Le tentazioni dell’impolitico. Eretici, irregolari ed eterodossi nella sinistra italiana prima del ’68
p. 24-44
Texte intégral
Per Attilio
in memoriam
1Nel 1967, in un clima culturale che già registra la crescita di uno spirito nuovo e innovativo tra i giovani e che anticipa di pochi mesi l’eruzione del ’68 italiano, Danilo Dolci tenta una riflessione sulla categoria del politico e sui mutamenti in atto che la riguardano. Da «un’approfondita riunione di contadini e pescatori» sono emerse a suo parere una serie di contrapposizioni significative tra «vecchio» e «nuovo politico». Il primo «comanda» e «accentra», è «segreto» e «retorico», il secondo «coordina», «suscita personalità e gruppi», «comunica» ed è «semplice» ed «essenziale». Dolci sembra muovere da una critica radicale della sfera del politico intesa come scienza di governo, «arte di saper comandare», verso una concezione della politica che ne elimini la spinta verso la realizzazione di gerarchie e catene di comando riconosciute e istituzionalizzate e ne valorizzi, di converso, le potenzialità orizzontali, euristiche ed esistenziali: «Complesso strumento per individuare le scelte più esatte, preciso strumento di conoscenza-azione, occasione fondamentale per ciascuno […] di sviluppare, con l’esercizio della propria responsabilità, la propria personalità» (Dolci 1974, p. 221). Quelle dell’attivista carsolino sono ovviamente intuizioni, percezioni, per così dire, di un «nuovo» che avanza, tutt’altro che definito o afferrato nelle sue dimensioni e nel suo spazio di sviluppo. Sono tuttavia riflessioni che ci indicano un ambito decisivo – la «crisi del politico», diciamo – per comprendere alcune dinamiche chiave della ribellione giovanile di quegli anni, dei mutamenti di immaginario, dell’ascesa di nuovi soggetti. Un ambito che permette di decodificare uno degli aspetti centrali dell’esperienza globale degli anni Sessanta: riflessioni come quelle di Dolci concedono di avanzare, a mio parere, un’ipotesi su uno dei possibili comun denominatori di quell’insieme di inquietudini, ricerche alternative, dissidenze varie, «eresie», «eterodossie», che caratterizza alcuni settori minoritari delle culture politiche progressiste e di sinistra italiane, in particolare quelli impegnati da un lato nello sforzo di ripensare i confini della propria tradizione di appartenenza e dall’altro a riflettere sui primi mutamenti nel comune sentire e nell’immaginario della società tardo-capitalista prima del boom sessantottino. Gruppi, personaggi, associazioni, riviste, movimenti, che indicano un territorio determinato dalla crisi del politico e dalla tentazione dell’impolitico che le controculture degli anni Sessanta tenteranno significativamente di abitare, popolare e sviluppare. Una geografia politica (e/o impolitica) che potrebbe esser descritta in tre fasi: (1) Il rifiuto del «politico» come sfera primaria dell’interrelazione umana; (2) la valorizzazione della pratica sociale come piano di costruzione di tale interrelazione; (3) la scelta più o meno obbligata di una progettualità per «piccoli gruppi», localizzata, parcellizzata e individualizzata.
Problemi interpretativi
2I gruppi, i personaggi, le riviste, i movimenti che si ritrovano a ripensare criticamente le forme del politico tra seconda metà dei Cinquanta e fine Sessanta sono culture contro piuttosto che controculture: hanno come punto di riferimento negativo la concezione moderna del politico, che però, per ogni esperienza presa in considerazione, si articola in base a tradizioni e paradigmi differenti, che affrontano il tema da angolazioni e prospettive a volte radicalmente divergenti, per non parlare dei modelli interpretativi di fondo, delle analisi complessive e delle proposte di azione che ne risultano1. In altri termini, è mia convinzione che la tentazione impolitica che attraversa alcuni settori di sinistra nei lustri che precedono il ’68 rappresenti un tassello significativo, quasi epifanico, del quadro complessivo, a patto però di non considerarla una chiave esplicativa globale, che permetta cioè di stringere in un unico mazzo Dolci e Chiaromonte, Montaldi e Milani, Libertini e Ingrao, Panzieri e Capitini, «Classe operaia» e «quaderni piacentini», «Giovane critica» e «Rendiconti», i pacifisti cristiani e i reichiani teorici della rivoluzione sessuale. Restano scarti incolmabili tra le «esperienze e riflessioni» di gruppi, riviste e intellettuali. Incolmabili in ragione di tre ordini di problemi.
3In primo luogo, la diversità delle tradizioni politiche italiane. Nel senso, ovvio, che esse differiscono tra di loro, e che quindi si caratterizzano per differenti concettualizzazioni di valori e idee come uguaglianza, progresso, equilibrio sociale, industrializzazione, diritti civili, relazioni tra i sessi, welfare, programmazione, funzione sindacale, eccetera. Ma anche nel senso che esse sono multiformi, stratificate, intricate, poliedriche, si strutturano man mano come l’esito di esperienze, di percorsi, di riflessioni, di progettualità, che le differenziano al loro interno, le pluralizzano, le rendono magmatiche, e quindi ne fanno punti di riferimento molto scivolosi. È evidente che Lelio Basso e Raniero Panzieri – o, se preferite, «Problemi del socialismo» e «Quaderni rossi» – guardano alla tradizione socialista da posizioni che hanno rilevanti punti di contatto (rispetto, diciamo, all’approccio di un Nenni). È anche evidente che i due, sulla base della loro storia e delle loro esperienze, differiscono su punti importanti, come l’autonomia dell’azione operaia e il ruolo del politico. E se nel caso della cultura comunista l’aspetto del consenso tra l’intellighenzia, pur reso a volte difficile (vedi il ’56 ma anche lo stesso ’68), viene comunque appianato, reso, diciamo così, meno aspro, dalla sapiente e organizzatissima regia del partito, nel caso della cosiddetta cultura laica, etichetta che di per sé descrive una realtà politico-culturale frastagliata e frammentata, le posizioni critiche e radicali si moltiplicano, si articolano per vie alternative, quasi si sbriciolano in differenti prospettive, differenti orizzonti interpretativi, eccetera. Un Rossi e un Chiaromonte, antichi compagni di militanza (anche se non in contatto diretto), sembrano di primo acchito condividere l’approccio interpretativo alla società e alla politica italiana, ma le loro opzioni intorno alla storia, al progresso, alla tradizione liberale, al ruolo dello Stato, eccetera, li rendono talmente diversi da porli, per certi versi, agli antipodi del quadro politico-culturale. E se in quella sezione del quadro che dovrebbe corrispondere appunto alla cultura laica cercassimo di inserire omogeneamente, o persino sensatamente, Faravelli e Pannunzio, o Salvemini e Villabruna, eccetera, incontreremmo problemi subito evidenti.
