Da «Rinascita» a «Quindici». Il dibattito intellettuale dentro, intorno e fuori dal PCI
p. 182-200
Texte intégral
1Era stata la “scoperta di Gramsci” (Chiarotto 2011), come è noto, a rendere possibile l’incontro tra il “partito nuovo”, prospettato da Togliatti dal 1943 e il ceto intellettuale, sia inteso nelle persone, sia nelle strutture (case editrici, soprattutto). Decisivo fu il ruolo svolto dalle riviste, tanto le testate del versante letterario e artistico, quanto quelle delle scienze umane e sociali. Non era la prima volta nella storia italiana, né sarebbe stata l’ultima; ma certo si trattò di uno dei momenti più alti di una vicenda che ha visto protagoniste le riviste di cultura militante, sin dal «Caffè» dei Verri e di Beccaria, sino all’ultima grande stagione, quella degli anni Settanta del Novecento.
2Precisamente nel rapporto con il mondo della cultura, con i suoi alti e bassi, rappresentò la specificità del PCI, contribuendo in modo decisivo a differenziarlo da quello sovietico, e a distinguerlo altresì dagli altri “partiti fratelli” (con una parziale eccezione per il francese PCF). Non va trascurato il dato biografico: Togliatti, uomo politico, certo (e che politico!), era provvisto di una formidabile base culturale, assiso per così dire sulle spalle del “fratello maggiore”, Antonio Gramsci, che può essere invece considerato un uomo di cultura “prestato alla politica”. Come dire, l’imprinting è fortemente intellettuale, fin dai tempi dell’«Ordine Nuovo». Il dibattito delle riviste non coinvolse soltanto “intellettuali organici”, iscritti o simpatizzanti del Partito, ma si estese all’esterno, sempre in fondo favorito dal nume tutelare Gramsci. Il trauma del ’56 è il punto di partenza: il doppio trauma, Ungheria (e, prima, Polonia) da un canto, XX Congresso, dall’altro, che avevano esasperato gli animi, trasformato le discussioni in scontri, le fuoruscite in addii. Una sconfitta per tutti, certamente, ma anche l’avvio di un processo di chiarimento, e di riflessione sulle vie per giungere al socialismo e, per quanto concerne il partito di Togliatti, sulla possibilità e necessità di costruire un percorso nazionale, sia pure nell’ancora ribadita solidarietà subordinata all’Unione Sovietica.
3Le conseguenze più notevoli, di quei drammatici avvenimenti internazionali si registrarono precisamente negli ambienti intellettuali1. Fra esse, vi fu lo slittamento del primo Convegno di studi gramsciani, previsto per il 1957 (decennale della morte di Antonio Gramsci), e realizzato nel gennaio 1958, eppure si trattò di un tentativo di ricucire gli strappi, e, nel contempo, di allargare la rete, fuori del recinto del Partito, peraltro ora non più ferreo, né rassicurante come prima. La frantumazione dell’unità, avvenuta in quell’anno, in definitiva, fu produttiva e valse non soltanto a dar vita a elementi di dubbio “in seno al popolo”, ma generò la ricerca di istanze liberatrici, e sovente fu proprio la chiusura opposta dalla “chiesa comunista” a indirizzare taluni dei fuorusciti verso posizioni francamente anticomuniste. Certo, questo mostrava le debolezze di tante adesioni, la fragilità dei convincimenti, ma anche nel contempo la difficoltà del centro di tenere a bada le mille periferie non solo dentro il Partito, ma nel più vasto territorio della sinistra marxista italiana. Il tutto, peraltro, ben difficilmente potrebbe essere collocato entro i confini di una visione unitaria: né dal punto di vista della regia togliattiana – esistente, ma non così sicura e univoca come si potrebbe dedurre da tanta polemica – né da quello degli “attori” politicoculturali, i cui tragitti appaiono in sostanza ondivaghi, e difficilmente prevedibili, nei loro svolgimenti e soprattutto nelle loro conclusioni.
4Il Convegno gramsciano del ’58 fu l’occasione più importante per il PCI non soltanto per tesaurizzare i risultati del decennio precedente nel quale si era fatto conoscere Gramsci all’Italia, ma anche e soprattutto per costruire, utilizzando precisamente Gramsci, l’immagine di un partito nazionale, dunque “diverso” rispetto al modello sovietico. Gramsci, proprio come il partito da lui fondato (tale la narrazione imposta, con l’espunzione del vero fondatore, Amadeo Bordiga), non doveva essere considerato un patrimonio della sola classe operaia, ma dell’intera società italiana, e non caso la linea suggerita da Togliatti nel Convegno, fin dalla sua relazione di apertura, fu indirizzata precisamente a collocare il pensiero di Gramsci nella linea “nazionale” che riconduceva a Cattaneo, De Sanctis, e in fondo allo stesso Croce, pur ribadendo, sempre, il leninismo di Gramsci. Insomma, proprio come il suo partito, Gramsci era comunista, ma italiano. E questa sottolineatura aveva all’epoca una importanza che oggi sarebbe errato sottovalutare.
