Dal “Vangelo socialista” alla Bolognina. Le sinistre degli anni Ottanta e la Rivoluzione
p. 269-305
Texte intégral
1Come noto, nei quattro anni che vanno dal maggio 1974, quando si celebra il referendum sul divorzio, al 9 maggio del 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro assassinato dalle Brigate Rosse, si assiste a un mutamento radicale nei rapporti politici e culturali fra i due principali partiti della sinistra italiana: il Partito comunista e il Partito Socialista.
2Il quadro generale all’interno del quale tale mutamento si realizza è caratterizzato, da una parte, dalla crescita di influenza e di consensi del Pci e, fra il 1977 e il 1978, dall’inversione di questa tendenza generata dal fallimento della strategia del Compromesso storico, dall’altra, dalla profonda crisi del Psi il quale, con l’elezione a segretario di Bettino Craxi il 16 luglio 1976, comincia un profondo rinnovamento strategico e culturale che porterà i socialisti a svolgere un ruolo centrale negli equilibri politici fino al 1992.
3L’impasse strategica del Pci e la trasformazione del Psi, pur nelle loro specificità, e nonostante prenderanno direzioni opposte e conflittuali negli anni Ottanta (alcuni studiosi parlano di “guerra delle sinistre”)1, sono parte di un più ampio processo internazionale che dalla fine degli anni Settanta vede le due famiglie del movimento operaio europeo, quella comunista e quella socialista e social-democratica, entrare in una profonda crisi strategica e culturale provocata dalle trasformazioni cominciate negli anni Settanta e che nel decennio successivo vedranno realizzarsi un profondo mutamento di scenario.
4Ricostruire il rapporto che socialisti e comunisti italiani intrattengono con la Rivoluzione russa nel periodo che va dal 1977 al crollo dell’Urss nel 1991 significa analizzare da un particolare angolo visuale sia lo scontro ideologico che segna le relazioni fra i due partiti sia la dimensione culturale della crisi delle organizzazioni del movimento operaio italiano all’interno di quel più vasto rivolgimento che è l’affermazione dell’egemonia neoliberale.
Il Sessantesimo anniversario
5Il sessantesimo anniversario della Rivoluzione russa si celebra in Italia nel momento in cui, da quasi due anni, sulla stampa del Pci e del Psi, si svolge un inteso dibattito sui principi che ispirano la politica dei partiti della sinistra. Il rapporto fra società civile, partiti e Stato, quello fra rivoluzione e democrazia, le varie correnti del marxismo, la storia delle relazioni fra socialdemocrazia e comunismo sono al centro di uno scontro che dalla dimensione ideologica investe la strategia politica.
6Nel numero del mensile socialista «Mondo Operaio» del gennaio 1977 esce una lunga intervista a Massimo Luigi Salvadori. Lo storico presenta il suo nuovo libro sulla figura del dirigente e teorico della socialdemocrazia tedesca Karl Kautsky2, protagonista durante la Prima guerra mondiale e nei primi anni Venti di un’accesa polemica con Lenin sul fallimento della II Internazionale, sui destini della Rivoluzione russa e mondiale e sulla natura del potere bolscevico3. Salvadori riprende la definizione di Kautsky su Lenin come il Bismark del proletariato russo, lasciando intendere che nel 1917 il capo bolscevico avrebbe guidato una rivoluzione che conduceva necessariamente alla militarizzazione dello Stato e alla soppressione della democrazia. Un progetto politico, quello di Lenin, in contraddizione con ogni sviluppo democratico del socialismo.
7Secondo lo storico socialista, Kautsky e Rosa Luxembourg – la militante rivoluzionaria che, pur accusando di opportunismo di Kautsky e il gruppo dirigente della socialdemocrazia tedesca, aveva criticato la soppressione delle libertà da parte dei bolscevichi – condividono l’opinione che dopo il ‘17 in Russia si assiste alla soppressione degli spazi di democrazia. Il primo ritiene però che questa possa essere preservata soltanto mediante il mantenimento delle istituzioni rappresentative, la seconda invece critica i bolscevichi dal punto di vista della democrazia diretta, quella dei soviet e della partecipazione popolare al processo rivoluzionario.
8La tesi di Salvadori è che la Rivoluzione d’Ottobre e, in generale, la strategia leninista, producono una rottura insanabile nel movimento operaio mondiale, che è a sua volta all’origine della frattura teorica fra democrazia e socialismo che influisce su tutta l’evoluzione successiva4.
9L’eredità teorica di Kautsky dunque, è al centro del discorso socialista in questo sessantesimo anniversario: nel numero di «Mondo Operaio» di agosto Mario Bonaiuto torna sulla figura del dirigente tedesco e sul suo rapporto con la Rivoluzione bolscevica e sottolinea come Kautsky abbia lucidamente previsto la «non riproducibilità» del modello bolscevico in occidente. Pur cogliendo i limiti della democrazia borghese, egli aveva compreso che «una volta soppresse le libertà fondamentali potesse ancora esistere qualcosa in cui riconoscere il potere di classe e non, piuttosto, quello di un partito o di un apparato». Per questo l’esigenza, comune a tutto il movimento operaio, di ripensare criticamente il pensiero di Lenin non può «ignorare che nei suoi confronti esigenze e interrogativi che oggi sentiamo nostri furono mossi da uomini come Kautsky e Bauer»5.
10Sono due le ragioni di questo recupero del patrimonio teorico della socialdemocrazia del periodo fra le due guerre, entrambe attengono al rapporto del Psi con i comunisti. La prima, prevalentemente culturale, esprime la volontà di emanciparsi una volta per tutte dalla tradizione marxista-leninista e quindi di affrancarsi dalla prossimità (e dalla subalternità) culturale nei confronti del Pci6.
11La seconda ragione è invece direttamente politica: il Pci infatti, sin dal 1956 aveva cominciato a porre con forza la necessità che il movimento comunista sciogliesse il nodo del rapporto fra democrazia e socialismo. Dal 1968, e poi con la nascita del movimento eurocomunista i comunisti italiani avevano tentato di far fronte alla crisi dell’egemonia sovietica sul movimento rivoluzionario mondiale ponendo al centro della loro strategia nazionale e internazionale la lotta per il progresso democratico, sociale e civile7. Proprio le celebrazioni moscovite del sessantesimo anniversario dell’Ottobre rappresentano una tappa cruciale di questo percorso: in Unione Sovietica Berlinguer pronuncia la celebre frase sull’impossibilità di costruire il socialismo senza garantire il pluralismo e la democrazia8.
12Gli intellettuali socialisti quindi, rivendicano che le posizioni del Pci e, in generale, quelle del movimento eurocomunista9 sul rapporto fra democrazia e socialismo e sulla collaborazione fra tutte le anime del movimento operaio e democratico europeo non sono altro che l’ammissione della giustezza delle analisi della socialdemocrazia del primo dopoguerra.
13D’altro canto in questa fase gli articoli di «Mondo Operaio» trattano ancora la questione delle vie di transizione al socialismo. In un articolo del 10 ottobre, riprendendo il Gramsci del 1926, Salvadori si interroga sulla natura socialista del regime sovietico e, come sempre, critica il Pci, a suo dire incapace di andare al di là del paradigma della distorsione fra struttura e sovrastruttura in Urss, di riconoscere la natura intrinsecamente repressiva dello stato sovietico e, di conseguenza, di fornire un reale ed efficace sostengo ai dissidenti dell’est10.
14Tuttavia, per quanto concerne l’evoluzione del regime sovietico Salvadori critica coloro che affermano la piena continuità fra Lenin e Stalin:
ciò che vi fu di specifico nel Lenin uomo di stato fu una soggettività politica di segno in certo modo opposto a quella di Stalin. Il dramma soggettivo di Lenin fu infatti, la lotta incessante per “salvare” la dittatura del proletariato; lo scopo di Stalin fu invece di tirare le somme del fallimento dell’“utopia” bolscevica della dittatura del proletariato.11
L’ultima battaglia di Lenin per escludere Stalin dai vertici del partito e dello Stato e la lotta per il potere dopo la sua morte rappresentano quindi il passaggio dalla “dittatura rivoluzionaria” esercitata in nome delle masse alla “dittatura giacobina” contro le masse. L’affermazione piena del potere di Stalin è il passaggio successivo: quello della costruzione del “totalitarismo”. Sulla categoria di “totalitarismo” Salvadori precisa che, pur non essendo utile per comprendere la base sociale, essa permette di individuare le caratteristiche comuni e quindi di comparare quei regimi di destra e di sinistra che aspirano a modificare la società munendosi di «un apparato coercitivo e propagandistico di tipo plebiscitario»12.
15Così, nella volontà di definire la propria autonomia culturale e nel tentativo di far emergere le contraddizioni della strategia del Pci, nella lettura dell’Ottobre e nella concezione del socialismo del Psi iniziano ad affermarsi paradigmi come quello di “giacobinismo” e di “totalitarismo”, che già si erano imposti nella sinistra francese13 e che negli anni successivi giocheranno un ruolo decisivo nell’evoluzione complessiva delle culture della sinistra italiana.
16La lettura e le rappresentazioni che si trovano sulla stampa del Pci mostrano la complessità del percorso avviato dai comunisti italiani dal 1956 ma anche l’esistenza di quelle contraddizioni sulle quali i socialisti non mancano di porre l’accento.
17Il 23 febbraio 1977 esce su «l’Unità» una recensione firmata da Adriano Guerra dell’edizione italiana del volume sulla Rivoluzione d’Ottobre dello storico dissidente sovietico Roy Medvedev, pubblicato da Editori Riuniti14. La questione centrale del saggio di Medvedev è la stessa posta dai comunisti italiani: quella del rapporto fra democrazia e socialismo e dell’affermazione globale, a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre, di una concezione del socialismo che guarda negativamente al pluralismo, alla libertà culturale e alla circolazione delle idee.
18Guerra segue Medvedev nella ricerca di una spiegazione storica delle ragioni per cui in Russia si assiste al trionfo di un modello di socialismo privo di democrazia. Tale spiegazione si trova nell’arretratezza dello Stato e dei corpi intermedi, che rende impossibile un’alleanza fra le forze operaie e contadine, presupposto per la creazione di quell’unità fra i partiti di sinistra che avrebbe potuto impedire che si giungesse alla guerra civile15.
19A dimostrazione di come il dilemma del rapporto democrazia-socialismo sia già presente nel periodo che va dal 1917 al 1919, Guerra insiste sul fatto che Lenin riconoscerà questo errore nel 1919, avviando la riflessione che, nel 1921, vedrà l’adozione della Nuova Politica Economica.
20Da questo scritto emergono una serie di elementi al centro della rappresentazione comunista dell’Ottobre: quello dell’arretratezza della Russia che condiziona il modello di socialismo che si afferma a partire dal 1917; quello delle “occasioni mancate” e dei “ritardi” che frenerebbero la correzione degli errori commessi e favorirebbero l’accumulazione di contraddizioni sempre più gravi nel regime socialista e nel movimento comunista internazionale16.