4In secondo luogo, le relazioni tra gli intellettuali e i militanti critici da un lato e la cultura politica cui essi fanno riferimento dall’altro. Si tratta, anche in questo caso, di una relazione estremamente articolata, che ci concede comunque di tracciare, in qualche modo, una linea di demarcazione tra coloro che si limitano a una moderata volontà di riscrittura di presupposti o tattiche o approcci, entro un orizzonte spesso relativo al mutamento di prospettiva politica immediato e concreto, e coloro che, al polo opposto, sembrano alla ricerca di revisioni in profondità, di alterità totali, sino a proporre, in modo più o meno consapevole, una trasformazione ontologica della stessa tradizione di appartenenza (o, volendo, la sua eliminazione). Le cose si complicano ancor più quando si entra nel dettaglio delle dinamiche di tale relazione, quando ci si concentra, nei casi specifici, sulle meccaniche di slittamento, sulle modalità di rivalutazione, sulle strategie di ripensamento, che spesso hanno luogo non solo sulla base di approfondimenti teorici o di riflessioni inedite, ma sotto l’urto degli eventi, delle controversie, dei confronti. In altri termini, intellettuali, riviste, gruppi, movimenti, si pongono verso la tradizione cui sembrano appartenere – anche perché il vincolo in questione è a volte un riconoscimento a posteriori, opera della ricostruzione storica piuttosto che elemento di identità dichiarata dei personaggi e dei gruppi cui stiamo guardando – entro uno spazio in cui consenso, dissenso e dissociazione vivono in stato di espansione/contrazione, ponendo la relazione in questione in uno stato di flusso costante, raramente precisabile sino in fondo.
5In terzo luogo, la prospettiva fornita dall’evento ’68. Quest’ultimo è fenomeno globale. In quanto tale, lo sguardo verso gli antecedenti, i momenti preparatori, le propedeutiche culturali o politiche, non può che essere globale. È ovvio che il termine viene spesso usato come etichetta per indicare una serie di fenomeni che si svolgono prima e dopo l’annus mirabilis. Ora, senza entrare nella questione dell’accezione del termine prevalente nel nostro paese, che mi pare ne sottolinei le componenti movimentiste e «politiche» e ne svaluti quelle culturalistiche e «impolitiche», è opportuno ribadire che la specifica valutazione delle «culture contro» nella sinistra italiana degli anni Cinquanta/Sessanta non può prescindere dal contesto d’insieme e che, pur tenendo conto delle specificità e delle particolarità del caso tricolore (che trovano ovviamente corrispettivi analoghi nelle altre situazioni nazionali), questa va commisurata alla situazione globale, che costituisce lo sfondo migliore per comprendere ciò che, diciamo così, si muove nel quadro italiano. A ciò occorre aggiungere che i nuovi soggetti emersi nel e dal ’68 hanno volutamente insistito, in Italia come in molte altre situazioni (vedi Stati Uniti o Francia), sulla dissociazione e sulla divaricazione tra loro e le culture politiche, anche radicali ed estremiste, che li hanno preceduti, in un gioco prospettico che porta in primo piano la polemica immediata (concorrenziale, verrebbe da dire), con un’insistenza sui temi della discontinuità che mette volutamente tra parentesi quelli della filiazione, dell’influenza e via dicendo.
Gli anni Sessanta, le contestazioni e il profilo dell’impolitico
6Al termine «impolitico» hanno dato pregnanza e significato le Betrachtungen di Thomas Mann. Nella prospettiva antiprogressista, militaristica e quasi antidemocratica che caratterizza quel particolare momento della sua evoluzione intellettuale (le Considerazioni sono scritte tra 1915 e 1918), lo scrittore tedesco si rivolge contro le forme moderne del politico che si assolutizzano come progetto «illuministico» di redenzione sociale, psicologica, culturale. Forme che si incarnano nella figura dell’attivista colto, «nell’uomo dello spirito, anzi dello spirito bello e puro, radicale e letterario», il «politico delle belle lettere, il politico come letterato e il letterato divenuto politico» (Mann mira di fatto al fratello Heinrich, in procinto di divenire uno degli intellettuali di punta di Weimar). Thomas manifesta una sfiducia totale nell’ambito del politico, strutturalmente incapace di valutare – e tanto meno risolvere – «l’eterna inconciliabilità del conflitto tra la società e l’individuo». Le persone consapevoli – ovvero gli «impolitici» – sanno che «la politica, vale a dire l’illuminismo emancipatore, il contratto sociale, la repubblica, il progresso per “la maggiore felicità possibile del maggior numero possibile di persone” non sono uno strumento valido per riappacificare la vita della società; che questa pacificazione può verificarsi solo nella sfera della personalità, mai in quella dell’individuo, solo come fatto dell’anima, non come azione politica». Per il Mann conservatore di questo periodo, l’ambizione del politico – come ambito del moderno e della modernizzazione – culmina necessariamente nella dissoluzione dell’ordine, nella «distruzione delle premesse necessarie a ogni vita culturale»: l’intellettuale moderno e attivista, una volta realizzato «l’impero di un socialismo individualistico di massa», si rivolterà contro la pressione che l’individuo necessariamente subirà anche in questo contesto e allora «lo vedrete spingersi verso l’anarchismo, verso “l’individuo autonomo, affrancato da ogni tradizione”». Al di là dell’esito specifico delle Considerazioni (la necessità dell’autoritarismo), Mann usa una categoria del politico quasi inedita: non l’apolitica, ovvero il rifiuto di ogni commistione con la dimensione del politico e il rifugiarsi in altre sfere dell’azione e del pensiero umani (arte, scienza); e neppure l’antipolitica, ovvero l’avversione per la dimensione del politico così come si è istituzionalizzata nell’età moderna, che si riflette nel tentativo di modellare nuove forme di interazione politica (dal basso, a democrazia diretta, locale, federale, e così via) che si contrappongano, nel loro farsi, a parlamentarismo, rappresentanza, statualità, pur condividendone metodi e scopi. Per lo scrittore tedesco l’impolitico guarda al politico consapevole della sua ineludibile pervasività e della sua capacità di sovradeterminare il reale, in modo quindi distaccato e pessimistico, ma nel contempo ferocemente critico e tutt’altro che passivo: la potenza del politico non costituisce «motivo per incrociare praticamente le braccia; è motivo tuttavia per negare, su un piano spirituale, l’ubbidienza all’illuminismo politico». L’impolitica si fa così strumento per decodificare e per decostruire il politico nel suo essere e nel suo farsi, assumendo fisionomia primariamente critica: non a caso, a parere di Mann l’atteggiamento impolitico è in sostanza ironico (cioè «scetticismo volto all’indietro», «forma della morale», «etica personale», di contro all’esteriorità del politico inteso in senso moderno; Mann 1967, pp. 198, 229, 282, 506).
