L’odore della rivoluzione
p. 3-23
Texte intégral
1. Ancora il Sessantotto?
1Ancora il Sessantotto? O finalmente, il Sessantotto? Rivoluzione o meno? In ogni caso, si trattò di un forte scossone della società italiana, all’interno di un generale sommovimento delle società euroamericane, dagli Stati Uniti alla Francia, da Città del Messico a Praga; ma una scossa che veniva di lontano, sicuramente avendo attraversato l’intero decennio, il sesto del secolo, ma che possiamo ritenere partisse ancor prima, negli anni Cinquanta. E il discorso, sull’Italia, non soltanto va immediatamente ricollocato nell’ambito continentale, ma dovrebbe essere allargato ben oltre gli Urali e l’Atlantico, lambendo il Pacifico, guardando non soltanto al Nordamerica, ma al subcontinente “latino”, e sull’altro versante geografico, verso l’Indocina, e l’immensa Cina. Tutto, naturalmente, alla ricerca dei segni di tensioni, frizioni, microfratture o anche clamorose lacerazioni, e dei punti di discontinuità che ci aiutino a rispondere alla domanda: Da dove giunge il movimento chiamato Sessantotto? – che, a ben vedere, meglio sarebbe chiamare il movimento degli anni Sessanta, i favolosi Sixties, del discorso pubblico anglosassone e in particolare statunitense. Ancor prima dell’anno “spartiacque”, il 1956, si deve sottolineare l’importanza della morte di Stalin, come fattore liberatorio di energie represse e soffocate, specie a Est, ma anche ad Ovest.
2Anche se altre date sono importanti, dunque, indubbiamente riferirsi al ’56, come punto di partenza è una scelta quasi obbligata: non soltanto gli eventi dell’Est Europa, Polonia, Ungheria, e XX Congresso del pcus, con la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Nikita Kruscev; vanno tenuti presenti i fatti relativi al Canale di Suez, che significarono con la fine del ruolo di Gran Bretagna e Francia come protagoniste sul piano della geopolitica mondiale, l’avvio del vero duopolio usa-urss, come soggetti del “nuovo ordine” post-guerra. Significarono altresì l’emergere, attraverso l’Egitto di Nasser, dell’orgoglio arabo, un fattore fino ad allora trascurato col quale si sarebbe dovuto fare i conti. Un orgoglio che aveva ragioni di risentimento, ma aveva soprattutto le ragioni di una grande forza che premeva per riconquistare gli spazi politici e storici che le spettavano.
3Quell’anno, che colpì in particolare i partiti comunisti occidentali (in quelli all’interno del blocco sovietico naturalmente le cose accadevano, ma in modo sotterraneo e si stanno scoprendo soltanto ora, con la progressiva apertura di archivi), e in specie il Partito comunista francese e quello italiano, quest’ultimo, soprattutto, frantumando le sue certezze, reali o vissute come tali: fu un evento epocale, doloroso, ma che alla lunga produsse elementi di chiarezza interni a quel mondo, favorendo, con la presa di coscienza di tanti dirigenti e militanti, le prime incrinature, e con le tante cerimonie degli addii, l’inizio della ricerca di vie nuove verso la società di liberi ed uguali. Nulla fu più come prima, in sintesi. Il pci togliattiano, colpito pesantemente dagli eventi, non ne venne tuttavia travolto: «Si sta con la propria parte anche quando essa sbaglia», sentenziò il segretario, irrigidendosi nell’allineamento al pcus, pur criticando le scelte di Mosca in privata sede; in ogni caso egli avviò subito dopo, già nel ’57, anche in fondo sulla scorta della celebre intervista sullo stalinismo, a «Nuovi Argomenti» del luglio ’56, un processo volto a ricuperare il rapporto con quella ampia fetta di intellettualità che, delusa per le rivelazioni kruscioviane e disgustata per l’invasione dell’Ungheria, allarmata per la repressione delle manifestazioni operaie a Postdam, si era allontanata1. Soprattutto, il pci si mise all’opera sotto l’attenta regia del “Migliore”, per rilanciare con maggior convinzione il processo di italianizzazione del Partito, sempre sotto il segno di Gramsci, e dunque di ricupero di tradizioni culturali “indigene”, e quindi di dialogo con una intellettualità diffusa, non iscritta al Partito, e talora neppure simpatizzante con esso. Era la costruzione dell’egemonia, in sintesi, cui mirava, gramscianamente, Palmiro Togliatti (Chiarotto 2011).
4Lo choc del ’56, non lasciò intatte neppure le culture politiche altre, quelle che, come poi sarebbe accaduto nel 1989, poterono in qualche modo esultare per la prova provata delle chiusure del regime sovietico, da loro denunciate da sempre. In particolare in seno alle famiglie socialiste e repubblicane, e alla nuova forza radicale, il ’56 fu visto come un’occasione per riequilibrare i rapporti di forza, ossia allontanare il PCI sempre di più dall’area governativa, e invece provare a tessere la tela di una “sinistra democratica”: progetto che trovò in Ugo La Malfa il suo più autorevole mentore politico, in personaggi quali Leo Valiani, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Aldo Garosci (ed altri) i suoi intellettuali di riferimento, le riviste «Tempo Presente», «Nord e Sud», «il Mulino», e, naturalmente, la sempre crociana «il Mondo», di Mario Pannunzio, alcune delle centrali “d’area”.
5Un processo analogo si svolgeva intanto in seno al mondo cattolico, negli anni a seguire, con l’ascesa di Angelo Roncalli al soglio di Pietro, col nome di Giovanni XXIII, furono anni di rivoluzione interna, istituzionale, ma soprattutto morale. Era il 1958. Il Concilio Vaticano II, concepito l’anno dopo, e apertosi nel 1962, volle davvero essere “ecumenico”, e segnò un solco, quasi uno scisma in seno al cattolicesimo: il nuovo contro il vecchio. Il cattolicesimo detto poi “del dissenso” trovò nel Concilio una sponda formidabile di cui si fece forza nel decennio successivo. E, grazie a figure come Aldo Capitini o Danilo Dolci, per citarne solo un paio, emersero chiaramente forme nuove e fascinose di “religione aperta”, laica, praticata da uomini che volevano davvero cambiare il mondo, non solo con le teorizzazioni, ma con la pratica sociale. E diffidavano dei partiti, pur amando la politica. Se un altro mondo era possibile lo era altresì un’altra politica. Dal basso, al fianco dei senza terra siciliani, dei pastori sardi, dei contadini umbri. Capitini con la sua teorica della pace e della nonviolenza, ruppe anche la logica dei blocchi, e la marcia della pace Perugia-Assisi del 1961, fu un evento epocale, col quale l’egemonia, per un momento, fu sua, in una situazione politica di diffidenza totale dei partiti della Sinistra, di antipatia del mondo cattolico, di ostilità della destra. E anche chi, come Norberto Bobbio o Guido Calogero, ebbero un sodalizio col filosofo perugino, non lo compresero fino in fondo: il profetismo di un “postcomunista” (come si definì, con parola che aveva ben altro significato di quello con cui fu impiegata dopo il 1989), non poteva accordarsi con il realismo politico del primo, o col moderatismo dell’altro.
