2. L’operatore culturale
p. 90-135
Texte intégral
1La figura del narratore solo su un palcoscenico spoglio esige la concentrazione degli spettatori. Questa persona è innanzitutto un narratore di talento che cattura il pubblico con una grande perizia nella recitazione e nella capacità di resa. I narratori sono anche intellettuali pubblici. Le loro storie contengono gradi variabili di sfumature politiche, e contemporaneamente nella messa in scena sintetizzano concetti intellettuali. Tracce (1996) di Marco Baliani, ad esempio, è una riflessione esclusiva sulla raccolta eponima di Ernst Bloch ed è una delle produzioni più cerebrali del teatro narrativo. A differenza però di molti lavori dell’avanguardia, Baliani prende le distanze da un complesso formalismo ed è seduto invece in maniera informale su una sedia per rivolgersi direttamente al pubblico. Infine i narratori hanno il senso dell’impegno civile, che dimostrano guidando gli spettatori verso nuovi punti di vista nei confronti di una persona (un imprenditore, un’ostetrica) o di un evento (l’omicidio del presidente del Consiglio, le città industriali delle periferie del Nord). In generale, il loro obiettivo è costruire in termini dialettici un personaggio che racchiuda i talenti dell’interprete creatore, dell’intellettuale pubblico e del funzionario pubblico. È vero che ciascun narratore ha il suo stile di interpretazione, eppure tutti presentano un equilibrio unico tra queste tre identità. La figura che ne deriva è quella di un operatore culturale, un termine che ho adattato dalle pratiche dell’animazione culturale della metà degli anni Settanta.
2Al centro del teatro di narrazione c’è un senso di responsabilità da inserire in una produttiva conversazione. I narratori producono conoscenza, nuove storie e le esperienze degli altri. Da questo impulso creano progetti che li portano ad affrontare comunità variegate, problemi sociali, eventi storici. Nel fondare un nuovo linguaggio drammaturgico, la prima generazione di narratori ha concepito una pratica dell’ascolto e si è allontanata dagli stimoli visuali del teatro fisico, che è stato un elemento costitutivo dell’opera di Teatro Settimo. Accennando alla dimensione oratoria di un solista che parla direttamente al pubblico, il termine “operatore culturale” ribadisce sia la funzione pubblica, sia la pedagogia della pratica del narratore. Questo concetto riconosce il lavoro, la fatica del loro mestiere, e l’urgenza e la necessità di riconciliare il passato in termini di esperienza individuale.
3L’etnografia è una componente importante del lavoro culturale, in parte perché i narratori adeguano la pratica affinché contenga implicazioni didattiche più esplicite, e in parte perché si basa sull’empatia. Quando i narratori si esibiscono, rivolgono uno specchio davanti al pubblico non solo per implorare il suo sguardo, ma per implorare il suo sguardo critico e consapevole: Dov’è la vostra riflessione? Dove siete voi in questa storia? In quanto operatori culturali, innanzitutto conducono un’etnografia di loro stessi in modo da centrare la propria posta in gioco personale sullo sfondo di più ampi eventi socio-culturali, comunità o individui. Il loro secondo utilizzo dell’etnografia è un’indagine più tradizionale degli individui all’interno delle loro comunità. Gli studiosi del teatro Suzanne MacAulay e Kevin Landis definiscono la pratica dell’etnografia semplicemente come la pratica di un’intima e accurata conoscenza di altri esseri umani, soprattutto tramite le loro esperienze quotidiane1. Per i narratori, questo procedimento porta a una prassi storica in cui mettono in conversazione con altre microstorie le loro storie private esaminate in maniera critica, e poi riassemblano la narrazione storica più ampia per integrare quelle due parti.
4Prendendo spunto dallo spirito di collaborazione del movimento dell’animazione, e al tempo stesso consapevoli delle intrinseche strutture di potere tra loro stessi e gli spettatori, i narratori coltivano un rapporto con il pubblico secondo il quale loro sono molti passi avanti – guide virgiliane – mentre il pubblico li segue in un viaggio che è spesso intensamente personale ed estremamente pubblico. Mentre riesaminano il passato con una lente legittimata dalla gente, lavorano con un modello brechtiano riflessivo e metodologicamente trasparente in modo che gli spettatori possano adottare questi stessi strumenti per i loro scopi. Una migliore comprensione dei personaggi messi in scena dai vari narratori rivela non solo il potenziale rivoluzionario della pratica, ma anche la sua dipendenza da questi singoli individui e dalla loro capacità di trasmettere la relazione tra gente comune ed eventi straordinari.
5I lunghi anni Settanta in Italia sono stati anche importanti nel plasmare il concetto di operatore culturale, visto che le discussioni intellettuali del periodo affrontavano la possibilità di una vita impegnata dal punto di vista artistico e politico. Un’indagine delle influenze contestuali svela alcune delle scintille che hanno ispirato l’idea di sé dei narratori fondatori. Quando i narratori cominciano a capire il loro rapporto con gli ambienti circostanti attraverso una pratica e alla fine una rappresentazione auto-etnografica, rivelano l’influenza dell’antropologia culturale sul teatro di narrazione. Gli spesso citati scritti di Victor Turner e altri sull’“antropologia dell’esperienza” in conversazione con le nozioni di etnografia critica e di posizionamento economico-sociale del ricercatore di D. Soyini Madison gettano luce sul delicato equilibrio tra consapevolezza di sé e full immersion che i narratori affrontano. Esaminando se stessi e i loro ambienti, sebbene in via retrospettiva, essi inoltre inscenano a beneficio del pubblico una metodologia di esame. Suggeriscono che un’attenzione al proprio ambiente e al proprio rapporto con esso potrà plasmare e influenzare la capacità di leggere gli eventi storici con più generosità, più compassione e maggiore profondità.