7Sulla scia delle Betrachtungen, ma anche in base a una serie di letture altamente originali di testi novecenteschi (in particolare Canetti, Weil, Broch e soprattutto Bataille), il tema dell’impolitico ha ricevuto trattazione esaustiva e sistematizzazione teorica da parte di Roberto Esposito. A suo parere, il termine implica una concettualizzazione in negativo della sfera del politico (inteso come ambito precipuo di forza e potere), entro il riconoscimento che la politica stessa (violenza, potere, interesse, e via dicendo) resta il principio strutturante della modernità e della società occidentale. In questo senso l’approccio impolitico esclude la possibilità di una alternativa reale nella storia, di una controsocietà situata in un «fuori» dal politico che non ha evidentemente condizione di sussistenza, di un «soggetto di antipotere» che lo sia coerentemente sino in fondo (sino cioè a fuoriuscire dal politico stesso). Tuttavia, tale impossibilità non implica l’accettazione di quello stesso esistente, ma anzi articola l’impolitico come formidabile arma critica capace di decostruire e di destrutturare il potere nelle sue forme storiche quanto nelle sue forme teoriche. Da tale punto di vista gli impolitici risultano per definizione marginali, laterali, eccentrici: vengono spesso ritenuti incapaci di pensare concretamente modelli alternativi di organizzazione sociale. Esposito ha però ulteriormente precisato che la possibilità di pensare il «fuori» dal politico si ritrova in quelle teorizzazioni che contestano il farsi della modernità occidentale (e forse dell’Occidente tout court) nelle sue categorie portanti e nelle sue interpretazioni fondative (soggetto, individuo, società, e via dicendo), proponendo modi diversi di pensare l’essere e lo stare insieme. Modi che emergono nello spazio e nel tempo di quelle esperienze estreme che conducono al limite dell’essere sé e individui, della singolarità e persino della coscienza e che proprio per questo sembrano permettere la fuoriuscita dalle categorie del politico concedendo uno «stare insieme» – una comunità, se si preferisce – in cui il nostro esistere (nel politico) «fuoriesce da sé», in cui «la nostra esistenza tocca insieme il suo apice e il suo precipizio»: «Il riso, il sesso, il sangue» (ovvero la festa, l’orgia, il viaggio psichedelico, la zona temporaneamente autonoma). Si tratterebbe, continua Esposito, di esperienze legate a momenti specifici (non si può vivere costantemente «al limite», ma lo si può toccare in occasioni straordinarie), che è difficile concettualizzare al di là del momento stesso in cui le si vive («Cosa ci sia in quel “fuori” – o cosa esso sia, oggi nessuno può dirlo»). Tuttavia, la tesi permette di comprendere come sia possibile immaginare una forma di controsocietà (o controcomunità) al di fuori del politico: al di là della sua effettiva possibilità di realizzazione o di stabilizzazione nel tempo, quest’ultima va quindi a costituire nell’immaginario impolitico una dimensione che, entro gli ovvi limiti dati dalla condizione stessa in cui la si pensa, assume cadenze costruttive, entro un taglio appunto critico da un lato e «utopistico» dall’altro. Da questo punto di vista, e in modo tranquillamente paradossale, «l’impolitico ritrova una configurazione politica», pensando «un punto originario precedente la “rottura” col politico» stesso, una comunità, appunto immaginata, che si fa «rappresentazione dell’irrappresentabile», cioè dell’impossibile «fuori» dal politico2.