21Queste chiavi di lettura alimentano l’originalità del Pci: la capacità del partito italiano di scorgere alcune delle disfunzioni dell’esperienza nata nel 1917 gli permette di condurre, non senza contraddizioni e insufficienze, una riflessione sulla costruzione del socialismo in occidente. Da ciò deriva anche il rifiuto dell’accostamento fra l’eurocomunismo e le tesi della socialdemocrazia degli anni Venti e Trenta.
22Il 18 febbraio Giuseppe Vacca pubblica una recensione del libro di Salvadori dal titolo eloquente: Perché Kautsky non ci serve. L’intellettuale barese critica la tendenza di Salvadori a enfatizzare i difetti della componente comunista del movimento operaio senza richiamare l’attenzione sui «sessant’anni di fallimenti della socialdemocrazia». In linea con numerosi teorici marxisti degli anni Sessanta e Settanta, Vacca ritiene la concezione strumentale dello Stato e delle istituzioni una caratteristica che accomuna tutto il marxismo nel periodo fra la due guerre e che quindi costituisce un limite sia per la socialdemocrazia che per il bolscevismo.
23Prendendo le mosse dalla sconfitta della rivoluzione in Europa infatti, Gramsci avvia negli anni Trenta il superamento della dicotomia fra democrazia borghese e democrazia proletaria. Le punte più avanzate della tradizione comunista comprendono che le stesse forme della dominazione capitalistica entrano in una fase nuova in cui non è più possibile una equazione sociologica costante e precisa fra democrazia parlamentare e dominio della borghesia, anche a causa degli effetti dell’Ottobre sulla struttura del mondo (democrazia di massa e stato del benessere). La riflessione sulla democrazia di tipo nuovo di marca gramsciano-togliattiana segna per Vacca un processo di riclassificazione delle forme politiche esistenti che supera «gli orizzonti teorici sia della socialdemocrazia sia del leninismo»17.
24Gli articoli pubblicati su «l’Unità» e su «Rinascita» in coincidenza delle celebrazioni del sessantesimo anniversario del 1917, oltre a dare grande risalto alle dichiarazioni di Berlinguer a Mosca si concentrano sulle condizioni di arretratezza in cui si realizza la costruzione del primo Stato socialista. Nelle pagine del quotidiano del Pci del 6 novembre Adriano Guerra e Umberto Cerroni pongono l’accento sul problema storico della debolezza della società civile in Russia, ritenuto alla base del carattere arretrato e rozzo della dicotomia fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa che segna tutta la storia dell’Urss. L’evoluzione del regime fino al suo consolidamento staliniano, pur favorendo i processi di modernizzazione economica e il miglioramento delle condizioni di vita, impedisce lo sviluppo di una moderna cittadinanza democratica.18
25Il supplemento di «Rinascita» del 4 novembre, intitolato L’Ottobre e noi, mostra lo sforzo del Pci nel cercare di veicolare una lettura articolata della Rivoluzione d’Ottobre che ponga in luce, in un momento di forte appannamento dell’immagine del socialismo reale, il percorso fatto dai comunisti italiani sin dai tempi di Togliatti. Questo numero del «Contemporaneo» ospita contributi di Luigi Longo, Giancarlo Pajetta, Fernando Di Giulio e una tavola rotonda a cui partecipano Pietro Ingrao, Romano Ledda, Giuliano Procacci, Cesare Luporini e Umberto Cerroni. Sia l’editoriale di Pajetta che l’intervista di Marcella Ferrara a Longo presentano la Rivoluzione come un evento che scaturisce dall’immane massacro della Prima guerra mondiale e pongono l’accento sulla volontà di pace del proletariato russo e dei bolscevichi senza ricordare come nel progetto di Lenin fosse centrale l’idea della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Pur mettendo in luce le sconfitte prodotte dal monolitismo staliniano, ostacolo principale all’unità del proletariato occidentale, si ricorda che l’Ottobre ha segnato l’apertura di una nuova epoca, quella del protagonismo delle masse popolari e della transizione al socialismo19. Secondo Di Giulio nel corso di questa nuova epoca l’importanza delle vie nazionali è stata limitata dall’attacco avversario ma anche dalla debolezza critica e dalla tendenza alla mitizzazione del ’17 generate dal monolitismo ideologico20.
26La tavola rotonda si concentra sulle potenzialità e sui limiti della lettura dell’Ottobre del Pci a partire dall’intervista di Togliatti a «Nuovi Argomenti» del 1956. Viene sottolineato il carattere precursore delle dichiarazioni sul policentrismo e sulla necessità di comprendere le violazioni della «legalità socialista» durante l’epoca staliniana. Tuttavia – fa notare Procacci – nella riflessione togliattiana era assente la piena consapevolezza che tali violazioni o i loro presupposti erano presenti già prima dell’ascesa al potere di Stalin come elemento oggettivo (la società russa) e soggettivo (la strategia e il funzionamento del partito bolscevico)21.
27La Rivoluzione è inserita all’interno di un più complesso intreccio di eventi e processi che segneranno tutta la storia del Novecento. In particolare l’articolo di Mario Tronti analizza il ‘17 in relazione al New Deal rooseveltiano, due passaggi che sanciscono quel primato della politica che segnerà tutta l’evoluzione storica successiva: come la Rivoluzione aveva forzato l’uscita dalla guerra e la costruzione del socialismo mediante il primato della politica così Roosevelt forza l’uscita dalla crisi economica con l’affermazione del medesimo primato, in entrambi i casi si rovescia il rapporto fra Stato e società, superando il paradigma centrale del liberalismo borghese-ottocentesco22.
28Le rappresentazioni socialiste e comuniste appaiono dunque fortemente intrecciate fino a comporre un unico confronto fortemente legato all’evoluzione del quadro politico, quello dell’avvicinamento del Pci all’area di governo e, dalla fine del 1977, dell’impasse in cui precipita la strategia del Compromesso storico. Nel contempo, appare evidente come sia il Psi sia il Pci cerchino di andare oltre la polemica ideologica e di confrontarsi con il 1917 per definire la propria identità culturale e le rispettive strategie e concezioni del socialismo. Nello scenario nazionale e internazionale di fine anni Settanta questo sforzo non può che accrescere la divaricazione fra i due partiti.
Dal Vangelo socialista di Craxi allo “strappo” di Berlinguer
29L’ultimo triennio degli anni Settanta rappresenta un passaggio di fase, iniziano ad affermarsi in Italia tendenze e correnti culturali provenienti dall’estero come quella dei Nouveaux Philosophes, che mettono al centro l’interiorità, l’individuo, l’irrazionalismo23. Dal punto di vista storiografico si assiste al prepotente ritorno in auge della categoria di “totalitarismo”, all’interno della quale sono accumunati il comunismo e il nazi-fascismo. Con la fine della stagione dei movimenti sociali cominciano ad essere attaccati i linguaggi, i simboli e le rappresentazioni sedimentatisi nelle culture del movimento operaio e si avvia la destrutturazione del rapporto fra intellettuali e politica per come esso si era definito nei decenni precedenti24.
30Nel numero di «Mondo Operaio» di marzo 1978, Franco Gaeta presenta il programma di un convegno internazionale organizzato dall’Istituto Socialista di Studi Storici dal titolo Rivoluzione e reazione in Europa. Egli sottolinea che al centro dell’incontro vi è la tesi secondo cui la Rivoluzione bolscevica interrompe il processo di nazionalizzazione delle masse proletarie portato avanti dai partiti della II Internazionale dalla fine dell’Ottocento. L’Ottobre sarebbe dunque all’origine della «grande illusione» che «la radicalizzazione delle masse a dispetto degli apparati dei partiti tradizionali fosse di per sé sufficiente a far dilagare la rivoluzione». In realtà – scrive Gaeta – questa strategia produsse una insanabile frattura nel movimento operaio, favorì direttamente l’avanzata della reazione e provocò l’affermazione del «socialismo in un paese solo», nel contempo «elaborazione» e «crollo» dell’ipotesi leninista25. Alla luce di tutto questo, obbiettivo del convegno è iniziare a liquidare la «vulgata leninista» particolarmente forte in Italia e diffondere finalmente, mediante la «revisione storica», un «utile controveleno a un’intossicazione ideologica»26.
31Il consolidarsi della leadership craxiana imprime una forte accelerazione alla revisione identitaria del Psi. Il passaggio fondamentale di questa accelerazione è lo scontro sulla trattativa con le Brigate Rosse durante il sequestro Moro. Il Psi e Craxi infatti, non avevano esitato a criticare violentemente la fermezza dei comunisti, colpevoli di voler sacrificare l’individuo alle esigenze dello Stato e del suo potere. Un principio questo, che si istalla stabilmente al centro dello scontro ideologico a sinistra e nella strategia del nuovo gruppo dirigente socialista.
32Il discorso del Psi sulla Rivoluzione subisce un’ulteriore radicale evoluzione nell’estate del 1978, con l’intervista concessa da Craxi a Eugenio Scalfari per il settimanale «L’Espresso» intitolata Per noi Lenin non è un dogma, i cui contenuti sono ulteriormente sviluppati nel libro intitolato il Vangelo socialista, scritto da Craxi insieme allo storico Luciano Pellicani27.
33Il segretario del Psi sintetizza i contenuti dell’intervista e del libro in un articolo apparso su «Mondo Operaio» nel mese di settembre con il titolo Leninismo e socialismo28. Secondo Craxi Lenin teorizza «il diritto-dovere degli intellettuali guidati dalla “scienza marxista” di sottoporre la classe operaia alla loro direzione», per questo il Che fare?, summa della strategia bolscevica, è «una aggressiva ripresa del progetto di Robespierre, che già molte scuole socialiste avevano definito come una sorta di dispotismo pseudo-socialista»29.
Con il successo storico-politico del leninismo, la logica giacobina, con tutte le sue componenti vecchie e nuove che sfociano nella dittatura rivoluzionaria, prende il sopravvento sulla logica pluralistica e democratica del socialismo e la Russia si incammina sulla strada del collettivismo burocratico-totalitario. […] C’è nel leninismo la convinzione che la natura umana è stata degradata dalla apparizione della proprietà privata, che ha disintegrato la comunità primitiva scatenando la guerra di classe. E c’è soprattutto il desiderio di ricreare l’unità originaria facendo prevalere la volontà collettiva sulle volontà individuali, l’interesse generale sugli interessi particolari. In questo senso il comunismo è organicamente totalitario, nel senso che postula la possibilità di istituire un ordine sociale così armonioso da poter fare a meno dello Stato e dei suoi apparati coercitivi. Questo “totalitarismo del consenso” deve però essere preceduto da un “totalitarismo della coercizione”30.