6Infine, l’ultima caratteristica principale dell’operatore culturale è il desiderio di ottenere una comprensione dinamica degli altri. Le modalità con cui i narratori rivolgono lo specchio dell’auto-etnografia verso l’esterno per condurre un’etnografia tradizionale composta di storie orali completa i loro arazzi di gente comune, che in sostanza illustrano un momento ampiamente riconoscibile, su vasta scala, della storia nazionale. Gli studi degli accademici di storia orale Alessandro Portelli e Luisa Passerini, oltre a quelli della studiosa di storia del teatro Della Pollock, contribuiscono a spiegare le potenzialità della storia orale, in particolare nel teatro. Insieme, queste tre componenti – la portata intellettuale, l’etnografia di se stessi e l’etnografia classica alimentata dalla storia orale – costituiscono il fulcro del narratore come operatore culturale: qualcuno che svolge un mestiere che è un’arte, ma che lavora dalla prospettiva di un funzionario pubblico.
7Gli albori del lavoro di Teatro Settimo, che a cominciare dal 1974 fu fortemente influenzato dalla popolarità dell’animazione, mostrano le intenzioni più consapevoli verso la creazione di un teatro sulla falsariga del lavoro culturale, che i narratori hanno poi raffinato nelle loro pratiche. Laura Curino per prima nel suo Passione del 1987 mostra la dialettica tra consapevolezza di sé e attivismo. In modo simile, l’impegno di Marco Baliani nel movimento studentesco a Roma negli anni Settanta gli ha ispirato un’etnografia di se stesso, che condivide in modo così acuto in Corpo di stato. Questa produzione, che ha debuttato nel 1998, dimostra che la tecnica auto-etnografica era diventata un tratto distintivo del lavoro del narratore, perfino per qualcuno che non aveva studiato direttamente con Teatro Settimo. Anni dopo, quando la narratrice della seconda generazione Giuliana Musso ha debuttato con Nati in casa (2001), ha dimostrato un energico coinvolgimento con il lavoro culturale, la qual cosa è anche testimonianza del fatto che questo concetto continua a seguire narratori che sono maturati in diversi periodi e in diverse parti del paese. Questa pièce in particolare si concentra sui problemi delle pratiche dell’ostetricia moderna, basando il testo sulla ricerca etnografica delle levatrici e ostetriche nei pressi della sua regione natale del Nord-est.
8Baliani, Curino e Musso hanno continuato a interpretare tutti questi testi in teatri e festival in tutta Italia e ogni tanto anche all’estero fino agli anni 2020, segnalando la costante importanza e popolarità di alcuni di quei lavori perfino dopo più di trent’anni dal debutto. Passione e Corpo di stato mostrano in termini particolarmente chiari le modalità con cui i narratori intraprendono un’etnografia di se stessi, ma sono anche due testi molto diversi che presentano chiavi di interpretazione differenti con cui il narratore legge i ricordi pubblici attraverso le esperienze private. Nati in casa, d’altro canto, è un testo esemplare nella magistrale fusione di storia orale e immaginazione creativa al fine di costruire un’argomentazione. Avendo lavorato a vari gradi di intenzione verso un concetto di lavoro intellettuale, questi artisti spingono anche altri – e non solo artisti di teatro – a riconsiderare il proprio prodotto in termini economici con uno specifico valore per il benessere delle società.
L’impegno e l’intellettuale
9Il movimento dell’animazione teatrale, molto diffuso negli anni Sessanta e Settanta, mostra che i membri di Teatro Settimo avevano interiorizzato la sua prassi di teatro pedagogico e l’avevano posta in relazione con le proprie responsabilità di artisti di teatro investiti nella loro comunità. Una più attenta indagine dei suoi principi più importanti in comunione con il teatro di narrazione rivela la sua profonda influenza sul concetto di narratore e su come i narratori abbiano costruito il personaggio dell’operatore culturale. Il movimento aveva creato un percorso che condusse gli studenti in un viaggio per plasmare le loro vite di artisti, intellettuali e membri attivi della società. Particolarmente ricca di spunti è la copia di Curino del manuale per l’animazione di Morteo, tratta dai suoi archivi privati, che lei lesse la prima volta intorno al 1978 agli albori di Teatro Settimo. Nell’introduzione sottolineò un paragrafo in cui Morteo spiega che l’animatore non è qualcuno che esegue un progetto, ma un operatore che, consultandosi con dei collaboratori, produce interventi adatti a particolari situazioni2. Con la scelta di “operatore” invece che “artista”, Morteo implica che l’animatore fornisce un servizio al pubblico, proponendo un concetto funzionale dell’artista teatrale.
10Tornando alla prima del suo spettacolo da solista di maggiore successo, Camillo Olivetti, che ha debuttato nel 1996, quasi vent’anni dopo aver studiato il manuale di Morteo, si ricorda che Curino condivide un pensiero simile: “Questo lavoro è dedicato ad Adriano Olivetti. Dico lavoro e non spettacolo nel ricordo di una espressione che usavano i miei genitori le rare volte che andavano a teatro. Dicevano di andare a vedere quel tale artista perché... chiel lì a travaja bin... Che vuol dire: quell’attore lavora bene. Lavora, dicevano, non recita.”3. Questo spettacolo, che parla di uno dei più famosi imprenditori dell’Italia moderna, è destinato a gente comune come i genitori di Curino, che riconoscevano il lavoro quando lo vedevano. Alludendo a se stessa, Curino chiarisce ogni sera a un pubblico nuovo che la rappresentazione cui gli spettatori stanno per assistere è frutto di un lavoro. Piuttosto che a Morteo, attribuisce ai suoi genitori, una sarta e un operaio della Fiat, il merito di quest’idea che l’arte e il lavoro abbiano qualcosa in comune, eppure questa era anche un’idea che circolava ovunque intorno a lei mentre diventava adulta negli anni Settanta, con gli onnipresenti discorsi sul concetto di lavoro, e con quell’introduzione all’animazione sulla quale aveva sottolineato l’uso del termine operatore che faceva Morteo per descrivere gli interpreti.