6O, per citare un caso diverso, quello di Adriano Olivetti, l’imprenditore-mecenate e intellettuale e politico, che portava in Parlamento nel ’58 con il movimento di Comunità, il ceto medio riflessivo, la borghesia intellettuale e delle professioni, intrisa di buone letture; e non possiamo dimenticare l’influsso esercitato da opere narrative, come il postumo Gattopardo, di Tomasi di Lampedusa, autore scoperto post mortem, o il Dottor Zivago, del reprobo Boris Pasternak, apparsi nel ’58, entrambi (non a caso) da Feltrinelli, a dispetto dei giudizi negativi di vari editors su Tomasi di Lampedusa e i tentativi sovietici di impedire la pubblicazione Pasternak. Mancavano ancora dieci anni all’esplosione studentesca, che avrebbe innescato la rivolta operaia, conferendo alla situazione italiana un carattere unico a livello internazionale. Il nostro Sessantotto non concerne insomma solo quell’anno, peraltro avviato nell’autunno del ’67 con le prime occupazioni di sedi universitarie: Milano (la Cattolica), Torino, Pisa, Trento…
7Ma in quello stesso 1967 due eventi luttuosi, due morti, uno per malattia, uno vittima di un omicidio a sangue freddo, donarono due icone eccezionalmente efficaci al movimento nascente, unificandolo: alludo a don Lorenzo Milani, morto nel giugno di tumore, e Ernesto Guevara, ucciso in ottobre in Bolivia, dopo esser stato catturato e torturato. Nondimeno entrambe le icone cominciarono ad essere efficaci veicoli di mobilitazione proprio nell’anno cruciale, non smettendo poi di esercitare una funzione importante nei decenni seguenti. Se il primo rompeva la gabbia gerarchica del cattolicesimo, mentre rifiutava un caposaldo dell’educazione scolastica borghese, riportava il cattolicesimo verso la sintonia con i reietti, i poveri, gli esclusi, in certo modo avvicinandosi proprio alla cultura comunista; come del resto già un altro prete, don Mazzolari aveva fatto; e come dall’America Latina un’intera corrente teologica stava facendo da tempo, non solo avvicinando il cattolicesimo al marxismo, ma puntando alla fusione della croce e del mitra, quali strumenti del nuovo o meglio antichissimo Cristo rivoluzionario.
8Quanto al Che, come per Lorenzo Milani, si trattava di un nome noto a pochi, ma che, da morto, valse più che da vivo: nel romanticismo della figura eroica, nella sua stessa bellezza fisica e nella nobiltà delle parole lette, Guevara occupò largamente l’immaginario dei giovani, ancora interni al pci (generalmente alla Federazione giovanile), o esterni ad esso, sempre più tentati di cercare una propria via alla rivoluzione. Il barbuto volto sorridente del rivoluzionario di professione argentino, combattente di ogni buona causa, avrebbe presto cominciato a comparire sia sui cartelloni portati nelle manifestazioni dai senza partito, presto chiamati extraparlamentari, sia sulle pareti delle sezioni di partito, dei circoli Arci, ma non di rado anche delle ACLI. Più tardi sarebbe precipitato nell’apoteosi commerciale, banalizzato e in fondo tradito. Ma allora il richiamo al guevarismo e al maoismo, spesso ignorando vicende e problemi, fu il segno forte, sebbene controverso, di una contrapposizione drastica alla via elettorale, e, per qualcuno, anche alla via legale, al cambiamento politico; mentre dai “francofortesi”, che si cominciavano a leggere, giungevano messaggi di critica radicale del “sistema”. Non vanno trascurati gli effetti delle notizie delle proteste nei campus statunitensi, di studenti contro la guerra del Vietnam, anzi primo detonatore della giovanile “contestazione” europea. Movimento, che negli usa, si collegò e spesso si fuse con il movimento dei Neri d’America.
9Ormai, però, la cesura tra vecchio e nuovo, tra istituzionalismo e movimentismo, era in corso e appariva irreversibile. E per quanto le organizzazioni giovanili dei partiti tentassero di raccordarsi al movimento, o di frenarne gli “eccessi”, sottolineando il dato dello scontro generazionale, il Sessantotto andava cominciando proprio, sul finire del 1967, non solo con la rottura con la linea politica di questo o quel partito, ma con un distacco dalla politica dei partiti, e con un rifiuto dello stesso concetto della democrazia rappresentativa. Ancora una volta le riviste svolsero un ruolo decisivo, come vedremo.
10Il Sessantotto, trovò, infine, una drammatica rilegittimazione nell’agosto dell’anno fatidico, con la nuova invasione delle truppe sovietiche (e del Patto di Varsavia), ai danni della Cecoslovacchia di Dubcek. Stavolta il pci non si piegò, ma questo non sarebbe bastato a salvaguardare il rapporto con un movimento ormai magmatico che era impossibile controllare, e al quale, nei mesi successivi, l’esplosione della collera operaia, avrebbe portato linfa vitale, avviando una nuova fase, ben più rilevante, della lotta, trasferita dalle università alle fabbriche.
11Il Sessantotto italiano fu comunque un biennio, non un anno. E in un certo senso, fu un intero decennio. E i “grandi anni Settanta”, così salutati da Mao Zedong, furono davvero tali, da noi: per il costume, le istituzioni, la società intera, anche se la reazione di una destra la cui forza era stata sottovalutata, e l’interna consunzione del movimento, isterilito nelle dispute e paralizzato dalle scissioni, produssero, nel finale, danni i cui effetti gravano ancora sul nostro presente.