8Di fatto il percorso delle controculture e dei movimenti nel corso degli anni Sessanta e Settanta è innervato dalla tentazione impolitica, cioè dal tentativo di trovare forme di uscita dal politico, inteso come universo in cui regnano inevitabilmente dominio, potere e violenza3. La più nota immagine-tipo di tale uscita è la comune hippy. Ma la tensione impolitica prende in quegli anni aspetti molteplici e variegati, soprattutto negli Stati Uniti: dalla teorizzazione del dropping out da parte dei sostenitori della via lisergica al rovesciamento del capitalismo (Huxley, Leary, Ginsberg) al tentativo dei Diggers californiani di eliminare il mercato sostituendolo con un lifestyle fondato sull’economia del dono, dall’ambizione di creare controsocietà alternative nel corpo della società urbana degli Students for a Democratic Society alla dissacrazione del politico tentata dallo Youth International Party, dalla vocazione separatistiche dei movimenti neri alle formule secessionistiche delle femministe della prima ora. È spesso in termini come questi – secessione, separazione, dropping out, controsocietà – che i ribelli del periodo pensano la comunità al di fuori dello spazio del politico, delle istituzioni, del capitalismo, del complesso militar-industriale (che per loro fanno tutt’uno). Quindi, un rifiuto del politico che lo riconfigura entro uno spazio comunitario posto, sul piano dell’immaginazione (nel senso di «costruzione» di immagine), fuori dal politico stesso. Le tendenze che negli Stati Uniti si muovono in questa direzione sono riprodotte in Europa, sia pure in forme più movimentistiche e meno esistenziali: vedi le iniziative dei situazionisti, le teorizzazioni consiliari degli studenti in rivolta, i vagiti dell’autonomia operaia, le prime comparse degli «indiani metropolitani». Nel complesso, la tentazione impolitica costituisce uno dei tratti portanti delle ribellioni e dei sommovimenti del periodo, elemento che la storiografia ha spesso colto e sottolineato, anche se non nei termini concettuali qui illustrati4.
Contro il politico
9La spinta verso l’uscita dal politico, in forme esistenziali, comunitarie e secessionistiche, è un fenomeno estremamente visibile negli stessi anni della contestazione, spesso rubricato polemicamente dai più fedeli alla logica del politico, o anche a quella dell’antipolitico, sotto l’etichetta dell’escapismo antirivoluzionario, della fuga in avanti, dell’individualismo egoistico, della mancanza di coscienza sociale. Negli Stati Uniti il dissidio si manifesta sin dalla metà del decennio, con lo scontro entro gli SDS tra hardliners (poi politicos) e floaters. Anche in Italia, dove lo sviluppo dei movimenti giovanili in termini di massa è più tardo, si coglie presto il fenomeno. In un intervento del 1971, che affronta il fenomeno complessivo della «rivolta studentesca (più che “giovanile”)», Gian Mario Bravo trova che questa si caratterizza per il suo «aspetto libertario», che però, ponendosi «al di fuori del dibattito sul movimento operaio», produce «individualismo» e soprattutto «pessimismo esistenzialistico»: non si tratta quindi di un progetto, ma di un animus scettico, che si costruisce sul rifiuto di allearsi con le forze operaie e che, soprattutto, «faceva dire ai primi “rivoluzionari” strasburghesi nel 1966 che la rivoluzione era soprattutto una “festa”, da realizzarsi in particolare attraverso lo “scandalo”». Nello stesso anno Franco Fortini nota che «a livello […] delle “masse” studentesche, credo si possa affermare che tutta la grande disputa sulle “tecniche della liberazione” (da Reich a Marcuse a Laing, per esempio) è sempre stata come separata, con un diaframma sottile e tenace, dal discorso propriamente politico e tende a essere continuamente respinta nella sfera del “privato” o, peggio, della cultura-visibile-e-dominante, sì che il singolo vive spesso in un regime di doppia menzogna»5. La tensione impolitica cui rimandano le citazioni attraversa quindi l’immaginario della controcultura e dei nuovi movimenti, trovando rilevanti punti di riferimento (spesso volutamente messi tra parentesi dai nuovi «impolitici») in alcuni tratti delle culture politiche radicali che li hanno preceduti. Bravo stesso li riassume come «libertari». E se è vero che l’anarchismo si presenta come la tradizione politico-culturale di maggior fascino e peso per i ribelli giovani (e i meno giovani) della prima parte del decennio (soprattutto, ma non solo, negli Stati Uniti), è probabile che la spinta impolitica di cui sopra si sia spesso espressa come sensibilità libertaria sui temi forti – e interconnessi – della politica, della statualità, della rivoluzione e del ruolo delle masse.
10Entro questi spazi critici si innestano considerazioni e riflessioni che, a partire dalle categorie culturali e politiche delle diverse tradizioni italiane, tentano di confrontarsi con lo «spirito nuovo» (il termine è del libertario americano Paul Goodman) che emerge dagli anni Cinquanta e che nei Sessanta sembra trovare inedito spazio di manovra. L’avversione per la politica istituzionalizzata nel moderno, per la sua dimensione imprescindibilmente statalistica, per la crescente burocratizzazione della società di massa, sembra farsi sempre più elemento costitutivo per l’azione e l’iniziativa umana e si fa strada tra i liberali più sospettosi nei confronti dello Stato, tra i socialisti impegnati a delineare la democrazia autonoma dal basso, persino tra i comunisti che si interrogano seriamente sugli istituti della futura democrazia operaia. Nel 1964 Guido Calogero, guardando alla lotta negli Stati Uniti per i diritti civili ed esprimendo la più tipica avversione liberale per il momento burocratico-regolativo dello Stato, auspica una maggiore distinzione tra «la difesa dei “diritti dell’uomo”» e la «“politica”», intendendo con la prima una «battaglia costituzionale» che garantisce l’avanzamento dei diritti di tutti e con la seconda le situazioni «singole» in cui vincono le «inevitabili miserie della struttura della politica e della lotta per il potere». Per cui la «vera policy» sta nella lotta costituzionale (alludendo al ruolo che negli USA di quegli anni gioca la Corte Suprema) di contro sia alla politics sia al politicking6. Qualche anno prima Ignazio Silone aveva suggerito, discutendo della possibilità di costruire un’azione operaia concreta entro e sullo «Stato borghese», che lo si potesse fare entro due distinte progettualità: «Una classe di lavoratori, tramite i suoi rappresentanti, si lascia statizzare», e «una classe di lavoratori ricupera alla società le funzioni di cui è stata privata e riesce a controllare lo Stato a beneficio della società». Il codirettore di «Tempo presente» parla il linguaggio dell’autonomia socialista e del proudhonismo, distinguendo società e Stato e studiando i modi in cui la prima può liberarsi dell’asfissiante tutela del secondo7. Anche nel PCI, laddove ci si preoccupa maggiormente dei temi legati alla relazione democrazia/socialismo, emergono domande sul ruolo dello Stato (e sulla prassi politica che la sua esistenza implica) che ne colgono la propensione a burocratizzare e verticizzare le relazioni umane, svuotando di contenuto la democrazia stessa. In uno dei suoi articoli polemici contro il riformismo socialista, pubblicato in «Rinascita» nel 1964 (e già parlando da portavoce della sinistra del partito), Pietro Ingrao si chiede «come impedire che il meccanismo delle assemblee elettive si riduca a semplice delega di potere, la quale lasci alle masse e prima di tutto alle classi subalterne solo il titolo (per giunta precario e continuamente contestato) per scegliere ogni tanti anni la casta che deciderà o più esattamente amministrerà o medierà le scelte compiute dalle grandi concentrazioni monopolistiche?» Il leader comunista situa la questione entro i fenomeni di crescente disaffezione per il politico che coglie, con una certa finezza, soprattutto tra i giovani: nella relazione tenuta qualche settimana prima a un convegno di organizzazione del PCI, aveva sottolineato come «gruppi rilevanti di lavoratori e di cittadini – soprattutto gruppi di giovani» vedessero «nel partito prevalentemente il momento del limite (disciplina, attivismo inteso in senso esteriore, “ufficialità”, ecc.) piuttosto che il momento creativo», notando come questo fosse dovuto anche a «residui di anarchismo»8. Nicola Chiaromonte legge la crisi del politico da una prospettiva differente, proiettandola su un periodo più lungo, esito sia della trasformazione dello Stato in senso sempre più «tirannico», sia della disarticolazione e dell’anomia, frutto maturo della massificazione sociale. Processi che potenziano lo Stato contemporaneo in modi inediti e che lo caratterizzano come «militare, tecnologico, industriale, non controllabile»9.