11Tornando al manuale di Morteo, poco più in basso sulla pagina in cui introduce per la prima volta il concetto di operatore, Curino aveva messo l’asterisco a margine di un paragrafo e sottolineato delle frasi specifiche. Morteo spiega che uno degli obiettivi dell’animazione teatrale è “un modo di vivere l’esperienza culturale, o forse, in senso ancor più puntuale, in quanto più restrittivo, di far vivere, di aiutare a vivere l’esperienza culturale a chi non ha, o non ha ancora, grande dimestichezza con tale tipo di esperienza” – un brano che Curino ha sottolineato4. Morteo chiarisce “vivere l’esperienza culturale” come “inglobare una indeterminata pluralità di atteggiamenti e di operazioni” che Curino ha sottolineato con dei ghirigori, e continua rimarcando che “Tuttavia si tratta di un’imprecisione funzionale in quanto essa si rapporta proprio a una pluralità di atteggiamenti e di operazioni”5. La cultura, dunque, è qualcosa di caotico per Morteo, qualcosa di impreciso perché include molteplici voci. Fare esperienza di questa pluralità, soprattutto per chi non l’ha mai fatta, è anche l’obiettivo principale dell’animazione, e ha colpito Curino come un punto cruciale. Le implicazioni di questo lavoro per un teatro inteso come azione e per la concezione di spettatorialità come modalità di testimonianza costituiscono un’etica del servizio. Morteo chiede all’artista di praticare la comunicazione della moltitudine, e invita il pubblico a vivere questa nuova esperienza. Come esplorato di seguito, l’idea di una molteplicità di voci riaffiora nel teatro di narrazione, come pure riaffiora un simile appello al pubblico perché accolga questi numerosi punti di vista.
12In molte delle pagine successive, Morteo insiste sull’importanza del lavoro di gruppo, e conclude che “il carattere collettivo è un segno distintivo dell’animazione, uno dei principali elementi che la contrappongono al modo di concepire la partecipazione all’avvenimento artistico (e in senso lato culturale) oggi prevalente.”6 All’epoca in cui stava studiando questo testo, Curino partecipava alla fondazione di Teatro Settimo, la compagnia con cui nel decennio successivo ha concepito e interpretato decine di testi prima di creare Passione. Curino ha preso il consiglio di Morteo alla lettera e ha fatto teatro in maniera collaborativa con una compagnia di artisti il cui teatro era frenetico e fisico, spesso capace di coinvolgere grandi cast in grado di seguire i loro impulsi e improvvisare movimenti e gesti in vista di uno scopo collettivo. Un decennio dopo, quando in Passione racconta la storia della propria giovinezza, riflettendo su cosa avesse significato crescere nel Nord industriale e più nello specifico nella città di Settimo Torinese, Curino opera da solista, sviluppando questi concetti di pluralità in una drammaturgia più sofisticata che agisce in modo meno letterale.
13Per i narratori, l’uso dell’autobiografia – che spingono nella sfera di un’auto-etnografia, come esplora la prossima sezione – diventa un modo per dialogare con altri in interazioni immaginarie, ed esplora lo spirito della pluralità. Combina anche la responsabilità civile dell’intellettuale con gli imperativi drammatici di uno storyteller. I narratori utilizzano la propria soggettività per equilibrare la delicata neutralità del loro lavoro con l’implicita decisione di trasmettere nuovi punti di vista, ma si astengono dall’avallare qualsiasi posizione politica assoluta. Tale freno definisce i termini del loro lavoro culturale, reinserendo il servizio nella responsabilità civile. Non fanno proselitismo. Se l’esperienza culturale è fatta per incorporare una sinfonia cacofonica di punti di vista, come l’ha descritta Morteo, allora è anche un’esperienza in cui non c’è una singola esperienza migliore delle altre.
14In alcune occasioni, i narratori sfumano i confini del genere interpretando testi di altri autori, ma in uno stile di performance solista che rimanda al teatro di narrazione. Lella Costa getta luce in maniera affascinante sulle costruzioni di genere nella sua interpretazione del testo della grande attrice comica italiana Franca Valeri in La vedova Socrate (scritto e interpretato per la prima volta da Valeri nel 2003, quando aveva superato gli ottant’anni, e messo in scena da Costa nel luglio 2020, appena prima del centesimo compleanno di Valeri; fig. 4). Costa, questa volta tramite Valeri, incarna la tristemente famosa moglie bisbetica di Socrate, Santippe, con compassione e intelligenza, ipotizzando che tale reputazione fosse infondata e ingiusta, e mettendo implicitamente in discussione il modo in cui vengono giudicate le donne, soprattutto in relazione ai loro mariti.
15I narratori non sono completamente imparziali perché sono consapevoli del motivo per cui le loro storie sono importanti oggi. Non stanno solo narrando dei fatti, ma stanno anche comunicando la persistente importanza di essi attraverso un punto di vista critico7. Mentre mettono in risalto eventi che la storia ufficiale ha represso, contribuendo a contestualizzarne l’importanza per il pubblico, c’è un giudizio implicito secondo il quale la società sarebbe migliore se ascoltasse queste altre voci. Alcuni critici hanno esplicitamente definito teatro civile varie produzioni dallo spiccato tono giornalistico investigativo, come nel caso di Vajont di Paolini, ma da questo punto di vista tutto il teatro di narrazione è teatro civile, perché chiede agli spettatori di impegnarsi attivamente nella creazione di una società composta dal maggior numero possibile di punti di vista, e non solo da quello di un’élite ristretta.
16Quest’idea di teatro civile affiora in altri teatri del reale e in rappresentazioni che combattono con il passato. Nella sua prefazione all’edizione inglese di Corpo di stato, lo studioso del teatro Ron Jenkins paragona il lavoro di Baliani a quello di Spalding Gray, in particolare a Swimming to Cambodia di Gray, sulla sua esperienza durante le riprese del film Urla del silenzio (1984). Per Jenkins risuona molto la definizione che Gray dà di se stesso come “cronista poetico”, nel senso che mette l’accento non sui fatti ma piuttosto su come metabolizzarli una volta che si siano stratificati nel tempo8. Così, Rokem concepisce gli attori che interpretano figure o eventi storici come degli “iper-storici” che incarnano fisicamente sia il passato, sia il processo creativo del presente9. Queste descrizioni si adattano anche al lavoro dei narratori che, analogamente, trattano tensioni tra eventi storici documentati, memoria e invenzione. Ma il lavoro dell’operatore culturale ha una portata maggiore.
