Dante e la «condizione finale» del teatro
p. 88-107
Texte intégral
A Marzio Pieri,
miglior fabbro
Qui non si intravede alcun miglioramento, né si ravvisa un senso. Le descrizioni si perdono in una condizione finale, dove l’ultima dignità è un volto che si solleva dal fango.
Peter Weiss, Conversazione su Dante (1965)
Ma anche una risata, veramente una grande risata, può trasformare la platea di un attore, e anche queste cose sono abbastanza collegate: tragedia e farsa, oppure commedia.
Leo de Berardinis, Dialogo sull’attore (1993)
Quel teatro della mente che fino ad oggi aveva cercato di decifrare in realtà era pieno di quinte, di fondali, di abissi, di orizzonti nascosti dietro gli orizzonti – e di rivelazioni. «È la selva oscura, – pensò. – La montagna da scalare, Inferno, Purgatorio, Paradiso. È la grande commedia».
Giuliano Scabia, L’azione perfetta (2016)
Teatro dei volti e delle voci
1Per Boccaccio, Dante «fu amico ed ebbe sua usanza» con cantanti e musicisti.1 Nel De vulgari eloquentia alla musica è addirittura assegnato un ruolo costitutivo di un poetare la cui essenza è conforme all’arte retorica (II, iv, 2). Da qui la necessità di comporre in uno stile umile, da commedia: «per comediam inferiorem stilum [inducimus]» (II, iv, 5).2 Nozione ricevuta da Dante certamente deteatralizzata, quindi più genere di scrittura che pratica scenica, «forma di dizione» secondo la «distinzione modale» e non proprio in senso stilistico,3 ma non meno necessaria nel suo rinnovarsi e consolidarsi nel corso del tempo in un vero e proprio modo performativo dal doppio significato, seguendo Judith Butler, di ‘drammatico’ e di ‘non-referenziale’. Ancóra Boccaccio ricorda che per «“comedia”» si intende «l’umiltà dello stilo», il cui parlare è «sozzo» eppure «più che agli altri belli agli odierni ingegni conforme».4 Difatti, per «gli odierni ingegni» a cui il parlare «sozzo» è «conforme», la Commedia è fin da sùbito testo performativo.5 Testo da lettura pubblica, a voce alta. Teatro di lingua, prima di tutto. Un teatro delle voci attraverso cui, come riconobbe Osip Mandel’štam e ripreso da Gilles Deleuze per Beckett, Dante ascolta anche i balbuzienti e studia gli effetti delle pronunce difettose per ricavarne la scena di una multiforme creazione.6
2Teatro di eroi e figuranti è la Commedia, in una profusione di figure parlanti o di presenze mute attraverso le quali, come già intuì Ernst R. Curtius, Dante riconduce l’eredità antica e medievale alla storia contemporanea.7 Artigiani sconosciuti, ladri, santi e assassini: ognuno qui trova il suo posto. La punizione o il premio sono garanzia di una assoluta equivalenza. Ma non di uguaglianza. Il tempo storico, in teatro, può infatti interrompere le sue cronologie con tutte le gerarchie di classe che si porta dietro. Perché l’agenda della Commedia, che è teatro di commedia, è quella di un paesaggio capace di fare largo proprio a nuove categorie di giudizio. La grande battaglia tra il bene e il male si svolge non solo a livello macrotestuale ma anche, e più intensamente, a livello microtestuale, nei numerosi episodi in cui lo spazio dello scontro è l’anima di ognuno.8
3L’intero disegno della Commedia allude già a una nuova idea di teatro, quello del tempo sacro della storia cristiana: «ambientato durante la settimana di Pasqua del 1300, il poema sacro di Dante si svolge come una sacra rappresentazione modellata sulla struttura “comica” della storia cristiana vista come un dramma provvidenziale».9 Mentre i singoli personaggi dei molti episodi sono innnumerevoli drammi potenzialmente capaci di autonomia, e dunque già di repertorio anche tragico.10 Quello di Dante allora è lavoro di vero e proprio drammaturgo, perché concentrato sullo spazio teatrale del movimento e delle azioni e capace di rendere operative le forze creative del ‘ritmo tragico’.11
4In occasione delle celebrazioni dantesche del 1865, all’inaugurazione del monumento a Dante di Enrico Pazzi in Santa Croce a Firenze, appena consacrata capitale del Regno d’Italia, tre dei più grandi attori di quella generazione erano presenti: Ernesto Rossi, Tommaso Salvini e Adelaide Ristori. Insieme a Gaetano Gattinelli e altri, la sera, tutti recitarono nel giubilo brani tratti dalla Commedia prolungando la popolare fortuna delle Dantate avviate già dall’attore mazziniano Gustavo Modena nel 1830, di fama duratura tra Londra e Genova, e ben oltre la sua morte nel 1861, secondo un’idea performativa della divulgazione come piano di affermazione unitaria dell’identità nazionale e di emancipazione politica nel bel mezzo delle tensioni e delle disillusioni delle lotte risorgimentali.12
5Testo da lettura a voce alta, teatro pubblico delle voci, come si è detto, l’opera di Dante è costitutivamente performativa perché, dall’invettiva alla lode gloriosa, è opera apertamente politica e popolare.13 A partire dalle letture pubbliche di Boccaccio in Orsanmichele (il 23 ottobre 1373), sollecitate ai priori da alcuni cittadini fiorentini, una tale performatività animerà i repertori sentenziosi che gli assegnano i canterini popolari o gli exempla dei predicatori religiosi, per raggiungere più tardi il teatro, la narrativa e l’iconografia, fino alla danza e ai reading pubblici, al contempo didattici, illustrativi e attenuativi, quando non proprio banalizzanti, perché appunto poi soprattutto televisivi (da Gassman a Sermonti a Benigni).14
6Alla lunga durata di questa richiesta di voci e letture, occorre però contrapporre almeno due, quasi coeve e inassimilabili, eccezioni. Due esempi di radicalità dell’incontro di protagonisti del teatro italiano con l’opera di Dante, nella condizione della sua oralità come risoluzione impossibile nel privilegiato orizzonte della declamazione, dunque rovesciando le gerarchie performative consuete in un contrappunto critico al mondo che comprende l’emarginazione, dei corpi e delle voci sceniche, come esperienza ultimativa ed epifanica. In due parole: riportando quel «sozzo» della lingua di Dante allo sporco della voce e al periferico di corpi straziati che dal margine della scena mostrano la via di un’altra conoscenza.