11Sono temi e problemi, questi suggeriti dalla sfiducia nello Stato e nel politico, che nelle riviste e nei movimenti «a margine», tra gli «isolati» (si legge nel numero 30 dei «quaderni piacentini» in polemica con «Rinascita»)10, prendono aspetti più critici e radicali. Per esempio Giovanni Jervis, nella stessa rivista qualche mese dopo, si sofferma su una delle relazioni tenute al celebre convegno londinese sulla «Dialettica della liberazione» (tra quelli non stampate in volume), tenuta dal giovane Dan Schechter su The Hippies and Politics, notando come la critica hippie della società capitalistica, capace di riassorbire «in se stessa ogni opposizione possibile», si riassuma nell’«unica controproposta possibile», «una denuncia di tipo nuovo della politica in se stessa». Jervis coglie peraltro il senso impolitico di tale denuncia, rintracciandone una «prospettiva politica» nel «tentativo esplicito di accelerare la decomposizione interna del sistema capitalistico» con le tecniche di dissacrazione sociale tipiche dei giovani «figli dei fiori»11. Anche i «Quaderni rossi» (e forse persino «Classe operaia»), la cui parabola si inscrive nel tentativo di identificare strumenti accettabili di mediazione politica tra classe e partito, muovono in fondo dalla consapevolezza di una discrasia difficilmente colmabile: «Non è vero che da parte dei giovani […] non si voglia parlare di politica», dichiara Raniero Panzieri nel dicembre 1960, «essi anzi lo chiedono, ma noi non sappiamo come rispondere, perché la politica di cui dobbiamo parlare è questa politica che si sta facendo adesso da parte dei partiti», ritenendo che il nuovo quadro sociale che ha suscitato tali inquietudini metterà in discussione sia «gli schemi tradizionali del rapporto tra socialismo e democrazia» sia «il valore attribuito agli istituti di democrazia formale»12.
Dal politico al sociale
12La sfiducia nel politico e nei suoi strumenti tradizionali per molti si riflette nella ricerca di nuovi percorsi, che finiscono spesso con la valorizzazione delle pratiche sociali e di quelle modalità di mobilitazione delle forze sociali che si costruiscono contro il politico o almeno fuori da esso. La prima di queste, diciamo così quella più tradizionale nel movimento socialista, è quella dell’autogestione, del controllo operaio. E agli inizi del 1958, dalle pagine di «Mondoperaio», Lucio Libertini e ancora Panzieri ne propongono una versione che già guarda ai modelli della Nuova sinistra (una versione non lontana da quella coeva che vanno elaborando i socialisti inglesi della New Left), nelle loro quasi celebri «Tesi sulla questione del controllo operaio». Nella terza tesi, relativa alla costruzione dei propri «istituti» da parte del proletariato, leggiamo che il «concetto» implica «continuità nei metodi della lotta politica prima durante e dopo il salto rivoluzionario, e che quindi gli istituti del potere proletario devono formarsi non già dopo il salto rivoluzionario, ma nel corso stesso di tutta la lotta del movimento operaio per il potere. Questi istituti debbono sorgere nella sfera economica, laddove è la fonte reale del potere, e rappresentare perciò l’uomo non solo come cittadino ma anche come produttore». La polemica che si dipana dal testo tocca da presso la questione della democrazia socialista e Panzieri stesso, qualche mese dopo, quasi si sorprende nel vedersi imputato, assieme a Libertini, di «un massimalistico ripudio in blocco della democrazia politica e dei suoi istituti attuali»13.