17Un compito importante per l’operatore culturale è la sua funzione di collegamento con alcuni dei temi cruciali in cui si dibatte la società. Nel teatro di narrazione sono presenti, sia nella forma che nei contenuti, concetti intellettuali che venivano dibattuti con folle in rivolta. La decentralizzazione e redistribuzione dell’autorità, ad esempio, erano diventati cardini centrali nelle rivolte operaie che fin dal 1962 assunsero la forma di proteste violente in una delle maggiori piazze di Torino, piazza Statuto10. I testi Olivetti di Curino ne sono forse l’esempio più evidente, poiché entrambi trattano del lavoro in fabbrica e degli industriali, indagando la possibilità di una fabbrica che fosse ampiamente in mano agli operai. Anche se Curino non critica la famiglia Olivetti, narra la sua storia in maniera sovversiva soprattutto attraverso le due matriarche, Elvira Sacerdoti, madre dell’ingegnere Camillo Olivetti, fondatore dell’azienda, e Luisa Revel, sua moglie e madre di Adriano Olivetti, il quale sviluppò ulteriormente l’azienda. Sacerdoti e Revel erano così sconosciute che fu proprio Curino a portare avanti la ricerca che alla fine stabilì la grafia corretta del cognome Sacerdoti (e non Sacerdote).
18Incorporare queste due donne e ascoltare da loro la storia leggendaria degli Olivetti è un esempio delle modalità con cui i narratori includono le posizioni della gente comune nei loro spettacoli. È anche una scelta formale coerente con l’idea di decentrare (in questo caso Camillo e Adriano Olivetti) e redistribuire l’autorità (a Sacerdoti e Revel). I testi teatrali Olivetti esemplificano i metodi sofisticati e affinati ad arte con cui il teatro di narrazione affronta temi che sono stati di vitale importanza nei lunghi anni Settanta, ma nelle pièce scritte in precedenza c’erano state più aperte dimostrazioni di attivismo. Nei primi anni di Curino con Teatro Settimo, il gruppo occupava spazi pubblici trasformandoli in spazi di rappresentazione e svolgeva azioni che riflettevano la violenza cui assisteva, ad esempio distruggere e incendiare una macchina, come nello spettacolo Esercizi sulla tavola di Mendeleev (1984).
19Quest’ampia concezione del narratore che intraprende azioni di giustizia sociale non solo persegue i punti di sovrapposizione tra il teatro e l’attivismo dal palcoscenico, ma descrive anche la teatralità delle proteste, dilaganti nella società italiana degli anni Settanta. Una delle principali forze di opposizione in quegli anni fu il proliferare delle controculture, ossia gruppi radicali che decentralizzavano il potere11. Gli attivisti impiegavano comportamenti teatrali in forme complesse, come dimostra il rapporto tra studenti e operai: invece di mettere in scena forme di protesta a carattere teatrale (ad es., con costumi, accessori e copioni), studenti e operai delle fabbriche furono attratti dal personaggio che ciascuno di essi rappresentava, al di là delle problematiche sociali. Entrambi i gruppi cominciarono a trasferire la propria identità uno sull’altro, cercando di alterare certi modi di considerarli da parte della società. Generalizzando, gli studenti avevano idee utopiche di comunità nelle fabbriche scaturiti da modelli maoisti, cosa che, in alcuni, portò a fantasie marxiste di rivolta12. Le implicazioni performative di questo ideale maoista, in cui gli studenti vivevano una fantasia di rivolta operaia, segnalano la teatralità come pratica di vita in quegli anni.
20Jean Baudrillard suggerisce un’interpretazione diversa quando afferma che le tentazioni esibizionistiche dei terroristi intorno alla cattura di Moro non fossero molto dissimili da quelle dei politici dell’establishment13. Secondo lui, quei funzionari eletti e quei rivoluzionari extraparlamentari erano tutti coinvolti in una pratica di rappresentazione tesa a influenzare l’opinione pubblica. La studiosa di letteratura Jennifer Burns ha osservato che molti scrittori e intellettuali di rilievo del XX secolo hanno reagito al terrorismo degli anni Settanta come a un esagerato evento immaginario, come se fosse una storia di fantasia14. Questi anni, così densi di battaglie per il progresso sociale, mescolarono in maniera bizzarra i confini della creatività e della politica come una strategia non solo per interpretare i movimenti sociali ma anche per esercitarsi a esistere al loro interno.
21Tornando agli studenti e agli operai, dal suo personale coinvolgimento con collettivi di orientamento marxista Portelli ha osservato che mentre i movimenti giovanili radicali di quel decennio hanno contribuito a cambiare la percezione della cultura della classe operaia, la maggior parte dei giovani istruiti rifiutava ancora di essere identificata con le classi operaie. Molti studenti universitari preferivano identificarsi e riunirsi in gruppi formati da “giovani” piuttosto che con gruppi di operai15. Da un lato, gli studenti e gli operai erano uniti, ma dall’altro, erano antitetici. Queste due osservazioni così diverse sui comportamenti di questi gruppi rivelano le direzioni estremamente variegate degli anni Settanta. Questi estremi dimostrano la necessità di un risultato dialettico per armonizzare le polarità e creare qualcosa a partire dalla loro attrazione reciproca, che è esattamente quello che i narratori hanno trovato nella loro concezione di operatore culturale.
22L’idea di impegno politico è fondamentale per la definizione dell’intellettuale italiano, in particolare dagli anni Sessanta fino a tutti gli anni Ottanta. Certamente molti teorici, filosofi e artisti italiani hanno riflettuto su cosa significhi essere un intellettuale, come si vede chiaramente negli scritti di Antonio Gramsci e Norberto Bobbio fino a Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini. Come osserva lo studioso di letteratura Vincenzo Binetti, dopo il fascismo e la guerra, sembrava probabile che gli intellettuali di sinistra sarebbero assurti al compito di rivalutare la società tramite la cultura. Essere un intellettuale nel clima del dopoguerra significava essere un ambasciatore o un interprete culturale piuttosto che un ideologo16. Eppure nella seconda metà del secolo il ruolo dell’intellettuale si è caricato di insidie. Binetti afferma che il sistema mass-mediatizzato e la crescita inarrestabile della tecnologia abbiano imposto un irreversibile processo di alienazione che problematizza il ruolo dell’intellettuale nella società. Non esistono più gli intellettuali del dopoguerra con la loro funzione di coscienza morale di una nazione, giudici supremi degli sviluppi storici e custodi appassionati dei diritti civili17. Binetti utilizza un tono elegiaco, ma è anche vero che questa potrebbe essere una deriva positiva in quanto segnala una disseminazione democratica del potenziale intellettuale. Molte persone impegnate nei movimenti sociali hanno riflettuto, hanno messo in discussione questi argomenti e alla fine hanno forgiato il ruolo dell’intellettuale nella società italiana.