5Ciò spiega lo sforzo dell’Istituto Gramsci di coinvolgere studiosi non comunisti, o ex comunisti i quali peraltro esitarono ad aderire, o rifiutarono cortesemente: il ’56 era un macigno non rimosso, e, nel mondo intellettuale, un altro caso clamoroso, quello riguardante Antonio Giolitti, che aveva chiuso l’anno, e si era riverberato nel ’57, grazie alla pubblicazione di quello che Togliatti forse un po’ perfidamente etichettò come «l’opuscolo del compagno Giolitti» al quale venivano imputati «errori di metodo ed errori di sostanza»2. Si trattò di una vicenda che, se da una parte pose problemi teorico-politici rilevanti (in sostanza gli stessi affrontati da Norberto Bobbio negli anni precedenti, raccolti poi nel volume Politica e cultura, edito dall’amico Giulio Einaudi, nel 1955)3, in particolare il rapporto fra socialismo e democrazia, e la salvaguardia delle garanzie liberali anche all’interno della società socialista; dall’altro provocò altre lacerazioni e abbandoni, come quella di Italo Calvino, o Carlo Muscetta, che nel ’56 erano rimasti in seno al Partito, ma stavolta considerarono impossibile continuare la battaglia dall’interno. Per qualcuno di costoro fu il PSI l’approdo, come per esempio lo storico Furio Diaz, già sindaco di Livorno o Fabrizio Onofri (espulso con dura motivazione fin dall’inizio dell’anno); mentre Delio Cantimori, che uscì a fine anno, pur in modo tormentato, rimase vicino al Partito, in costante dialogo con dirigenti e intellettuali di riferimento. Non furono soltanto gli avvenimenti traumatici di quell’anno a indurlo a non rinnovare l’iscrizione, ma certo rappresentarono l’ultima spinta a compiere il gesto. Probabilmente la causa principale fu l’insofferenza dello studioso per i continui tentativi da parte della dirigenza comunista di esercitare forme di controllo rispetto all’attività culturale (Vittoria 2014, p. 244). Il suo diniego di prendere parte al convegno del primo decennale gramsciano non fu intaccato dalle affettuose insistenze del neopresidente dell’Istituto Gramsci, Bianchi Bandinelli. Cantimori voleva prendersi una sorta di pausa, e aveva bisogno di allontanarsi. Diversamente, Bobbio, accolse l’invito4; e fu l’inizio, da parte sua, di una sia pur modesta frequentazione del pensiero gramsciano, del quale, peraltro, non può dirsi sia divenuto mai intrinseco, anche se i suoi interventi, specie quello del 1967, al II Convegno gramsciano, di Cagliari, il contributo di Bobbio suscitasse un enorme dibattito5.
6Alla cultura marxista, invece, si era avvicinato decisamente, sia pure in un percorso anomalo e soggettivo, Giangiacomo Feltrinelli, erede di una dinastia di miliardari. L’anno prima aveva dato vita alla casa editrice col suo cognome, dopo avere per alcuni anni, dal 1949, animato e finanziato l’Universale Economica del Canguro, poi Cooperativa del Libro Popolare sotto l’egida comunista, che aveva portato avanti una politica editoriale che gramscianamente si potrebbe definire nazionale-popolare. Iscritto al Partito comunista italiano, Feltrinelli era in realtà troppo irrequieto per militare in un’organizzazione come quella rappresentata dal PCI degli anni Cinquanta. Accanto all’attività editoriale Feltrinelli aveva dato vita a una Biblioteca, antesignana dell’Istituto (costituita formalmente nel 1951) di straordinaria importanza per la storia del movimento operaio e socialista, affidata a studiosi quali Luigi Cortesi, Franco Della Peruta, Giuliano Procacci6. Contemporaneamente un’altra iniziativa editoriale facente capo a Feltrinelli, la rivista «Movimento operaio», per la complessità di un equilibrio tra indipendenza e controllo, venne a morire, anche se in questa vicenda Feltrinelli appare portavoce delle istanze del Partito, e il sacrificio di Gianni Bosio, socialista irregolare, sostituito nel ’53 dal più “organico” Armando Saitta, non è una bella pagina nella storia culturale nazionale. Bosio, peraltro, sarebbe diventato negli anni seguenti, un punto di riferimento di una storiografia “alternativa”, meno ingessata di quella istituzionalizzata intorno al PCI, e allo stesso PSI, capace di lanciare messaggi di lunga gittata, che sarebbero giunti fino oltre la morte prematura dell’intellettuale mantovano, avvenuta nel 1971, estendendosi, in una piccola aura mitica, all’intero decennio. La rivista, fondata da Bosio nel ’49, di fatto, fu sostituita da una testata esplicitamente espressione dell’Istituto Feltrinelli, e in questo caso fu Feltrinelli a dover difendere l’autonomia delle scelte dei suoi «Annali», ma sempre in un rapporto dialettico, talora conflittuale, con il Partito.
7La crescente difficoltà nelle relazioni fra l’editore e il Partito, si acutizzò naturalmente nel 1956, ma con esiti contraddittori. Il dissenso sul ’56, reale, non venne reso pubblico da Feltrinelli: di lui mette conto di rilevare la coraggiosa lettera a Giorgio Amendola in cui contestava la pesante dichiarazione rilasciata a un quotidiano secondo la quale non era preoccupante, per il Partito, la perdita di «piccole frange di intellettuali», espressione evidentemente sprezzante, e giustamente contestata dall’editore. In realtà Feltrinelli era ormai indirizzato verso posizioni del tutto personali, incurante delle censure e degli avvertimenti. In quello stesso anno firmava il contratto per la pubblicazione del pasternakiano Dottor Zivago in Italia, che in effetti sarebbe uscito, con clamore internazionale, due anni dopo, nel ’58, anno in cui per la prima volta Giangiacomo Feltrinelli rinunciava alla tessera del PCI, continuando però a mantenere rapporti piuttosto stretti con l’intellettualità di Partito e con una parte della stessa dirigenza politica. Il che non avrebbe impedito qualche tempo dopo a Togliatti di concedere proprio al “traditore” Feltrinelli quell’importantissimo mannello di documenti sulla storia del Partito, sugli «Annali» dell’Istituto, documenti che in qualche modo avrebbero potuto incrinare la compattezza del Partito e ancor più revocare in dubbio quella che con giudizio assai sommario, in un sol fascio, si è voluto liquidare, da parte di certuni, come “storia sacra”7.