12Eppure le istanze che quel movimento raccolse dal dodicennio precedente, pur nelle ingenuità e negli errori, talora gravissimi, imperdonabili, furono nobili, sotto il segno di una genuina volontà di dare l’assalto al cielo. Fu la rivoluzione femminista (che in parte coincise con il movimento di liberazione sessuale) forse il suo prodotto più rilevante, in assoluto contrasto alle culture politiche tradizionali, anche della sinistra, a dimostrazione che nelle piccole e meno piccole crepe apparse nel loro seno, si stavano annidando i germi di una vera rivoluzione. Sì, come recita il titolo di una memoria di un protagonista, furono «formidabili quegli anni» (Capanna 1988).
2. La scena internazionale e quella interna
13Guardando alle origini di ciò che chiamiamo Sessantotto, la crisi politica dell’anno 1956 richiede di essere contestualizzata opportunamente, a livello globale, in particolare sull’asse geopolitico euroamericano. Sul piano economico, si tratta di una situazione di riassesto internazionale del capitalismo, mentre sul piano geopolitico, si può parlare di una crisi di rapporti tra usa ed Europa, dove era nato il mec (Mercato Comune Europeo) e dove il generale De Gaulle, presidente francese, stava tentando di costruire un asse che si distanziasse e si differenziasse dalla linea statunitense, sia sul piano politico, sia su quello economico. Nel marzo 1957 i Trattati di Roma, aprivano alla costituzione della cee (Comunità Economica Europea), nell’arco di un decennio, mentre le medesime nazioni discutevano e litigavano sui dazi doganali: nell’ottobre nasceva il gatt (General Agreement on Tarifs and Trade). Erano tutti espedienti per arrivare, a lungo termine, a una stabilizzazione del sistema e, nella prospettiva europea, a un riequilibrio delle relazioni dell’Europa con gli Stati Uniti. In effetti, in quello stesso anno ’57, aveva termine l’espansione dell’economia internazionale alla quale succedette una situazione di squilibrio tra aree del mondo, e anche in seno al sistema capitalistico; incominciava la lenta crisi del sistema monetario, alla quale si cercarono immediatamente rimedi che si rivelarono inefficaci, generando o ampliando le tensioni, con accordi provvisori, fino ad arrivare a una crisi monetaria che si palesò proprio nell’anno 1968.
14Nel decennio precedente si era verificato un rovesciamento dei rapporti di forza: le riserve valutarie degli usa si dimezzarono mentre quelle dei Paesi europei raddoppiarono. Era un deflusso costante di oro e di dollari, non compensato dal moto in senso opposto, ossia di valuta e oro verso le casse statunitensi; ciò anche per l’aumento dell’attività militare con le spese connesse, in particolare nel Vietnam, ma anche per investimenti e “aiuti” all’estero, forma canonica dell’imperialismo soft. Tutto questo iniziava a pesare sull’economia degli States, e di conseguenza sulle economie correlate del capitalismo, con una vistosa caduta del saggio mondiale tendenziale di profitto. «Di qui i tentativi di frenare la tendenza alla caduta del saggio mondiale di profitto che costituiscono la storia della politica economica imperialistica dal 1958 in poi. Di qui anche, però, una crescita di tutte le contraddizioni sociali e politiche» (Di Toro - Illuminati 1970, p. 52).
15Soffermandosi sulle premesse internazionali, ancor prima del ’56, non v’è dubbio che la morte di Stalin, il 5 marzo 1953, sia stato un evento traumatico, che suscitò enorme emozione, e commozione, più al di fuori dei confini dell’Unione Sovietica, che al loro interno. Un giornalista, militante nel Partito comunista, Paolo Spriano, destinato a diventare un grande storico, in un bel libro autobiografico, ne ha dato una descrizione efficace e convincente (Spriano 1986). La scomparsa del “Grande Padre” del comunismo internazionale (e grande massacratore di comunisti), significò il venir meno del ruolo incontrastato della Unione Sovietica nella leadership mondiale non soltanto dei comunisti, ma di tutta la sinistra, che anche con distinguo, guardava all’ingombrante figura staliniana con reverenza, e l’emergere della Cina come polo alternativo, nella egemonia in seno alla sinistra mondiale. La Cina, e il “Grande Timoniere” Mao, esercitavano del resto un fascino legato in parte alla stessa difficoltà di conoscerla da vicino. Leggende nere e leggende rosa si alternavano, su una base di conoscenza minima. Ma mentre l’Unione Sovietica, a cavallo del ’56, vedeva messa in discussione la storica egemonia sui comunisti occidentali, la sua capacità di guida sui Paesi terzi tra i due blocchi, pareva ugualmente illanguidirsi. Nel 1955 con la Conferenza di Bandung nasceva il “Terzo Mondo”, che, in realtà, si collocò subito in un’orbita vicina alla Cina di Mao, grazie alla grande abilità diplomatica del ministro degli Esteri di Pechino, Zhou Enlai, vero artefice di quell’evento accanto al Primo ministro indiano Nehru. Ma era la Cina in quanto tale a mostrare una forte, crescente capacità attrattiva, tale che, come era accaduto negli anni Venti e Trenta con l’urss, ora manipoli di intellettuali anche se non si dichiaravano esplicitamente “filocinesi” (questo accadde perlopiù sul finire dei Cinquanta e lungo i Sessanta), si mostravano affascinati da quel mondo antichissimo precipitato di colpo nella modernità, ma sotto rosse bandiere. Basti citare a mo’ di esempio il viaggio compiuto ancora nel 1955 da una delegazione di intellettuali italiani, tra cui Bobbio, Calamandrei e Fortini, che vi si recarono, variamente affascinati, pur nella differenza di attitudini e aspettative. Li moveva il desiderio di scoprire la differenza tra quel socialismo e quello sovietico. E capire se potesse essere un modello per il mondo progressista occidentale, segnatamente italiano.
16Nello stesso anno, in Italia, a marzo, le elezioni per il rinnovo delle Commissioni interne alla fiat, segnarono una clamorosa sconfitta della fiom-cgil; più che un improvviso spostamento a destra del proletariato di fabbrica, fu l’effetto del ricatto aziendale, con la minaccia di licenziamento dei tesserati del sindacato “comunista”; e tuttavia quell’inatteso risultato segnalava anche, nel contempo, una incrinatura del rapporto fiduciario tra classe e organizzazione (Mangano - Schina 1992, p. 25). Aveva inizio la stagione del “ritiro della delega”, che tanta influenza avrebbe avuto sul movimento degli anni Sessanta, e specialmente sul ’69 operaio.
