 1933 da Napoli che si conclude così:
Tralascio, perché vedo che prendo una strada troppo seria, e comincio a sentire un tanfigno di retorica, che non si confà al mio spirito fanciullino e alla mia bellissima cravatta di ottima qualità114.
92e, commenta d’Amico «qui c’è la chiave di tutto Petrolini: diffidenza per il tanfigno di retorica»115, come a dire: non mettiamo noi la retorica e la serietà in qualcosa che è straordinario proprio per il suo stare entro i limiti, ora finalmente delineati con precisione, di un giuoco fanciullino. Giuoco di maschere e fra maschere, legittimo perché resta lo scherzo di un «comico» a cui si concede di essere anche «mattatore»116; giuoco di uno spirito fanciullino che smanaccia straordinariamente sul suo teatrino, mentre nella stanza accanto gli adulti si occupano di cose serie.
Notes de bas de page
1 S. d’Amico, Scompare una grande attrice. È morta Dina Galli, «Il tempo del lunedì», 5 marzo 1951.
2 Ibid.
3 s. d’a. [S. d’Amico], Dina, in «L’Idea nazionale», 28 marzo 1915.
4 Ibid.
5 R. Tessari, Teatro italiano del Novecento. Fenomenologie e strutture 1906-1976, Firenze, Le lettere, 1996, p. 11.
6 Ivi, pp. 12-13
7 Il primo clamoroso successo della Galli nel testo di Feydeau fu nell’aprile del 1900 a Bologna.
8 Pes [E. Polese Santarnecchi], A Milano dal 17 al 23 novembre, in «L’Arte drammatica», 24 novembre 1900, p. 1.
9 Ibid.
10 «[D]a quella sera, conobbi la mia strada: dovevo essere l’attrice comica, quella che non piglia la vita sul serio, che ha per divisa il buon umore, che ride e fa ridere»: D. Galli, Come ho imparato a recitare, in «Il Giornale d’Italia», 26 febbraio 1930.
11 «E dalla scuola del grande Ferravilla questa fragile attrice […] ha preso una meravigliosa dote, una dote senza pari, che, unita alla sua plurima versatilità comica, può giungere sino all’ennesimo senza sforzo e senza aridità. Voglio dire del soggetto […]. L’arte sua è notevole appunto perché è improvvisa»: A. Varaldo, Dina Galli, 1905, in Id., Fra viso e belletto. Profili d’attrici e d’attori cit., pp. 104-105.
12 Ibid.
13 s. d’a. [S. d’Amico], Dina cit. Le citazioni successive sono tratte dallo stesso articolo.
14 s. d’a. [S. d’Amico], «La zia d’Honfleur» di Gavault al Valle, in «L’Idea nazionale», 25 aprile 1915.
15 Id., Dina Galli, in «L’Idea nazionale», 24 marzo 1918. Il corsivo è nostro.
16 Ibid.
17 S. d’Amico, Roberto Bracco e «I Pazzi», in «L’Idea nazionale», 11 giugno 1922. I corsivi sono nostri.
18 Ibid.
19 Anche Sergio Tòfano nel suo Teatro all’antica italiano sostiene che i «francesi rimasero sempre i maestri insuperati di questo genere, che richiedeva, oltre a risorse non comuni di comicità, la precisione meticolosa di un orologiaio svizzero, per far funzionare senza incagli quelli che erano puri congegni meccanici, grovigli diabolici di intrighi, equivoci, travestimenti» (ivi, p. 59).
20 s. d’a. [S. d’Amico], Dina Galli cit.
21 M. Ramperti, Galleria dei comici italiani. Dina Galli, in «Commedia», 20 ottobre 1926, p. 7. I corsivi sono nostri.
22 Ivi, pp. 7-8.
23 Ivi, p. 8. «Ella non è che una sensuale, ma una sensuale a fondo triste, piena d’uno spasimo di conoscenza e d’una febbre d’inappagabilità. Il suo desiderio è sempre una forma interrogativa», ibid.
24 s. d’a. [S. d’Amico], Dina Galli cit.