7Il XXXIII Canto del Paradiso da Dante che Leo de Berardinis porta al Festival dei poeti, in Piazza di Siena a villa Borghese di Roma, nel 1980, è il primo esempio. Sul palco, una spettrale Perla Peragallo che, nella diretta testimonianza di Gianni Manzella, sembrava «un folletto impazzito, cavando fuori strani incomprensibili suoni da un megafono. Immagine dolorosissima di una afasia finalmente raggiunta». La performance comprendeva anche brani dall’Inferno ed era interamente musicale, alternando «le note demoniache di Paganini e la vocalità maliosa di Billie Holiday al fraseggio jazz» di sax e batteria: «era infatti proprio la tensione nostalgica verso il paradiso di chi è condannato all’inferno».15
8La seconda eccezione è la Lectura Dantis di Carmelo Bene (con musiche di Salvatore Sciarrino), dall’alto della Torre degli Asinelli, il 31 luglio del 1981, per l’anniversario della strage della stazione di Bologna. Il dispositivo è già politico, in questa commemorazione stragista: il corpo (e il volto) dell’attore è reso invisibile dalla distanza, mentre la voce del testo è resa ‘mostruosa’ (nel senso del prodigio e del portento) da un impianto di amplificazione che investe e cattura, letteralmente, il tessuto urbano. Una sparizione (strage) del visivo che fa spazio all’ascolto (ferita) di un’esperienza, quella della poesia, finalmente irreversibile. Perché «nella calda sera bolognese, il potenziamento “acustico” del teatro dell’ascolto mostra – nel nome di Dante – una cancellazione del “teatro” come rappresentazione».16
Teatro degli echi
9Si tratta insomma di una proliferazione dei volti e delle voci che pretende di essere una molteplicità variabile piuttosto che un regesto unitario e universale. Così come la tentazione di rendicontare l’intensa fortuna teatrale, soprattutto ottocentesca, della figura e della biografia di Dante (l’amore contrastato, l’esilio prescelto, la gloria inseguita) e, di poco meno, dei più disparati echi della sua opera soprattutto maggiore, questi a partire già dal primo rinascimento, come un «cimitero di carcasse, con qualche isolato oggetto di riguardo»,17 rischia di non poter contenere e riconsegnare l’intera organizzazione reticolare di tanta varietà di memoria.18
10Attinge alla stessa fonte dantesca, Albertino Mussato per la sua tragedia latina Ecerinis (1314), la prima scritta in Italia durante l’Umanesimo, e in cui risalta una consonanza nella descrizione del personaggio di Ezzelino («fronte crudeli minax») che fa eco e dissemina la rappresentazione tradizionale (guelfa) di Villani (Cronica VI, 73) fatta propria anche da Dante («E quella fronte c’ha ’l pel così nero, / è Azzolino», Inf. XII, 109-110). Di questi primi echi, Corrigan e Iannucci segnalano soprattutto il coro finale della prima tragedia moderna di espressa imitazione classica ma in volgare, La Sofonisba (1524) di Giangiorgio Trissino, in cui l’impiego della metafora del mare in tempesta (v. 2090 da Purg. 1, 117) aiuta a descrivere il caos infernale che tiene in balia le vicende umane.19
11Nel primo Seicento, è forse La Vittoria (1603) tragedia di Pomponio Torelli, «d’argomento parmigiano» e dantesco, a condurre il modello verso il limite della riflessione sulla sovranità del potere.20 Ambientata ai piedi dei colli di Ciano (paesello presso l’Enza), descrive la caduta del potente e favorito segretario imperiale Pier delle Vigne (da Inf. XIII) per opera calunniosa di Asdente, negromante, e Uberto, astioso ghibellino lombardo. L’inverosimile tradimento è comprovato da una falsa lettera, e involontariamente favorito dal feroce vicario dell’imperatore Ezzelino da Romano, figura cara al Mussato non meno che a Ezra Pound (Cantos LXXII), qui in Torelli cerebrale e machiavellico. Di fronte a tanta ingiustizia Pier delle Vigne, per furore, esce di senno e cade ucciso, forse per propria mano, giusto mentre gli assediati (guelfi) sconfiggono gli assedianti (ghibellini), e radono al suolo il campo d’assedio denominato Vittoria. Nel Pier delle Vigne di Torelli la morte violenta, accidentale o per suicidio, passa in secondo piano ripetto invece alla follia che ve lo conduce («qual forsennato, o da furore / Novo sospinto»), e che ne eccede il gesto («Gìa per la stanza con incerto errore»). La «morte vïolenta» di Pier delle Vigne, ribadita al v. 2014 della Vittoria, è ultimativa reazione alla rottura insanabile dell’ordine del mondo di fronte all’ingiustizia di un potere che per calcolo politico tradisce l’universo morale che lo trascende (ossia quando la forza prevale sul diritto). È il risultato di un «furore» che ha reso Pier delle Vigne «forsennato», ossia rappresenta il raggiungimento della sola soglia (la follia) dalla quale il soggetto può sottrarsi, come direbbe Derrida, all’«irrequieta ma imperturbabile genealogia» della sovranità del potere.21 Pier delle Vigne mostra nella follia come paradosso tutta la debolezza della forza di cui è portatore; la vulnerabilità che espone ogni potere sovrano quando ha la capacità di dissociarsi dalla sua genealogica incondizionalità.