17Nel mondo intellettuale si avvertivano comunque fermenti nuovi, accentuati dopo la morte di Stalin, ma anche, per l’Italia, dopo la morte di Croce, avvenuta qualche mese prima (20 novembre 1952); fermenti che dopo la svolta del ’56 trovarono una sorta di sistemazione nella nuova ondata di riviste militanti. Era perdurata fino ad allora l’eco delle polemiche del «Politecnico», che pure risalgono al decennio precedente, all’immediato dopoguerra, tra il ’45 e il ’47, il cui tema di fondo era il rapporto politica/cultura (Fortini 1973). Il libro di Bobbio, intitolato appunto Politica e cultura, del ’55, in fondo era l’atto conclusivo di una fase, ma non fu esso ad aprirne una nuova2. Furono piuttosto le riviste, in particolare quelle dell’area progressista, specialmente quelle prossime al Partito comunista, che vissero una felice stagione, ove si manifestò un cauto sforzo di liberazione dal controllo di partito, tanto il pci, quanto il psi. Era quella, guardando al passato, la quarta stagione delle riviste nella storia intellettuale dell’Italia unita, dopo la prima del 1896-1915, fiorentina; quella torinese del 1918-1926; quella nazionale, soprattutto sull’asse Milano-Firenze-Roma, del 1943-1948. Una stagione, questa, che volle lasciarsi alle spalle quelle polemiche, che apparvero di colpo sorpassate3.
18Mette conto evocare, in questa fase, la bolognese «Ragionamenti», bimestrale il cui primo fascicolo appare nell’autunno sempre del 1955: nel gruppo che la guida troviamo accanto ai coniugi Guiducci (Roberto e Armanda Giambrocono), Franco Fortini, Luciano Amodio, Sergio Caprioglio, gli ultimi due, studiosi di Rosa Luxemburg e Antonio Gramsci: un segnale interessante, che mostra come anche nell’ambito delle scienze sociali si aprivano scenari nuovi. Rivista eclettica, con una doppia anima, marxista e neoilluminista, all’insegna di una pur vaga ma forte idea di modernizzazione della cultura italiana, compresa quella ispirata a Marx e Gramsci, giudicata troppo ripiegata su se stessa, impantanata nella linea “nazionale” dello storicismo che dal De Sanctis (e persino da Bertrando Spaventa), attraverso Labriola, Croce, giungeva a Gramsci. Si reclamava un ricupero pieno del cosmopolitismo che, in una certa ottica nazionale-popolare, era stato bandito, e una fuga dal nuovo provincialismo che aduggiava le discussioni culturali, una volta lasciato alle spalle quello dell’Italia mussoliniana.
19Su questo terreno comunisti dissidenti (prima e dopo il ’56), si incontrano con socialisti critici, con laici illuministi, con cattolici sofferenti, avvicinati dal rifiuto dei dogmatismi e dalla esigenza di nuovi pensieri. In parte erano le stesse esigenze della coeva «Officina», nata anch’essa nel ’55, sempre a Bologna, grazie a Pasolini, Leonetti e Roversi, con numerosi altri intellettuali “irregolari” che li affiancavano. Sebbene più squisitamente letteraria di «Ragionamenti», anche questa testata esprimeva l’esigenza di andare oltre i binari consolidati e ormai arrugginiti dell’ortodossia di sinistra, giudicata paleomarxista; per esempio sul piano letterario la polemica contro il neorealismo, che era la cifra della letteratura e della cinematografia “suggerita” dagli apparati culturali del pci4. Figura eminente nella rivista era Pier Paolo Pasolini, che in quello stesso 1955 pubblicava Ragazzi di vita, libro scandalo che lo portò nelle aule di tribunale, mentre lo stesso Partito comunista che lo aveva espulso per ragioni legate all’omosessualità del poeta, non ebbe la forza né la volontà di difenderlo. Era un altro segnale di disagio che nel prosieguo del decennio sarebbe diventato palpabile. In fondo il 1956 fu la messa a nudo di tale pregresso disagio. E Pasolini, una sorta di reietto in quell’universo mentale, dal canto suo raggiungeva vertici letterari e di impegno sociale; proprio nella sua “irregolarità”, egli era già il nome simbolo di una cultura che non si lasciava collocare docilmente nelle case prefabbricate del tempo, deputate a gestire il ceto dei colti. Eppure egli stava arrivando al marxismo, per libera scelta e piena convinzione, sia pur in modo sofferto, come mostrò il poema Le ceneri di Gramsci, pubblicato su «Nuovi Argomenti», rivista romana, in cui accanto a Moravia e Alberto Carocci, sarebbe entrato lo stesso Pasolini, Enzo Siciliano e altri: il poema divenne, nel ’57, insieme con altri testi, il più prezioso volume di poesie dell’autore friulano, che chiudeva poi il decennio con il secondo romanzo-scandalo, Una vita violenta (1959). Gramsci, divenuto nume tutelare del Partito togliattiano, respinto o boicottato a destra, contestato a sinistra, veniva introiettato – per così dire – extra ordinem, in modo creativo5. Una critica al gramscianesimo ufficiale animava queste riviste, i cui redattori mettevano sotto accusa non già il pensiero di Gramsci, ma le interpretazioni correnti giudicate canoniche e l’uso che se ne faceva, provinciale, ridotto a una serie di parole d’ordine dogmatiche, e chiesastico; l’accusa era di aver impedito o rallentato le indispensabili aperture della cultura italiana dopo il ventennio fascista, contribuendo così invece che a vivificare, a ossificare lo stesso marxismo. Ma v’era di più: v’era l’accusa di privilegiare il Gramsci in carcere, letto come un pensatore tutto sommato moderato, che si adattava alla democrazia liberale rispetto al Gramsci “rivoluzionario” dell’età giovanile6.