Come noto, Craxi risale fino a Marx e, recuperando le critiche rivoltegli dal francese Pierre-Joseph Proudhon, afferma che non si deve
confondere il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva, il superamento storico del liberalismo con la sua distruzione. Il carattere autoritario di ciò che viene chiamato il “socialismo reale maturo” non è una deviazione rispetto alla dottrina, una degenerazione frutto di una somma di errori, bensì la concretizzazione delle implicazioni logiche dell’impostazione rigidamente collettivistica originariamente adottata. L’esame dei fondamenti del leninismo non può che confermare tale tesi31.
Per marcare la distanza netta e definitiva del suo partito dalla tradizione politica e culturale nata nell’Ottobre 1917 e per sancire l’adesione al modello liberale della primazia dei diritti individuali, Craxi fissa alcuni paradigmi fondamentali: il rifiuto della forma partito per come essa era andata contraddittoriamente definendosi dal 1917 in poi (organizzazione di massa strutturata attorno ad un gruppo dirigente coeso e disciplinato organicamente legato alla base), che egli identifica con la dittatura di un gruppo di intellettuali sulle masse, l’idea del bolscevismo come erede della tradizione giacobina e quindi l’equazione fra bolscevismo e totalitarismo. Si tratta di una serie di rappresentazioni che, concordemente con quanto avviene fuori dai confini nazionali, tenderanno sempre più a dominare il dibattito italiano sulla Rivoluzione del 1917 e, più in generale, a leggere l’esperienza del movimento operaio e democratico sulla base della contrapposizione fra una corrente “riformista”, rispettosa dell’individuo e dei diritti umani, aderente al primato della “società civile” sulla politica, e conciliabile con il liberalismo e la democrazia, e una “rivoluzionaria” e totalitaria, che dal terrore di Robespierre, passando per Marx, arriva al Gulag di Lenin e Stalin32.
34Dall’estate del 1978 il Pci scivola lentamente in una situazione di relativo isolamento sia nello scenario politico italiano che in quello internazionale. Per il partito di Berlinguer si restringono i margini d’azione politica e si diffonde la percezione che lo slancio degli anni Settanta si sia interrotto. Per molti intellettuali comunisti si fa strada l’idea dell’insufficienza strategica e teorica del tentativo di elaborare una via originale di transizione al socialismo portato avanti negli anni precedenti.
35Lungo tutto il corso degli anni Settanta le necessità di mantenere l’unità interna al gruppo dirigente e di accreditarsi come partito di governo avevano limitato la capacità del Pci di fare i conti fino in fondo con la crisi del movimento comunista a guida sovietica, e avevano fatto sì che la revisione politica e culturale finisse per limitarsi al recupero della versione italiana del paradigma frontista, elemento centrale nell’evoluzione di lungo periodo della cultura politica dei comunisti occidentali33. La riproposizione del paradigma frontista impedisce al Pci non solo di confrontarsi fino in fondo con la crisi del modello sovietico ma anche di comprendere a pieno i mutamenti sociali e culturali e le nuove istanze emerse dai conflitti sociali. Dal 1979 Berlinguer inaugura un orientamento che parte dalla critica del Compromesso Storico e cerca di favorire una valorizzazione delle innovazioni introdotte dal 1956 in poi. Di questo tentativo fa parte anche la revisione ulteriore della lettura della Rivoluzione d’Ottobre e della fase storica che essa apre.
36Nell’ultimo numero di gennaio del 1979, anno del centenario della nascita di Stalin, «Rinascita» pubblica un Dossier sullo stalinismo. Vi si trova una tavola rotonda con Luciano Barca (all’epoca direttore del settimanale comunista), Giuseppe Boffa e Paolo Bufalini, oltre a un articolo dello storico francese Alexandre Adler – da poco uscito dal PcF e approdato al Partito Socialista di Mitterrand – sulle origini dello stalinismo ed uno sulla collettivizzazione sovietica dello studioso statunitense Robert W. Davies. L’intento principale del dossier è quello di porre alcuni interrogativi sui principali nodi politici e storici che segnano la storia del socialismo sovietico e la cultura del movimento comunista. Al centro dei vari articoli si ritrova spesso la questione della rottura dell’unità fra operai e contadini come presupposto delle degenerazione autoritaria del socialismo. L’abolizione del mercato cominciata nel Comunismo di Guerra e ripresa dopo la parentesi della NEP viene fatta risalire all’equazione, radicata nella cultura politica dei bolscevichi, fra statalizzazione e socializzazione. Con maggior convinzione rispetto al passato tale equazione è presentata come l’elemento che frammenta e impedisce lo sviluppo della partecipazione democratica delle masse alla costruzione del socialismo34.
37Fra il 1979 e il 1980 il Pci promuove l’analisi e la discussione su quelle figure della Rivoluzione perseguitate da Stalin o relegate all’oblio. Il 3 novembre 1979, a cento anni dalla nascita, Giuseppe Boffa pubblica un lungo articolo su Trockij, presentato come il protagonista indiscusso, accanto a Lenin, della Rivoluzione35. Ma un momento fondamentale di quest’opera di revisione è senza dubbio il convegno su Bucharin organizzato dall’Istituto Gramsci e dalla scuola di formazione del partito (l’Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti di Frattocchie), che si tiene dal 27 al 29 giugno 1980. Il convegno – le cui relazioni principali sono di Stephen Cohen, Giuseppe Boffa, Aldo Zanardo, Moshe Lewin e Wlodimierz Brus36 – avrà una certa risonanza in Italia e all’estero37 e degli ampi estratti delle relazioni andranno a comporre il supplemento di «Rinascita» della settimana successiva.
38Nel discorso di apertura dei lavori Rosario Villari sottolinea che «l’interesse fondamentale degli studiosi per Bucharin è quello di approfondire, al di là della sua stessa personalità, l’analisi storica della Rivoluzione bolscevica, dei suoi sviluppi, della sua influenza nel resto del mondo». Senza rinunciare ad analizzare le contradizioni della sua figura, le relazioni sottolineano sia la diversità di posizioni fra Bucharin e Stalin sullo sviluppo del socialismo, sulla Nep e sulla collettivizzazione, sia una differente idea della rivoluzione mondiale, concepita come processo di lungo periodo basato su tre pilastri: l’Unione Sovietica, il movimento operaio e i partiti comunisti dei paesi capitalisti, e i movimenti di liberazione nazionale.
39Spriano invece, nella veste di direttore dell’Istituto Gramsci, si preoccupa di respingere le critiche di studiosi socialisti come Vittorio Strada, il quale dalle pagine del «Corriere della Sera» aveva presentato il convegno come un ambiguo e opportunistico tentativo di trasformare la figura di Bucharin in un mito precursore dell’eurocomunismo38. In realtà, la riflessione promossa dal Pci sul dirigente bolscevico (che era stato il pupillo di Lenin, l’alleato di Stalin contro Trockij e l’opposizione di sinistra, e infine aveva pagato con la fucilazione la definitiva affermazione del potere stalinista), oltre a far emergere alcuni aspetti della sua elaborazione che richiamano la concezione del socialismo del partito italiano post 1956, appare anche come un’anticipazione di quella lettura sulla Rivoluzione d’Ottobre promossa da Gorbačëv nei primi anni della Perestroika.
40Fra il 1981 e il 1982, al tentativo del Pci di rafforzare il proprio profilo di indipendenza e originalità nell’ormai frammentato e opaco panorama del comunismo internazionale si contrappone un’intensa offensiva ideologica dei socialisti.
41Nel numero della rivista socialista del febbraio 1981 Ugoberto Afassio Grimaldi parla delle letture della Rivoluzione dell’ala riformista del Psi nel primo dopoguerra. Secondo l’autore la scissione di Livorno era inevitabile poiché fu lo sbocco naturale degli effetti del 1917 sul socialismo italiano: dal febbraio 1917 tutte le tendenze del Psi sostennero la Rivoluzione e le anime riformiste del partito si schierarono con decisione dalla parte del governo di Kerenskij. Con l’Ottobre e i successivi sviluppi (elezioni dell’Assemblea Costituente e suo scioglimento coatto da parte dei bolscevichi, guerra civile e Comunismo di Guerra) prende corpo fra i riformisti italiani l’opposizione al leninismo e al bolscevismo. Alla luce di ciò il rifiuto dell’opzione rivoluzionaria in Italia durante gli scioperi del Biennio rosso è presentato come il tentativo di evitare una sanguinosa repressione. L’articolo si conclude contestando la tesi degli storici del Pci, che indicano nella scissione di Livorno l’avvenimento che permette al movimento operaio italiano di prendere parte al grande movimento internazionale nato con la Rivoluzione d’Ottobre. Al contrario l’autore afferma che, se il Pci non fosse nato «l’Italia conterrebbe da tempo su un efficiente e moderno partito socialista occidentale di massa. Non avremmo l’ipoteca del fattore K e di conseguenza l’egemonia permanente delle forze moderate»39.
42Nel fascicolo di luglio-agosto Melograni torna sulla questione della politica internazionale di Lenin, già affrontata nel convegno di Perugia. La tesi principale è che, contrariamente a quanto affermerebbe la vulgata sin dai tempi del Comintern, Lenin e i bolscevichi non desideravano affatto una rivoluzione europea poiché questa, con le tradizioni democratiche che caratterizzavano i movimenti nazionali a Occidente, avrebbe finito per mettere in difficoltà i comunisti russi. Il vero obbiettivo di Lenin era infatti di utilizzare l’appello alla rivoluzione mondiale per creare una rete centralizzata di Pc in Europa al servizio degli interessi della Russia40. L’utilizzo del movimento comunista come strumento di politica estera quindi, non è una prerogativa dello stalinismo ma la diretta emanazione del progetto leninista originario.
43La lettura socialista risulta in questa fase sempre più funzionale alla revisione identitaria del partito, l’analisi storica sull’Ottobre e sull’esperienza sovietica sono piegate costantemente alle esigenze della polemica con i comunisti. Una polemica che si fa ancora più feroce dopo le dichiarazioni sull’“esaurimento della spinta propulsiva” dei regimi nati dalla Rivoluzione d’Ottobre.
Dalla “fine della spinta propulsiva” alla Perestroika
44L’espressione, usata per la prima volta da Berlinguer in una conferenza stampa il 15 dicembre 1981, due giorni dopo il colpo di Stato del generale Jaruzelski in Polonia, è sin da subito oggetto di diverse interpretazioni e segna un passaggio importante sia nelle relazioni del Pci con il blocco sovietico, sia nella sua lettura del socialismo reale e della Rivoluzione, tanto da indurre Armando Cossutta, capofila dell’ala filosovietica del partito, a individuare in quella dichiarazione un vero e proprio “strappo” con la tradizione del comunismo italiano.
45Per recuperare il filo del dibattito che, per più di un anno, si sviluppa attorno alle dichiarazioni di Berlinguer, è utile riprendere i contenuti di un articolo pubblicato su «Rinascita» del febbraio 1983, alla vigilia del XV congresso del Pci e nel momento in cui Andropov ha dato il via alle prime riforme in Unione Sovietica.