8Giangiacomo Feltrinelli, dal canto suo, aveva ormai avviato un distacco dall’ortodossia di partito: tra la Biblioteca, l’Istituto, le riviste, e, naturalmente, i libri, il marchio, il nome, gli spazi di Feltrinelli sarebbero diventato tra i Cinquanta e i Sessanta, uno dei luoghi di incubazione della contestazione interna al comunismo e al socialismo italiano, giungendo ad essere negli anni Settanta uno dei centri dell’eresia più netta, fino al limite della lotta armata. In fondo non è casuale se alcune delle riviste di Partito, nate con l’insegna feltrinelliana, cambiarono editore, spesso passando alla casa Parenti di Firenze. Si potrebbe quasi azzardare che la casa milanese compisse un percorso inverso alla torinese Einaudi: allo sforzo di allineamento, tutt’altro che totale peraltro, di questa, corrispose la tendenza centrifuga di quella. In realtà, la situazione, guardata da vicino, mostra sfaccettature assai più complesse, impossibili da ridurre a unità, a testimoniare la molteplicità di tensioni che una volta scoppiate, con i fatti russi, ungheresi, polacchi, non poterono riportare le cose allo statu quo ante: anche quando le rivolte furono sedate, le proteste tacquero, e le ragioni di Partito prevalsero, secondo la famosa espressione di Togliatti: «Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia»8.
9In definitiva la crisi del ’56 fu un formidabile acceleratore, che mentre introdusse elementi di incrinatura interna al corpo del PCI, con perdite e abbandoni, nel contempo generò nuove energie, che allontanandosi dalla rigidezza di una ortodossia solo in parte endogena, dato il rapporto di subordinazione alle direttive moscovite, avevano favorito il processo di “nazionalizzazione” del Partito, e insieme una sua apertura all’esterno, specie verso il mondo della cultura, enormemente superiore rispetto al passato.
10Del resto, curiosamente, in una sorta di sintonia discorde, tutta la fase storica apertasi con la fine della guerra e la nascita della Repubblica, era stata caratterizzata da un fiorire di iniziative giornalistiche, editoriali, culturali. La vittoria del blocco moderato nel 1948 non aveva tarpato le ali a questo slancio creativo, o meglio, se da un lato aveva reso più complicata la sopravvivenza dei soggetti schierati nel campo della sinistra marxista, dall’altro ne aveva eccitato la creatività e corroborato l’energia. Le testate di cultura militante, ancora una volta, come spesso in passato, fin dal XVIII secolo, furono protagoniste. E la forza di attrazione del Partito comunista, malgrado le incrinature e le vere e proprie rotture risultò vincente. Alcune durarono l’espace d’un matin, ma testimoniarono comunque la volontà diffusa del ceto intellettuale di porsi come forza progressista. «Rinascita», fondata da Togliatti nel ’44 con l’articolo determinativo (perso già nel gennaio dell’anno seguente), rimase, fino alla morte del “Migliore”, la più vivace tra le testate di area comunista, e una delle voci più interessanti dell’intero panorama nazionale.
11“Rassegna di politica e di cultura italiana”, si leggeva sulla prima pagina. Il Programma esposto nel numero 1 da Togliatti – il quale a partire dalla Liberazione firmò poi sempre col suo nome o con pseudonimi come quello presto celebre di Roderigo di Castiglia – rientrava perfettamente nella strategia di dar vita a un «partito nuovo», che fosse nazionale e popolare, fermamente comunista, ma in grado di incontrare istanze di strati sociali diversi da quelli operai. «La classe operaia vuole partecipare con le proprie forze organizzate alla creazione di un regime democratico», scriveva Togliatti, gravemente consapevole dell’importanza e della difficoltà dell’impresa. La novità, ma anche la complessità, consistevano nell’obiettivo, innanzi tutto: il passaggio dallo «Stato operaio e contadino» alla «democrazia di tipo nuovo», poi «democrazia progressiva». una espressione che non si riduceva affatto a una mera etichetta9. Era altresì l’idea, in parte ripresa da Gramsci, di costruire un tessuto sociale attraverso la cultura, capace di creare un clima antropologico nuovo, adatto al nuovo clima politico. Togliatti mirava a consolidare quel rapporto fra intellettuali e popolo, di cui poi tanto di sarebbe discorso nei decenni seguenti; e voleva altresì rafforzare sul piano teorico-ideologico quella sorta di spontaneo consentimento che dai ceti colti si andava manifestando verso il PCI. Il primo intento della testata, comunque, era di fornire ai ceti proletari, le loro avanguardie, quanto meno, uno strumento di formazione politico-culturale che potesse aiutarli a diventare classe dirigente nel post-fascismo.
12Un intellettuale organico come Paolo Alatri, redigendo un’ampia antologia della rivista, ebbe a notare che essa non voleva essere una «chiesuola», bensì una «ampia piattaforma, caratterizzata al tempo stesso da fedeltà ai princìpi e da elasticità e larghezza di impostazioni e di trattazioni»10. Si può asserire che fu precisamente questa la linea di condotta togliattiana nell’Italia dalla fine del fascismo all’avvento del centrosinistra. Una linea che si può sintetizzare come di equilibrio, o di tentato equilibrio, fra le esigenze di salvaguardare l’identità di partito, e la scelta, a cui mai volle rinunciare, di renderlo pienamente e irrevocabilmente “italiano”. «Rinascita» fu tuttavia, prima di tutto, rivista politica: o se si vuole la base culturale delle scelte concrete del gruppo dirigente, o, ancora, il luogo in cui si argomentava meglio di quanto non si facesse nelle riunioni e nelle assemblee, la linea politica del Partito, che era, la linea decisa da Togliatti, sia pure secondo i canoni di un autentico centralismo democratico.