20Un altro fronte fu quello del meridionalismo. La pubblicazione de L’Uva puttanella di Rocco Scotellaro, e il notevole dibattito che la precedette e la seguì, mentre ponevano da altro angolo visuale il problema dell’ortodossia su questo specifico campo che era insieme di analisi e di lavoro politico, facilitò l’irrompere di una nuova “questione meridionale”, oltre i limiti, pure più larghi che in passato, del dibattito fra riviste quali «Nord e Sud» da un lato, testata laica e tendenzialmente anticomunista, e «Cronache Meridionali» dall’altro, portavoce dell’ortodossia meridionalistica del Partito comunista italiano, che videro la luce ambedue nel 1954; ma Scotellaro era già morto, prematuramente e dolorosamente, poco dopo che personaggi come Manlio Rossi Doria da un canto e Carlo Levi dall’altro lo avevano “scoperto” e “lanciato”. L’anno dopo, un altro scrittore sino ad allora noto solo alle cronache giudiziarie per le sue lotte accanto ai disoccupati senza terra della Sicilia nordoccidentale, il friulano Danilo Dolci, pubblicava Banditi a Partinico, un saggio letterariamente pregevole che riapriva il “dossier Sud”, assai più di quanto fosse in grado di farlo la Cassa del Mezzogiorno, fondata nel 1950, non senza ottime intenzioni, ma finita presto per essere una sorta di banca volta all’elargizione di fondi pubblici per costruire clientele di partito, essenzialmente della dc.
21E si giunse alle rivolte polacca e soprattutto ungherese dell’autunno ’56. Non ci si sofferma qui sui fatti, sui quali peraltro la discussione è ancora carne viva, in quei Paesi, mentre nel nostro dibattito pubblico sono stati archiviati in modo semplicistico come una delle tante rivolte anticomuniste schiacciate dai tank sovietici. Le cose furono più complicate, come ogni studioso serio non fatica oggi a riconoscere. Certo vi fu tanto a Postdam quanto a Budapest un genuino carattere proletario e popolare della protesta, che aveva una duplice natura, di liberazione nazionale contro i russi visti come forza occupante, da un lato, e di sollecitazione ai dirigenti “socialisti” o “comunisti” perché non dimenticassero il loro ruolo e i princìpi cui avrebbero dovuto informare le loro politiche. Come denunciò lo stesso Gomulka, capo dei comunisti polacchi, caduto in disgrazia, e poi riabilitato, i russi operavano un supersfruttamento di tipo coloniale sui lavoratori della Polonia, costringendoli a orari e ritmi massacranti, ricavandone un superprofitto7. Fu dunque quella polacca e in parte quella ungherese una manifestazione insieme di classe e nazionale. Su questa base, soprattutto in Ungheria, si innestarono forze di destra, e persino agenti stranieri, essenzialmente statunitensi, interessati alla destabilizzazione del sistema sovietico. In realtà, fece più danni a quel sistema la repressione della rivolta: si trattò di un micidiale autogol dell’urss, che mostrava la sua debolezza, proprio ostentando e dispiegando forza.
22Gli effetti politici e simbolici furono devastanti, e rimasero una sorta di macigno in cui la storia della sinistra internazionale inciampò clamorosamente, non riuscendo mai più in seguito a ricuperare la fiducia perduta. Ma il ’56 ebbe effetti anche al di fuori del circuito della sinistra, con la rottura dell’asse pci-psi. Già nell’agosto, dunque prima della rivolta ungherese, Pietro Nenni si incontrò con il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat a Pralognan, in Savoia, il 25 agosto. Successivo ai fatti d’Ungheria è invece il Congresso di Venezia del psi (febbraio 1957), con la presenza di Angelo Roncalli, che l’anno dopo sarebbe asceso al soglio di Pietro: è un fatto assolutamente nuovo, ma è anche un segnale inviato dalla Chiesa a quel partito perché accelerasse il proprio cambiamento politico, ossia procedesse nell’allontanamento dal pci, e, conseguentemente, nell’avvicinamento alla dc. La quale, dopo il fallimento della “Legge truffa” del 1953, cercava una timida apertura a sinistra, anche sulla base della spinta di corpi come la cisl e le acli, ma con il potente freno interno rappresentato dalle correnti più direttamente legate al Vaticano e agli ambienti confindustriali. La Democrazia Cristiana, del resto, ormai si palesava come una federazione di partiti, più che un partito, anche se dominata dalla ingombrante figura di Amintore Fanfani, protagonista lungo l’intero decennio, sia come segretario del Partito, sia, benché per soli sette mesi, come presidente del Consiglio (1958-59). Dell’apertura a sinistra è prova il Piano Vanoni (Congresso di Napoli del 1954), che mirava alla piena occupazione, alla riduzione dello squilibrio Nord/Sud, e al risanamento dei bilanci dello Stato. Il Piano in realtà fu rapidamente archiviato, complice la morte improvvisa nel 1956 del suo promotore in Senato, subito dopo aver pronunciato un discorso in cui chiedeva giustizia per i poveri. Eppure rimase come una sorta di ombra e di memento per la sinistra cattolica, come lo sarebbe rimasta la riforma urbanistica di Fiorentino Sullo, di qualche anno più tardi, ugualmente affossata dall’interno del partito. Nel 1958, intanto, per le elezioni politiche i vescovi italiani invitavano a votare per lo Scudo crociato, che ottenne un sensibile incremento elettorale, passando dal 40,1 al 42,2 per cento: era l’onda lunga del XX Congresso e dell’Ungheria.
23Tuttavia, a dispetto della rottura con i comunisti e la ricercata intesa con i democristiani, nel Partito socialista il dibattito si arricchiva, con spunti nuovi, sicuramente estranei e tendenzialmente opposti e contrari alla linea moderata che il partito stava assumendo: marxisti, ma non riconducibili all’ortodossia comunista, come quelli contenuti nell’articolo di Lucio Libertini, un socialista di sinistra, su «Mondoperaio» (1958), Sette tesi sul controllo operaio. Anche in quel partito, come in tutta la sinistra italiana e mondiale, però il fatto nuovo fu la rivoluzione castrista, che portò al potere i barbudos nel gennaio 1959. Gli anni Cinquanta si chiudevano annunciando inaspettatamente mondi nuovi.
3. La stagione delle riforme
24In Italia, dopo la rovinosa caduta del governo Tambroni (fu quella la prima vittoria della Piazza contro il Palazzo, per ricorrere al lessico pasoliniano di qualche anno dopo), ci si avviò verso l’esperienza di Centrosinistra, sancito, teoricamente, dal Congresso della dc del gennaio 1962 a Napoli, dove Fanfani, riprendendo un suo vecchio filone, che risale al suo passato di fascista/corporativista, lanciò il tema della programmazione in economia, attraverso la quale si doveva «dare priorità all’obbiettivo dello sviluppo della persona umana», argomento ripreso nel discorso programmatico del governo di Centrosinistra, biasimando «la preoccupazione che l’intervento pubblico nell’economia potesse compromettere la libertà», preoccupazione che in vero cela la volontà di concentrare il potere economico «nelle mani di pochi» (Di Toro - Illuminati 1970, p. 99).