46L’articolo sottolinea che la dichiarazione del segretario del Pci precisava che «l’Ottobre rosso è stato il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca» e, che, pochi giorni dopo quelle parole, Berlinguer ritornava sul tema nella sala stampa del Parlamento europeo ricordando che
la Rivoluzione d’Ottobre ha spezzato il dominio incontrastato del capitalismo e dell’imperialismo, ha permesso la nascita dei partiti comunisti in tutto il mondo; ha dato impulso alle loro lotte d’emancipazione economica e politica, e a quella dei movimenti rivoluzionari di liberazione e di indipendenza dei popoli ex-coloniali in Africa, in Asia e altrove. Tutte le conquiste che sono venute dalla Rivoluzione del ’17 […] hanno contato e contano grandemente: se quelle conquiste non ci fossero state noi non saremmo qui a discutere di come andare avanti.41
La linea del Pci – come ricorda Alfredo Reichlin su «l’Unità» del 7 novembre 1982 – è quella di collocare «fuori dal mito e dentro la storia la Rivoluzione d’Ottobre», un’esigenza che non è soltanto dei comunisti ma di tutti coloro che non rinunciano a comprendere la storia del Novecento42.
47Nel discorso comunista vi è dunque il tentativo di superare una lettura esclusivamente ideologica della Rivoluzione russa ma anche la volontà di respingere la diffusa tendenza alla demonizzazione veicolata dall’utilizzo massiccio e indiscriminato di categorie come quella di “totalitarismo” e di “giacobinismo”.
48In un intervento sul settimanale del partito dell’estate del 1982, Boffa identifica come ugualmente ideologiche le due tendenze dominanti: quella apologetica, tipica della cultura sovietica, e quella demonizzatrice, alla Solženicyn, ormai egemone nel dibattito culturale occidentale. Quest’ultima favorisce una serie di generalizzazioni che premettono di accomunare la Rivoluzione del 1917, il socialismo reale e i regimi nazi-fascisti. Entrambe le tendenze sono concordi nel porre in diretta continuità l’Ottobre, lo stalinismo e il post stalinismo43.
49In contrapposizione alle posizioni del Pci ci sono quelle del Psi, che agli inizi degli anni Ottanta diventa uno dei principali sostenitori e diffusori in Italia di quella che è stata definita l’“ideologia antitotalitaria”, ovvero di quell’insieme di correnti di pensiero e rappresentazioni, eterogeneo e contraddittorio, tendente alla demonizzazione e al rifiuto non solo dell’eredità della Rivoluzione d’Ottobre, ma anche della Rivoluzione francese, del marxismo e in generale di ogni riferimento all’idea rivoluzionaria per come essa si era radicata nell’universo teorico e culturale del movimento operaio novecentesco 44.
50Su «Mondo Operaio» del febbraio 1982 Luciano Vasconi afferma che il Pci è fermo al XX Congresso – che i comunisti descrivono come un’occasione mancata – e rifiuta di analizzare la realtà sovietica. Lo “strappo” quindi, seppur avvenuto, è ancora insufficiente: esso rappresenta al massimo un punto di partenza per un’analisi del socialismo reale, che il Pci ancora sostiene45.
51Nel numero di maggio viene pubblicata la relazione di Salvadori al convegno sul giacobinismo che si è svolto a Roma qualche settimana prima. Il tema dell’articolo è quello della diretta derivazione dei bolscevichi dai giacobini. Siamo nel contesto dell’affermazione in Italia delle tesi dello storico francese François Furet (presente al convegno), secondo il quale l’irruzione sulla scena politica delle masse popolari durante la Rivoluzione francese avrebbe rappresentato un deragliamento (dérapage) rispetto all’ispirazione originaria, di tipo liberale, di un processo giunto a maturazione nel 178946. Dalla fine degli anni Settanta Furet è impegnato in una battaglia contro quello che definisce “il catechismo rivoluzionario” della storiografia marxista e giacobina47 ed è uno dei principali fautori della traduzione sul piano storiografico delle correnti di pensiero antitotalitarie48. Prendendo spunto dal dérapage furetiano, Salvadori riconosce nella distorsione del marxismo introdotta dai bolscevichi l’origine della cultura politica comunista e nel deragliamento della Rivoluzione russa fra febbraio e ottobre l’origine del totalitarismo sovietico49.
52Questo indirizzo è ripreso un mese dopo nella recensione di Badeschi del secondo volume dell’opera dello studioso dissidente e emigrato polacco Leszek Kolakowski, Nascita, sviluppo e dissoluzione del marxismo, uscita in Italia presso la casa editrice vicina al Psi Sugarco come risposta alla Storia del marxismo pubblicata da Einaudi50. Badeschi scrive:
Se il rapporto Marx-Lenin può essere comunque oggetto di controversie, molto più chiaro è il legame di continuità fra leninismo e stalinismo. Facendo del partito la “coscienza esterna” del movimento operaio e l’unica fonte legittima di iniziativa politica, Lenin apriva la strada a Stalin. Il tentativo di “staccare” l’uno dall’altro rappresenta una forzatura. Come disse Togliatti in piena destalinizzazione, Stalin resta “un classico del marxismo-leninismo”51.
Nello stesso numero Luciano Pellicani parla del Paradosso delle rivoluzioni che «hanno promesso la libertà, la democrazia, la giustizia, ma hanno rafforzato la dipendenza della società dallo Stato, fino a concludersi con l’imposizione di regimi tirannici». L’uso sistematico della violenza sarebbe la diretta derivazione del vuoto di potere creato dagli eventi52.
53Scrive lo stesso Pellicani nell’ottobre 1984:
La repressione e la sua forma istituzionalizzata, il sistema dei campi di concentramento, sono quindi scritti nel codice genetico dell’idea comunista. Fra le teorie di Marx e il Gulag di Stalin la coerenza e la continuità sono assolute, addirittura necessarie53.
Così, di fronte al tentativo di revisione storica invocato e tentato dal Pci, e nel momento in cui in Italia aspirano a ricoprire un ruolo di primo piano negli equilibri politici delle maggioranze di pentapartito, i socialisti sono indotti a radicalizzare il loro revisionismo.
54Nel corso degli anni Ottanta si assiste quindi alla larga diffusione nel dibattito pubblico del paradigma del rifiuto della rivoluzione e di una concezione della politica come espressione del conflitto sociale. Ciò avviene nel quadro dell’affermazione di idee e correnti che guardano alla società e allo Stato come terreni di confronto e di mediazione fra interessi individuali. L’affermazione di nuove forme egemoniche, favorita dalla crisi del socialismo reale, implica dunque la messa in discussione delle conquiste materiali e lo sgretolamento delle forme culturali e organizzative che le classi subalterne erano riuscite a costruire nel corso del Novecento.
55In questo contesto avvengono sia il mutamento identitario del Psi sia la rottura del Pci con il blocco sovietico e la ricerca di quella che Berlinguer chiama la Terza Via al Socialismo.
56Nel corso degli anni Ottanta, rispetto agli altri partiti comunisti occidentali quello italiano mostra una straordinaria capacità di non sprofondare nel declino elettorale e di arginare il disfacimento culturale della propria base militante. Fino alla fine alla morte di Berlinguer nel 1984 il Pci rifiuta sia l’integrazione negli equilibri neoliberali dell’Occidente e dell’Europa, che coinvolge i partiti dell’Internazionale socialista – e in Italia vede il Psi come principale protagonista – sia il ripiego nel massimalismo nazionalista e filosovietico dei comunisti francesi e spagnoli. Dai primi anni Settanta, a partire dalla riflessione sulla crisi del modello sovietico e dalla revisione del giudizio sulla Rivoluzione del 1917 e i suoi sviluppi, si afferma nel Pci una concezione etica della rivoluzione, che intende la marcia verso il socialismo come il superamento del capitalismo mediante il progressivo risanamento dei guasti da esso provocati54. Durante l’ultimo quinquennio della segreteria di Berlinguer il Pci cerca di reagire alla crisi culturale e strategica del movimento operaio su un piano etico e ideologico poiché, a causa di fattori oggettivi (crisi dell’Età dell’oro e della distensione internazionale) e soggettivi (erosione culturale e simbolica del progetto politico comunista), appare sempre più incapace di fornire una risposta su quello della teoria e della pratica politica55.
57Il limiti di questa risposta si possono scorgere anche nel crescente grado di permeabilità del dibattito culturale comunista alle tesi revisioniste e antitotalitarie. Per esempio, il 21 gennaio 1983 «Rinascita» pubblica senza alcun commento una recensione di Furet del film del regista polacco Andrzej Wajda sulla figura di Danton. L’articolo, intitolato Il Boomerang giacobino, era uscito qualche tempo prima sul settimanale francese «Le Nouvel Observateur», testata della sinistra intellettuale da anni impegnata a fustigare la matrice giacobina e totalitaria del movimento operaio56.
58Secondo Furet, il cineasta polacco «attraverso la Rivoluzione francese parla del bolscevismo; tramite i processi del marzo 1794 egli racconta i processi staliniani mediante «i “comitati” giacobini descrive i partiti comunisti.» La rivoluzione rappresentata da Wajda è «senza società e senza popolo»
è diventata un teatro con qualche decina di personaggi. […] La macchina cammina da sola, senza che le volontà umane – compresa quella di Robespierre – possano fare granché. […] Un linguaggio impazzito e un’universale paura: queste le regole del gioco politico che Wajda svela sotto i nostri occhi, mostrando che quel linguaggio e quella paura, i quali trasformano gli uomini in oggetti della politica rivoluzionaria, neutralizzano e alla fine distruggono coloro che cercano di sfuggirvi. […] L’esempio giacobino ha ossessionato i capi bolscevichi durante il periodo eroico, cioè sotto Lenin e Trockij, all’inizio del secolo. Dopo la rivoluzione del ‘17 si è prodotto un movimento inverso: è l’esempio bolscevico che ha rianimato la tradizione giacobina, non solo nel partito comunista (e grazie a lui), ma anche nella storiografia dotta57.
Furet ribadisce il concetto fondamentale al centro della sua opera di storico e di pubblicista durante gli anni Ottanta: quello dell’ineluttabilità della deriva totalitaria di ogni progetto rivoluzionario. Il suo obbiettivo è di demolire sia sul piano ideologico che su quello storiografico la rappresentazione della rivoluzione come irruzione delle masse popolari sulla scena politica. La traduzione e pubblicazione dell’articolo dello storico francese sul settimanale comunista potrebbe essere letta come un tentativo di limitare l’offensiva culturale del Psi che, come si è visto, aveva fatto del legame giacobinismo-comunismo un suo cavallo di battaglia.