25 A. Gandusio, Cinquant’anni di palcoscenico, Milano, Ceschina, 1959, p. 116. I corsivi sono nostri.
26 F. Bernardelli, Dina Galli, in «La Stampa», 6 marzo 1951.
27 R. Simoni, La Dina è andata via, in «Sipario», marzo 1951, p. 7.
28 E. Bertuetti, Ritratti quasi veri. Dina Galli, in «Il Dramma», 15 marzo 1935, pp. 30-31.
29 S. Tofano, Il teatro all’antica italiana cit., p. 60.
30 S. Bajini, Introduzione, in G. Feydeau, Teatro, I, Adelphi, p. 13.
31 Ivi, p. 34.
32 Ibid.
33 Così Polese commenta all’indomani della prima milanese di Non tradisco mio marito di Feydeau: «L’autore ha scritto una parte: non è il caso di dire l’autore. L’autore à scritto una parte qualunque: Dina Galli, per divertirsi lei prima à fatto un personaggio, à dato vita ad un nuovo tipo ed è diventata del lavoro la protagonista. Preso da lei quel personaggio che è secondario diventa principale e lei … è lei, è Dina Galli, vale a dire un portento, un fenomeno, un’artista meravigliosa, che senza saperlo, à in sé un’arte creativa sicura e fatale»: PES [E. Polese Santarnecchi], Cronaca dei teatri milanesi, in «L’Arte drammatica», 20 giugno 1914, p. 1.
34 s.i.a [S. d’Amico], La serata di Dina Galli, in «L’Idea nazionale», 14 febbraio 1923. Il corsivo è nostro.
35 G. Baretti [P. Gobetti], Dina Galli, in «L’Ordine nuovo», 22 maggio 1922, ora in P. Gobetti, Scritti di critica teatrale cit., p. 52.
36 A proposito della recita di Le Friquet, Varaldo aveva scritto: «[Dina Galli] si dimentica, oscilla, si aggrappa a falsi appoggi, si perde in sottigliezze, ed anche sorvola passaggi importanti», ma «non esagera: è incerta. Per questo si riprende, si corregge, esita e ritorna ed esita ancora finché una moina, un gesto gaio, lo slancio puerile, vedete, la salva»: A. Varaldo, Dina Galli cit., pp. 107-108.
37 E. Zola, Il naturalismo a teatro, Ravenna, Longo ed., 1980 [1881], p. 84.
38 Una nota ricorrente delle cronache alle recite della compagnia Galli è l’elogio dell’affiatamento compagnia colta nel suo complesso.
39 «[...] film ambientati nelle ville e nei salotti dell’alta borghesia e dell’aristocrazia, un mondo artificiale di buone maniere e passioni sfrenate […] Il fascino maggiore di questo tipo di cinema derivava appunto dall’inattendibilità realistica dei personaggi […]. Ed era proprio questa lontananza a rendere la realtà rappresentata sullo schermo mitica, sublime»: A Bernardini, Il cinema muto italiano. Arte, divismo, mercato, Bari, Laterza, 1982, p. 196
40 V. Martinelli, Nascita del divismo, in Storia del cinema mondiale, vol. I: L’Europa, 1. Miti, luoghi, divi, Torino, Einaudi, 1999, p. 231.
41 Per un discorso teorico sul concetto del famigliare e dello stereotipo e il suo rapporto con lo stile, rimandiamo alle pagine di G. Bottiroli, Teoria dello stile, Firenze, La nuova Italia, 1997, in particolare le pp. 187-248.
42 e. bert. [E. Bertuetti], Gli applausi di Dina Galli, in «Gazzetta del popolo», 16 gennaio 1927.
43 S. d’Amico, Scompare una grande attrice. È morta Dina Galli cit.
44 E. Petrolini, Chicchignola, Bologna, Cappelli, 1934, atto III.
45 Sandro d’Amico ha dedicato recentemente un interessante saggio al rapporto fra il critico e Petrolini e ha pubblicato i documenti relativi al loro carteggio oggi conservati, per ciò che riguarda le lettere di d’Amico a Petrolini, all’archivio del Burcardo di Roma, e, per ciò che riguarda quelle di Petrolini a d’Amico, al MBA. In questo saggio si ricorda un articolo del 1915 (Attraverso le serate d’onore, in «L’Idea nazionale», 3 maggio 1915) in cui Silvio d’Amico scrive già, senza in realtà nominarlo, di Petrolini definendolo in quell’occasione «comico senza confronto superiore a molti nostri attori di cartello»: A. d’Amico, “Vado bene?” ovvero Una amicizia difficile, in Granteatro. Omaggio a Franca Angelini, a cura di B. Alfonzetti, D. Quarta, M. Saulini, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 289-90.