13Il PCI, affermano pressoché tutti i testimoni che negli anni scorsi hanno pubblicato memorie o ricostruzioni autobiografiche, «era un partito i cui si discuteva»; e si discuteva molto, anche assai aspramente, come nella crisi del ’56. E la linea, sebbene, in definitiva, decisa dal capo, era frutto di non tanto di mediazioni, quanto di interlocuzioni. Insomma, il leader non era mai solo, neppure nelle scelte più difficili, come quella, appunto, che si riferisce al ’56 e in particolare ai drammatici fatti di Ungheria, che provocarono lacerazioni nel corpo del Partito. Se Luigi Longo rivelava una rozzezza dell’analisi pari alla sicurezza del giudizio sul tema, proprio sulle pagine della rivista (la conclusione: «bisognava finirla anche con lui [Imre Nagy] e richiedere un nuovo aiuto alle truppe sovietiche per schiacciare la controrivoluzione»; e, più avanti: «Per fortuna, sia pure, in extremis, l’aiuto sovietico permise di respingere la controrivoluzione»)11, era lo stesso Togliatti a prodursi in un ampio, interessante, sebbene assai complicato tentativo di giustificazione storico-politica della repressione, facendo ricorso all’intero bagaglio dialettico di cui era in possesso. Naturalmente, gli interventi togliattiani furono numerosi, sui vari organi di stampa, nei comizi pubblici, e nelle riunioni interne; e non è qui possibile ripercorrerli. Potrei sintetizzare in questo modo: la sua fu una polemica contro l’astrattismo, a cui opponeva il concretismo, ossia l’analisi concreta delle situazioni storico-politiche. E la situazione storica, a partire dal rientro di Alcide De Gasperi dal viaggio negli usa, e quindi dalle elezioni del 18 aprile, era quella di un accerchiamento delle forze della sinistre e dell’intero movimento operaio e contadino, delle sue strutture, delle sue rappresentanze, della sua stessa organizzazione territoriale. Togliatti fu chiamato incessantemente a spiegare che in quella situazione il Partito non poteva che arroccarsi, e, fuori dei confini, aveva un solo punto di riferimento, un unico baluardo difensivo: l’Unione Sovietica. Più volte nel suo argomentare puntò il dito contro il «pensare astratto», richiamando direttamente, o allusivamente, Marx, il Marx della Prefazione a Per la critica dell’economia politica12.
14Sappiamo da varie fonti che l’Ungheria e il XX Congresso rappresentarono uno snodo inquietante anche per il Migliore, e resero assai difficile, al limite dell’impervio, il suo tentativo di accreditare il Partito comunista come affidabile protagonista dell’Italia repubblicana e democratica. Eppure in Togliatti fu forte l’esigenza non soltanto di “mostrare” un partito insieme comunista e italiano, fedele alla causa internazionalista, all’interno, tuttavia, di un quadro di compatibilità democratica nazionale, ma altresì di fare di quel partito un baluardo contro l’estremismo di ogni tipo. A cominciare dal massimalismo anticlericale, che, bizzarramente, affiorava negli ambienti laici che, fino ad allora, erano stati subalterni della Democrazia Cristiana, come non ebbe difficoltà Togliatti stesso ad affermare, non senza una controllata polemica. La questione era quella, sempre, dell’articolo 7, su cui gruppi laici e socialisti avevano organizzato un convegno, nel 1957, al quale Gaetano Salvemini aveva inviato un messaggio augurale: fu proprio contro di lui che si appuntarono gli strali togliattiani. Il capo d’accusa più pesante era stato l’invito dell’intellettuale pugliese a votare DC nel 1953, atto piuttosto grave per un laico tonante contro il Concordato; come altrettanto grave appare l’incoerenza di coloro che ora accusavano i comunisti di subalternità alla Chiesa, dopo che per anni erano stati piegati ai diktat democristiani in governi di coalizione. Insomma, è da una parte la conferma del rifiuto del massimalismo, «che si potrebbe definire una forma singolare della disperazione politica»; ma dall’altro la conferma che il partito di Togliatti non vuole andare in guerra con la Chiesa e i cattolici, ma, piuttosto, procedere appunto in termini di costruzione di una egemonia, in una sorta di competizione virtuosa, all’interno del quadro della coesistenza pacifica. Anche in questo ambito, nondimeno, emerge come elemento fondante il rifiuto dell’astrattismo: la politica è risposta concreta a problemi concreti, ecco l’insegnamento base di Togliatti, che egli applica regolarmente in ogni situazione, dalla politica internazionale ai rapporto Stato-Chiesa13.
15Massimalismo e astrattismo, dunque, sono i bersagli polemici essenziali dell’azione politica togliattiana: due costanti, già emerse nelle polemiche di «Rinascita» con Vittorini e con Bobbio del dodicennio precedente, il che non toglie che la rivista andasse assumendo un carattere più largo, tanto più dopo il ’56, aperta alla presenza di personalità esterne e sovente estranee non soltanto al PCI, ma alla cultura comunista. E il programma di formazione teorico-ideologica, enunciato in esordio, si andò stemperando in un progetto di acculturazione a un livello alto.