59Nel periodo che va dai primi anni Ottanta all’inizio della perestroika, passando per la morte di Berlinguer, il Pci non riesce a cogliere pienamente la svolta epocale che sta maturando, quella della fine dell’“Età dell’oro”58. In particolare non è in grado di misurare la portata delle trasformazioni culturali che questo passaggio determina e il ruolo svolto dai mass-media. Lo sgretolamento culturale del partito dopo la morte del segretario fa emergere tutti i limiti della risposta etico-ideologica alla crisi del progetto politico comunista elaborata fra il 1978 e il 1984. Il periodo che va dalla morte di Berlinguer allo scioglimento del partito mostra infatti che quella risposta non riesce a sopravvivere alla scomparsa del suo principale artefice perché non era stata in grado di incidere profondamente sulla cultura politica, sulla composizione sociale e sulla struttura organizzativa del partito. Le letture della Rivoluzione d’Ottobre dei comunisti italiani fra il 1984 e il 1991 seguono la parabola del tentativo di Gorbačëv di salvare l’esperienza nata nel 1917 e rivelano come i modelli culturali che prevalgono nel processo di scioglimento del Pci si avvicinano – per molti aspetti fin quasi a coincidere – a quelli introdotti durante la mutazione identitaria del Partito Socialista cominciata alla fine degli anni Settanta.
Le speranze della perestroika e il dibattito su Togliatti
60Durante il biennio 1985-86 si assiste a un calo di interesse per il tema della Rivoluzione e lo scontro più acceso fra socialisti e comunisti si svolge attorno alle politiche dei governi Craxi. La morte di Berlinguer inaugura la graduale frammentazione degli indirizzi culturali del Pci: sul piano della ricerca teorica e della politica culturale le tematiche classiche, in cui è possibile rilevare il filo della tradizione comunista italiana o che ribadiscono la ricerca della Terza Via, tendono a confondersi con orientamenti e impostazioni eterogenee, opera dell’iniziativa di singoli intellettuali o gruppi di essi, che spesso amplificano e traducono correnti e tematiche provenienti dall’estero59.
61L’elezione di Gorbačëv a segretario generale del Pcus l’11 marzo 1985, il cambio radicale della politica estera sovietica e l’avvio delle riforme riaccendono il dibattito sulle interpretazioni dell’Ottobre e sull’idea di rivoluzione.
62Su «Rinascita» del gennaio 1987, in un articolo dal titolo Socialismo in Movimento, Boffa riflette sulla portata del processo avviato in Urss e lo mette in relazione con quello in corso nella Cina di Deng Xiao Ping. Egli riconosce a entrambe le esperienze il merito di prendere le mosse da un ripensamento radicale, che potrebbe aprire una nuova fase nella storia del socialismo.
63Sulla base di questa previsione Boffa risponde a Eugenio Scalfari. Il direttore di «Repubblica» infatti, con l’approssimarsi del bicentenario della Rivoluzione francese dalle colonne del suo giornale aveva insistito sull’auspicio che tutta la sinistra abbandonasse i valori dell’Ottobre, lasciando al centro del proprio patrimonio quelli del 1789.
Il guaio – scrive Boffa – è che da due secoli o giù di lì gli uomini si danno tanta pena proprio per combinare quei valori con quelli che sono stati poi proclamati dalla Rivoluzione russa (e, in altro senso, da quella cinese). Errore è stato, da una parte e dall’altra, ritenere che si potessero affermare gli uni negando gli altri. E invece gli uni senza gli altri non bastano. Lo dice l’esperienza dell’Est ma non lo smentisce certo quella dell’Ovest.60
In occasione del settantesimo anniversario della Rivoluzione il Pci promuove la pubblicazione di un supplemento di «Rinascita» e l’uscita, in allegato a «l’Unità» del 1 novembre, di un volumetto dal titolo eloquente: Se vince Gorbačëv61.
64La tavola rotonda su «Rinascita» vede la partecipazione di Boffa, Spriano, del filosofo Biagio De Giovanni e, significativamente, dello storico socialista Salvadori, allora in parziale dissenso con gli esiti del rinnovamento culturale del Psi.
65Secondo De Giovanni la battaglia in corso in Urss condiziona tutta l’attuale riflessione sull’Ottobre e rende il settantesimo anniversario più importante di quello del decennio precedente. Quel che accade in Urss infatti, aiuta a «storicizzare fortemente il 1917», liberandolo «dal mito politico esclusivo e fondante». La vicenda russa del ‘17 – continua il filosofo comunista – non è importante solo per le tradizioni politiche del movimento operaio ma segna tutta la storia d’Europa. Il 1917 è l’ultima grande «rivoluzione giacobina» del mondo occidentale, ciò la rende non un fatto asiatico ma un fenomeno radicato profondamente nella cultura europea. Per questo non può essere compreso mediante «l’uso indifferenziato della categoria di totalitarismo»62.
66Salvadori, diversamente da quello che è l’orientamento prevalente nel Psi, effettua una differenziazione fra il 1917 e i suoi protagonisti (Lenin, Trockij ma anche il menscevico Martov), fra i quali prevalevano orientamenti e sensibilità formatesi sulla base dei «presupposti culturali marxisti-occidentali», e gli sviluppi successivi, dove la nazionalizzazione e la russificazione della Rivoluzione operata da Stalin ha trasformato il marxismo in strumento di governo e di legittimazione ideologica63.
67Boffa invece, sottolinea come «dallo sviluppo dello Stato sovietico sono scaturite una serie di idee che hanno finito per far parte della cultura moderna»: il primato dei diritti sociali su quelli individuali, la direzione dell’economia organizzata, «l’idea stessa di pianificazione», il problema dello sviluppo e del sottosviluppo, «impostato proprio nei dibattiti sovietici degli anni Venti»64.
68Il supplemento di «Rinascita» contiene anche un’intervista di Giulietto Chiesa a Medvedev, che negli anni della Perestroika svolge un ruolo di primo piano nel dibattito storico in Unione Sovietica. Lo studioso definisce lo stalinismo come una deviazione del progetto originario dell’Ottobre, che rende irriconoscibile il volto del socialismo sovietico e determina il fallimento dei tentativi di riforma succedutisi nella storia del paese65.
69Il volume uscito con «l’Unita» mostra invece come il Pci cerchi nella Perestroika l’occasione per il rilancio del socialismo e la conferma delle posizioni critiche assunte sin dal 1956. Nell’introduzione Gerardo Chiaromonte sottolinea che i comunisti italiani sono
consapevoli delle difficoltà immense che la politica di Gorbačëv ha incontrato, incontra e incontrerà. Questa consapevolezza ci deriva proprio dalle conclusioni critiche alle quali siamo giunti, negli anni passati, sulla società sovietica, e più in generale sul rapporto, che non può essere eluso, fra socialismo e democrazia. Voglio aggiungere che ci troveremmo, oggi, di fronte alle drammatiche denunce di Gorbačëv, in una situazione veramente paradossale e assurda, se non fossimo giunti, da tempo, come comunisti italiani, alle note conclusioni e scelte circa la nostra collocazione internazionale66.
L’impostazione è duplice: da una parte è messa in luce la drammatica necessità di una riforma del modello economico e politico socialista, dall’altra è invocata l’urgenza di inaugurare un nuovo approccio alla politica internazionale. Esigenza questa, che conferma la giustezza della accettazione del Pci della collocazione atlantica dell’Italia e la scelta europea.
70Tale ambivalenza del discorso si misura anche nel modo in cui è costruita la relazione fra il nuovo corso di Gorbačëv e l’eredità dell’Ottobre: Boffa si chiede quanto l’Urss di oggi sia «figlia della Rivoluzione» e non il risultato, come sostiene lo stesso Gorbačëv, di un’evoluzione politica, economica e istituzionale iniziata con Stalin, nel corso della quale sono emerse costantemente opzioni alterative: da Bucharin fino al riformismo gorbacioviano, passando per Chruščëv. Queste opzioni, in alcuni casi represse con la forza, si sono scontrate con «la capacità di resistenza dello Stato staliniano». Di fronte alla gravità della crisi del socialismo la politica di riforme va alla ricerca di soluzioni inedite ed originali, i cui presupposti si trovano solo parzialmente nel bagaglio teorico e culturale del comunismo. Situazione analoga per la politica estera: dove – scrive Boffa – «il nuovo pensiero internazionale [di Gorbačëv] può attingere solo in misura assai ridotta dal pensiero rivoluzionario di settant’anni fa»67.
71Le rappresentazioni dell’Ottobre che emergono in questo settantesimo anniversario, e che si legano alla crisi del socialismo reale e al tentativo di riforma in atto, mostrano quindi che la parte più concreta del discorso del Pci – come avviene, del resto, per lo stesso gruppo dirigente gorbacioviano – sia oramai quella della critica del passato, e che la costruzione di nuovi paradigmi ideologici e prospettive politiche sia poco più che una dichiarazione d’intenti. L’identità comunista appare sempre più precaria e per questo il Pci è sempre meno capace di mantenere la propria autonomia culturale rispetto alle sollecitazioni provenienti dall’esterno.
72Il discorso socialista sulla Rivoluzione in questo settantesimo anniversario ricalca il profilo disegnato negli anni precedenti, come dimostra il dossier di «Mondo Operaio» del 10 ottobre 1987. Nel suo articolo intitolato La controrivoluzione d’Ottobre Vittorio Strada conferma l’equazione giacobinismo-bolscevismo, ribadisce la natura totalitaria del pensiero marxista e presenta l’Ottobre come una controrivoluzione rispetto al Febbraio 1917, quando le masse popolari, prive di direzione, insorsero spontaneamente e posero fine al regno secolare degli Zar. Orazio Niceforo rivendica ancora una volta la giustezza delle posizioni del riformismo socialista italiano nel condannare il colpo di Stato dei bolscevichi68.
73Nel 1988 i socialisti lanciano una nuova offensiva culturale per colpire il Pci nel punto più sensibile della sua identità, quella di partito radicato nella tradizione nazionale. L’obbiettivo individuato per questo scopo è la figura di Palmiro Togliatti. Sugli organi di stampa socialisti escono numerosi articoli che descrivono Togliatti come un convinto stalinista, esecutore fedele delle direttive di Stalin, testimone, accusatore e giudice di dissidenti, politico scaltro e opportunista sempre pronto ad allearsi con i conservatori per eliminare i competitori alla sua sinistra69.
74Le prese di posizione dei socialisti scatenano immediatamente un acceso dibattito al quale, oltre alla stampa del Pci prende parte attiva anche «la Repubblica». Il giornale diretto da Eugenio Scalfari conquista in questi anni un ruolo di primo piano e riesce a condizionare le modalità e i temi della discussione pubblica e interna ai partiti della sinistra, esercitando una notevole influenza sull’evoluzione di identità politiche sempre più precarie70.