25Nello stesso anno, però, si rompeva subito la nuova pace sociale che l’alleanza dei partiti di governo con una forza di sinistra sin lì esclusa da quella che Pietro Nenni, segretario del psi, chiamò «la stanza dei bottoni». Nel luglio, infatti, ecco gli scontri violentissimi di Piazza Statuto, a Torino, nei quali oltre alla divisione tra i sindacati, ne emergeva un’altra, più singolare, in seno al proletariato di fabbrica: tra “vecchi” operai di mestiere, perlopiù piemontesi, sindacalizzati, e giovani proletari del Sud, arrabbiati, senza retroterra politico-culturale forte, legato a un partito o a un sindacato, a una tradizione e ad un’organizzazione. Sarebbero stati i compagni di lotta degli studenti, nel ’69 e negli anni seguenti, raggiungendo rapidamente un alto livello di coscienza politica e sociale
26Eppure quei governi fecero scelte interessanti, relativamente coraggiose, proprio sul piano politico e sociale, anche se sempre contraddittorie, sempre all’insegna di buoni proponimenti frenati o inficiati da resistenze interne. Come la nazionalizzazione dell’energia elettrica, grande obiettivo della sinistra, che finì per arricchire i cinque grandi gruppi, che erano in vero famiglie o controllati da famiglie, secondo la logica di un capitalismo arretrato, e, appunto, familistico; per esempio, si noti che soltanto nel 1959 Gianni Agnelli aveva assunto la presidenza della holding di famiglia e solo nel 1963 «dopo una lunga gioventù dorata», si era insediato come ceo (o ad) (Santarelli 1996, p. 131). Ma la nazionalizzazione costò cara allo Stato, che sborsò una cifra spropositata: 1500 miliardi in liquidità, che non vennero investiti, perlopiù, ma o finirono all’estero (di regola nelle “classiche” banche svizzere), oppure incentivarono meri impieghi speculativi. Si andava verso la finanziarizzazione dell’economia. Capitalismo speculatore, in sostanza, come altro volto del capitalismo straccione… Anche questo – in particolare la fuga di capitali – contribuì alla crisi economica del ’63-64, la cosiddetta “congiuntura” (richiamata fin dal titolo da un film di Ettore Scola, proprio del 1964, con Vittorio Gassman, piccolo arrampicatore sociale senza fortuna), presto superata, ma non si tornò ai livelli di crescita degli anni precedenti; «l’accantonamento della riforma urbanistica rappresenta il segnale più evidente della crisi del riformismo di centro-sinistra»8. Le mani sulla città, splendida pellicola di Francesco Rosi (1963) in qualche modo raccontava gli interessi in gioco che avevano sconfitto Sullo e la sua riforma, in un’epoca in cui la parola “riforma” era divenuta il pomo della discordia, l’oggetto del contendere, sulla scena politica, con un significato indubbiamente progressivo, che, fortemente osteggiato a destra, veniva invece contestato a sinistra, con il coagularsi di un movimento che si presentava e voleva essere “rivoluzionario”.
27Fu anche, e forse più per le riforme annunciate che per quelle realizzate che, il biennio ’62-63 contribuì a creare un clima di paura nella borghesia, donde il tentativo di golpe abortito del generale De Lorenzo nel 1964, in combutta col presidente della Repubblica Antonio Segni, poi scomparso di scena, complice un ictus cerebrale. Ma intanto, l’adesione del psi ad accordi organici con la dc provocò la scissione in casa socialista, con la nascita del psiup, il «partito provvisorio» (Agosti 2013), verso il quale si sarebbero indirizzati, per un breve periodo, molte simpatie dei “sessantottini” in cerca di una collocazione istituzionalizzata, rispetto a quella che era stata la “sinistra extraparlamentare”, ma che avevano individuato nel pci il baluardo del “revisionismo”, e nell’area socialista una sorta di zona franca, di cui da allora e per la sua breve esistenza, il psiup fu l’avanguardia all’estrema sinistra. Era un brodo di coltura in cui nacquero all’inizio del nuovo decennio i «Quaderni Rossi», di Raniero Panzieri e sodali9. Anche al di là di questa ormai mitica esperienza politico-intellettuale, furono numerosi coloro che si formarono politicamente, e con ottime letture, nell’orbita del socialismo italiano, proprio mentre il partito di riferimento si spostava a destra, andando verso un pericoloso embrassons-nous con “il partito dei padroni”, ossia la Democrazia cristiana. Oltre Panzieri, e il richiamato Scotellaro, vanno ricordati almeno Franco Fortini, Gianni Bosio, Luciano Della Mea, Vittorio Rieser. Parola d’ordine di quel tempo, anche prima del ’56, era “autonomia”, che se a livello politico in una parte ampia della dirigenza significava linea di intesa con il mondo cattolico, tra gli intellettuali significava soprattutto insofferenza verso la linea dirigista del pci in fatto di cultura, ovvero della “politica culturale”, che il Partito socialista non aveva, lasciando in realtà margini assai ampi di libertà ai suoi intellettuali di riferimento, che non raggiunsero mai lo status di “organici”10.
28Molti di costoro, di origine socialista, confluirono in una nuova avventura, sempre in forma di “Quaderni”, destinata a grande successo, e a occupare un posto rilevantissimo nella memoria storica, i «quaderni piacentini» di Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio, nati a Piacenza, nel ’62, ma immediatamente gravitanti nell’area milanese. La rivista compì il canonico passaggio dalla letteratura alla politica, e divenne presto cassa di risonanza del movimento, e fu importante soprattutto per il lavoro di innesto di fermenti provenienti da oltre confine, in particolare dai “francofortesi”: Adorno, Horkheimer, Marcuse e gli altri stavano divenendo numi tutelari della protesta che intanto nasceva nei campus statunitensi. I “piacentini” furono attenti però anche al Subcontinente americano, dove dopo la vittoria di Castro, la guerriglia aveva acquistato un potenziale anche simbolico fortissimo, e alla Cina, dove la “Grande Rivoluzione Culturale Proletaria” si era presentata come un mito creativo ai giovani che si riconobbero immediatamente nella parola d’ordine di Mao: «Sparare sul quartier generale». Piaceva anche, molto, il duro, incessante attacco cinese al “revisionismo” dei russi e dei comunisti occidentali, che rappresentò un ancoraggio importante per il movimento giovanile italiano nella polemica con il pci.
