Postfazione 1917-2017. Fare i conti con la Rivoluzione
p. 307-316
Texte intégral
Il gioco degli anniversari, specie ove importanti, come i centenari, è sempre à double face: esperienza di rivisitazione critica, e tentazione encomiastica, che, peraltro, non di rado, si rovescia nel suo opposto, ossia la denigrazione pregiudiziale, la volontà di regolare i conti con quell’evento (una sorta di vendetta postuma), o semplicemente la demonizzazione. Il 1917 si presta in modo esemplare, sotto entrambi i punti di vista, e all’enfasi del commento, benevolo o malevolo che sia, ha sempre corrisposto una minore disposizione verso l’attitudine critica, la sola invece ammissibile in un contesto storiografico, in specie nello spazio di una rivista che vuole essere alfiere e testimone della “storia critica”, appunto. Dunque, non soltanto del tutto legittimo, ma anche assai opportuno provare a interrogarsi, collettivamente, a partire dalla “comunità” di Historia Magistra, ed estendendo, come ha fatto l’ideatore del volume, l’invito a collaborare a persone che si collocano all’esterno della rivista, anche se magari vi hanno pubblicato nel passato.
1Il 1917, dunque: annus mirabilis, e insieme, annus terribilis, anno che per tanti aspetti, come ho cercato di mostrare in un recente volume, propone problemi la cui soluzione è tuttora di là da venire. Ma “anno della rivoluzione”, innanzi tutto1. E in quanto tale anno spartiacque, assai più di altri pure importanti del secolo XX: rispetto all’evento rivoluzionario, nei suoi due tempi, di marzo e novembre, il 1917 russo rappresenta, senza alcun dubbio, un punto di svolta nella storia dell’umanità. Lo si può affermare senza timore di cadere nella retorica, e questo a prescindere dagli svolgimenti successivi alla caduta del plurisecolare impero zarista e alla nascita della Repubblica dei Soviet. È l’anno in sé, con le due rivoluzioni, a segnare il calendario mondiale nigro lapillo, con una forza che mai nessun evento ebbe prima, almeno nell’età moderna e contemporanea, paragonabile, per il suo dato simbolico, soltanto agli eventi francesi del 1789: il 14 luglio, come unico termine di paragone con il 7 novembre, ma la seconda data reca in sé un risultato che la Rivoluzione Francese non riuscì a raggiungere, fermandosi a uno stadio politico, e, ben presto, ripiegando sulla soluzione bonapartista. Anche la Rivoluzione bolscevica, si dirà, ha avuto un tragitto analogo, e invece di Napoleone ha partorito Stalin, ma mentre il primo finì nella polvere, il secondo trionfò, sia pure con montagne di cadaveri dei suoi oppositori interni. Napoleone fu sconfitto dalla Santa Alleanza, mentre Stalin portò alla vittoria contro l’hitlerismo, e anche se fu poi rinnegato, in un processo contraddittorio e confuso, rimase icona tanto del “socialismo reale”, quanto della lotta vittoriosa contro il nazifascismo. A prescindere dal Termidoro sovietico, per usare l’espressione di un compianto studioso2, ossia non tenendo conto di quanto avvenne dopo, rimane come dato inconfutabile la centralità di quell’evento rivoluzionario, avviato dalla detronizzazione degli zar e la successiva ascesa al potere di Lenin, che era la vittoria di una fazione minoritaria dell’opposizione allo zarismo, ma era la vittoria di un “capo” fenomenale del proletariato russo, qualità e ruolo conquistati sul campo dello studio e della lotta, come gli venne riconosciuto in un memorabile articolo commemorativo firmato da Antonio Gramsci3.