13Anche nell’esperienza di Comunità, che muove evidentemente da radici differenti, troviamo però un’analoga sfiducia nel politico che muove verso la valorizzazione del sociale. Nel 1957 Adriano Olivetti si mette alla ricerca di una «nuova strada», nella consapevolezza dell’«insufficienza» dei tre «istituti classici» delle «democrazie parlamentari», ovvero «i partiti politici, la rappresentanza proporzionale, il suffragio universale». Chiedendosi cosa sarà dei partiti «in futuro» (evidentemente non gli appartiene come cultura politica il termine «salto rivoluzionario» che usa Panzieri …), conclude che potranno sopravvivere, e divenire «vero motore di civiltà», solo se si trasformeranno in «associazioni politiche funzionali». Con ciò intende in sostanza l’assunzione delle funzioni amministrative da parte di partiti sburocratizzati e soprattutto localizzati sul territorio, in un processo in cui l’esistenza stessa del partito come struttura nazionale (ma anche dell’organizzazione nazionale della rappresentanza) viene messa in dubbio e che, nuovamente, tenta la costruzione della democrazia dal basso: «Se noi riuscissimo ad individuare o ad approfondire meglio la vera natura di tali funzioni potremmo tentare di renderle in un certo senso autonome ed organizzarle su un piano nazionale in associazioni democratiche. Potremmo infine ipotizzare una situazione nella quale tali associazioni fossero le sole autorizzate a proporre candidati nelle elezioni locali». Olivetti pensa evidentemente al suo schema di ordine comunitario, proposto qualche anno prima, ma le sue considerazioni svelano la tendenza a sostituire, in un modo istituzionalmente determinato, la sfera sociale a quella propriamente politica, anche se lo stesso autore è ben consapevole del fatto che la democrazia «involge precauzioni più vaste» di quelle che lui ha qui esposto14.
14Forse ancora più significativo l’atteggiamento dei pacifisti, che in Italia trovano la voce laica più autorevole in Aldo Capitini. Il pacifismo si è senza dubbio rivelato, tra anni Cinquanta e Sessanta, una delle vie maestre della riflessione e dello sviluppo delle pratiche sociali che hanno condotto ai sommovimenti incentrati sul ’68. Per Primo Mazzolari, che lega scelta non violenta e morale cristiana e che discute in termini precipuamente religiosi, l’affermarsi dell’etica della non violenza trova necessariamente riflesso nella dimensione del politico, o meglio, in un suo mutamento decisivo, con la «rotta del realismo politico» (Mazzolari 1955, p. 89). Per Capitini, che fonde sentimento religioso e linguaggio politico più tradizionale, il pacifismo è «rivoluzione permanente», «sintesi di non violenza e di potere di tutti dal basso» (Capitini 1967, pp. 35, 40). In quanto ai suoi presupposti di fondo, ovvero il favore per l’azione diretta e la disobbedienza civile che si contrappongono frontalmente al modus operandi del politico (in particolare quando s’incentra sullo Stato), li spiega nel seguente modo nel 1961: i pacifisti chiedono allo Stato di tutelare la possibilità di «cambiare la concezione del mondo», ma se esso non intendesse farlo, «io cercherò di tutelarla, come potrò, da me o con altri svolgendo una certa attività, e il vero Stato sarà dalla parte nostra, cioè in quell’attività civile ispirata al proposito di tutelare quella possibilità per me e per tutti gli altri». La frattura tra politica e attività civile nel pensiero di Capitini si approfondisce nel corso degli anni Sessanta, muovendosi verso l’idea di un’azione sociale dal basso che si sovrapponga e si aggiunga all’azione del «governo con i suoi ministri»: noi, dichiara nel 1968 a nome della rivista Il potere di tutti,
vogliamo dare un aiuto per questo lavoro di controllo dal basso, favorendo la costituzione di centri di orientamento sociale in ogni località, anche piccola e collegandoli con questo periodico, stimolando a formare consigli di gestione nelle aziende, consigli di classe nelle scuole, conigli di assicurati nelle previdenze sociali e nelle mutue, consigli di ammalati nei sanatori e negli ospedali, là dove è possibile. Ognuno deve imparare che ha in mano una parte di potere, e sta a lui usarla bene, nel vantaggio di tutti […]15.
Il ruolo dei piccoli gruppi
15Un siffatto progetto di decentramento totale, ma ancora di più di sminuzzamento e redistribuzione del politico, finisce con il valorizzare la terza fase dell’impolitico sopra descritto, ovvero l’azione del piccolo gruppo come orizzonte sia dell’attivismo sia dell’esistenza (anzi, come strumento di fusione tra i due). Nell’ultimo suo scritto, pubblicato pochi giorni prima della morte e intitolato «La forza preziosa dei piccoli gruppi», Capitini identifica la funzione contemporanea dei gruppi («omogenei o misti di lavoratori, studenti, appartenenti a razze oppresse», scrive pensando sia all’esperienza americana sia a quella italiana) nel confrontarsi con il «sistema» non con la pretesa di mutarlo «subito», ma piuttosto di «spaccarlo», smentendone «la sacralità, la provvidenzialità, l’autorità». Una funzione più culturale che immediatamente politica, che si riflette nella sensazione che la vita del piccolo gruppo sia rilevante in sé (e non solo per gli eventuali esiti che produce): «Per noi è molto importante il rapporto con le persone, che può essere di solidarietà in certe campagne nonviolente, e può essere indipendente da queste; sempre siamo interessati alla persone e agli altri esseri, al tu, al dialogo, alle assemblee»16. Anche Danilo Dolci, qualche anno prima e in un contesto non dissimile da quello di Capitini (entrambi sono cioè impegnati nel mobilitare energie nel «sommerso» del politico, in particolare tra i giovani), insiste sul piccolo gruppo come base dell’azione (im)politica. A partire dal rifiuto delle «forme di vita» imposte dal capitalismo e dalla massificazione, il carsolino propone all’individuo l’impegno «nel gruppo di lavoro e di vita, voluto da ciascuno, teso a far esprimere e partecipare, ciascuno nel modo più pieno, a far costruire sulla base della personale esperienza-coscienza, un gruppo di particolare qualità». Dolci insiste sul «valore educativo» della vita di gruppo (avvertendo ovviamente sull’opportunità di studiare con accuratezza quale sia «il numero massimo di individui» in un gruppo compatibile con la conservazione di eguaglianza e orizzontalità), ma anche sul fatto che il gruppo sia «un insostituibile strumento di orientamento e di perfezionamento, per l’azione»: permette cioè «di mettere a punto visioni più esatte e più complesse», di «ipotizzare al di fuori del campo della proprie dirette esperienze», di «integrare la saggezza individuale nella più completa saggezza del gruppo, con la possibilità di concepire e produrre valori più autentici», di «mettere in comune complementari attitudini, capacità, tecniche»17.