12Ma è senz’altro nella comedia infernale di Giovanni Briccio, La Tartarea (1614), che il modello dantesco della prima cantica, al di là delle allegorie e delle repliche più macroscopiche, di nuovo viene convocato in tutta la sua, discorde e implementabile, capacità generativa. A partire, per esempio, dal mondo di comparse subalterne tra gli «Interlocutori»: «Caronte Demonio, e Radamanto Giudice Demonio, quale essamina e condanna dieci anime, cioè Massenzio gentil’huomo, Aurelio avaro, Licone parasito e ruffiano, Passercula meretrice, un Sbirro, un Spione, un Mercante, un Negromante, un Bravo, e Soffiano». O dall’invenzione supplementare dello spazio: «Vedo anco doi scritti, che a foggia di cartelli sono posti in pietra sopra ciascheduna porta, questo dice: Perdete ogni speranza voi ch’entrate. Quest’altro: L’alta giustizia fin qua giù si estende».22 Lungi dall’essere un modello unitario o universalizzante, la geometria calcolata del poema dantesco si produce in prestiti di elementi drammatici, personaggi e ricalchi testuali che, come è stato dimostrato, funzioneranno nel tempo anche in modo divergente e oppositivo rispetto al prototipo.23
13Uscirà invece postuma, nel 1724, la tragedia Il conte Ugolino di Giovanni Leone Semproni composta nel 1646, naturalmente piena di richiami e ricalchi da Inferno XXXIII, ma al tema principale della miseria della guerra civile («D’odio civile inestinguibil fiamma, / […] Colma di morti, e di furor ripiena, / Non concorde Città tragica Scena») qui predomina sovrapposto il tema secondario dell’amore, tragico perché contrastato, tra Manfredi, nipote del conte Ugolino, e il nipote di Ruggieri, Almerigo, per la principessa di Salerno, Angioina. La punizione finale per l’ambizione di Ugolino stringe infine la vicenda in un contrappasso della colpa che dispiega nell’analogia (fame di cibo = fame di sangue e oro) la sola distruttiva logica della Storia: «Di nuovo ei sia ne la gran Torre addotto, / E, senza cibo aver, là co’ suoi figli / Famelico si mòra e sitibondo, / Chi già del nostro sangue, e del nostr’oro / Sitibondo e famelico vivea».24
14Il potenziale drammatico della morte di questo personaggio dantesco fu intuito anche dal drammaturgo tedesco Heinrich Wilhelm Gerstenberg che consegnò alle scene, nel 1769, la tragedia in prosa Ugolino. Eine Tragödie in fünf Aufzügen (prima edizione: J. H. Cramer, Amburgo e Brema 1768; prima rappresentazione: 22 giugno 1769 a Berlino) scritta l’anno prima, e successivamente di enorme influenza per il movimento Sturm und Drang. Mentre in Italia, invece, c’è chi pensa a ripulire, contenere e rivestire la vicenda di Ugolino, in una versione senza alcun ruolo femminile, né la scomoda presenza dell’arcivescovo Ruggieri (evitando così qualsiasi pronuncia anticlericale), in cui il conte morente addirittura perdona i suoi nemici.25 Si tratta della tragedia del gesuita Andrea Rubbi, Ugolino Conte de’ Gherardeschi (1779); qui, nella scena VI dell’atto conclusivo, si allude all’atto antropofagico di memoria dantesca in una iperbole che in realtà soppesa e misura l’asservimento della pietà filiale alla logica del dominio paterno. Così infatti il figlio di Ugolino, Anselmuccio: «Padre tu manchi? Ahimè! … meno ci duole, / Se tu mangi di noi; tu ne vestisti / Queste misere carni, e tu le spoglia».26 Mentre invece nel prologo di apertura dell’anonima tragedia Il Conte Ugolino (1807), l’Ombra di Dante inaugura la fortuna dell’autore/personaggio, e si rivolge agli astanti con un’immagine aporetica della fine del contrappasso per consunzione: «Amici, oggi la storia della fame / Vi si rappella. Io piangerò con voi / Sul diseccato Gherardesco ossame».27
15Mentre invece nell’azione tragica in tre atti, Ugolino (1835) di Pietro Sterbini, attivista carbonaro che prese parte ai moti del 1831, allo strazio della condanna («Ai suoi figli il digiuno, / A Ugolino il dolor torrà la vita», I, 3) si sommano pronuncie mangiapreti («Venga Ruggieri, la sua destra è avvezza / A benedir delitti», I, 4), nonché tristi visioni oniriche a presagio della pena del digiuno («Giunse l’ora in che il cibo addotto c’era, / Giunse… e trascorse: ed io pensando al sogno, / Con le braccia conserte, e con lo sguardo / Per dolor cupo immoto, non fea motto», II, 2), fino all’invettiva civile, cupa, ai limiti dell’orrore («O sole, un raggio tuo, finché abbia io forza / Da maledir la patria mia. […] D’assedio / Cinta la iniqua, soffra il rio martire / Di orrida fame, ma natura in essa / Perda i suoi diritti, e dei figli la carne / Sazii le madri, e ai genitori le ossa / Spogli il dente dei figli […]», III, 1).28
Teatro della vita civile
16Non minor fortuna spettò ai personaggi (e all’episodio) di Paolo e Francesca, in una felice convergenza di interesse politico (la causa del nazionalismo) e condanna del desiderio (amore mascherato ostile). Silvio Pellico scrisse la tragedia Francesca da Rimini (1818) probabilmente durante il suo soggiorno milanese (1810-1812), colpito dall’attrice quattordicenne Carlotta Marchionni vista al Teatro di Santa Radegonda (anche Madame de Staël scrisse di lei che «possedeva il genio della sua arte»); inviato il testo a Foscolo per approvazione, il verdetto come è noto fu inappellabile: «Odimi, getta al foco la tua Francesca. Non revochiamo d’inferno i dannati Danteschi: farebbero paura a’ vivi. Getta al foco, e portami altro».29 Il 18 agosto la tragedia di Pellico fu invece messa in scena, e felicemente, al Teatro Re di Milano: Lord Byron in Italia con John Cab Hobhouse ne furono entusiasti e tentarono di tradurre il manoscritto in inglese (Byron nel 1821 pubblicherà il poemetto The Prophecy of Dante, composto a Ravenna nel giugno del 1819, in