16Dal suo canto, pur nei momenti più procellosi, Roderigo di Castiglia, alias Togliatti, avrebbe continuato a dare la linea, non di rado con toni sferzanti, ma non chiudendo le pagine della rivista a voci diverse e dissenzienti: almeno fino a un certo punto, ossia non oltre un limite che era ovviamente egli stesso a stabilire, sia pur con qualche souplesse. Fedeltà a una tradizione, fatta anche di obbedienza e di subordinazione a Mosca, indubbiamente; ma temperata, con crescente forza e convinzione, da una volontà di affermare la centralità del Partito nella vita politica nazionale, con la conseguente necessità di distacco dal PCUS. L’idea di fondo era aggregare i diversi e sparsi gruppi di intellettuali che, oltre il fascismo, erano approdati a sinistra, dentro o fuori del PCI, senza collegamenti verticali o orizzontali tra di loro. Ma i fondatori erano spiriti liberi, e pur sinceramente “organici” al Partito e alla causa che esso rappresentava – l’emancipazione dei proletari –, erano pronti a mettere il naso al di fuori della casa del marxismo-leninismo, più o meno ufficiale, oppure a contestare, implicitamente, la linea togliattiana, di dialogo con il crocianesimo, mentre si aprivano verso esperienze culturali giudicate certo non in termini positivi dal Partito.
17In queste testate, alcune legate variamente al PCI, altre decisamente indipendenti (per esempio «Il Ponte», peraltro orfano di Calamandrei già dal settembre del ’56), gli articoli, interni o di collaboratori esterni, erano perlopiù concentrati sull’asse politica/cultura. Ovvero costoro erano alla ricerca di un ubi consistam dell’intellettuale progressista, per dargli un ruolo nella costruzione della nuova Italia, quella nata dall’azione dei partigiani, e non solo dalla guerra degli Alleati. E contribuire al processo di emancipazione dei ceti subalterni. Il PCI di Togliatti, con i limiti imposti dalla situazione (Guerra fredda, repressione scelbiana, sindrome dell’accerchiamento, condizionamento sovietico…), e con gli errori e le incertezze, rimaneva comunque il punto nodale di questo tentativo, e nel cuore della sua azione politico-culturale, il progetto gramsciano – la già più volte menzionata “operazione Gramsci” – costituiva l’asse centrale, e relativamente efficace: in realtà possiamo avanzare l’ipotesi che quella operazione raccolse più adesioni al di fuori che al di dentro del Partito.
18In seno alla dialettica, spesso vivace, tra intellettuali e «il Partito», il 1956 fu un momento di svolta, come già ricordato, a dir poco travagliato, a tratti drammatico, con dissensi e consensi che si tradussero in scontri talora aspri, e in una diaspora dell’intellettualità comunista (cfr. Vacca 1978). Molti dei fuorusciti, tuttavia, rimasero entro il perimetro di una solidale vicinanza al partito, o comunque al mondo della sinistra filocomunista; altri scelsero la via del rifugio nella letteratura, nell’arte, nella scienza o semplicemente nella professione; e, infine, una certa quota divenne, più o meno rapidamente, addirittura anticomunista. Di questo dibattito v’erano state le avvisaglie negli anni immediatamente precedenti, di cui il libro di Bobbio fu precisa testimonianza. Nel 1954 ebbe luogo la discussione di quest’ultimo con Galvano della Volpe sui canonici temi della teoria politica, a cominciare dalla coppia oppositiva Democrazia e dittatura come recitava il titolo di un intervento di Bobbio. La contrapposizione tra i due filosofi era tra una concezione più o meno classicamente marxista e una più o meno classicamente liberale. Esiste una libertà comunista, per giunta superiore alla libertà borghese? La democrazia è tale, o necessita di precisazioni aggettivali? L’origine storica dei concetti politici ne pregiudica il loro uso e i loro sviluppi? Per Bobbio la risposta era nettamente negativa, e, anche in seguito, egli avrebbe insistito sulla possibilità di sviluppo, di maturazione, di crescita dei concetti politici. Anche una «vecchia disputa» come quella tra eguaglianza e libertà poteva avere un senso nuovo, inserita nel contesto presente, ma ribadendo, per Bobbio, la libertà fosse un valore non transeunte né negoziabile. E Bobbio, dunque, respingeva, allora, e sempre, successivamente, l’accusa alla dottrina liberale di aver fatto il suo tempo, in quanto dottrina di difesa della libertà degli individui contro gli abusi del potere. Nella disputa si inserì Palmiro Togliatti, senza che tuttavia la discussione facesse passi avanti14.
19Il dibattito non era meramente teorico: era in questione il ruolo politico concreto del PCI in seno alla democrazia italiana: Bobbio, a differenza di tanti suoi ex sodali, era un sincero apprezzatore del contributo comunista alla costruzione della Repubblica e dunque della decisiva importanza di quella forza politica, col suo formidabile retroterra intellettuale, nella vita della “nuova Italia”, che rischiava di essere ricacciata indietro, dal nuovo “regime” democristiano, come lo avrebbe etichettato Lelio Basso (Basso 1975). Il rapporto di Bobbio coi comunisti fu allora originale, fondato sulla sua canonica doppia negazione: Né…né…, secondo una sorta di schema che ritroveremo anche ad illustrare l’attitudine bobbiana verso l’ambito puramente teorico15. E, parlando di Sessantotto, non si può dimenticare che proprio in quel fatidico anno, apparve una preziosa riedizione della prima versione italiana dei Manoscritti marxiani del 1844 da Bobbio curata, vent’anni prima diventando, uno dei testi di riferimento del Movimento, o almeno di talune delle sue frange più colte16.