75Nel marzo 1988 dalle pagine del quotidiano romano Achille Occhetto risponde ai giudizi dei socialisti su Togliatti e allarga il ragionamento al rapporto del Pci con la Rivoluzione d’Ottobre. Il titolo dello scritto del coordinatore del Pci (Occhetto sarà eletto segretario qualche mese dopo) – Il passato è sepolto – è eloquente ed insolito, soprattutto per il tipo di rapporto fino ad allora intrattenuto dal gruppo dirigente comunista con la storia. Occhetto sostiene che quella dei socialisti è un’opera di delegittimazione storica del comunismo italiano, che vuole mettere in discussione la sua originalità e, in fin dei conti, il suo contributo alla costruzione dell’Italia repubblicana. Più che su accuse e processi, e anziché concentrarsi sul ruolo di singole figure, argomento del quale dovrebbero occuparsi gli specialisti, per Occhetto la sinistra dovrebbe impegnarsi nella comune «radicale ricollocazione storica della Rivoluzione di Ottobre e di tutto il complesso movimento che da quella rivoluzione ha preso le mosse.»
76Analizzare potenzialità e limiti del ‘17 porterebbe infatti a «relativizzare il significato della Rivoluzione di Ottobre e a coglierne fino in fondo gli aspetti particolari, legati alla particolarità stessa dello sviluppo storico della Russia». Tale storicizzazione farebbe sì che le generazioni future possano guardare al 1917 come a «una visione giacobina della politica», non idonea a pensare la trasformazione del mondo contemporaneo71. Dopo esser stato già enunciato da De Giovanni (intellettuale molto vicino al futuro segretario) il paradigma della “natura giacobina dell’Ottobre” è dunque ripreso da Occhetto.
77Pochi giorni dopo, sempre dalle colonne di «Repubblica», il socialista Giorgio Ruffolo apprezza la volontà di una radicale ricollocazione storica dell’Ottobre, invocata da Occhetto in maniera decisa come mai un dirigente comunista aveva fatto prima. Tuttavia – continua Ruffolo – il Pci si mostra reticente a discutere del suo passato: come la ricollocazione storica della Rivoluzione russa non può seppellire il mito da essa rappresentato (mito rappresentato dagli operai di Pietrogrado e dai Soviet che abbattono lo zarismo), così una discussione sulla storia del Pci non può prescindere dal problema della sua “doppiezza”: dalla natura «di partito comunista (staliniano) e di partito democratico nazionale. Il nodo di questa impossibile endiadi è proprio Togliatti72.»
78Il 2 marzo la discussione si sposta su «l’Unità» con due interventi, l’uno di Vittorio Foa, l’altro di Giancarlo Pajetta, la cui diversità permette di rilevare il processo di frammentazione culturale interno al Pci.
79Foa, all’epoca eletto senatore come indipendente nelle liste comuniste, valuta molto positivamente le dichiarazioni di Occhetto sulla storicizzazione della Rivoluzione poiché manifestano l’interesse per «la nuova dimensione della contraddizioni» e per «la ricerca delle forze all’altezza dei nuovi problemi». «Come vecchio uomo di Giustizia e Libertà e della tradizione torinese di Piero Gobetti» apprezza soprattutto il richiamo di Occhetto
al giacobinismo come possibile chiave di lettura della Rivoluzione d’Ottobre e soprattutto delle esperienze che ne sono seguite. Giacobinismo come sovrapposizione volontaristica del comando dell’intellettuale, del politico, che scende dall’alto, come autonomia della politica di rapporti sociali. […] L’opposto del giacobinismo era la rivoluzione dal basso, l’autogoverno nel lavoro e nella vita, la saldatura tra la trasformazione sociale e la libertà come mezzo e come fine.73
Di segno opposto l’intervista a Pajetta. L’autorevole dirigente comunista esordisce evidenziando la pretestuosità della polemica socialista su Togliatti, ma sottolinea anche che è necessario indagare con serietà e rigore «un passato del quale è fatta tanta parte nel nostro presente. Un passato che non si può semplicemente seppellire». Pajetta affronta anche il problema del giacobinismo.
vedo che in Francia c’è chi vuole condannare come un sussulto plebeo il diroccamento della Bastiglia, o far piangere sul fatto che la ghigliottina fece cadere nel cesto le teste di Maria Antonietta, Luigi XVI. Dimenticando che anche di tutto questo fu fatta la Rivoluzione […]. Gli avvenimenti che sconvolsero il mondo nel 1917, che aprirono strada a successivi rivolgimenti, vanno misurati per i tempi nei quali avvennero.
Continua poi sulle dichiarazioni di Occhetto e sul valore simbolico dell’Ottobre
Non avremmo resistito in carcere e fra i partigiani se non avessimo creduto nella forza di questa rivoluzione e dello Stato che era nato da quella rivoluzione. Non saremmo però diventati il partito che siamo diventati se avessimo creduto che potesse essere fotocopiato l’assalto al Palazzo d’Inverno.74
Da una parte le posizioni di Foa, che fanno riferimento esplicito alla tradizione democratico-radicale declinandola in chiave antigiacobina (per giacobinismo si intende il rapporto verticale fra masse e partito, e il cosiddetto “primato dell’avanguardia formata da intellettuali”) e dove il superamento del passato e la ricerca di nuove prospettive suonano sempre più come una dichiarazione d’intenti priva di un contenuto politico e culturale autonomo.
80Dall’altra parte il discorso di Pajetta, con la rivendicazione del 1917, con la difesa dei principi della storicizzazione degli eventi e con l’esaltazione del protagonismo delle masse nel processo rivoluzionario e nella storia. Quello di Pajetta però, appare come un tentativo di tutelare un bagaglio di principi e tradizioni che non riesce a vivere nel presente perché investito dalla crisi del socialismo reale e dalla forza d’urto di una nuova egemonia.
81Su questa polarizzazione si svilupperà il processo che porta alla fine del Pci: da una parte la difesa identitaria, dall’altra le varie tendenze e sfumature del nuovismo. Il rapporto di queste ultime con il 1917 è l’oggetto del paragrafo conclusivo di questo saggio.
La fine del comunismo
82Fra il 1988 e 1991 il dibattito culturale della sinistra italiana si intreccia con gli eventi che sconvolgono il volto dell’Europa e del mondo: il confronto su Togliatti, la crisi della perestroika, il bicentenario della Rivoluzione francese, il crollo del Muro di Berlino, la Bolognina, lo scioglimento del Pci e il crollo dell’Urss scandiscono le battute conclusive del processo di sgretolamento culturale iniziato alla fine degli anni Settanta.
83Nell’estate del 1989, prendendo le mosse dal ruolo e dalla figura di Togliatti, prosegue il dibattito sull’identità del comunismo italiano. Quello che è stato definito il «congresso degli intellettuali» si concluderà soltanto nel 1991, con il crollo dell’Urss e lo scioglimento del partito75. L’esito della discussione mostra che le correnti favorevoli alla svolta si dividono fra quelli che propugnano una liquidazione dell’esperienza del comunismo, e quindi anche dell’originalità italiana, e coloro che, con la fine del socialismo reale, pensano che l’eredità di Togliatti sia «spendibile grazie alla fine del comunismo, che ha liberato la tradizione nazionale dalla zavorra internazionale»76. Fra il 1989 e il 1991 queste due sensibilità lavorano per uno scopo comune: traghettare finalmente e definitivamente il Pci ad una cultura riformista che sia parte integrante della grande famiglia del socialismo europeo77.
84Dal 1988 le riforme di Gorbačëv si rivelano sempre più difficili: fra conflitti nazionali, resistenze, crisi economica e sociale, l’Urss precipita nel caos78. Nel 1989 e 1990 «l’Unità» pubblica gli altri due volumi della serie di quattro supplementi sulla perestroika. Rispetto a quelli del 1987 e del 1988 (il primo, come si è visto, descriveva Gorbačëv come il possibile autore di un rilancio del comunismo nel mondo, il secondo era una raccolta di documenti originali sull’aspro confronto in corso nell’Urss)79, che esprimevano un sostegno pieno e convinto alla politica di riforme, il terzo e il quarto sono piuttosto un tentativo, condotto da studiosi della realtà sovietica, di comprendere le dinamiche centrifughe che hanno determinato la crisi. Non vi sono prese di posizione nette, mediante una serie di analisi sul partito, le istituzioni, l’economia, la questione delle nazionalità è descritta una situazione sempre più precaria. I due volumi sembrano restituire la volontà più o meno esplicita del Pci di prendere le distanze da Gorbačëv in vista di una sua possibile disfatta80.
85Un altro evento cruciale per misurare l’evoluzione del rapporto dei due partiti della sinistra italiana con il ’17 e, in generale, con l’idea di rivoluzione, è il Bicentenario della Rivoluzione francese. Nel mese di gennaio 1989 «l’Espresso» pubblica una serie di supplementi dedicati al Bicentenario. In quello del 29 escono due interviste realizzate da Ferdinando Adornato con Craxi e Occhetto sul significato della Rivoluzione francese per i due grandi partiti della sinistra italiana.
86Alla domanda se ritiene corretta l’affermazione secondo la quale i socialisti sono figli della Rivoluzione dell’89 e i comunisti di quella dell’Ottobre 1917, Craxi risponde che anche i comunisti, oltre ad essere gli eredi della Rivoluzione bolscevica, sono figli degli ideali della Rivoluzione francese, perlomeno di quelli riconducibili al giacobinismo. Dopo aver confermato il rapporto diretto fra giacobinismo, leninismo e comunismo, il segretario del Psi afferma che «l’eredità più negativa della Rivoluzione francese è stata l’illusione che attraverso la violenza si possa spazzare via tutto ciò che degrada gli uomini». Secondo il segretario socialista è questa la lezione negativa della rivoluzione giacobina e di quella bolscevica. «Una lezione che oggi la sinistra nel suo complesso ha ben compreso. Ed è per questo che l’epoca storica della speranza nella rivoluzione volge al tramonto81.»
87Per Craxi non si tratta soltanto di affermare la superiorità del riformismo su ogni opzione di tipo rivoluzionario. Egli infatti interpreta il concetto di uguaglianza in termini di solidarietà. In questo modo va oltre la prospettiva socialdemocratica classica e conferma l’adesione ad un sistema di valori di tipo liberaldemocratico.
88Accanto all’intervento del segretario socialista c’è quello di Occhetto. Incalzato dall’intervistatore sul rapporto fra Rivoluzione francese e Rivoluzione d’Ottobre egli dichiara che il Pci è figlio della prima poiché riconosce la democrazia come valore universale ma precisa che la rivoluzione comunista «ha aperto le porte al riscatto di intere porzioni dell’umanità». L’intervistatore interroga Occhetto sul concetto di rivoluzione e gli chiede se, nel momento in cui afferma che i comunisti sono figli della Rivoluzione francese, egli intende anche il Terrore e il giacobinismo. Occhetto risponde che i comunisti non sono più figli del giacobinismo e che esso come esperienza storica è portatore di elementi allo stesso tempo positivi e negativi. Quelli positivi sono la «creazione di nuovi valori» come l’uguaglianza, la difesa della patria, la creazione del concetto di Nazione come comunità di cittadini di uguali diritti. I valori negativi invece, sono il germe del totalitarismo contenuto nella carica di autoesaltazione della rivoluzione che sfocia nella violenza. L’esperienza giacobina ha dimostrato che nessuna rivoluzione può mai diventare quotidianità.