16Tra coloro che guardano alla tradizione socialista la discussione del «piccolo gruppo» non può che inserirsi nei dibattiti intorno alla classe, al partito, alla democrazia operaia. E quindi molti, per i quali l’orizzonte dell’azione resta il partito, percepiscono il tema del piccolo gruppo come nulla più che una tentazione. Qualcuno fa un passo ulteriore. Panzieri, per esempio, nel discutere la necessità di «chiudere con certe strutture marce» (ha appena citato PCI e PSI), ritiene che l’impegno «ponga dei problemi di elaborazione politica, al livello stesso della partecipazione di base; ma elaborazione nuova che non rifiuta lo scontro a tutti gli altri livelli. Altrimenti non si ha più il diritto di protestare se si viene strumentalizzati». L’usuale battaglia antiburocratica e antiverticistica in cui è impegnato da anni lo porta così a ipotizzare un lavoro «di base» culturale e politico insieme. Nello stesso periodo scrive a Danilo Montaldi che occorre «porci il problema pratico, almeno, di un collegamento e di una espressione di alcuni gruppi, dentro e fuori dei partiti, sul piano di un orientamento marxista rivoluzionario, di forme aperte organizzativamente, ossia evitando ogni aspetto di piccola setta, che è l’errore grossolano in cui son finora cadute tutte le piccole organizzazioni della sinistra operaia»18. Il suo interlocutore, che si dichiara peraltro d’accordo (anche se il piccolo gruppo cremonese in cui milita e che ha fondato, Unità proletaria, in fondo lo è, una «piccola setta» …), ha appena pubblicato un intervento «pesante» in «Passato e Presente», che finisce con considerazioni innovative:
Mentre gli stati burocratici tendono a sostituire la borghesia ereditandone e lasciando inalterati i suoi metodi di governo, gruppi di giovani si staccano e prendono proprie responsabilità. Sono a volte piccoli gruppi culturali che si pongono tutti i problemi senza aver ben chiarito le proprie vocazioni, dunque tuttora fermi a questioni di metodologia […]; altri che studiano dall’interno la struttura dei partiti per rendersi conto della situazione; o che passano al lavoro sindacale condotto a livello di base per poter aver rapporto con la classe senza passare attraverso le porte strette dei bureaux ufficiali. Tra i motivi che hanno portato gruppi di studenti torinesi al picchettaggio durante lo sciopero dei metallurgici c’era anche la verificata constatazione che nei partiti i detentori delle deleghe avevano preso l’aria fritta19.
Commentando l’articolo dell’amico, Panzieri dichiara di non avere obiezioni «nel merito». Ed è più divertito che scandalizzato l’anno successivo, quando alcuni sindacalisti accusano lui e il giovane sociologo suo collaboratore Vittorio Rieser di «anarco-sindacalismo eversivo e distruttivo delle organizzazioni» …20
17La più chiara apologia del «piccolo gruppo» come epicentro della posizione impolitica viene dalla penna del più eclettico pensatore italiano del periodo. Nicola Chiaromonte ha proposto il tema sin dal dissidio tra culturalisti e movimentisti in Giustizia e libertà nel corso del 1935; lo ha ripreso nel corso del suo soggiorno statunitense, quando ha dato il tono alla celebre rivista «politics» diretta da Dwight Macdonald; e lo ripropone nei mesi caldi del ’68, con un intervento contro la deriva marxisteggiante/rivoluzionaria di giovani, studenti e contestatori (pubblicato nel numero di marzo-apirle 1968 di «Tempo presente»), che questi ultimi interpretano come una semplice critica conservatrice. Ben altra la prospettiva del codirettore della rivista, che, a quasi mezzo secolo dall’evento, sembra lui esprimere al meglio le tensioni impolitiche, più radicali e critiche dell’epoca. Di contro alle varie retoriche della liberazione, spiega,
il rimedio, in verità, se c’è è altrove, e a molto lunga scadenza. Consiste nella secessione risoluta da una società (o meglio: da uno stato di cose, giacché “società” implica comunanza e ragione, che sono precisamente quello che manca, oggi, nella vita collettiva) […]. Da questa società – da questo stato di cose – bisogna separarsi, compiere atto pieno di eresia. E separarsi tranquillamente, senza urla né tumulti, anzi in silenzio e in segreto; non da soli, ma in gruppi, in “società” autentiche le quali si creino una vita il più possibile indipendente e sensata, senza alcuna idea di falansterio o di colonia utopistica, nella quale ognuno apprenda anzitutto a governare se stesso e a condursi giustamente verso gli altri, e ognuno eserciti il proprio mestiere secondo le norme del mestiere stesso […]. Ciò non significherebbe assentarsi né dalla vita dei propri simili, né dalla politica in senso serio21.
Per Chiaromonte il piccolo gruppo che «secede» dal mondo dello Stato, del capitalismo e della massificazione ha compiti più «esistenziali» che immediatamente orientati sull’azione; è ispirato da una precisa visione critica del politico; ed è quindi più simile, in quanto a ethos e orientamento complessivo, a una comune hippy che a un gruppo di lavoro alla Dolci o alla Capitini:
Importa essere eretici, oggi, separati dalla massa, chiusi in cerchie ben definite e tenute insieme da idee e interessi comuni. Il rapporto di queste cerchie o gruppi con la società «in genere» e lo Stato dev’essere di distanza, di partecipazione minima, di scepsi e critica ma non di rivolta. Perché lo scopo di tali “frátrie” è di ricostituire società giuste, anzi di ricostruire dalle fondamenta una società, sic et simpliciter. Tali “frátrie” hanno quindi, per cominciare, il compito di stimolare la società a passare dalla politica intesa come realizzazione di un assoluto Bene alla morale come misura e limite dell’azione politica, nonché come distanza da mantenere continuamente fra l’idea di comportarsi con giustizia verso gli altri e l’azione politica come mezzo per la realizzazione di una giustizia obiettiva impossibile22.