Erano le avvisaglie di una “nuova sinistra” che da molte realtà locali batteva i primi colpi sulle tastiere delle macchine per scrivere. Non era solo in Italia, del resto, che questo si verificava: a partire dalla New Left, americana e britannica, alla Neue Link tedesca, fino alla Nouvelle Gauche transalpina, tutto un rimescolamento di carte si stava verificando fin dai primi anni Sessanta, se non, per certi versi, dalla seconda metà dei Cinquanta, segnatamente dal 1956. Era il socialismo di marca sovietico che, da allora fu sotto accusa, per le sue “degenerazioni”, la sua involuzione burocratica, il suo distacco da corretti presupposti autenticamente rivoluzionari. Questa nuova sinistra internazionale smetteva un po’ alla volta di guardare a Mosca e guardava da un canto a Pechino, e a partire dalla fine del quinto decennio del secolo, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, all’Avana, dove ormai una sinistra rivoluzionaria con Castro e Guevara, i movimenti di guerriglia in tutto il subcontinente e la teologia della liberazione; si era affermata sul piano statuale e su quello simbolico. In Italia, la nuova sinistra non rompeva esplicitamente e drasticamente con i partiti storici (il PCI, prima di tutto, e solo in secondo luogo il PSI), dato il forte radicamento di massa di quel partito, che, comunque, malgrado una forte “destra” interna continuava a parlare di “rivoluzione” e assegnava alla classe operaia un ruolo egemonico.
20Nondimeno anche in Italia la sinistra “nuova” si apriva a una prospettiva internazionale, con particolare attenzione per quella enorme massa di disagiati, di poveri, di “dannati della terra” che si cominciò ad etichettare come “Terzo mondo”. Non a caso ne divenne uno dei numi tutelari Franz Fanon, post mortem, come postumo fu anche il ruolo svolto da Ernesto Guevara, detto “il Che”, ma nel contempo quella sinistra influenzata dalla beat generation, parole e musica e cinema e costumi (specialmente la musica), dal movimento di liberazione dei neri d’America, dalla Scuola di Francoforte, e, accanto a Rousseau e pochi altri, riscopriva il giovane Marx, quello dei Manoscritti economico-filosofici, il Marx prima del Capitale, con i Grundrisse, su cui si aprirono infiniti e impegnativi dibattiti.
21Furono ancora le riviste comuniste, ma estranee al PCI, o vicine ma presto in rotta di collisione, oppure di area socialista, a riprendere questi nomi, questi titoli, e i temi che ad essi erano connessi. Furono davvero innumerevoli, una fioritura di cui dopo la messe cartacea prodotta a Firenze tra ultimo Ottocento e Grande guerra, e poi, a livello nazionale, tra il ’43 e il ’48, si erano avuti dei precedenti degni di raffronto, ma in una produzione inferiore certamente per numero, spesso, però, anche per qualità. La triade più celebrata è quella sull’asse Nord-Centro-Sud, con una curiosa curvatura eccentrica: Piacenza invece di Bologna per il Nord; Pisa invece di Firenze, per il Centro; infine Catania, per il Sud, in luogo di Palermo. Era una geografia che rifiutava le capitali, una involontaria, ma forse non casuale, apologia della provincia, che, col senno di poi, potremmo interpretare come un’estrinsecazione della linea di Mao Ze-don, con le periferie contadine che accerchiano i centri industriali. Era anche, in qualche modo, un allontanamento dai luoghi storici della cultura comunista dei due decenni precedenti, che erano, prevalentemente, quelli dello sviluppo industriale e, quindi, del proletariato di fabbrica. Certo, non pochi degli animatori di queste testate erano comunisti, o meglio lo erano stati; o si consideravano comunisti senza partito, comunque più vicini a Pechino che a Mosca, più sensibili alla guerriglia latinoamericana che alla difesa del “socialismo reale” con le truppe del Patto di Varsavia. E l’acrimonia che si coglie, via via più forte fino a diventare una sorta di astio, verso la leadership del PCI, lascia trapelare una forma di risentimento per chi, in certo senso, non è stato ai patti. Era anche, indubbiamente, un dato generazionale che si manifestava in particolare nelle riviste che andavano nascendo qua e là per la Penisola, e spesso in luoghi non centrali della vita politica e culturale17. L’esempio più clamoroso in tal senso è costituito da «Quaderni Piacentini», nata, appunto a Piacenza, nel marzo 1962, ad opera di Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, critici letterari “irregolari”. La testata si proclamò «foglio di battaglia», nel suo primo fascicolo, ciclostilato18, e da rivista prevalentemente culturale, non tardò a trasformarsi in rivista squisitamente politica, senza perciò rinunciare a tenere d’occhio i fatti della cultura, sia segnalando libri e temi e autori da seguire, sia polemizzando, aspramente, con autori e libri ed eventi da censurare (si pensi alla rubrica “Libri da buttare”). La testata, nella sua trasformazione, in verità, seguiva una sorta di percorso canonico (che rintracciamo in molte fasi storiche, dai Lumi al Risorgimento, dalla stagione delle riviste fiorentine tra Otto e Novecento a quella torinese del Primo dopoguerra, fino a quella nazionale del Secondo dopoguerra): l’urgere dell’impegno civile o direttamente politico, spingeva le testate a prendere posizioni più o meno esplicite, a favore delle lotte in corso e dei loro rispettivi soggetti. Analogo percorso seguirono la pisana «Nuovo Impegno» (dicembre 1965), nata in ambiti letterari marxisti (Romano Luperini, innanzi tutto), ma con immediati legami con aree squisitamente operaiste (pochi mesi dopo la fondazione nasceva il gruppo di Potere Operaio, appunto a Pisa), e «Giovane critica», nata l’anno prima (tra dicembre ’63 e gennaio ’64) la più periferica, sul piano geografico, essendo collocata a Catania, e contenutistico, data la sua prima natura squisitamente cinematografica, e la fisionomia incerta del gruppetto fondatore, nel quale emerse Giampiero Mughini, destinato a una (prevedibile peraltro) carriera di intrattenitore televisivo.