89L’unico elemento che lo differenzia dalle posizioni di Craxi è che Occhetto ritiene che l’epoca della rivoluzioni non è finita ma che è ormai da ritenersi superata quella delle rivoluzioni violente. Tuttavia, in questa vaga rivendicazione, il segretario del Pci non si riferisce alla transizione pacifica al socialismo ma alla la rivoluzione femminile che – dice – «ha determinato un mutamento di cultura e di vita reale per tutti: e può essere considerata una grande rivoluzione non violenta della nostra epoca»82. Alla condanna dell’utopia rivoluzionaria dei giacobini e dei bolscevichi segue quindi il riconoscimento de primato dei diritti civili sui diritti sociali: i valori del 1789 (e non di tutta la Rivoluzione francese) si sostituiscono a quelli del 1917.
90Il 22 gennaio 1989 un editoriale di Scalfari su «Repubblica» sottolinea le forti convergenze fra il punto di vista di Craxi e quello di Occhetto. Scalfari scrive che le interviste dimostrano che socialisti e comunisti
non considerano più il marxismo come un’armatura politicamente utilizzabile e neppure come il solo metodo valido di analisi della realtà; entrambi sono concordi nel ritenere che le libertà borghesi, quelle appunto contenute nella dichiarazione dei Diritti dell’uomo, sono i pilastri sui quali è stata costruita la democrazia moderna; sia l’uno che l’altro rifiutano il giacobinismo in quanto concezione violenta e totalitaria del potere. Tutti e due, infine, si rifanno a una visione pragmatica della politica, che è quanto dire a un’accettazione piena della democrazia liberale.83
Il 5 febbraio 1989 su «L’Espresso» Norberto Bobbio commenta le posizioni dei due segretari sulla Rivoluzione francese. Anche l’intellettuale torinese scorge nelle loro dichiarazioni una manifestazione di adesione ai principi della cultura liberale. Poiché, come rivoluzione borghese, la Rivoluzione francese è stata sempre considerata dai partiti del movimento operaio «come il punto di partenza e non come il punto di arrivo». A proposito della parole di Occhetto, Bobbio si domanda se un partito comunista nato dall’esperienza del 1917 possa riconoscere i propri antenati nel 1989 «senza perdere insieme con la propria identità la propria ragion d’essere» e si chiede se il grande fallimento storico del socialismo reale renda necessario l’abbandono di ogni progetto di emancipazione umana.
91L’intervista si chiude con una lucida osservazione:
L’idea forza di tutti i movimenti socialisti dal secolo scorso fino a ieri poteva riassumersi in una sola parola, questa sì forte, fortissima, carica di un profondo significato emotivo: emancipazione. Sostituire l’ideale dell’emancipazione umana con quello della modernizzazione non mi pare una grande conquista. Anzi da parte della sinistra pare una perdita dei valori ideali che l’hanno ispirata da più di un secolo. […] ho l’impressione di assistere a un grande processo di decadenza84.
Il 9 novembre 1989 crolla il muro di Berlino, tre giorni dopo, nella sezione della Bolognina, Occhetto annuncia «grandi cambiamenti» ed esplicita l’ipotesi del superamento del Pci. Poco prima, il 2 Ottobre, aveva pronunciato un’importante relazione al Comitato Centrale del partito, nella quale aveva espresso considerazioni sul primato della società civile sulla politica85.
92L’ormai inesorabile sbriciolamento di paradigmi come il primato della politica, la visione di classe, la concezione gramscian-togliattiana del partito si può riscontrare nel modo in cui il Crollo del Muro è messo in relazione con l’idea rivoluzionaria: il 12 novembre il filosofo Mario Ceruti scrive su «l’Unità» un articolo intitolato Le Bastiglie dell’’89. Per Ceruti «l’idea di rivoluzione che progressivamente si è sviluppata nel corso di questi due secoli è giunta a contraddire la storia degli eventi che sono culminati nella presa della Bastiglia». Le rivoluzioni infatti, non sono «pensate a tavolino», condotte dalle
avanguardie della storia grazie alla scoperta di presunte leggi. […] Se il vecchio gioco del potere era eminentemente ideologico, il nuovo gioco imposto dalla gente, è eminentemente anti-ideologico: oggetti del contendere non sono il capitalismo o il socialismo, ma la libertà e la qualità della vita non soltanto collettiva, ma anche individuale86.
Nel discorso di Ceruti la presa della Bastiglia e il crollo del Muro sono contrapposti implicitamente al giacobinismo e all’Ottobre: i primi rappresentano il primato della “gente”, i secondi quello dell’ideologia e degli intellettuali. Emerge così il rifiuto della politica di massa come azione di gruppi sociali organizzati dotati di una propria autonomia culturale e quindi di una propria ideologia.
93Nel 1990 si consuma il processo di dissoluzione dell’Unione sovietica, contestualmente prosegue e si accelera la damnatio memoriae della Rivoluzione d’Ottobre e del comunismo. A parte alcune vaghe dichiarazioni di principio e qualche tentativo alla ricerca di punti d’appoggio all’interno di un universo culturale in via di dissoluzione, o gli svariati appelli di anziani dirigenti, intellettuali o militanti di base a non demolire la propria storia,87 la stampa del Pci è sempre più partecipe della diffusione dei nuovi paradigmi.
94Il 28 luglio su «Rinascita» esce un’intervista a Evgenij Ambarzonov, presidente dell’Istituto Internazionale di studi economici socialisti dell’Accademia delle Scienze dell’Urss, da pochi mesi trasformatosi nell’Istituto Internazionale di Studi Economici. Ambarzonov è fra coloro che cercano di svolgere un ruolo di raccordo fra Gorbačëv e Boris Eltsin.
95L’economista sovietico afferma che sul piano della teoria economica è necessario ripensare totalmente i presupposti del socialismo guardando, oltre che alle teorie di Keynes, anche a quelle liberiste di Milton Friedman e di Frederich Von Hayek. Sul ruolo dell’Urss nella storia europea invece, l’intellettuale russo dice di condividere le tesi di Ernst Nolte sulla polarizzazione comunismo-fascismo. In conclusione Ambarzonov sottolinea il
distacco sempre più visibile fra Gorbačëv e la tradizione comunista.[…] Il suo richiamo al comunismo, quando c’è, appare puramente rituale, generale, non si riferisce a una meta sociale dello sviluppo. L’accento di Gorbačëv batte decisamente sul socialismo nella sua accezione democratica, e ciò avviene nel quadro di un’interpretazione praticamente identica al socialismo democratico dell’Europa occidentale88.
Fra il marzo 1990, quando si tiene a Bologna il XIX Congresso, e il XX Congresso del febbraio 1991, si decide lo scioglimento del Pci. Qualche mese dopo, il 26 dicembre 1991, scompare l’Unione Sovietica.
96Il 10 ottobre 1992 su «Mondo Operaio» Pellicani parla di «morte storica del comunismo» e del «marxismo teorico». Secondo lo storico socialista «la guerra ideologica scatenata dalla Rivoluzione bolscevica» ha cessato di lacerare una sinistra europea il cui futuro è ormai altrove: nel tentativo di «universalizzare i diritti di cittadinanza allargando il perimetro borghese dello Stato liberale89.»
97Recentemente è stato ricostruito il modo in cui lo storico comunista Franco De Felice analizza, da osservatore critico distaccatosi dalla vita del suo partito, il processo di scioglimento del Pci. Secondo De Felice negli anni Ottanta il gruppo dirigente comunista scivola in una condizione di subalternità ai nuovi modelli egemonici90. L’analisi fin qui condotta permette di confermare questa interpretazione e di estenderla ad entrambe le famiglie della sinistra italiana. Prima i socialisti e poi, con meno di un decennio di ritardo e forse con meno consapevolezza, i comunisti accettano e introiettano il sistema di valori dell’avversario. Senza riuscire a comprendere e a contrastare la formazione di un nuovo sistema egemonico, il Psi e il Pci divengono veicolo di diffusione di riferimenti esterni alla cultura del movimento operaio, del socialismo e del comunismo novecentesco. Riferimenti che guardano all’esperienza rivoluzionaria e ai suoi sviluppi esclusivamente come esercizio della violenza e dell’oppressione sui popoli e sugli individui.
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Notes de bas de page
1 Gervasoni (2013).
2 Salvadori (1976).
3 M.L. Salvadori, Attualità di Kautsky, in «Mondo Operaio», n. 1, gennaio 1977, p. 109.
4 Ibidem.
5 M. Bonajuto, Kautsky e la Rivoluzione bolscevica, ivi, n. 7-8 agosto 1977, pp. 125-26.
6 G. Sabatucci, Il Mito dell’Urss e il socialismo italiano¸ in L’Urss, Il mito le masse, in Annale III della Fondazione Giacomo Brodolini e della Fondazione di Studi storici Filippo Turati (1991), Roma, pp. 77-78.
7 Di Maggio (2014).
8 Pons (2004), p. 114.
9 M.L. Salvadori, È socialista l’Unione Sovietica?, in «Mondo Operaio», n. 10, ottobre 1977.
10 Ivi, pp. 57-58.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 Christofferson (2009).
14 R.A. Medvedev (1976).
15 Guerra scrive che «Se […] menscevichi e socialrivoluzionari negavano a possibilità stessa di una rivoluzione socialista nel paese dopo l’Ottobre […], dopo la primavera del 1918 alla base della rottura troviamo in primo luogo il fatto che i bolscevichi decisero improvvisamente di avviare una fase nuova, la seconda rivoluzione del processo rivoluzionario. I bolscevichi posero fine al processo di riforme democratiche che avrebbero dovuto garantire l’unità della classe operaia e contadina per passare direttamente alla istaurazione del socialismo attraverso misure di carattere punitivo soprattutto nei confronti dei contadini.». A. Guerra, I dilemmi dell’Ottobre, in «l’Unità», 23 febbraio 1977, p. 3.
16 Ibidem.
17 G. Vacca, Perché Kautsky non ci serve, in «Rinascita», 18 febbraio 1977, pp. 21-22.
18 A. Guerra, Com’è oggi la società sovietica, in «l’Unità», 6 novembre 1977, p. 7; U. Cerroni, Dai primi soviet alla nuova costituzione, ivi, p. 7.
19 G. Pajetta, I fondamenti di un nuovo internazionalismo, in «Rinascita-Il Contemporaneo», n. 43, 4 novembre 1977; L. Longo, M. Ferrara, I confini del socialismo. Tre domande a Longo, ivi, p. 13.