2Precisamente verso Lenin, come individuo in grado di “fare la storia”, dopo una incertezza iniziale, sui leader e sulla situazione, si indirizzarono i primi veri commenti ai fatti di Russia, sia nell’ambito della produzione giornalistica, sia nel dibattito del movimento proletario. Un nome, quel breve pseudonimo di Vladimir Ilicˇ Ul’ianov, che era già popolare prima della presa del Palazzo d’Inverno, e oggetto di esaltazione da un canto, fonte di preoccupazione dall’altro. Il “Viva Lenin” (di regola pronunciato con l’accento sulla i), era un grido che circolava in non poche plaghe d’Europa, del Continente immerso in una guerra insensata e devastante (l’«inutile strage» di cui parlò, inascoltato, papa Benedetto XV), eppure guerra provvista di una sua logica inesorabile, come urto di opposti imperialismi, sulle spalle dei rispettivi popoli. Lenin apparve ben presto, quasi ancor prima dunque di essere il capo della Russia sovietica, il capo del proletariato mondiale, e nell’agosto di quell’anno, a Torino, nella più imponente rivolta verificatasi in una città delle nazioni impegnate nel conflitto, le scritte inneggianti al leader dei bolscevichi erano comparse sui muri delle case, e il suo nome risuonava nei cortei. Divenne, poi, dopo l’Ottobre, un nome oggetto di venerazione e di culto, un nome simbolo e un nome bandiera. Mentre dall’altra parte, sul fronte della destra, la rivoluzione vittoriosa scatenava paure ancestrali: Lenin, e i suoi bolscevichi, erano la rappresentazione orrorifica dell’altro che si materializza nel nostro presente, dell’Asia che si protende verso l’Europa, dell’“uomo nero” che rapisce i bambini, viola le donne, dissacra i luoghi di culto: Lenin poteva bene, da «immenso omicciattolo», come lo etichettava, con inquietudine, Enrico Corradini, incarnare un ritorno dell’Anticristo4. Vi era un misto di timore e di ammirazione, nel commento del fondatore del nazionalismo italiano; un’accoppiata di sentimenti che si ritrova in larga parte degli ideologi della destra italiana, davanti a colui che ben presto venne chiamato “nuovo zar”, anzi, sempre per bocca di Corradini “il novissimo Zar”, o, con riferimento alla Rivoluzione del 1789, “Novissimo Terrore”5. Si produsse in sostanza, come per altri grandi personaggi della storia, un mito e un antimito di Lenin, che si confondeva, e si sommava, con la medesima coppia, positivo-negativo, della Rivoluzione bolscevica6: Lenin, insomma, era l’uomo che non soltanto simboleggiava quegli eventi, ma ne era protagonista assoluto, quasi da lasciare in un vago sfondo sbiadito, gli altri personaggi dell’Ottobre russo, oggetto, in quanto tale, di ogni elogio, ma anche, sul fronte opposto, di ogni vituperio.
3Si tratta di attitudini, tra paura e ammirazione, esecrazione e esaltazione, che non sarebbero venute meno nel corso dei decenni successivi, attraversando la storia italiana, fino al 1948, con l’icona di Stalin che sostituiva quella di Lenin, ma con la medesima funzione terrorizzante dei benpensanti, invitati a un voto conseguente, ossia anticomunista, nella feroce, ma anche grottesca campagna elettorale che condusse alla vittoria della Dc, vittoria favorita proprio dall’agitazione disinvolta quanto sconsiderata dello spettro bolscevico; ma anche successivamente, il riferimento propagandistico, per spaventare i ceti medi, al comunismo, alla rivoluzione che lo aveva realizzato, extra o contra legem nel 1917, rimase sottotraccia, fino al “crollo” del 1989-’91. Persino dopo, una volta superato il decennio di catastrofe, sotto Eltsin, e sodali, con l’arrivo di un altro Vladimir al potere, la paura della Russia riprese a svolgere un peso rilevante nella propaganda politica della destra: la russofobia svolse le medesime funzioni dell’antibolscevismo: era sempre “l’orso russo” a incutere timore nell’Europa occidentale, negli Usa, e nell’Italia orfana ormai di un partito comunista capace di difendere, nel dibattito pubblico, la dignità di un popolo, quello russo, che nelle due guerre mondiali aveva sacrificato milioni e milioni dei suoi giovani. E non a caso l’etichetta di “Nuovo Zar”, venne correntemente impiegata, dopo Lenin, per Stalin, e per i suoi successori, specie quelli durevoli, e non insidiati da dissidi interni e congiure di palazzo; una etichetta che sarebbe giunta fino ai nostri giorni, dissolta l’Urss, quando fu applicata sulla immagine di Vladimir Putin.
4Quella dei risvolti, degli usi, in una propaganda a favore o contraria, della Rivoluzione d’Ottobre, è una vicenda di appropriazioni e di dannazioni, che ha accompagnato e, persino seguito, gli eventi, anche quando il loro primo portato, la creazione dell’Urss, era venuto meno.