46 Il trovarobe [S. d’Amico], Fregoli, il buon trasformista, in «L’Idea nazionale», 30 aprile 1922.
47 A proposito del grottesco in Petrolini rimandiamo alle pagine critiche di Gigi Livio in La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento cit., pp. 216-232 e in Minima theatralia. Un discorso sul teatro cit., pp. 113-119.
48 S. d’Amico, Fregoli, pantomimo romano, estratto dalla «Rivista teatrale del dramma» del 15 gennaio 1937, Tivoli, Arti grafiche A. Chicca, 1937, pp. 8-9.
49 Ivi, p. 9.
50 s. d’a [S. d’Amico], Petrolini, in «L’Idea nazionale», 20 giugno 1922.
51 S. d’Amico, Petrolini, in «L’Idea nazionale», 20 giugno 1922.
52 Ibid.
53 E. Pinoso, Intervista col più intelligente fra gli idioti (Petrolini), in «Noi e il mondo», 1 giugno 1920, p. 432.
54 Id., Discorso sull’attor comico, in «Comoedia», 15 settembre-15 ottobre 1928,p. 9; poi in Id., Modestia a parte, Bologna, Cappelli, 1932, p. 145.
55 «Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente non appena ne sentano la necessità», «esercitare questo spirito di esplorazione del dolore umano», perché «[s]i è fino alla nausea fatto del vieto romanticismo sopra le sventure umane» mentre è proprio «nell’uomo che piange, nell’uomo che muore, le massime sorgenti della gioia umana»: A. Palazzeschi, Controdolore, Torino 2 dicembre 1899.
56 P. Pancrazi, Abbaiamenti alla luna, in «La Voce», 31 gennaio 1916.
57 Id., Ettore Petrolini, in «Ragguagli di Parnaso», Firenze, Vallecchi, 1920, p. 114.
58 m. r. [M. Ramperti], Petrolini francescano, in «L’Ambrosiano», 13 gennaio 1926.
59 E. Romagnoli, Petrolini il grande. II, in «L’Ambrosiano», 29 settembre 1924.
60 A. Palazzeschi, Lasciatemi divertire, in A. Palazzeschi, L’incendiario, 1910.
61 Tantalo [U. Ojetti], Cose viste. Petrolini, in «Corriere della Sera», 28 marzo 1922.
62 Sono queste parole che Fausto Curi (Perdita d’aureola, Torino, Einaudi, 1977 [2° ed.], p. 119) dedica a Palazzeschi e in particolare al Controdolore. Poche pagine prima aveva scritto: «[la] novità veramente rivoluzionaria di Palazzeschi nella fase dell’Incendiario sta in ciò che, fondandosi sul presupposto di un mondo patologicamente rovesciato che si finge normale, e non è dunque oggettivamente in grado di “rigenerarsi”, essa non può operare che attraverso la profanazione della falsa sacralità di quel mondo, quindi anche della poesia» (p. 96).
63 Ibid.
64 A. Palazzeschi, Lasciatemi divertire cit.
65 Molti anni dopo Anton Giulio Bragaglia nella prefazione all’edizione di Nerone. Romani de Roma (Roma, Colombo ed., 1945) ricorderà il fascino irresistibile di Petrolini, quasi una malìa, con queste parole: «Il suo potere sul pubblico era magico; la forza magnetica ch’egli proiettava dal palcoscenico era un fascino che non ho visto al modo possedere da nessuno in così alto grado […]. Si trattava d’un particolarissimo fenomeno di malìa che produceva un affiatamento così completo con gli spettatori da costituire un blocco solo fra palco e platea. Era questo che eliminava, nell’avvenimento, il fatto “teatro”» (p. 17).