terza rima dantesca, «the imitative rhyme», e dedicato alla contessa Teresa Guiccioli).30 Lo stesso Stendhal, così attento alla lezione del gruppo milanese sulla nuova letteratura come momento della vita civile, come insegna Ezio Raimondi, scrisse che «la tragedia più passabile» del tempo era la Francesca da Rimini di Pellico, in cui vi è dell’incanto e dell’amore vero, giudicandola per certi versi simile a Racine, mentre si era avanzata anche l’idea di Dante per il teatro tragico italiano come equivalente di Omero per quello greco.31 Ma fu soprattutto la tirata patriottica di Paolo nella scena quinta del primo atto, censurata dall’autore per soddisfare la polizia austriaca («Per chi di stragi si macchiò il mio brando? / Per lo straniero. E non ha patria forse / Cui sacro sia de’ cittadini il sangue? / Per te, per te, che cittadini hai prodi / Italia mia, combatterò») a garantirne un più duraturo successo.32 Tirata proverbiale di un nazionalismo da melodramma, quindi capace di accendere gli animi, se ancóra nel 1863 Tommaso Salvini, nel recitarla a Trieste, quasi provocò una rivolta tra i nazionalisti che cercavano di riportare la città austriaca nell’Italia appena unificata.33 Se Pellico fu autore che per primo vide in scena il suo soggetto, ben tre autori lo precedettero nello scriverne: Vincenzo Pieracci (1791), Ulivo Bucchi (1814), l’anno prima di Pellico, e il fervente massone Edoardo Fabbri (Francesca da Rimini, probabilmente composta nel 1801 ma pubblicata nel 1821). Ma la fortuna del tema che succede al successo della versione di Pellico è, ben oltre tutto l’Ottocento, ai limiti del numerabile: a partire dalla Francesca da Rimini di Luigi Bellacchi (1824) fino alla tragedia di Giovanni Alfredo Cesareo (Francesca da Rimini, 1906), compresa quella creata a Buenos Aires da Nino Berrini per la compagnia di Dario Niccodemi nel 1923.34
17Menzione a parte merita la Francesca da Rimini (1901) di Gabriele D’Annunzio, scritta per Eleonora Duse: quattromilacentodieci versi in cinque atti composti nella villa viareggina del Secco, consultando spesso il sonetto A dream after reading Dante’s episode of Paulo and Francesca di Keats. La prima in teatro, al Costanzi di Roma, fu un vero disastro: Luigi Pirandello dalla platea giudicò Duse «paralizzata», mentre a Paul Klee, in quei giorni nella capitale, Duse sembrò una «morfinomane». Ma il confronto più istituzionale con Dante di D’Annunzio era già avvenuto con la solenne Lectura Dantis del 9 gennaio 1900 presso la Loggia restaurata di Orsanmichele: in sostituzione di Carducci malato, il Vate non si tenne e oltre alla lettura commissionata dell’VIII dell’Inferno aggiunse quella dei versi della Lauda di Dante da lui vergata proprio per l’occasione.35
18Ma l’autore più prolifico di tragedie storiche a tema dantesco (e soprattutto tirate dalla Cronica di Villani) è stato Carlo Marenco: la più nota è Il conte Ugolino (1833), che scrisse dopo Bondelmonte e gli Amidei (1828), Corso Donati (1830), Ezzelino III (1832), mentre la più fortunata è La Pia [de’ Tolomei] (1836), in cinque «giornate», rappresentata con forte successo al Carignano di Torino nel gennaio 1837 (sull’eco della chiusa del V canto del Purgatorio, Pia è qui una vittima che muore di malaria, non una peccatrice: fu nel repertorio di Adelaide Ristori anche nel tour nordamericano, tra il 1866 e il 1867); è dello stesso anno Manfredi (1836), e poi ancóra Arrigo di Svevia (1841). Troppo spesso giudicate decorative e prolisse, in realtà sono scritture di grandi pretese (e perizia) sceniche, sia per lunghezza che per presenze richieste, in stretta consonanza con la misura delle ambizioni politiche dell’emergente casa Savoia in Piemonte: un conto era esibirsi a Torino, e un conto a Milano o Trieste sotto occupazione austriaca. Insomma, la vita di Dante e i suoi personaggi divennero ben presto feticci da brandire per raccontare un Risorgimento eroico politicamente determinato.36
19A tal proposito, più di sessanta drammi sono stati censiti, tra il 1820 e il 1921, ispirati alla vita del poeta: Antonucci però segnala che «il primo dramma in cui appare il personaggio di D. appartiene al teatro tedesco. È un dramma satiresco-fantastico di Ludwig Tieck, Prinz Zerbino oder Die Reise nach dem guten Geschmack (Jena, 1799), in cui l’ombra del poeta mette a tacere il servo Nestore, che si esprime con grande disinvoltura su ciò che non conosce».37
20Ma dalla commedia in versi martelliani di Vincenzo Pieracci, Dante Alighieri (1820) al Dante e la patria (1921) di Virginio Prinzivalli, passando per testimoni più esposti come il Dante a Verona (1853) di Paolo Ferrari, o Il Millennio (1895) di Giovanni Bovio, parte conclusiva di una trilogia sul cristianesimo in cui Dante è rappresentato nelle vesti di giudice dei cristiani, la fortuna teatrale che qui si fatica a testimoniare nella sua vastità, invade il moderno come la lunga ombra di un monumento che già si proietta, incombente, sui banchi di scuola. E sarà il Dante scolarizzato dell’Italia unita.
21Emblematico, invece, appare il Dante (1903) di Victorien Sardou (pseudonimo di Jules Pélissié, in collaborazione con Émile Moreau), interpretato con discreto successo da Laurence (figlio di Sir Henry) Irving al Drury Lane Theatre di Londra: testimonianza, fra le tante richiamabili, che la globalizzazione della conoscenza di Dante e delle sue opere, a partire dalla Belle Époque dipende anche dal repertorio delle grandi compagnie e da attori e attrici internazionali. Ed è, questo, il Dante ripetibile e disponibile di un’arte capace di incendiare gli affetti e di alzare la temperatura, ma poco incline ai sigilli dell’assoluto e ai fondamenti dell’essenziale.