5Anche nell’ambito del dibattito infrasocialistico i sentimenti sui bolscevichi e Lenin furono contraddittori e non di rado contrastanti, dopo la prima euforia seguita alla rivoluzione di marzo, euforia incerta ma condivisa con la totalità dello schieramento politico, vedendosi in azione in quell’immenso territorio forze capaci di scuotere dal torpore la Russia restituendole un ruolo da protagonista nella guerra contro gli Imperi centrali. La seconda rivoluzione cambiò il quadro, decisamente, e non tardarono a prevalere, del resto già annunciati da timori emersi nell’estate, i sentimenti negativi, che divennero presto di abominio ed esecrazione, sulla base di notizie, generalmente le canoniche “false notizie” di guerra di cui Marc Bloch ha parlato da par suo, sempre in relazione alla Grande guerra7. I corrispondenti di guerra sguazzarono in una letteratura che mescolava con disinvoltura grand guignol e analisi socio-politica, di seconda mano in entrambi i casi. Dalle pagine dei giornali alla pubblicazione di libri – assai spesso raccolte degli articoli – il passo era breve, e lo smercio di quei titoli fu facile, essendo diffusa la curiosità per gli avvenimenti russi.
6Non mancarono comunque i tentativi di comprensione seria, e Antonio Gramsci fu protagonista, in tal senso, avviando una riflessione originale che non avrebbe più abbandonato. È noto che il suo articolo La rivoluzione contro il Capitale, innescò un dibattito in seno alla intelligencija socialista: si poteva considerare quella una rivoluzione en marxiste? O non era piuttosto, al massimo, una rivoluzione semplicemente borghese? O, ancora, era qualcosa di diverso da i modelli canonici? Magari una sorta di jacquerie di origine anarco-populista? Gramsci, in modo fermo, ne difese il tratto marxistico, ma ne diede una interpretazione, almeno in parte, all’insegna del volontarismo e del soggettivismo, sottolineando però un dato essenziale, che sarebbe rimasto nel suo pensiero maturo: il rifiuto del dogmatismo, l’adesione a un pensiero dialettico, e il privilegiamento sulla lettera di un testo, del suo spirito, e sempre, un’attitudine critica con cui era necessario indirizzarsi a temi e figure. Per spiegare la seconda rivoluzione, quella dei bolscevichi, Gramsci guardava al fatto guerra, come qualcosa che aveva cambiato radicalmente il quadro, e che Marx non aveva previsto, né avrebbe potuto prevedere; quella guerra che aveva costituito un formidabile acceleratore del tempo storico, e un potente risvegliatore di coscienze, un evento che aveva svolto la funzione di «spoltrire le volontà»8.
7Era l’inizio del processo di bolscevizzazione dello stesso pensiero di Gramsci, peraltro comunque mantenutosi su di una linea di originale adesione, mai priva di elementi di dubbio critico, e di correzioni pedagogiche rispetto alla posizione dei compagni russi. Ad ogni modo, il ’17 fu da lui avvertito subito, prima dello stesso 7 novembre, come anno della svolta mondiale, anno dello sconvolgimento totale dell’equilibrio politico internazionale: un vero punto di non ritorno, al quale bisognava far riferimento, da allora in avanti, in modo serio, sia per meglio capire gli eventi storici, sia per intervenire in essi. Una svolta, aggiungo, non soltanto sul piano effettuale, ma altresì dal punto di vista teorico: da allora in poi lo stesso marxismo non sarebbe stato più lo stesso, e avrebbe dovuto tener conto necessariamente del 7 novembre ’17, come in effetti fu.
8Nel discorso pubblico e nel dibattito politico sulla Rivoluzione bolscevica, peraltro, molti negarono, e negano tuttora, l’importanza storica dell’evento, arrivando a cancellare la stessa natura rivoluzionaria degli avvenimenti: del resto, è nel cuore del revisionismo, tentare di cancellare o sminuire l’intero ciclo storico delle rivoluzioni, da quella del 1789 ai movimenti degli anni Sessanta-Settanta del “Secolo breve” passando per la Comune di Parigi, l’Ottobre russo, la Guerra di Spagna, la Resistenza antifascista, la Rivoluzione cinese e quella cubana…9. Banalizzare è l’altra forma per disconoscere il significato di un fatto storico, quasi il corrispettivo del demonizzarlo. E quando questo gioco viene fatto da ambienti della destra, emerge una contraddizione: da una parte la rivoluzione viene respinta sul piano morale e politico, come cosa vitanda, dall’altra, però, asserendo che non si è trattato di rivoluzione, derubricandone il significato a forma inferiore, ovvero cambiando i soggetti politici e i referenti sociali del moto, si annette implicitamente un significato positivo al concetto di rivoluzione.