66 R. Luperini, Il novecento. Apparati ideologici ceto intellettuale sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea cit., p. 174.
67 E. Petrolini, Chicchignola cit., atto I.
68 E. Petrolini, Abbasso Petrolini, Siena, Tip. Coop., 1922.
69 Il trovarobe [S. d’Amico], Petrolini esagera, in «L’Idea nazionale», 13 gennaio 1923.
70 Ibid.
71 Come si può vedere dall’originale riprodotto in copertina, Petrolini scrive nella sua lettera Landrù accentato tre volte e questo certamente in risposta a d’Amico che, nel già citato articolo Petrolini esagera, l’aveva fra l’altro rimproverato di scrivere “molte cose sciocche” fra le quali quel nome con l’accento.
72 La lettera manoscritta è conservata presso l’archivio del MBA, Fondo d’Amico, sezione «Corrispondenza».
73 [S. d’Amico], Petrolini risponde, in «L’Idea nazionale», 17 gennaio 1923.
74 L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, poesie e scritti varii, Milano, Mondadori, 1965, p. 154.
75 S. d’Amico, Petrolini, in Comoedia», 20 febbraio 1928, p. 12.
76 f.m.m. [F. M. Martini], Petrolini al Manzoni, in «La Tribuna», 3 maggio 1923.
77 Ibid.
78 s. d’a [S. d’Amico], «Il medico per forza» con Petrolini al Manzoni, in «L’Idea nazionale», 3 maggio 1923.
79 Id., «Tartufo», in «L’Idea nazionale», 21 settembre 1923.
80 S. d’Amico, Interpretazione di Molière, in «Pègaso», ottobre 1929, p. 421.
81 «Se paragoniamo la sicurezza di Sganarello o di Arnolfo a quella di Tartufo – la sicurezza che lo rende comico ma di un comico senza risate, inquietante come un movimento silenzioso – e a quella di Don Giovanni, ci accorgiamo che quest’ultime sono di tutt’altra natura. Lungi dall’essere stregati sono loro a stregare, sono loro a condurre la commedia, come l’autore, forse più dell’autore, perché costui, privato del proprio strumento per correggerli, non può fare altro che seguirli sulla strada da loro scelta»: R. Fernandez, Molière o l’essenza del comico, Milano, Rusconi, 1977 (1929), p. 139.
82 S. d’Amico, Interpretazione di Molière cit., p. 422.
83 Ivi, p. 421; i corsivi sono nostri.
84 Ibid.
85 s. d’a [S. d’Amico], «Il medico per forza» con Petrolini al Manzoni cit.
86 Ibid.
87 r. s. [R. Simoni,], Ultime teatrali. «Il medico per forza» di Molière al Carcano, in «Corriere della Sera», 26 gennaio 1923.
88 m. r. [M. Ramperti], Petrolini recita Molière, in «Il Secolo», 26 gennaio 1923.
89 s. d’a [S. d’Amico], «Il medico per forza» con Petrolini al Manzoni cit.
90 Ibid.
91 «Ormai conosco i tuoi articoli tordo sassata, in cui predomina sempre la sassata. Perché tu non dici di me e di altri: Il tal dei tali ha molti difetti, ma… ha anche tante qualità […]. Il tuo sistema è quest’altro: Il tal dei tali ha qualche qualità, ma ha anche tanti difetti… (N.B. finisci coi difetti) […]. Ti conosco, eh!? Cominci quasi sempre bene; ma per te l’importante è di finir male»: Lettera di E. Petrolini a Silvio d’Amico, scritta in risposta al più volte citato articolo di d’Amico su «Comoedia» del 1928, riportata in M. Corsi, Vita di Petrolini, Milano, Mondadori, 1944, p. 183. Corsi fa risalire questa lettera al tempo della polemica del 1923; ma per l’evidente riferimento quasi testuale che Petrolini fa all’articolo di d’Amico del 1928, è necessario posticipare la datazione. Così fa anche Alessandro d’Amico nel suo già ricordato saggio sul carteggio fra i due (pp. 297-98).
92 s. d’a [S. d’Amico], Petrolini all’Argentina», in «La Tribuna», 7 maggio 1933.