Teatro di posture e di silenzio
22È ormai proverbiale l’assertiva intuizione di Gilles Deleuze: «I dannati di Beckett sono la più stupefacente galleria di posture, andature e posizioni, dopo Dante».38 L’immaginario anatomico dantesco, in termini sia visivi che performativi, sembra dunque immediatamente congiungersi d’un balzo nel teatro del Novecento, a quello di un assiduo lettore proprio della Commedia, Samuel Beckett. Dante, dalle parole alle posture che le sue opere descrivono, per Beckett è soprattutto, oltre che archivio, maestro di silenzio. Per Jacques Derrida la scrittura equilingue di Samuel Beckett è troppo ‘idiomatica’ per poter ipotizzare una ‘risposta critica’ all’altezza della sua densità performativa.39 La fedeltà a Dante, che fu per Beckett lettura indispensabile, informa proprio questo scavo sulla superficie delle parole per ricavare in esse l’unico suono che forse le libera: il silenzio.40
23Sulla presenza testuale di Dante nel teatro di Beckett basteranno qui, fra i tantissimi possibili, pochi esempi: di citazione diretta, e di «postura, andatura, posizione». In Happy days (1960, ver. fr. Oh les beaux jours, 1961), la protagonista Winnie, seppellita fino alla vita in un torrido deserto per inscenare la più radicale critica all’umanità, più volte qualifica le sue parole come «in the old style» («de vieux style»), e una sola volta con «To speak in the old style [Pause.] The sweet old style. [Smile off.]» («Le vieux style! [Un temps.] le doux vieux style! [Fin du sourire.]») citando espressamente Purg. XXIV, 55-57, per alludere al teatro come luogo in cui lo scorrere del tempo non si esaurisce ma che rincomincia, ogni volta, di nuovo.41
24Mentre l’immagine di Belacqua (Purg. IV, 106-108) torna in una postura di Estragon in En attendant Godot (1952, poi col sottotitolo, solo nella trad. ing. del 1954, a tragi-comedy in two acts): «(Il prend une posture utérine, la tête entre les jambes)», non come un’immagine letteraria citabile ma come un calco dinamico della fine delle parole.42 Invece nel radiodramma All that Fall (1957, il titolo è ripreso dal Salmo 145), il signor Rooney propone a sua moglie, a un certo punto, di darsi reciprocamente le spalle «come i dannati di Dante», ossia i fraudolenti, falsi profeti (Inferno XX, 22-24), in una meccanica posturale del corpo silente bloccato in eterno nella infinita performance della propria fine: «Or your forwards and I backwards. The perfect pair. Like Dante’s damned, with their faces arsy-versy. Our tears will water our bottoms».43
25A conferma della resistente attrativa del teatro per le cose dell’oltremondo, nel 1966 a Milano, Orazio Costa mette in scena una versione teatrale della Commedia di Dante Alighieri, assai pretenziosa e di scarsa realizzabilità, secondo un’interpretazione giudicata mistico-intellettuale, con in scena Dante sdoppiato: quale lettore delle vicende e figura nell’azione delle stesse. Operazione apostrofata dal sagace recensore della serata, Alberto Arbasino: «così severamente filologica e intanto anche acchiappacitrulli nei confronti del pubblico che bada al titolo grosso grosso».44
26Forse proprio per scansare le difficoltà di una trasposizione con pretese mimetiche Federico Tiezzi invece scelse tre poeti per riscrivere rispettivamente le tre cantiche: Edoardo Sanguineti (Commedia dell’Inferno, 1989), Mario Luzi (Il Purgatorio. La notte lava la mente, 1990) e Giovanni Giudici (Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d’esta stella, 1991).45 Nascono dunque tre spettacoli autonomi, con tre differenti modalità di transcodificazione del testo dantesco (come ben intuito da Ardissino)46 in scena tra il 1989 e il 1991. Al di là della natura delle rispettive riscritture, Tiezzi affronta il verso dantesco secondo «una dizione piana, chiara, asciutta, priva di sentimentalismo retorico e magari aspra, ma sempre ritmica, musicale, fluida e attenta alle tecniche metriche».47 Sanguineti per la prima cantica «disintegra e devasta l’endecasillabo dantesco per profanare il testo d’origine, e si propone di “invecchiare” l’inferno con effetti di straniamento e raffreddamento al fine di esibire la “degradazione” della materia (parola d’autore)».48 La sua Commedia dell’Inferno è «una Babele della lingua, luogo di dissonanza, di frammentarietà, di aggressività e di incomunicabilità», con innesti testuali di Pound e Chrétien de Troyes oltre che suoi, in cui non vi è più viaggio, quasi nemmeno più presenza di Dante, poiché saranno gli spettatori i veri visitatori di tanta solitudine. Per la seconda drammaturgia, Luzi «mette in luce soprattutto le qualità umane della cantica: umanità rasserenante ma anche passionale, accalorata e sentimentale». Qui la regia di Tiezzi risponde a tanta fedeltà e discrezione testuale facendo ripetere anche a Dante l’inizio e la conclusione delle battute con cui le anime si presentano al poeta, in «una sorta di ideale fusione del linguaggio e dei personaggi col loro creatore».49 Infine, la terza cantita di Giudici «è spettacolo della luce piena, della immaterialità, aspirazione a pronunziare l’indicibile, a rendere in teatro la pura ascesi dello spirito».50 L’ordito dell’azione è comunque analitico e ruota tutto attorno al personaggio di Dante, doppiato in scena sia come auctor che come viator, in contrappunto alle apparizioni celesti, meri riflessi di un teatro della mente (e dunque, sul palcoscenico, di regia) costretto a un’ascesi tutta, inevitabilmente, astratta.