9Come emerge da molti dei contributi raccolti nel volume, la Rivoluzione del ’17 costituì comunque, e ovunque, un oggetto spesso oscuro del desiderio, che in quanto impossibile da raggiungere veniva denigrato, ovvero, all’opposto, esaltato. In ogni caso, tutto il variegato arcipelago delle sinistre, dopo di allora, fu coinvolto: tutti, bon gré, mal gré, dovettero “dire la loro”, anche quando, tra imbarazzi e incertezze di valutazione, ne avrebbero fatto volentieri a meno. Ma il giudizio sulla Rivoluzione, tanto per coloro che rivoluzionari si proclamavano, quanto per coloro che intendevano prenderne le distanze, ma confermare la loro appartenenza all’area del cambiamento sociale, nell’interesse dei ceti subalterni, non poterono più evitare quello scoglio: il dibattito politico, dal 1917, a sinistra, ebbe la Rivoluzione russa, e soprattutto la Rivoluzione bolscevica o sovietica, come punto dirimente. Non si trattava solo di approvare o disapprovare, ma piuttosto di esprimere un punto di vista, magari correggendo, criticando, sviluppando, sottolineando questo o quell’aspetto, e sempre cercando di trarre lezioni da quell’evento, o meglio dalla sequenza cominciata nel marzo 1917 e proseguita fino al “crollo” del 1989-91.
10In tal senso la Rivoluzione fu la cartina di tornasole di tutte le sinistre mondiali, e ciò finì per costruire una ulteriore prova della portata epocale e assoluta di quell’anno, con i suoi significati evidenti e pure con quelli indiretti, sui quali, perlopiù, si esercitò la ridda delle interpretazioni, delle analisi, dei commenti. Ma, come accennavo e come il libro ideato da Marco Di Maggio conferma, gli avversari di tutte le sfumature, in fondo, non furono da meno, cimentandosi con quell’oggetto politico, che, appunto, era e rimaneva un oggetto del desiderio, anche quando negato. Sicché nelle opposte visioni, il 1917 divenne un terreno in cui il manicheismo politico ebbe modo di manifestarsi pienamente, ma con un perdersi, all’orizzonte, del fatto storico, e il parallelo riferirsi, piuttosto, agli svolgimenti successivi: poche furono le eccezioni, sia nel senso dei giudizi equilibrati (emerge sotto questo aspetto Carlo Rosselli10), sia nel senso di non leggere il 1917 sapendo che cosa era accaduto nel 1929-30, nel 1937-38, e così via. Come era accaduto in altre situazioni storiche, anche sulla rivoluzione dei bolscevichi si abbatté l’anatema cattolico, che, nelle pagine della «Civiltà Cattolica», specie nella penna di alcuni scrittori, ad esempio Angelo Brucculeri, già noto per esternazioni reazionarie, divenne un marchio indelebile di infamia, in rappresentazioni talmente estreme da risultare quasi parodistiche11. La Rivoluzione divenne insomma un simbolo di tutto il male, del regno delle tenebre, che solo la Croce di Cristo avrebbe potuto contrastare, davanti a quella che pareva una sua pericolosa forse inarrestabile avanzata verso Ovest: la Repubblica Spagnola ne diventava in tal senso la prova provata, e quindi la “crociata”, contro i “rossi”, anche se tra loro vi era il cattolicissimo popolo basco, diventava un dovere, che doveva accettare come necessari i sacrifici, come quello di Guernica nel fatidico 193712.