Le considerazioni di Chiaromonte, lette all’epoca, appunto, come critica conservatrice, non esercitano influenza alcuna, lasciandolo di fatto «isolato» (o, secondo la sua locuzione, pienamente «eretico»). Ma l’insieme di quegli argomenti e di quei temi che segnano in senso impolitico alcuni ambienti marginali della sinistra italiana rispetto al mainstream politico sembrano invece rappresentare, se non un fiume, almeno un rivolo carsico nel pensiero critico, la cui presenza e influenza sono probabilmente più evidenti oggi di quanto fossero negli anni Sessanta e persino nei Settanta.
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Notes de bas de page
1 Per quanto riguarda l’incubazione nella cultura italiana delle idee che condurranno al ’68 e alla nuova sinistra, sono rilevanti i lavori di Merli (1977) e di Attilio Mangano, recentemente scomparso, alla cui memoria questo saggio è dedicato (Mangano - Schina 1998). Vedi anche l’introduzione del curatore in Vettori (1973); Giannuli (1988); La stagione dei movimenti, in particolare la Prima parte. Il “Biennio rosso”, in «Il presente e la storia», n. 59, giugno 2001, pp. 13-148; Marino (2004), in particolare i primi tre capp., pp. 1-200; Ventrone (2012), in specifico i primi due capp., pp. 1-117.
2 Esposito, Categorie dell’impolitico (1999), in particolare la nuova «Prefazione», pp. vii-xxxi, e, per le citazioni, pp. 20, 299; Esposito (1998), in particolare il capp. 4 e 5, pp. 92-157, per le citazioni pp. 139, 147; Esposito (2010), in particolare pp. 212-18.
3 Il termine viene spesso usato in un senso più generico, come rifiuto, avversione o disinteresse per la sfera della politica, sottolineando semplicemente la sua accezione di negatività e assenza. Vedi per esempio, proprio in relazione ai temi qui discussi, la seguente considerazione di Diego Giachetti: «Quei giovani», intendendo quelli del ’68, «avevano assunto verso la politica istituzionale partitica un atteggiamento “impolitico” nel senso che a loro interessava poco, non ne parlavano, non riponevano nella politica grosse aspettative» (Critica e crisi della politica: i giovani dopo il ’68, in «Il presente e la storia», n. 59, giugno 2001 cit., p. 208).
4 Vedi per esempio Evans (1979); Breines (1982); Miller (1991); Stephens (1998).
5 G.M. Bravo, L’estremismo giovanile: dal movimentismo ad un nuovo organizzativismo, in Istituto Gramsci (1972), pp.448-50; F. Fortini, Più velenoso di quanto pensiate. Considerazioni non “marxiste”, in «quaderni piacentini» 44-45, ottobre 1971, p. 224.
6 G. Calogero, I diritti dell’uomo e la natura della politica (1964), in Id. (1972), pp. 308-09.
7 I. Silone, Gli apparati e la democrazia (1957), in Id. (1999), pp. 1077-78.
8 P. Ingrao, Un primo dibattito sul pluralismo politico (1964) e Sul rapporto tra democrazia e socialismo (1964), entrambi in Id. (1977), pp. 193-94, 203.
9 Chiaromonte (1995), p. 189 (annotazione del 1963).
10 I veri “isolati”: smentita a Rinascita, in «quaderni piacentini», n. 30, aprile 1967, ora in Baranelli - Cherchi (1977), pp. 364-65.
11 G. Jervis, Il congresso di Londra. “Dialettiche della liberazione”, in «quaderni piacentini», n. 32, ottobre 1967, pp. 16-17.
12 R. Panzieri, Intervento a un “attivo” sindacale del PSI torinese (1960), in Panzieri (1975), p. 125.
13 L. Libertini - R. Panzieri, Sette tesi sulla questione del controllo operaio (1958), in Mughini (1975), p. 227; Panzieri alla direzione dell’Unità, inizio ottobre 1958, in Panzieri (1987), p. 167.
14 A. Olivetti, Saggio preliminare intorno al salto dalla dittatura alla libertà (1957), in Olivetti (1960), pp. 205, 208.
15 Capitini (1961), pp. 161-62; Id. (1969), Il potere è di tutti, in Id. (1969), p. 152.
16 Capitini, La forza preziosa dei piccoli gruppi, in Id. (1969), pp. 446-47.
17 Dolci, Riflessioni su obiezione di coscienza, gruppi, pianificazione (1963), in Id. (1974), pp. 110, 112-13.
18 Panzieri, Azione nei partiti o in gruppi autonomi? (1960), in Id. (1975), p. 119; R. Panzieri a D. Montaldi, 10 marzo 1960, in Id. (1987), p. 257.
19 D. Montaldi, Sinistra burocratica (1960), in Id. (1994), p. 380.
20 R. Panzieri a D. Montaldi, 17 marzo 1960, in Id. (1987) p. 264; R. Panzieri a R. Di Leo, 23 settembre 1961, ivi, p. 325.
21 Chiaromonte, La rivolta degli studenti (1968), in Id.(1992), p. 148.
22 Id. (1995), pp. 237-38 (la nota risale al periodo 1968-69).
Auteur
È associato di Storia moderna e Storia del pensiero politico moderno e contemporaneo all’Università di Torino. Ha curato edizioni di scritti di J. Mitchel, T. Jefferson, P. Goodman, J. Goodwin, J.S. Mill, J. Knox e C. Berneri. È autore di alcune monografie sulla cultura religiosa inglese del Cinque-Seicento: Il dio dei blasfemi (Unicopli, 1993); La libertà dei santi (Franco Angeli, 1997); La città e gli idoli (Unicopli, 1998). Ha scritto, sui dilemmi culturali e politici del fenomeno hard core, La pornografia e i suoi nemici (il Saggiatore, 1996) e Il porno di massa (Cortina, 2004). La sua ultima pubblicazione: L’anarchismo americano nel Novecento. Da Emma Goldman ai Black Bloc (Franco Angeli, 2016).
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