27Completamente al di fuori di qualsiasi lettura metafisica e immune a ogni pretesa di rappresentazione testuale è invece il progetto dantesco di Romeo Castellucci: fin dalla prima cantica, l’incontro con l’opera di Dante non è di natura interpretativa ma affettiva. Nell’avvio dell’Inferno (liberamente ispirato alla Divina Commedia di Dante, con musiche di Scott Gibbons e le coreografie di Cindy Van Acker), che ha debuttato il 5 luglio 2008 alla Cour d’Honneur du Palais des Papes di Avignone, Castellucci come Dante compie il viaggio in prima persona, ossia come autore si pone dentro la scena, per assumersi la responsabilità dell’atto creativo. I dannati sono poi descritti soprattutto nella loro affettività, tra incontri, abbracci e promesse d’amore: non siamo nell’aldilà ma nell’aldiqua, non si passa per i gironi ma si progredisce in una dimensione comunitaria tutta umana, compensativa delle sofferenze dei dannati della terra, senza alcun giudizio morale. Il lago ghiacciato di Cocito è qui un lungo telo bianco che ricopre integralmente la platea e che intorbida la visione. Da un rottame di automobile esce la figurazione di Lucifero: è un Andy Warhol redivivo che con aria di sufficienza applaude e fotografa il pubblico mentre sullo sfondo si intravedono le piante dei piedi di cadaveri ammassati. Il Purgatorio invece è un interno alto-borghese: attraverso una macchina scenotecnica perfetta gli ambienti cambiano con rapidità in un iperrealismo visivo inedito per il regista, è infatti questo il «primo lavoro che segue una tattica di regime mimetico mai utilizzata prima» (P. Di Matteo).51 Lo spettacolo è costruito attorno all’immagine di un padre mancato che violenta il proprio figlio. L’atto pedofilo non è però mostrato ma solo ascoltato con un forte impatto emotivo sul pubblico. L’attesa purgatoriale di questa violenza che sta per accadere sull’inerme trasforma direttamente la morfologia dei corpi: dopo lo stupro il padre riapparirà nel corpo di un performer spastico, e il bambino in un corpo inverosimilmente cresciuto. Il mondo intermedio dantesco è qui il Reale che buca ogni ordine simbolico.52 Il Paradiso è infine un dispositivo ottico di una installazione visiva (ed è la cantica che maggiormente è cambiata nelle riprese dopo il debutto site-specific di Avignone nella chiesa des Célestins): in una camera bianca, tramite un buco circolare del diametro non più di un metro e mezzo introduce a un ambiente completamente oscuro in cui si sente fortissimo uno scrosciare d’acqua che precipita dall’alto. Lentamente, dal buio, allo sguardo emerge in alto una figura: è un uomo incastrato alla vita nel foro di una parete da cui sgorga l’acqua. Dapprima si dimena, cerca di liberarsi ma poi, esausto si arrende. Il buco ricrea l’occhio dello spettatore, e contiene una luce oscura, quella luce che Dionigi Areopagita chiama «luce negativa» di Dio.53
28Nell’ambito della nuova drammaturgia contemporanea occorre qui richiamare almeno Purgatory (2005) di Ariel Dorfan. Testo claustrale, violento e cerebrale, è ispirato in realtà al mito tragico di Medea, ma nell’eco dell’opera dantesca si svolge in una monocromia di spazio e atmosfera in cui un uomo e una donna si affrontano in un dialogo di recriminazione permanente, attendendo una redenzione di là da venire, sempre rimandata e sempre disattesa, come se la penitenza, il purgatorio già qui, fosse proprio il peggiore dei castighi.54
Teatro della «condizione finale»
29Ma dove spietatamente si blocca, si inceppa, nel Novecento, lo schema redentivo della grande narrazione dantesca, presieduta dalla ragione, con la sua precisa agenda politica (ossia la denuncia della corruzione civile ed ecclesiastica), e il suo lavoro sul marginale, l’anonimo e il periferico, presieduto dai sensi compreso il vulnerabile (il tono «minore» della lingua di un cammino/esilio compiuto «da uomo a uomo»), è nella fine della possibilità che vi possa essere un significato nella Storia. Prima in Kafka e Beckett, e infine poi soprattutto Auschwitz, con Walser e Klemperer: la percezione dell’assenza evidente di una giustizia suprema inaugura la «condizione finale», quella di un Dante eretico.
30Così infatti Peter Weiss ha ripensato e riprogettato la trilogia drammatica Divina Commedia come un ritorno di Dante dall’esilio nel mondo di oggi, in una terra colma solo di ingiustizie senza contrappasso né redenzione. Dapprima con il dramma rimasto inedito Inferno (1964 ma pubblicato solo nel 2003) che presenta, in una modernissima società del benessere, un Dante reduce dall’esilio che ritrova nella sua città i propri persecutori, impuniti, sempre al potere (così il dantesco Flegiàs, da Inf. VIII, qui nel Canto XIX: «A chi interessano più / i marciti gli svaniti nel fumo / Qui conta solo chi è vivo», al quale il Coro risponde: «L’incomparabile sviluppo qui / in questa città / dimostra / che abbiamo vinto noi»).55 Ma è con Die Ermittlung. Oratorium in 11 Gesängen (L’istruttoria. Oratorio in undici canti, 1965) che la sostanza dantesca si precisa in un testo drammatico realizzato sui resoconti (anche personali) del processo di Francoforte a un gruppo di SS e di funzionari di Auschwitz (10 dicembre 1963 - 20 agosto 1965). Distribuito in canti, in una versificazione (anche monosillabica) potenziata dall’assenza di punteggiatura, Weiss qui restituisce, in una parola ai limiti dell’incolore perché rivelatrice della reticenza, del cinismo e della viltà dei funzionari dell’orrore, tutto l’inferno del lager nel tempo ordinario. Così, ad esempio, il Testimone 7 nel Canto dei forni: «La gente entrava adagio stanca», mentre in chiusura l’Imputato 1 ribadisce: «Tutti noi / vorrei ancora sottolineare / abbiamo fatto solamente il nostro dovere».56 Come in Dante, la poesia qui integra, approfondisce e aspira a determinare la Storia.