23Il rapporto fra studenti e famosi intellettuali, spesso controverso e conflittuale, riflette anche il cambiamento evidenziato da Binetti. È stato un passaggio non privo di tensioni, perché gli studenti consideravano gli intellettuali gente che viveva in modo compiacente all’interno del sistema borghese. Molti intellettuali, invece, aspiravano a sostenere gli studenti, convinti dalle loro richieste di trasformazione di alcuni aspetti dell’esperienza universitaria, e si unirono alle loro cause tramite le varie sfaccettature della produzione artistica e della propaganda18. Uno dei cardini principali delle rivolte studentesche degli anni Settanta verteva sul desiderio di un sistema che rispondesse maggiormente alle esigenze ed esperienze sociali degli studenti, piuttosto che un’istituzione in cui frequentavano una scuola e “ricevevano” conoscenza attraverso pompose lezioni19. Gli studenti, e in seguito i narratori, volevano cambiare un sistema che presupponeva una mera ottemperanza all’autorità. Volevano un maggiore controllo sulla pratica dell’acquisizione della conoscenza, che avrebbe distribuito potere in maniera più equa all’interno del sistema educativo.
24Anche se erano passati vent’anni e più dall’apice dei moti studenteschi e delle università occupate, Tracce di Baliani del 1996 è un’impresa provocatoria che offre un esempio sia della grande creatività con cui può operare il teatro di narrazione, sia di come i narratori possano riutilizzare concetti intellettuali complessi, in questo caso addirittura un testo filosofico, e renderli accessibili su vasta scala. Prendendo ispirazione dal brano di Tracce in cui Ernst Bloch suggerisce “in breve, è bene pensare anche affabulando,” Baliani concepì un intero spettacolo a imitazione dello stile associativo di Bloch, che è esattamente il suo esercizio di pensiero tradotto in forma testuale e performativa20. Nel suo racconto tridimensionale in forma libera, che cambia radicalmente da una rappresentazione all’altra, Baliani opera per privilegiare l’idea stessa di narrazione, del parlare e dell’ascoltare, meditando in una linea di pensiero joyciana sulla potenza delle storie. A volte recita poesie, come a voler esprimere la bellezza che può trasmettere una poesia letta ad alta voce. In forma brechtiana, ma anche con una modalità che coinvolge gli spettatori, Baliani apre lo spettacolo non solo narrando il contenuto ma descrivendo quello che sta accadendo in scena. Nelle prime righe dice: “Mi piace iniziare facendo risuonare nel buio la mia voce che dice una poesia.” Conclude la pièce nello stesso modo, con una descrizione delle proprie azioni e una poesia. “Ora vi lascio […] e mentre dico la poesia le luci piano piano se ne vanno, finché si fa tutto buio intorno a noi”. E così comincia il suo estratto da Rilke (mentre apre con Dylan Thomas)21. Questo testo rappresenta il teatro di narrazione in una delle sue forme più sperimentali e dimostra quanto i narratori siano attratti dal materiale intellettuale e da come renderlo accessibile su vasta scala.
Una etnografia di sé stessi: il terreno personale degli eventi pubblici
25L’ambiente politico e intellettuale che circondava i narratori della prima generazione nei loro primi anni stimolò la creazione di comunità e lo scambio di idee, ma la cornice teatrale da cui erano attratti, che offriva un’esperienza incarnata sia per l’interprete sia per il pubblico, esigeva dai narratori la ricerca di un metodo che implicasse una consapevolezza fisica a completare l’aspetto intellettuale e polemico della loro pratica. Da questa esigenza di un punto fisico centrale emerge una pratica di auto-etnografia. L’origine di questo termine in relazione con il teatro di narrazione si trova in alcuni degli ultimi scritti dell’antropologo Victor Turner sul concetto di esperienza. In un volume curato a quattro mani con Turner, Edward M. Bruner attribuisce al concetto di esperienza (Erlebnis, ovvero ciò che si è vissuto) del sociologo della fine del XIX secolo Wilhelm Dilthey l’ispirazione per l’idea di Turner di un’antropologia dell’esperienza22. Chiarendo il rapporto tra antropologia ed esperienza, Bruner afferma che gli antropologi tentano di comprendere il mondo attraverso il “soggetto che fa esperienza”, cercando una prospettiva interiore23. Per molti narratori, il tentativo di condividere il mondo di quei soggetti, di raccontare le loro storie, comincia prima da se stessi attraverso la riflessione su ciò che hanno vissuto, e su come usare le proprie esperienze per percorrere un viaggio in comunione con i loro soggetti di studio.
26I narratori promuovono l’idea che il recupero storico in definitiva sia un procedimento interattivo. Come tale, uno dei modi più a portata di mano per poter sperimentare il mondo dei loro soggetti è tramite un metodo di immersione, come fa un etnografo. Ricalibrano quindi il fuoco della loro indagine in modo da esaminare prima se stessi, invece degli altri, in un ambiente specifico. Quando ad esempio in Vajont Paolini comincia il racconto della costruzione della diga e della frana, apre con un’analisi di ciò che la diga ha significato per lui come ragazzo del Nord-est. Quando Curino racconta la storia di Camillo Olivetti, la prima sezione rievoca ciò che la fabbrica Olivetti ha significato per la sua crescita nel Nord industriale. Quando Davide Enia narra l’omicidio di due giudici siciliani che cercavano di fermare la mafia, ambienta la scena al tavolo della cucina di casa sua a Palermo con i genitori, quando avevano appena appreso la notizia.