22Ma va ricordato anche, nella geografia un poco eccentrica delle riviste, Torino, antica capitale, e tuttora capitale operaia; là, sotto la Mole, gli anni Sessanta erano iniziati con i «Quaderni Rossi» (1961): oltre a Raniero Panzieri, v’erano intellettuali che tra PCI e PSI, o esterni a entrambi i partiti storici della sinistra, guardavano alla fabbrica come il precipuo luogo di attrazione e di organizzazione delle lotte, studiando la fisionomia del lavoro di fabbrica: come dire, un tasto classico della cultura comunista, che dentro il Partito veniva messo da parte. Si allude a Rieser, Alquati, Della Mea, Dario e Liliana Lanzardo, e altri…; ed è degno di nota che anche i rapidi sfaldamenti del gruppo iniziale appaiono all’insegna della “centralità operaia”: già dopo il n. 1 con la fuoruscita del gruppo dei sindacalisti (Alasia, Foa, Garavini, Pugno), e dopo tre numeri il “gruppo romano” (Asor Rosa, Tronti, Di Leo, e Cacciari), che avrebbe dato vita a «Classe operaia». La rivista di Panzieri, comunque, fece compiere un salto di qualità al dibattito intellettuale, allargandolo oltre i canali consueti, e costringendo, per così dire, gli intellettuali a non discutere solo di letteratura e di cultura in senso libresco, ma a ragionare sulle nuove forme del capitalismo, guardando alle condizioni di vita e di lavoro in fabbrica, quello che all’epoca veniva etichettato come “neocapitalismo” e avviando una penetrante critica del modello di “pacificazione” insito nelle nuove relazioni industriali nell’Italia del boom; e, persino, quella rivista, costringeva a confrontarsi con la tesi forte della centralità della classe operaia, quasi a sfidare il Partito comunista sul suo stesso terreno classico, e quella ad essa contigua del controllo operaio come mezzo per la rivoluzione. Si trattava di un dibattito che si collocava ormai fuori dalla linea del Partito comunista, ma che non poteva neppure essere da questo del tutto sconfessato, proprio per quella centralità operaia, che richiamava il nesso costitutivo tra operai dell’industria e “partito di Gramsci e Togliatti”. E, del resto, quella era un’epoca in cui anche un Giorgio Amendola, ossia la destra intelligente del PCI, parlava di “rivoluzione” e di ruolo di avanguardia del proletariato industriale (Mangano - Schina 1998, p. 48).
23Un altro periodico, fondato a Bologna nel ’65, «Classe e Stato» da una curiosa figura di professionista-intellettuale, Federico Stame, allargava il campo di indagine, uscendo dallo spazio canonico del marxismo di scuola, di marca PCI, aprendosi su una dimensione internazionale, sia con la critica della sociologia capitalistica, sia con una peculiare attenzione al quadro internazionale, marxismo non sovietico, alle forme variegate di neomarxismo che si stavano palesando, al “terzomondismo”, e al maoismo19.
24E allontanandosi dal PCI, altri perseguivano nuovi modi per affrontare l’antica questione degli intellettuali, altro filone canonico del dibattito in seno al Partito, dalla pubblicazione dei testi gramsciani in poi. Ci si cominciava a porre il problema dell’industria culturale: inserirsi, criticare, rimanerne fuori? Si usciva insomma dalle secche del dibattito Vittorini-Togliatti degli anni precedenti, e si voltavano le spalle al realismo lukacciano, allo zdanovismo, e al contenutismo comunque connessi all’orizzonte culturale del PCI, dove anche chi li criticava finiva per rimanere impigliato in quella tela di ragno. Mentre si consumava l’ultima stagione vittoriniana con «Il Menabò» (1959-1967), avevano già fatto la loro rumorosa irruzione i “giovani” del Gruppo 63 (Eco, Sanguineti, Giuliani, Filippini ecc.). Era una “nuova sinistra” che si affacciava con irruenza, in Italia, come la Nouvelle Gauche in Francia, la Neue Linke in Germania, e la New Left angloamericana. Il quadro andava rapidamente cambiando, e anche nelle riviste si affacciava una disposizione conflittuale nuova, che persino nella grafica appariva dirompente rispetto al pur recente passato. La rivista «Quindici» di grande formato, con una impostazione che un poco richiamava, sia pure rivisitata in modo modernissimo, le riviste di Gramsci o di Gobetti, ne fu l’esempio più clamoroso, confermando peraltro quel trend di passaggio dallo specifico culturale allo specifico politico, che avrebbe portato a un articolo divenuto iconico, come Il fucile e l’elicottero, schierato nettamente dalla parte dei Vietcong contro gli invasori yankees20.
25Eppure anche in quel vivace drappello di contestatori (ben presto a loro volta contestati, “da sinistra”) non mancarono coloro, e non certo tra i meno importanti, come Sanguineti, che tra divisioni, polemiche interne e abbandoni, con parole aspre contro la “nuova sinistra” teorizzava, anzi predicava il ritorno alla «“vecchia” sinistra degli operai e dei contadini», ossia al Partito comunista italiano, luogo, baluardo e simbolo della rivoluzione, mentre coloro che in seguito sarebbero stati chiamati, con una sfumatura beffarda o polemica, “sessantottini”, e che Sanguineti bollava come «nipotini di Camus», al massimo erano dei rivoltosi, che vivevano già «all’ombra dell’integrazione»21. Era un giudizio duro, quasi da “vetero-comunista”, che curiosamente assomigliava a quello espresso, nelle stesse settimane, in forma lirica, in un poemetto divenuto immediato oggetto di nuova polemica, e insieme di culto, vergato di getto da Pier Paolo Pasolini, Il PCI ai giovani, un cui frammento, rubato da giornalisti, fu proditoriamente pubblicato su «l’Espresso», col titolo Vi odio cari studenti.