93 S. d’Amico, Teatro drammatico. In morte di Ettore Petrolini, in «Nuova antologia», 16 luglio 1936, p. 233.
94 Ibid.
95 S. d’Amico, Maschera di Petrolini, in id., Bocca della verità, Brescia Morcelliana, 1945, pp. 220-221 (pubblicato per la prima volta in «Rivista Italiana del teatro», n. 2, 1942).
96 s. d’a [S. d’Amico], Petrolini comico dell’arte, in «La Tribuna», 30 aprile 1926.
97 E. Petrolini, Un articolo di Petrolini: lo spazio vuoto, in «Il Tevere», 16 maggio 1927. Il medesimo articolo verrà poi pubblicato con poche variazioni con il titolo Discorso dell’attor comico su «Comoedia» (15 settembre-15 ottobre 1928); poi con il titolo Mi confesso su «Il Dramma», 1 gennaio 1930.
98 s. d’a [S. d’Amico], Petrolini comico dell’arte cit.
99 S. d’Amico, Maschera di Petrolini cit., p. 234.
100 al. ce. [A. Cecchi], «L’avvocato Bonafede» di Renato Simoni al Teatro Margherita, in «Il Tevere», 15 dicembre 1926.
101 s. d’a. [S. d’Amico], L’Avvocato Bonafede di R. Simoni al Margherita, in «L’Idea nazionale», 16 dicembre 1926.
102 Ibid.
103 S. d’Amico, Petrolini cit., p. 12.
104 s. d’a. [S. d’Amico], Petrolini (e la critica), in «La Tribuna», 1 giugno 1927.
105 A tal proposito nel più volte citato articolo del 1928 d’Amico scriverà: «anche quei suoi famosi “slittamenti” fuor del personaggio, a cui non sappiamo perché mai tenga tanto, finiscon col ricordare, prima che il citato Aristofane, i buffi dell’operetta»: S. d’Amico, Petrolini cit., p. 45.
106 S. d’Amico, Maschera di Petrolini cit., pp. 213-216.
107 E. Petrolini, Come recito, in Id., Modestia a parte cit., p. 167.
108 Id., Come mi trucco, in Id., Modestia a parte cit., p. 156.
109 S. d’Amico, Maschera di Petrolini cit., p. 218.
110 al. ce. [A. Cecchi], Serata in onore di Petrolini, in «Il Tevere», 31 maggio 1927.
111 G. Livio, La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento cit., p. 225.
112 M. Corsi, Vita di Petrolini cit., p. 150. Ricordo qui in nota un passo tratto da Lettera tedesca del 1937 di Beckett (ora in Disiecta. Scritti sparsi e un frammento drammatico, Milano, Egea, 1991) che richiama molto da vicino l’immagine usata da Corsi e che suggerisce, pur nelle differenze dei linguaggi usati, una profonda affinità di ispirazione poetica fra i due artisti: «Siccome non possiamo eliminare d’un colpo solo il linguaggio, dovremmo almeno non tralasciare nulla che possa farlo cadere in discredito. Farvi un foro dietro l’altro finché cominci a filtrare ciò che si cela dietro di esso, si tratti di qualcosa o di nulla; per uno scrittore non posso immaginare oggi una meta più alta» (p. 69).
113 S. d’Amico, Maschera di Petrolini cit., p. 242.
114 E. Petrolini, Lettera a Silvio d’Amico, dattiloscritta, Napoli 18 ottobre 1933, conservata presso il MBA, Fondo d’Amico, sezione «Corrispondenza»; citata a p. 229 del saggio di d’Amico, Maschera di Petrolini.
115 S. d’Amico, Maschera di Petrolini cit., p. 229.
116 A chi credette di coglierlo in fallo per i suoi elogi di Petrolini, d’Amico nel saggio del 1945 risponde «Scempiaggini: come se la parola teatro non fosse abbastanza grande, per dar posto a tutti quelli che se lo guadagnano. Quando il mattatore si chiama Petrolini, ben venga il mattatore»: ivi, p. 246.

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Il critico e l’attore
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Donatella Orecchia
2012