27Collegata con l’autobiografia, l’autoetnografia comunica una contestualizzazione degli ambienti culturali e un rigore critico più profondi. I testi auto-etnografici implicano la “riflessione culturale” come opposizione al “puramente personale”24. La pratica offre una vasta analisi socioculturale attraverso il racconto personale25. Nel teatro di narrazione, l’aspetto auto-etnografico è presente anche nel modo di fare pedagogia del narratore. Questa tecnica verte su un procedimento di pensiero. L’antropologa Barbara Myerhoff spiega che l’auto-riflessione è utile alle persone per avere una migliore comprensione di se stesse:
Uno dei modi più persistenti ma più elusivi che le persone hanno per capire se stesse è mostrare se stesse a se stesse, in molteplici forme: raccontandosi storie; drammatizzando richieste in rituali e altre messe in scena collettive; rendendo visibili verità effettive e ambite su se stessi e il significato della propria esistenza in spettacoli performativi e di fantasia.26
28I narratori prendono queste stesse tecniche e le utilizzano non solo per conoscere se stessi, ma anche per conoscere intimamente un evento pubblico in relazione agli altri. Attraverso le proprie storie, e il ri-raccontarle, i narratori guidano gli spettatori alla ricerca di una migliore comprensione di se stessi in relazione gli uni con gli altri e con le loro storie condivise.
29Corpo di stato di Baliani e Passione di Curino presentano due diversi modi di interpretare un’auto-etnografia. Baliani affronta il suo ruolo come quello di uno studente in un periodo di violente proteste studentesche e presenta un modo di pensare che anche le persone del pubblico possano imitare. Rivisita il periodo prima e dopo i suoi vent’anni negli anni Settanta, quando era un contestatore attivo nei molti movimenti che sfidavano lo status quo, mostrando che lui, in quanto studente di sinistra, aveva dovuto fare i conti emotivamente con due eventi cruciali del decennio: il rapimento e l’omicidio del presidente del Consiglio Aldo Moro e l’assassinio di Peppino Impastato a opera della mafia27. Per quasi tutto lo spettacolo Baliani è in piedi in proscenio e si rivolge direttamente al pubblico, sedendosi ogni tanto su una panca in momenti di silenzio in cui proietta fotografie in bianco e nero che mostrano varie proteste e scontri con la polizia. Il testo di Baliani è un allestimento visivo che ricorda il montaggio cinematografico, in quanto cuce insieme diversi ricordi del suo passato più rivoluzionario con un registro carico ed emozionante.
30Passione è il grande omaggio di Curino alla sua città adottiva di Settimo Torinese, che presenta attraverso i suoi occhi di bambina che si è appena trasferita lì da Torino per via del lavoro del padre come impiegato della Fiat. Quasi tutto in prima persona – per quanto presenti molti personaggi, comprese le donne pettegole della sua città che da piccola la intimidivano e al tempo stesso la affascinavano, e altre donne inventate in testi scritti con Teatro Settimo – in esso Curino rievoca la sua storia personale come tramite attraverso il quale esplorare e capire meglio un’identità nazionale in una società che si andava rapidamente industrializzando e in mezzo a una costellazione di culture regionali sempre più variegata. Passione contiene il complesso stratificarsi di molte influenze poiché nella sua memoria Curino comprime il tempo in un esame del suo passato con una prospettiva a lungo termine. Presenta un’interpretazione variegata, infestata di varie persone della sua vita, reali e immaginarie, e con riferimenti ai libri di Pasolini, Goethe e Allende, creando l’atmosfera per un complesso intrecciarsi non solo di un passato privato, ma anche di un passato culturale condiviso da molti.
31La concezione di cultura di Victor Turner come un’incontrollabile pluralità incapace di contenere significato rispecchia la spiegazione di Morteo, ma Turner aggiunse anche che le persone sono agenti attivi nel processo storico28. Uno dei vantaggi delle etnografie di sé stessi che i narratori mettono in atto è il fatto che il metodo esige che essi riconoscano le tensioni intrinseche ai loro tentativi di fornire un racconto più autentico, da parte delle persone, a proposito di particolari momenti o luoghi. Baliani confessa che una delle sue numerose reazioni iniziali al rapimento di Moro non fu la rabbia o la tristezza, ma l’euforia. Curino ride degli ambienti squallidi che caratterizzano parte della sua infanzia, mentre anche lei si guarda indietro con rimorso. Il fatto che i narratori incorporino esperienze personali sottolinea il gioco di specchi dell’essere soggetto e oggetto, intervistato e intervistatore, in dialogo con sé stessi tanto quanto con gli altri.
Corpo di stato di Baliani
32Il testo di Baliani racchiude sia le morti di Impastato e Moro sia la tensione politica della fine degli anni Settanta dal punto di vista dei movimenti studenteschi che occuparono le università italiane, in particolare La Sapienza di Roma. Descrive gli eventi più importanti che hanno definito i primi anni della sua vita adulta, come quella di tanti in quel periodo. Nella miriade di teorie del complotto e misteri che circondano la morte di Moro, Baliani ammette chiaramente che non gli interessa scoprire ciò che davvero si verificò. Vuole invece affrontare ciò che stava accadendo emotivamente a lui in quel periodo29. Una volta sviscerato il suo stato interiore, sarà in grado di capire gli eventi esterni più profondamente. Cambia rapidamente registro e passa a un registro privato, addirittura confessionale, in cui racconta al pubblico i conflitti interni che questi eventi traumatici fecero emergere. Segnala al pubblico che sta per rivelare una cosa molto delicata:
Lo so che potrei raccontare tutt’altro, non ci vuole molto, col senno di poi potrei dire che all’annuncio della radio provai sdegno, che condannai immediatamente l’azione delle Brigate rosse. No, non è vero, non andò così.30
33Baliani sta mostrando al pubblico che può scegliere cosa dire e come costruire quella narrazione dei suoi sentimenti più intimi. Potrebbe fare finta con il pubblico, e forse addirittura con sé stesso, che si sentì in un certo modo, un modo che il pubblico considererebbe prontamente stimabile, invece sceglie di ammettere qualcosa di più vicino alla verità, anche se potrà risultare poco elegante. Risconosce chiaramente che quando gli arrivò la notizia del rapimento “provai un senso di esaltazione.” Sebbene si difenda dicendo che non aveva mai approvato i metodi estremi delle Brigate Rosse, in ogni caso ammette con coraggio questa reazione iniziale, domandandosi come e perché abbia provato un senso di euforia per il rapimento come se lui appartenesse alla causa.