11E ben presto, anche nel dopo 1945, il dibattito non fu tanto sui Soviet e i bolscevichi, e sull’anno delle due scosse telluriche che cambiarono il volto della Russia, quanto, piuttosto, sul rapporto di continuità/discontinuità tra Lenin e Stalin, ovvero quanto delle scelte del secondo fossero già comprese e annunciate nell’orientamento politico del primo. Era insomma, semplificando, il gulag, “colpa” di Lenin? Sono questioni che hanno risonato nelle nostre orecchie ancora in tempi recentissimi, e tuttora risuonano, benché nei confini di un dibattito buono, perlopiù, soltanto a fare audience televisiva, e privo di qualsiasi valore euristico. Nell’età della Guerra fredda, l’incubo del bolscevismo fu una presenza costante nel discorso pubblico, egemonizzato dalla stampa “indipendente” (si veda la lettura comparata di «Stampa» e «Corriere»)13, e più in generale negli ambienti “liberali” che automaticamente si ponevano come sentinelle dell’anticomunismo; per non parlare ovviamente della destra estrema, che nei suoi messaggi ideologici echeggiava, a distanza di decenni, le becere ingiurie dei nazionalisti, e finiva per avvicinarsi pericolosamente alla politica degli anatemi della Chiesa di Roma. La laicità liberale, soccombeva davanti allo strapotere della Dc, e la capacità raziocinante dell’analisi politica, mostrava la corda, sotto l’urgere delle battaglie contingenti: Alberto Ronchey, giornalista passato peraltro dal quotidiano milanese a quello torinese (dove terminò ingloriosamente la sua carriera, inciampando in una ridicola battaglia per “ripulire” la città dalle prostitute), non aveva dubbi sulla continuità Lenin-Stalin, ed esprimeva una epocale condanna di tutto il “pacchetto” del comunismo sovietico, che comprendeva – ça va sans dire – gli eredi russi e gli epigoni italiani14. La posizione dei neofascisti non era poi così diversa e lontana, magari con un’accentuazione del concetto di “ordine”, in chiave polemica verso il “caos” sovietico e sovietizzante; in tal senso sbrigative analisi del tempo presente e cenni di ancora più frettolose ricostruzioni storiche relative al periodo 1917-1922, quando Mussolini animò la «rivoluzione antibolscevica», si confondevano facilmente15. Del resto, la vicenda del 1956, con i suoi effetti dirompenti nel vasto e variegato mondo della sinistra internazionale, e italiana in specie, sembrava avvalorare le semplicistiche analisi di giornalisti sedicenti liberali e di leader politici che non facevano mistero del loro richiamarsi al “passato regime”, come veniva chiamato con pudore, il fascismo, nella discussione pubblica16.
12A sinistra, il fascino dell’Ottobre rosso resistette a lungo, comunque, anche se la scomparsa di Stalin prima (1953), il “terribile 1956” dopo, infine la morte di Togliatti (1964), avrebbero cambiato in modo piuttosto radicale il panorama culturale e ideologico. Ma in precedenza, come documentano i saggi di Francesca Chiarotto e Luigi Cappelli, per il primo periodo (1944-1953), di Alexander Höbel, per il successivo (fino agli anni Settanta), si trattò di una presenza forte, imprescindibile elemento identitario anche del comunismo italiano, pur nel lento procedere della “via italiana”, fino a quando, si giunse, poi, nei primi anni Ottanta, alla famosa esternazione di Enrico Berlinguer, che dichiarava esaurita la «spinta propulsiva» della Rivoluzione d’Ottobre, che aprì la strada, non del tutto consapevolmente, alla liquidazione non soltanto dell’eredità sovietica, ma dello stesso Partito comunista italiano17. Mentre in parallelo in seno alla pulviscolare “sinistra extraparlamentare”, si cercava di tenere ferma la barra sul valore storico e politico della Rivoluzione bolscevica, di Lenin, e del ritrovato “marxismo-leninismo”, aggiungendo agli eroi del passato, un protagonista lontano del presente, il “grande presidente Mao”, attualizzando il tutto in modo spericolato, e raggiungendo, per tal via, effetti non di rado di esilarante comicità involontaria18. L’epos dei “dieci giorni” resi anche letterariamente famosi dal resoconto fedele, “in diretta”, di John Reed, veniva ridotto a macchiettismo. D’altronde nella ripetizione della storia, si sa, il dramma diventa farsa.
Bibliographie
Bloch, Marc (1994), La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e Riflessioni (1921), introduzione di M. Aymard, Donzelli, Roma (ultima ed. it., Fazi, Roma 2014).