31A più riprese Weiss prova una riscrittura attualizzante dell’intero poema dantesco sotto forma di una trilogia drammatica che però, di fronte al crollo di ogni senso delle ‘immagini definitive’ di Auschwitz, non portò mai a compimento: restano alcuni fondamentali testi, tra cui Esercizio preliminare per il dramma in tre parti divina commedia (1965), sorta di commento in versi del progetto nel quale la prima cantica avrebbe descritto la dimora dei misfatti impuniti, la seconda la terra del dubbio e la terza quella del vuoto. Perché ormai per Weiss l’inferno non è più altrove né nella tragedia del lager, ma è «Qui e Ora»: «tutti quelli che secondo il Dante di una volta / erano condannati a una pena infinita, e oggi, però, / dimorano qui tra noi, i vivi, portando avanti / impuniti i loro misfatti, e vivono appagati, / con i loro misfatti, incensurati, ammirati da molti». Dante oggi dovrebbe trovare parole impronunciabili per poter ascoltare chi è stato costretto al «definitivo silenzio».57
32In Conversazione su Dante (1965) si precisa con forza questa revisione radicale per cui «non esiste un premio in cielo per ciò che si è patito» dunque «le cause della sofferenza vanno eliminate qui, quando si è vivi». Ma la fedeltà a Dante resta immutata proprio nel riconoscimento doloroso della verità: «Qui non si intravede alcun miglioramento, né si ravvisa un senso. Le descrizioni si perdono in una condizione finale, dove l’ultima dignità è un volto che si solleva dal fango». Per questo occorre ritrovare, nella materia dantesca, un senso dell’azione, anche teatrale, che dipenda non da giustizia divina ma da una resistenza affermativa: «Tu, quindi, leggi Dante al contrario. Non nella direzione che porta a un’onnipotenza cosmica, a una riconciliazione, a un equilibrio mistico, ma verso il punto dove ha inizio l’incertezza, la confusione, il dubbio. Leggi Dante come eretico».58
33Peter Weiss nel secolo appena trascorso ha mostrato, più di chiunque altro, come il teatro sia a tutti gli effetti luogo di eresia e non di utopia, e dunque, in termini visivi e performativi, «condizione finale» per l’opera dantesca. Da qui, forse, occorre ripartire. Oggi allora potremmo provare a indagare l’opera canonica di Dante attraverso la teoria del mestizaje dell’attivista chicana Gloria Anzaldúa, che scrive della «terra di confine» – «This is my home / this thin edge of / barbwire» («Questa è la mia casa / questa sottile linea di / filo spinato») – come «a vague and undetermined place created by the emotional residue of an unnatural boundry» («luogo vago e indefinito creato dal residuo emotivo di un limite innaturale»).59 Allora, la scrittura di Dante potrebbe riaffermarsi per noi, nel tempo del ‘meticciato’ culturale, come un vero e proprio argine al razzismo sociale. Sarebbe di nuovo scrittura di un viaggio in una lingua minoritaria, perché la lingua «sozza» di Dante può tornare a riecheggiare la sua eresia nelle voci, nei luoghi, nelle parole lasciate ai margini della nuova mappa del mondo globale, dove la periferia esiste ormai al di fuori di un rapporto totalizzante con il centro. In questo spazio relazionale capace di contenere chi vive e racconta il margine, si rende allora possibile un ultimo riconoscimento: l’inferno, che è già qui, e non pare (ma lo è) reversibile, altro non è che il fondamento più tangibile di ogni violenza, l’ideologia fondante della frontiera.
Notes de bas de page
1 Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, in Opere minori in volgare, a c. di Mario Marti, Rizzoli, Milano 1972, vol. IV, p. 350.
2 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a c. di Mirko Tavoni, Mondadori, Milano 2017, risp. pp. 288-291, 292-293.
3 Piermario Vescovo, Dante e il “genere drammatico”, in «Dante e l’arte», vol. 1. Dante e il teatro, 2014, pp. 45-66 (http://revistes.uab.cat/dea).
4 G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, cit., p. 387.
5 Peter Armour, The Comedy as a Text for Performance, in Dante on View. The Reception of Dante in the Visual and Performing Arts, a cura di Antonella Braida e Luisa Calè, Routledge, New York - London 2007, pp. 18-20.
6 Cfr. O. Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit., p. 121.
7 Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino (1948), a c. di Roberto Antonelli, La Nuova Italia, Scandicci 1992, pp. 387-419.
8 Cfr. Carlo Ossola, Introduzione alla Divina Commedia, Marsilio, Venezia 2012, pp. 31-34.
9 Amilcare A. Iannucci, Dramatic Arts, s.v. in The Dante Encyclopedia, a cura di Richard Lansing, Routledge, New York - London 2000 e 2010, 319-324.
10 Maria Maślanka-Soro, Dante e la tradizione della tragedia antica nella Commedia, in Lectura Dantis 2002-2009 omaggio a Vincenzo Placella per i suoi settanta anni, a cura di A. Cerbo, Il Torcoliere, Napoli 2011, t. II, pp. 609-633.
11 Franco Masciandaro, Dante as Dramatist. The Myth of the Earthly Paradise and Tragic Vision in the Divine Comedy, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1991, pp. XIV-XV.
12 Richard Cooper, Dante on the Nineteenth-century Stage, in Dante on View. The Reception of Dante in the Visual and Performing Arts, a cura di Antonella Braida e Luisa Calè, Routledge, New York - London 2007, p. 23; Armando Petrini, Gustavo Modena. Teatro, arte, politica, Pisa 2012, p. 165 sgg.; Michael Caesar e Nick Havely, Politics and Performance: Gustavo Modena’s dantate, in Dante in the Long Nineteenth Century: Nationality, Identity, and Appropriation, a cura di Aida Audeh e Nick Havely, Routledge, New York-London 2012, pp. 111-140; Simona Brunetti, Due esempi di drammatizzazione di Dante nell’Ottocento italiano, in Dante a Verona 2015-2021, a cura di Edoardo Ferrarini, Paolo Pellegrini e Simone Pregnolato, Longo, Ravenna 2018, pp. 183-198.
13 Cfr. Mario Ferrigni, Dante e il teatro, in «Annali del teatro italiano», I, 1901-20, pp. 1-23.
14 Amilcare A. Iannucci, Dante and Television, s.v. in The Dante Encyclopedia, a cura di Richard Lansing, Routledge, New York - London 2000 e 2010, pp. 283-284; nonché il recente La voce di Dante. Performance dantesche tra teatro, tv e nuovi media, a c. di Alberto Casadei e Paolo Gervasi, Luca Sossella, Cortona 2021.
15 Gianni Manzella, La bellezza amara. Arte e vita di Leo de Berardinis, La Casa Husher, Firenze 2010, p. 102.
16 Piermario Vescovo, Dante nel teatro del ’900, in Lectura Dantis Scaligera 2005-2007, a c. di E. Sandal, Antenore, Padova 2008, p. 43.
17 Ivi, p. 34.
18 Su «toutes ses dévoilement actif» di questa memoria della scrittura dantesca si vd. Philippe Sollers, Dante et la traversée de l’écriture (1965), in id., L’écriture et l’expérience des limites, Seuil, Paris 1968, pp. 14-47 (cit. p. 16).
19 Beatrice Corrigan, Dante and Italian Theater: A Study in Dramatic Fahions, in «Dante Studies» 89, 1971, p. 94; A. A. Iannucci, Dramatic Arts, cit., p. 319.
20 Pomponio Torelli, Vittoria, edizione critica del testo, introduzione e commento, in id., Teatro, a cura di Alessandro Bianchi, Vittorio Guercio e Stefano Tomassini, Guanda, Parma 2009, pp. 329-452, nonché il mio studio Tempo speranza e vita offesa: la parodia della morte nella Vittoria, in Il debito delle lettere. Pomponio Torelli e la cultura Farnesiana di fine Cinquecento (Atti del convegno – Parma-Montechiarugolo, 13-14 novembre 2008), a cura di Alessandro Bianchi, Nicola Catelli e Andrea Torre, Edizioni Unicopli, Milano 2012, pp. 29-50.