34In un certo senso, apparteneva alla causa, e il testo verte ampiamente sulla scoperta di cosa significhi quell’“appartenenza”. Quest’atto di auto-individuazione mostra che il narratore lavora con il pubblico per suscitare domande sull’appartenenza delle loro storie all’interno di altre storie e nelle storie degli altri. Baliani si è domandato come abbia potuto partecipare alle proteste cariche di tensione di quei giorni e allo stesso tempo essere contrario a quest’atto contro Moro, uomo-simbolo della negoziazione e del compromesso. Come può Baliani partecipare alla violenza senza riconoscere la propria complicità quando quella violenza degenera? Baliani non sa rispondere a queste domande, ma ponendosele dimostra che una sola persona, nella sua solitaria singolarità, può affrontare eventi che hanno riguardato molti.
35Nell’interpretare un’etnografia di se stesso, Baliani (fig. 5) dipana lentamente la sua storia in una serie di ampie riflessioni in cui si pone una serie di domande che poi lo ispirano a fare collegamenti con nomi più pubblici. Questa è la sua transizione dalle domande nella sua mente a come esse lo portino alle più note situazioni dell’epoca.
Ma come si era arrivati a tutto questo? Com’era successo che amici, compagni di gruppo, di corteo, improvvisamente s’erano messi a parlare di armi…? Che si doveva fare se sparavano lacrimogeni ad altezza d’uomo nei cortei? Non avevano ammazzato così Francesco Lo Russo a Bologna? E Giorgiana Masi a Roma, a ponte Garibaldi…? Che dovevamo fare? Quand’è che lo scontro s’era fatto pesante, senza più controllo, quando?31
36Nominare Lorusso e Masi richiama alla memoria due contestatori che furono uccisi nelle manifestazioni. Con un’allusione audace, Baliani fa riferimento alla “strategia della tensione” quando ricorda la polizia in borghese che provocava la folla in modo da poter usare la forza per reprimerla32. In mezzo a questa confusione, al caos e alla tensione generale che in ultima analisi era nell’aria, Baliani insinua che furono i poliziotti stessi a creare una situazione in cui sarebbero stati assolti per le morti dei contestatori. Le storie di Lorusso e Masi si trasformano da due contestatori che furono uccisi a due contestatori che furono adescati in un clima pericoloso dalla polizia, che poi li uccise.
37Tale importante spostamento di prospettiva è possibile solo grazie alle tecniche etnografiche utilizzate da Baliani. Questo momento ha delle affinità metodologiche con ciò che gli antropologi culturali e gli etnografi chiamano “osservazione partecipante”, in cui gli studiosi prendono parte all’esperienza che stanno analizzando nel momento stesso in cui la osservano. Qui l’ingresso di Baliani in una riflessione su Lorusso e Masi avviene attraverso la sua personale esperienza di essersi trovato in mezzo a una protesta. Come spiega Bruner: “L’antropologia dell’esperienza si occupa di come gli individui fanno davvero esperienza della propria cultura, ovvero di come gli eventi sono recepiti dalla coscienza”, comprese le proprie emozioni e aspettative nei confronti di questi eventi33. Per quanto riguarda i narratori, il loro metodo è riflessivo, mentre l’antropologo prende appunti nel presente. Sebbene il ricorso alla memoria possa sembrare problematico, perché può segnalare inesattezze e invenzioni, Turner osserva che “da un punto di vista strutturale, è irrilevante se il passato è ‘reale’ o ‘mitico’, ‘morale’ o ‘amorale’. Quel che conta è se dall’incontro esistenziale all’interno di una soggettività di ciò che abbiamo derivato da precedenti strutture o unità di esperienza sia in rapporto vivo con la nuova esperienza”34. Queste idee sono in sintonia con Certeau, White, Jenkins e altri storici che hanno elaborato teorie sulla vitalità che si manifesta tra storia e immaginazione. Anche Bruner sostiene questo punto di vista, osservando che “non c’è un significato stabilito nel passato, perché ad ogni nuovo racconto il contesto varia, il pubblico è diverso, la storia viene modificata”35. Questo è ancora più vero nel teatro di narrazione, in cui i narratori costantemente ri-raccontano storie una sera dopo l’altra con pubblici diversi, e tuttavia la loro storia personale, pur variando leggermente tra una rappresentazione e l’altra, serve a radicarli.
38Il metodo di permettere a un’etnografia di se stessi di condurre a un’etnografia di altri viene complicato non solo dalla memoria ma anche dal fatto che rappresentare le esperienze di altri è un’impresa difficile e controversa, non priva di conseguenze. Nel suo lavoro sull’etnografia dello spettacolo, D. Soyini Madison evidenzia la necessità di discutere il posizionamento di coloro che rappresentano altri e di fare attenzione allo slittamento nella soggettività:
Il posizionamento etnografico non è identico alla soggettività. La soggettività è sicuramente nell’ambito del posizionamento, ma il posizionamento esige che dirigiamo l’attenzione oltre il nostro io individuale o soggettivo. Invece, dobbiamo occuparci di come la nostra soggettività in relazione agli altri caratterizzi e sia caratterizzata dal nostro coinvolgimento e dalla nostra rappresentazione di altri. Non siamo semplicemente soggetti, siamo soggetti in dialogo con altri.36
39Nello spirito dell’operatore culturale, i narratori in definitiva vogliono spostare la storia dalla loro personale a quella degli altri, ma cominciando dalla loro si posizionano come insider. Non sono ricercatori di università lontane che arrivano a studiare piccole popolazioni e poi se ne vanno. I narratori lavorano da casa.