Corradini, Enrico (1920), Pagine degli anni sacri, Treves, Milano.
Cortesi, Luigi (2010), Storia del comunismo. Da Utopia al Termidoro sovietico, Manifestolibri, Roma.
D’Orsi, Angelo (1985), La rivoluzione antibolscevica. Fascismo, classi, ideologie (1917-1922), Franco Angeli, Milano.
– (2006), Un’apologia della storia, Nino Aragno Editorr, Torino.
– (2007), Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la menzogna, Donzelli, Roma.
– (2017), 1917. L’anno della rivoluzione, Laterza, Roma-Bari.
Gramsci, Antonio (1971), La costruzione del Partito Comunista. 1923-1926, Einaudi, Torino.
– (1982), La Città Futura. 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino.
– (2016), Scritti (1910-1926), 2, 1917, a cura di L. Rapone, con la collaborazione di M. L. Righi e il contributo di B. Garzarelli, in Edizione nazionale degli Scritti di A. Gramsci, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma.
– (2017), Come alla volontà piace. Scritti sulla Rivoluzione russa, a cura di G. Liguori, Castelvecchi, Roma.
Losurdo, Domenico (1996), Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari.
Notes de bas de page
1 . Cfr. D’Orsi (2017).
2 . Cfr. Cortesi (2010).
3 . Cfr. “Capo”, in «L’Ordine Nuovo», Terza Serie, I, n. 1, marzo 1924, poi in “l’Unità”, 6 novembre 1924 (firmato A. Gramsci, con il titolo Lenin capo rivoluzionario), leggibile in varie raccolte, a partire da Gramsci (1971), pp. 12-16.
4 . Corradini (1920), p. 11.
5 . Ivi, p. 24. Si legga comunque in merito S. Cingari, nel volume.
6 . Rinvio al contributo di L. P. D’Alessandro, in questo volume.
7 . Cfr. Bloch (1994).
8 . A. G., La rivoluzione contro il Capitale, in «Avanti!», 24 dicembre 1917, ora in Gramsci (1982), pp. 513-17; e ora con apparato critico nel volume dell’Edizione Nazionale (2016), pp. 617-21 (collocato però alla data originaria del 1° dicembre, quando l’articolo fu censurato, venne poi ripubblicato il 24, appunto). Questo testo e una selezione di altri scritti gramsciani sul tema (non tutti, per la verità) è ricompreso nella recente antologia: Gramsci (2017).
9 . Cfr. Losurdo (1996); D’Orsi (2006).
10 . Si legga in proposito qui il contributo di L. Bufarale.
11 . Cfr. il saggio di E. Bucci.
12 . Cfr. D’Orsi (2007).
13 . Rinvio, qui, al saggio di L. Ambrosi.
14 . Cfr. ivi.
15 . Ho sviluppato il tema in D’Orsi (1985).
16 . Sulla posizione dei fascisti, si veda qui G. Sorgonà. Sul 1956, in questa stessa collana, è in preparazione un altro volume collettaneo.
17 . Si veda in proposito il saggio di M. Di Maggio.
18 . Rinvio al contributo di G. Strippoli.
Auteur
Le texte seul est utilisable sous licence Creative Commons - Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0 International - CC BY-NC-ND 4.0. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Inchiesta su Gramsci
Quaderni scomparsi, abiure, conversioni, tradimenti: leggende o verità?
Angelo d'Orsi (éd.)
2014
Aspettando il Sessantotto
Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968
Chiarotto Francesca (dir.)
2017
Sfumature di rosso
La Rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento
Marco Di Maggio (dir.)
2017
Il trauma di Caporetto
Storia, letteratura e arti
Francesca Belviso, Maria Pia De Paulis et Alessandro Giacone (dir.)
2018
1918-2018. Cento anni della Grande Guerra in Italia
Maria Pia De Paulis et Francesca Belviso (dir.)
2020
Contratto o rivoluzione!
L’Autunno caldo tra operaismo e storiografia
Marie Thirion, Elisa Santalena et Christophe Mileschi (dir.)
2021
Altri comunismi italiani
Dissidenze e alternative al PCI da Livorno al Sessantotto
Marion Labeÿ et Gabriele Mastrolillo (dir.)
2024