21 Jacques Derrida, Vieni, in id., Stati canaglia (2003), Milano, Raffaello Cortina, 2003, p. 9.
22 Giovanni Briccio, La Tartarea. Comedia infernale, Combi, Venezia 1624, risp. pp. 8, 9-10.
23 Jeremy Tambling, Dante and Difference: Writing in the ‘Commedia’, Cambridge University Press, Cambridge - New York 1988.
24 Giovanni Leone Semproni, Il conte Ugolino. Tragedia, Salvioni, Roma 1724, risp. pp. 135 e 133.
25 R. Cooper, Dante on the Nineteenth-century Stage, cit., p. 26.
26 [Andrea Rubbi,] Ugolino Conte De’ Gherardeschi. Tragedia di Anonimo, in Teatro italiano del secolo decimottavo, Cambiagi, Firenze1784, vol. 5, pp. 247-330 (cit. p. 323).
27 Il Conte Ugolino. Tragedia inedita d’un pastore della colonia virgiliana, Antonio Rosa, Venezia 1807, p. 3.
28 Pietro Sterbini, Ugolino. Azione Tragica in tre Atti, in id., Poesie, Fabiani, Bastia 1835, pp. 81-112 (citt. risp. pp. 91, 95, 105 e 109).
29 R. Cooper, Dante on the Nineteenth-century Stage, cit., p. 27.
30 Cfr. George Byron, La profezia di Dante, a c. di Francesco Bruni e Loretta Innocenti, Salerno, Roma 1999.
31 Cfr. Ezio Raimondi, Romanticismo italiano e romanticismo europeo, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 2-4.
32 Silvio Pellico, Francesca da Rimini, in Teatro tragico italiano. Storia e testi del teatro tragico in Italia, a c. di Federico Doglio, Guanda, Parma 1960, pp. 1111-1166 (cit. p. 1124).
33 R. Cooper, Dante on the Nineteenth-century Stage, cit., p. 27.
34 Ivi, pp. 26-28.
35 Cfr. Gabriele D’Annunzio, Francesca da Rimini. Tragedia in cinque atti [1902], in id., Tragedie, sogni e misteri, a c. di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, Mondadori, Milano 2013, vol. 1, pp. 449-682, nonché pp. 1177-1178.
36 R. Cooper, Dante on the Nineteenth-century Stage, cit., p. 30.
37 Giovanni Antonucci, Teatro, s.v. in Enciclopedia Dantesca, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1978, vol. XX, p. 531.
38 Gilles Deleuze, L’esausto (1992), a cura di G. Bompiani, Cronopio, Napoli 1999 e 2010, p. 15.
39 Cfr. Derek Attridge, “This Strange Institution Called Literature”. An Interview with Jacques Derrida (1989), in Jacques Derrida, Acts of Literature, a c. di Derek Attridge, Routledge, New York - London 1992, pp. 60-61.
40 Cfr. Nathalie Léger, Les vies silencieuses de Samuel Beckett, Éditions Allia, Paris 2006.
41 Jean-Pierre Ferrini, Dante et Beckett, Hermann, Paris 2003, pp. 119-121.
42 Cfr. Giulio Braccini, Sorella Pigrizia. L’accidia purgatoriale come forma mentis letteraria da Belacqua a Beckett, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 176-186.
43 Samuel Beckett, All That Fall. A Play for Radio, Faber and Faber, London 1957 e 2006, p. 27.
44 Beatrice Corrigan, Dante and Italian Theater, op. cit., p. 93.
45 Cfr. Edoardo Sanguineti, Commedia dell’Inferno. Un travestimento dantesco, Costa & Nolan, Genova 1989; Mario Luzi, Il Purgatorio. La notte lava la mente, Costa & Nolan, Genova 1990; Giovanni Giudici, Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d’esta stella. Satura drammatica, Costa & Nolan, Genova 1991, ora a cura di Riccardo Corcione, Ledizioni, Milano 2019.
46 Erminia Ardissino, ‘Perché mi vinse il lume d’esta stella’. Giovanni Giudici’s Rewriting of Dante’s Paradiso for the Theatre, in Metamorphosing Dante. Appropriations, Manipulations, and Rewritings in the Twentieth and Twenty-First Century, a cura di di M. Gragnolati, F. Camilletti, e F. Lampart, Verlag Turia, Berlin 2011, p. 137.
47 Lorenzo Mango, Teatro di poesia. Saggio su Federico Tiezzi, Bulzoni, Roma 1994, p. 30.
48 Niva Lorenzini, Sanguineti e il teatro della scrittura. La pratica del travestimento da Dante a Dürer, Franco Angeli, Milano 2011, p. 14.
49 L. Mango, Teatro di poesia, cit., pp. 37-38.
50 Ivi, p. 42.
51 Comunicazione personale.
52 Dorota Semenowicz, Le cattive immagini, in Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci, a cura di P. Di Matteo, Cronopio, Napoli 2015, p. 100.
53 Margherita Laera, Comedy, Tragedy and “Universal Structures”: Socìetas Raffaello Sanzio Inferno, Purgatorio, and Paradiso, in «Theatre Forum», 36, 2010, p. 14.
54 Ariel Dorfan, Purgatorio, Einaudi, Torino 2006.
55 Peter Weiss, Inferno (1964). Testo drammatico e materiali critici, a cura di Marco Castellari, Mimesis, Milano – Udine 2008, pp. 129-131; più in generale si vd. Enrico De Angelis, Peter Weiss. Autobiografia di un intellettuale, De Donato, Bari 1971.
56 Peter Weiss, L’istruttoria. Oratorio in undici canti (1965), Einaudi, Torino 1966, p. 232; p. 250.
57 Peter Weiss, Esercizio preliminare per il dramma in tre parti divina commedia (1965), in id., Inferni. Auschwitz Dante Laocoonte, a cura di C.-C. Härle, Cronopio, Napoli 2007, p. 34; p. 38; p. 40.
58 Peter Weiss, Conversazione su Dante (1965), in ivi, p. 57; pp. 50-51.
59 Gloria Anzaldúa, Borderlands/La Frontera. The New Mestiza, Aunt Lute Books, San Francisco 1987.
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