20 F. Di Giulio, La discussione sul valore di modello, ivi, p. 19 .
21 U. Cerroni, P. Ingrao, C. Luporini, G. Procacci, R. Ledda, Da dove veniamo, dove andiamo, ivi, pp. 15-19.
22 M. Tronti, Il ’17 e il New Deal, ivi, pp. 23-23.
23 M. Di Maggio, I Nouveaux Philosophes nella stampa italiana, in Taviani, Vacca (2016), pp. 311-32.
24 Christofferson (2009); Vacca (2016).
25 F. Gaeta, Rivoluzione e reazione in Europa, in «Mondo Operaio», n. 1, gennaio 1978, pp. 128-29.
26 M. Baccianini, Leninismo e socialdemocrazia nel Primo Dopoguerra, ivi, n. 4, aprile 1978, pp. 122-123. Il giudizio del Pci sul convegno socialista arriva puntuale su «l’Unità» del 16 aprile. Nella pagina culturale, Spriano si sofferma sulla relazione dello storico Piero Melograni, che sostiene la tesi secondo la quale le spinte estremiste e rivoluzionarie avrebbero provocato il fallimento del Biennio rosso e l’ascesa del fascismo. Lo storico comunista riprende la riflessione di Togliatti secondo cui il Partito Socialista del primo dopoguerra non sarebbe stato capace di allargare le basi democratiche dello Stato. Un’interpretazione che Togliatti aveva ripreso dalle critiche che Lenin aveva rivolto ai dirigenti del Psi nel corso degli eventi. P. Spriano, Lo storico polemizza con un Lenin immaginario, in «l’Unità», 16 aprile 1978, p. 3.
27 B. Craxi, Parché per noi Lenin non è un dogma, in «L’Espresso», 27 agosto 1978; Craxi, Pellicani (1978).
28 B. Craxi, Leninismo e socialismo, in «Mondo Operaio», n. 9, settembre 1978, p. 65.
29 Ivi, pp. 64-65.
30 Ibidem.
31 Ibidem.
32 A partire da questo momento la differenziazione fra Lenin e Stalin scomparirà completamente dalle pagine della stampa socialista. Come scrive Vittorio Strada agli inizi del 1980, «come fenomeno storico, lo stalinismo non è distinguibile dall’Urss e dal Comintern, ma si illumina di significati solo se è visto come momento e fase del bolscevismo, del leninismo e della Rivoluzione d’Ottobre.» V. Strada, Interpretazioni di Stalin, in «Mondo Operaio», n. 1, gennaio 1980, p. 110.
33 Di Maggio (2014).
34 Dossier sullo stalinismo, in «Rinascita», n. 27, gennaio 1979, pp. 31 e ss.
35 G. Boffa, La figura e l’opera di Leone Trotskij a cento anni dalla nascita, in «l’Unità», 3 novembre 1979, p. 3.
36 Bucharin nella storia dell’Urss e del comunismo, in «Rinascita-Il Contemporaneo», n. 4, luglio 1980.
37 Per esempio, nel asfittico dibattito che contraddistingue il Partito comunista francese (che in questa fase intrattiene relazioni tutt’altro che distese con il Pci), il convegno diviene per alcuni intellettuali l’occasione per far avanzare una discussione più aperta sulla storia del movimento comunista e del loro partito. Si veda in proposito S. Wolikow, Un colloque Boukharine à Rome, in «Cahiers d’histoire de l’Institut de Recherches Marxistes», n. 5, 1981, p. 179.
38 V. Strada, Porte chiuse al leninismo, in «Corriere della Sera», 4 luglio 1980. p. 4. I contenuti di questo articolo saranno ripresi nell’introduzione di Strada al libro del leader menscevico Jurij Martov e nell’articolo di presentazione del volume apparso nel numero di settembre di «Mondo Operaio». Martov (1980); V. Strada, Martov e la critica marxista del leninismo, in «Mondo Operaio», n. 1, gennaio 1980, p. 109.
39 U. Alfassio Grimaldi, I riformisti italiani e la Rivoluzione d’Ottobre, in «Mondo Operaio». n. 2, febbraio 1981, p. 129.
40 P. Melograni, Lenin e la rivoluzione mondiale, in «Mondo Operaio», n. 7-8, luglio-agosto 1981, p. 111.
41 La fine della spinta propulsiva. I giudizi del CC, della direzione del Pci e di Berlinguer, in «Rinascita», n. 6, 11 febbraio 1983, pp. 16-17.
42 A. Reichlin, A 65 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, in «l’Unità», 7 novembre 1982, p. 1.
43 G. Boffa, Stalin: l’altra rivoluzione, in «Rinascita», n. 42, 4 giugno 1982, pp. 20-21.
44 Christofferson (2009).
45 L. Vasconi, La lunghissima marcia del Pci, in «Mondo Operaio», n. 2, febbraio 1982, pp. 2-7.
46 Furet, Richet (1974).
47 F. Furet, Le catéchisme révolutionnaire, in «Annales. Economies, Sociétés, Civilisations», n.2, 1971, pp. 255-89.
48 Christeferson (2009), pp. 303-54.
49 M.L. Salvadori, Il giacobinismo nel pensiero marxista, in «Mondo Operaio», n. 5, maggio 1982, pp. 100-11.
50 Kolakowski (1983); Hobsbawm (1978-1982).
51 G. Badeschi, Il Marxismo uno e trino, in «Mondo Operaio», n. 3, marzo 1982, pp. 120-24.
52 L. Pellicani, Il paradosso delle rivoluzioni, ivi, pp. 125-29.
53 Id, Da Marx a Stalin, in «Mondo Operaio», n. 10, ottobre 1984, pp. 69-75.
54 F. Lussana, Il confronto con le socialdemocrazie e la ricerca di un nuovo socialismo nell’ultimo Berlinguer, in Barbagallo, Vittoria (2007), pp. 147-72.
55 M. Di Maggio, Internazionalismo, socialismo ed europeismo nel Pci di Berlinguer, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 2, 2016, pp. 72-78.
56 Christofferson (2009), pp. 147 e ss.
57 F. Furet, Il boomerang giacobino, in «Rinascita», 21 gennaio 1983, pp. 27-28.
58 Paggi, D’Angelillo (1986), pp. 56-84, 106-17; Vacca (1987), pp. 24-25, 127-28.
59 Corradi (2005), pp. 369 e ss., Vacca (2016).
60 G. Boffa, Socialismo in movimento, in «Rinascita», n. 1, 10 gennaio 1987, pp. 3-4.
61 Se vince Gorbaciov. Storia, immagini, documenti, riflessioni nel 70 della Rivoluzione d’Ottobre, supplemento a «l’Unità», 1 novembre 1987.
62 G. Boffa, B. De Giovanni, M.L. Salvadori, P. Spriano, Come ripensare quei dieci giorni. Dalla Rivoluzione alla Perestroika, in «Rinascita-Il Contemporaneo», n. 43, 7 novembre 1987, p. 16.
63 Ivi, pp. 16-17.
64 Ivi, p. 16.
65 G. Chiesa, R.J. Medvedev, Quel che è in gioco in questo anniversario, in Id., pp. 22-23.
66 G. Chiaromonte, Sanza timore della storia, in Se vince Gorbaciov cit., p. 8.
67 G. Boffa, Ottobre vicino e lontano, ivi, pp. 13-14 e 27. Questo concetto è ripreso da Adriano Guerra nel suo contributo dedicato al ruolo dell’Urss nello scenario mondiale «L’obbiettivo proposto non è, ne può evidentemente essere, quello del recupero delle collocazioni perdute. La fase storica dell’Internazionalismo a direzione sovietica, così come della identificazione tra socialismo ed esperienza sovietica appartiene – e del resto non da oggi – al passato»: A. Guerra, Le mosse di una fortezza assediata, ivi, p. 38.
68 O. Niceforo, I socialisti italiani e la Rivoluzione russa, in «Mondo Operaio», n. 10, ottobre 1987, pp. 100-105.
69 Gervasoni (2013), pp. 136-42; Possieri (2007), pp. 185-91.
70 A. Gagliardi, Un giornale per i «tempi nuovi». I primi dieci anni di «Repubblica», in Taviani, Vacca (2016), pp. 15-44.
71 A. Occhetto, Il passato è sepolto, in «la Repubblica» 10 marzo 1988.
72 G. Ruffolo, Occhetto, coraggio e cortine fumogene, ivi, 13 marzo 1988.
73 V. Foa, Il Pci e l’Ottobre. La storia si analizza non si adora, in «l’Unità», 2 marzo 1988, p. 2.
74 G. Pajetta, L’Ottobre vicino e lontano, ivi, p. 23.
75 Liguori (2009), p. 140.
76 B. De Giovanni, C’erano una volta Togliatti e il comunismo reale, in «l’Unità», 20 agosto 1989, p. 1; S. Veca, C’è molto da fare e ne vale la pena, ivi, 4 febbraio 1991, p. 1.
77 G. Sorgonà, La proposta storiografica di Franco de Felice, in De Felice (2016), pp. 156-59.
78 Graziosi (2011), pp. 543 e ss.
79 Se vince Gorbaciov cit.; Perestroika, amici e nemici. Documenti dall’Urss, suppl. a «l’Unità», 3 giugno 1988.
80 L’Ottantanove di Gorbaciov, suppl. a «l’Unità», 28 novembre 1989; Vita o fine della Perestroika, suppl. a «l’Unità», 28 giugno 1990.
81 B. Craxi, F. Adornato, Pensaci giacobino, la Storia è dei moderati, in A due secoli dalla Rivoluzione Francese suppl. a «L’Espresso», n. 4, 29 gennaio 1989, p. 41.
82 A. Occhetto, F. Adornato, Parigi, sei tu la nostra Rivoluzione, ivi, p. 44.
83 E. Scalfari, Occhetto ha intonato la Marsigliese, in «la Repubblica», 22 gennaio 1989.
84 N. Bobbio, Buio a sinistra, in «L’Espresso», n. 5, febbraio 1989, p. 13.
85 G. Sorgonà, La proposta storiografica di Franco De Felice cit. p. 159; Prospero (2016), pp. 82 e ss.
86 M. Ceruti, Le Bastiglie del 1989, in «l’Unità», 12 novembre 1989, p. 2.
87 A. Guerra, Il suo peccato? Lenin, in «l’Unità», 19 agosto 1990; M. Tronti, 1989 e dintorni. Grandezza e miseria, in «Rinascita», n. 38, ottobre 1990, pp. 28-40; R. Roscani, Lenin, in «l’Unità», 29 agosto 1992, p. 6; E. Garin, Non cancellate quella storia, ivi, 1 settembre 1992, p. 6; C. Mancina, 7 novembre, ivi, p. 2.
88 B. Gravagnuolo, E. Ambarzonov, Lontano da Lenin, in «Rinascita», n. 22, 8 luglio 1990, pp. 55-57.
89 L. Pellicani, La morte storica del comunismo, in «Mondo Operaio», n. 10, ottobre 1992, pp. 2-3.
90 G. Sorgonà, La proposta storiografica di Franco De Felice cit., pp. 160 e ss.
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Università La Sapienza di Roma
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