29Grazie alle suggestioni stimolate da riviste come questa o altre coeve, più che da testate accademiche, si poté mettere a fuoco il “neocapitalismo”, anche se poi ci si divideva tra coloro che lo accreditavano, da destra o da sinistra, per la capacità di autocorreggersi, di esser riformatore, di evitare crisi, di produrre benessere di tutti, aumentando produttività, grazie anche alla razionalizzazione dei processi lavorativi, e introduzione di nuove tecnologie e nuovi macchinari; e dall’altro invece chi, talora con accenti profetici tinti di catastrofismo premonitore (Pasolini, per esempio), oppure con una rinnovata fiducia nell’azione “di classe” volta a rovesciare l’ordine di cose esistenti, marxianamente, giudicavano finita per sempre quella storia. Si ricorreva dunque a nuovi strumenti di analisi, nuove discipline, si leggevano nuovi autori, specie sociologi ed economisti, da una parte fuoriuscendo dal marxismo, dall’altra invece allargandone i confini e procedendo a interessanti contaminazioni, senza abbandonare il solco tracciato da Marx. E si cominciava a dibattere, a sinistra, nella sinistra intellettuale, se il marxismo potesse ancora essere considerata una concezione generale del mondo, della scienza, della vita.
30La “scoperta” della sociologia, e delle scienze sociali in genere, procedette in due direzioni contrastanti: da un canto l’utopismo tecnocratico e riformista (Guiducci, Pizzorno, Gallino, favorito e patrocinato direttamente dalla grande figura di Adriano Olivetti), dall’altro, la tempestiva messa in crisi di quel modello, con la proposta (e la pratica) di una sociologia (e un’antropologia) militante, dal basso (Panzieri, Montaldi, Bosio), che sta fra le classi subalterne, e ne registra tradizioni, umori, linguaggi, canti. Le scienze sociali, in questo filone, interrogano e si intersecano con il marxismo: a un nuovo capitalismo, insomma, necessita un nuovo marxismo, per capirlo e per contrastarlo, senza farsene fagocitare. Sulle riviste si cominciarono a discutere questi temi, di cui si nutriva questa “nuova sinistra”, che comportava anche un nuovo approccio alla questione degli intellettuali, e conseguente ad esso, ci si poneva il problema dell’industria culturale: ci si chiedeva se ci si dovesse inserire, rimanerne fuori, oppure scegliere la terza via, per esempio teorizzata da Umberto Eco: stare dentro senza farsene catturare, criticamente11.
31Furono dunque questi i principali riferimenti di una “nuova sinistra” che nasceva, a livello internazionale. Si produsse anche una ondata di studi sulla classe operaia, rimessa o rimasta al centro delle attenzioni e delle intenzioni della sinistra europea, tanto che, per esempio in Italia, tra il ’65 e il ’67 nacquero un po’ ovunque gruppi che si richiamavano al “Potere Operaio”, i più importanti dei quali in Toscana, non a Milano o Torino, che più che suscitare lotte proletarie, si diedero come compito quello di inseguirle (Mangano - Schina 1992, p. 68). E ciò a dispetto di Marcuse che denunciava, intanto, l’imborghesimento degli operai nei paesi a capitalismo avanzato: certo, la suggestione del pensiero di Mao era forte, con la sua teoria dell’accerchiamento delle città da parte delle campagne, che spostava il focus dalle classi lavoratrici del Primo e Secondo Mondo, sui contadini, sui diseredati del Terzo Mondo. Si saldava a questa teoria, la diffusa, crescente apologia della guerriglia, la cui eco si faceva sempre più fascinatrice anche quando si succedevano le drammatiche notizie di morti e catture, come quella della fine, in uno scontro a fuoco, nel febbraio 1966, di padre Camilo Torres Restrepo, sacerdote e sociologo colombiano che aveva scelto di imbracciare il fucile, in nome di Cristo12.
32Nello stesso anno nei campus statunitensi gli episodi di renitenza alla leva da parte di studenti, precettati per partire per l’Indocina, diventavano un movimento organizzato, che sarebbe cresciuto rapidamente, dilagando ovunque nel Paese, anche all’esterno dei recinti universitari, a partire da quella che fu chiamata l’escalation dell’intervento statunitense in Vietnam, con armi e soldati. All’opposizione alla guerra, iniziata nel 1964, si collegò la protesta nera, che da lotta per il riconoscimento di diritti civili si era trasmodata in guerra sociale a tutti gli effetti, con un significativo cambiamento di parole d’ordine, e l’emergere di una nuova leadership, assai più aggressiva, ma anche più preparata sul piano teorico-ideologico. E l’assassinio, nel febbraio 1965, di Malcolm X, leader carismatico delle Black panthers non servì a fermarla, anzi la esaltò, facendo di quel giovane intellettuale nero una potente icona, che varcò immediatamente l’Atlantico suscitando emozione e adesione nell’Europa occidentale, ma anche altrove. Emozioni forti e persistenti suscitava, nell’America del Nord, e più in generale nel mondo anglosassone, la costruzione di un immaginario ricco di evocazioni e suggestioni, tra la letteratura, il cinema e soprattutto la musica. Dalla beat generation si sarebbe passati alla hippie generation, alla rock generation, con una crescente immissione di contenuti sociali e richiami politici. Era un mondo che appariva trasgressivo, tanto più rispetto a una Italia in cui ancora vigeva la censura preventiva per radio e televisione; e la sfera sessuale era tabù. Le trasmissioni tv avevano avuto inizio nel 1954: evento epocale, certamente, ma quella televisione fu specchio di una Italia bigotta, dominata dal clericalismo, aggravato dalla persistenza di larga parte della legislazione fascista. Nei primi tempi, era vietato addirittura che si nominasse il Partito comunista, e qualsiasi riferimento al sesso era proibito: si ricordi che nell’enciclica Miranda prorsus (1957), Pio XII sosteneva, in modo esplicito, persino sfacciato, la necessità che radio, cinema e tv venissero sottoposti «al “giogo soave” della legge di Cristo» (Di Michele 2008, p. 124). E gli episodi di censura per battute, per immagini, per centimetri di pelle scoperta, non si contano. Ma la censura era implacabile anche contro la satira politica e colpiva anche il cinema: basti menzionare come vittime dell’occhiuto controllo opere di grande valore (L’avventura di Antonioni, 1959; La Dolce Vita, di Fellini,1960; Rocco e i suoi fratelli, di Visconti, 1960); l’accanimento non impediva però la diffusione di nuove sensibilità, e soprattutto non fermava l’intossicazione pubblicitario/televisiva: basti citare Carosello, «il nuovo tipo di vita che gli italiani devono vivere», scriveva con secca amarezza Pier Paolo Pasolini (Di Michele 2008, p. 125).