26Si era ormai nel 1968 inoltrato, tra aprile e giugno, quando il movimento, sulla spinta degli avvenimenti parigini, toccò il suo culmine, rimanendo, tuttavia, confinato in una zona di problematica e spesso impossibile comunicabilità con “il partito di Gramsci e Togliatti”, se anche intellettuali “d’area” fra i più aperti e intelligenti, si schieravano su una linea di fuoco contro i “contestatori”. Era il segno di uno iato non colmato, neppure in seguito, a dispetto degli sforzi di qualcuno da entrambi i fronti, tra PCI e movimento, il quale, ormai, aveva una direzione opposta a quella del Partito.
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Notes de bas de page
1 Rinvio ai materiali in Vacca (1978).
2 Cfr. Errori di metodo ed errori di sostanza nell’opuscolo del compagno Giolitti, in «Rinascita», XIV, 1957, pp. 246-49, e la replica di Giolitti nel fasc. seg. (n. 6), pp. 312-15.
3 Vedine la nuova ediz. a cura di Sbarberi (2001); ma rinvio alla mia ricostruzione sul contesto politico-intellettuale in cui quel libro esce: A. d’Orsi, Tra politica e cultura. Togliatti, Vittorini, Bobbio e gli altri, in Bisignani (2016), pp. 109-25.
4 Cfr. lo scambio di lettere tra N. Bobbio a R. Bianchi Bandinelli, 12 e 26 giugno 1957, in Fondazione Gramsci (Roma), «Archivio PCI, Convegno di Studi Gramsciani», c. 78, 1957-1958. Devo la segnalazione del carteggio a Francesca Chiarotto, che ringrazio.
5 Tutti i testi in questione e altri sono raccolti in Bobbio (1990).
6 Un’affettuosa, ma non inattendibile ricostruzione biografica è quella del figlio Carlo: Feltrinelli (2001).
7 Mi riferisco ad alcuni interventi giornalistici di Luciano Canfora.
8 Intervento introduttivo di Togliatti in Righi (1996), p. 220.
9 Cfr. A. Höbel, La “democrazia progressiva” nella elaborazione del Partito Comunista Italiano, in «Historia Magistra», 18/2015, pp. 57-72.
10 P. Alatri, Introduzione, in Id. (1977), p. 12.
11 L. Longo, Come sono potuti accadere i fatti d’Ungheria?, in «Rinascita», 1957, ora nell’antologia cit., III, pp. 569-75 (575).
12 Cfr. per es. P. Togliatti, Considerazioni su una crisi che non c’è e sulle crisi che ci sono, in «Rinascita», 1957, ora ivi, pp. 976-86.
13 Id., Una proposta massimalista: abolire il Concordato, in «Rinascita», 1957, ora ivi, pp. 995-1000 (998).
14 Rinvio ancora al mio contributo in Bisignani (2016) cit.
15 Cfr. N. Bobbio (1997). Ho riflettuto su questo punto specifico del pensiero di Bobbio in Né con Marx, né contro Marx, in «MicroMega», 2010, 2, pp. 152-66.
16 Cfr. K. Marx (1948). Nella recente riedizione nella “Biblioteca di Repubblica”, l’antica Prefazione di Bobbio viene qualificata come Introduzione, cui si aggiunge una Prefazione di M. Revelli (2006). Due anni dopo, nel 1950, Della Volpe pubblicava presso gli Editori Riuniti le Opere filosofiche giovanili, comprendenti oltre alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, appunto i Manoscritti economico-filosofici.
17 Utilissimo repertorio è in Mangano - Schina (1998).
18 L’editoriale del n. 1, marzo 1962, si può leggere ad esempio in Lupo (2006).
19 Ivi, p. 66.
20 Cfr. G. B. Zorzoli - U. Eco, Il fucile e l’elicottero, in «Quindici», 10, 1968, ora in Balestrini (2008), pp. 229-33.
21 E. Sanguineti, Rivolta e rivoluzione, in «Quindici», 10, 1968. ora ivi, pp. 225-29.
Auteur
È ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino. È direttore di «Historia Magistra. Rivista di storia critica». È membro della Commissione per l’Edizione nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci e di quella per le Opere di Antonio Labriola. Collabora, oltre che a riviste scientifiche, al quotidiano «La Stampa», «il Manifesto», «Il Fatto Quotidiano», «MicroMega». Tra i suoi titoli dell’ultimo quindicennio: La cultura a Torino tra le due guerre (Einaudi, 2000); Guerre globali (cura, Carocci, 2003); Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la menzogna (Donzelli, 2007; ed. spagnola riv. e accr. RBA, 2011); 1989. Del come la storia e cambiata, ma in peggio (Ponte alle Grazie, 2009); L’Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia (Bruno Mondadori, 2011); Alfabeto Brasileiro. 26 parole per riflettere sulla nostra e l’altrui civiltà (con E. d’Orsi, Ediesse, 2013); Gramsciana. Saggi su Antonio Gramsci (Mucchi Editore, 2014; ed. riv. e agg. ivi, 2015); Inchiesta su Gramsci. Quaderni scomparsi, abiure, conversioni, tradimenti: leggende o verità? (cura; Accademia University Press, 2014); 1917. L’anno della rivoluzione (Laterza, 2016).
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