33Pasolini, del resto, aveva un rapporto contraddittorio con il partito nel quale comunque prevalentemente si riconobbe, il pci, che lo portò ad attraversare stagioni diverse da indipendente quasi suo malgrado, e da irregolare per natura, prima che per scelta, come emergeva in quella sofferta dichiarazione contenuta nelle Ceneri di Gramsci. Così come complessa fu la sua relazione con il cattolicesimo, e anche in questo caso un’opera, Il Vangelo secondo Matteo, ce ne dà splendida testimonianza (1964). Si parlò per lui di “cattolicesimo giovanneo”, anche se Papa Giovanni XXIII era ormai scomparso, prematuramente, nel ’63, lo stesso anno dell’omicidio di John Kennedy, e sovente le due figure vennero accostate in una sorta di martirologio della “nuova frontiera”, variamente declinata. Ma l’uno e l’altro avevano pur contraddittoriamente, specie il presidente americano (che giunse alla Casa Bianca sull’onda di una campagna che esacerbava il pericolo comunista nel mondo), lasciato semi che avrebbero fruttificato, confluendo, con molti altri, nella preparazione del terreno su cui sarebbe nato il fiore della “contestazione” sessantottina. Non sarebbe stato possibile l’emergere di un personaggio come Lorenzo Milani, nel mondo cattolico, senza la preparazione culturale svolta dal Concilio Ecumenico Vaticano II; lo stesso dicasi per la “teologia della liberazione” in America Latina. E la battaglia di don Milani e della sua “Scuola di Barbiana”, da un canto, e quella di dom Helder Camara, in Brasile, per citare solo un nome di un prelato dalla parte dei poveri, che era stato delegato al Concilio, ebbero molti punti in comune, e furono frutto della “rivoluzione” del Concilio e insieme volano della “rivoluzione” del Sessantotto. La scomparsa, nel 1967, a pochi mesi di distanza, di don Milani, ucciso da un tumore, mentre vedeva la luce Lettera a una professoressa, il libro forse più rivoluzionario dell’Italia del dopoguerra13, e oltre Oceano, di Ernesto Che Guevara, ucciso in Bolivia, privò l’idea della resistenza al potere di due figure emblematiche, ma regalò al “movimento” due icone preziose che ancora oggi possiamo considerare tra le più significative di “prima del Sessantotto”, le più fascinatrici per coloro che, sempre più numerosi, ormai, a quel tempo, sentivano nell’aria odore di rivoluzione.
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Notes de bas de page
1 L’intervista, con altri documenti, è ora leggibile in Il Pci e la svolta del 1956, introduzione di G. Chiarante, l’Unità, s. l. 1986; una mole assai più ampia di documenti è in Höbel (1986).
2 Si veda la nuova edizione del libro di Bobbio con introduzione di F. Sbarberi, Einaudi, Torino 2001.
3 Cfr. Mangano - Schina (1992), pp. 21-24. Ma vedi anche Leonetti (s.d.). Per un quadro storico di lungo periodo rinvio a d’Orsi, Le riviste di cultura militante dal «Caffè» ai »Quaderni piacentini», in Ossola (2009), pp. 242-309.
4 Cfr. Mangano - Schina (1992), pp 34 sgg. Ma rinvio all’imprescindibile Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta (1975).
5 Sul rapporto di Pasolini con Gramsci rinvio a un altro mio contributo: Gramsci Virgilio di Pasolini?, in «Foedus», n. 35, 2013, pp. 95-104.
6 Andava in tale direzione il vol. Scalia - Caracciolo (1959).
7 Cfr. i documenti raccolti in Ungheria 1956. Necessità di un bilancio, Edizioni Lotta Comunista, Milano 1989 (per Gomulka, pp. 100 sgg.)
8 Ivi, p. 153.
9 Per la contestualizzazione, Tolomelli (1998), pp. 41-42.
10 Fondamentale Vittoria (2014). Si veda anche Consiglio (2006) e Scotti (2001).
11 Cfr. Eco (1965), ma gli argomenti si ritrovano anche nel suo articolo Pesci rossi e tigri di carta, in «Quindici» n. 16, 1969, ora nell’antologia a cura di Balestrini (2008), pp. 384-98
12 Si legga la recente, bella rievocazione di G. Barberis, Il dovere della rivoluzione. Ricordando padre Camilo Torres, in «Historia Magistra», n. 20, 2016, pp. 11-15.
13 È un giudizio che ho già espresso (e che ribadisco qui) in d’Orsi (2011), p. 321.
Auteur
È ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino. È direttore di «Historia Magistra. Rivista di storia critica». È membro della Commissione per l’Edizione nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci e di quella per le Opere di Antonio Labriola. Collabora, oltre che a riviste scientifiche, al quotidiano «La Stampa», «il Manifesto», «Il Fatto Quotidiano», «MicroMega». Tra i suoi titoli dell’ultimo quindicennio: La cultura a Torino tra le due guerre (Einaudi, 2000); Guerre globali (cura, Carocci, 2003); Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la menzogna (Donzelli, 2007; ed. spagnola riv. e accr. RBA, 2011); 1989. Del come la storia e cambiata, ma in peggio (Ponte alle Grazie, 2009); L’Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia (Bruno Mondadori, 2011); Alfabeto Brasileiro. 26 parole per riflettere sulla nostra e l’altrui civiltà (con E. d’Orsi, Ediesse, 2013); Gramsciana. Saggi su Antonio Gramsci (Mucchi Editore, 2014; ed. riv. e agg. ivi, 2015); Inchiesta su Gramsci. Quaderni scomparsi, abiure, conversioni, tradimenti: leggende o verita? (cura; Accademia University Press, 2014); 1917. L’anno della rivoluzione (Laterza, 2016).
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