40In Corpo di stato, Baliani passa più di un terzo di tutto lo spettacolo a parlare di tre personaggi ispirati a persone che ha conosciuto a diversi gradi di intimità. Per molti versi erano solo normali cittadini, ma avevano convinzioni forti e hanno pagato il prezzo dell’impegno politico e delle loro azioni incisive alla fine degli anni Settanta. Azioni non straordinarie, ma che costarono loro un prezzo molto alto. I tre uomini, a ciascuno dei quali è dedicata una parte dello spettacolo, si chiamavano Giorgio, Riccardo e Armando. Giorgio aveva qualche anno in meno di Baliani e di molti altri contestatori navigati, che avevano più di vent’anni. Quando alcuni di questi gruppi cominciavano a virare verso un’azione più ostile e violenta, i più giovani, dice Baliani, spesso sentivano di avere qualcosa da dimostrare. Nel 1977, Giorgio e alcuni altri furono catturati dalla polizia dopo un tentativo di rapina in banca. Sebbene fosse disarmato, Giorgio aveva messo la mano in tasca per prendere la carta d’identità e uno dei poliziotti – probabilmente giovane come Giorgio, ipotizza Baliani – gli aveva sparato e lo aveva ucciso. Mentre Baliani spiega cos’è successo a Giorgio, racconta anche molti momenti intimi, come guardare una fotografia di Giorgio in cui qualcuno gli ha infilato la mano dietro la testa di nascosto, mettendogli le orecchie da coniglio. Il suo obiettivo è sempre quello di umanizzare le persone nei suoi ricordi, compreso se stesso, trasformandole in individui normali con cui molti si possano mettere in relazione.
41La situazione di Armando è particolarmente sconvolgente per Baliani, che la usa per costruire un mondo riflessivo di domande a posteriori: Cosa avrebbe fatto lui se si fosse trovato in una situazione simile? Dopo aver rinunciato a quasi tutte le affiliazioni politiche a gruppi divenuti sempre più violenti, nel 1978 Armando aveva moglie e una figlia piccola e passava la maggior parte del tempo a lavorare in ospedale. Una sera una vecchia amica aveva suonato alla porta e lo aveva pregato di nascondere un pacco che aveva con sé. La moglie di Armando non era in casa, e alla fine lui aveva ceduto alle suppliche dell’amica, senza dire alla moglie cos’era successo. Passati due giorni in cui l’amica sarebbe dovuta tornare a prendere il pacco, alla fine, il terzo giorno, il palazzo era stato circondato dalla polizia che lo aveva trovato: dentro c’era un’arma. Armando si era ritrovato con una condanna a tre anni di prigione. La moglie, che Baliani sostiene non lo abbia mai perdonato, ha trascorso anche lei tre mesi in prigione cercando di dimostrare di essere completamente all’oscuro.
42Questi ricordi delle visite in prigione ad Armando, e della sua storia sfortunata, suscitano in Baliani molte emozioni contrastanti, dal senso di colpa alla riconoscenza e perfino alla paranoia. Si domanda che cosa farebbe se una bella donna della sua gioventù che aveva un ruolo di spicco nei gruppi rivoluzionari, e su cui aveva sempre cercato (senza successo) di fare colpo, un giorno si presentasse a casa sua a chiedere lo stesso favore. Baliani descrive Armando come una persona buona, che quando la lotta è diventata violenta le ha voltato le spalle, che è diventato un padre di famiglia e poi, forse per nostalgia, o forse per nessuna vera ragione, ha preso una decisione sbagliata e ne ha subìto le conseguenze. In parte Baliani sta chiedendo al pubblico: Come si fa a fare un passo indietro e rendersi conto che le cose sono andate troppo oltre quando si è nel bel mezzo di qualcosa? L’uso dei suoi personali conflitti emotivi legati alle storie dei suoi amici riduce la distanza tra sé e il pubblico, dato che le domande riflessive e i giochi di ruolo sono azioni familiari.
43Interpretando quei comportamenti come parte dello spettacolo, Baliani sollecita lo spettatore a fare lo stesso e, così facendo, a condividere le esperienze di Armando. Come ha specificato Richard Schechner: “Ogni cosa immaginabile è stata, o può essere, vissuta come vera mediante la rappresentazione. E questo, come ha detto Turner, avviene immaginando – grazie alla recitazione e all’interpretazione – che siano messe al mondo nuove realtà. Il che vuol dire che non c’è nessuna finzione, solo una realtà non realizzata”37. Questo ipotetico regno dell’immaginazione incide non solo su come Baliani o gli spettatori raccontano storie di eventi che hanno vissuto, ma anche su come raccontano quelle storie che poi diventano parte della Storia. La capacità di mettersi in una relazione intima con l’esperienza degli altri, di vedere quelle esperienze dal proprio punto di vista e chiedersi come ci si sarebbe comportati, dimostra una grande empatia che guida la storiografia degli eventi specifici di cui si occupano questi testi teatrali.
Passione di Curino
44Nella sua critica delle piccole città del Nord industriale, Curino offre un esempio multidimensionale dell’osservatore partecipante che esige una consapevolezza del posizionamento particolarmente elevata. Verso la fine della pièce, Curino ricorda la sera in cui una vicina di casa la portò a vedere Mistero buffo (1968) di Dario Fo e Franca Rame. La penultima scena di Passione è una giovane Curino in veste di spettatrice, tra il pubblico, poco prima dell’inizio di quella particolare rappresentazione. È un momento di virtuosismo che include dialetti meridionali, espressioni colloquiali e pennellate di spagnolo. Curino ricorda che la gente della cittadina di Settimo Torinese aveva inondato tutta la piazza, piena di gioiosa energia, e che mariti, mogli e amanti aspettavano allegramente tutti insieme l’evento. “Tu ridi, ridi che il cuore ti va via, vola, e tu non sai più dov’è questo cuore…” racconta38. Con il suo ricordo personale come base, Curino descrive la messa in scena locale nella piccola città come un momento liberatorio per molti, a Settimo39.
45Guardando il pubblico mentre interpreta Passione (fig. 6), Curino ricostruisce un momento in cui stava guardando un altro pubblico, all’epoca in cui era una ragazza che, parte del pubblico lei stessa, assisteva allo spettacolo di Fo e Rame. Di tutti i particolari che potrebbe aver ritenuto Curino raccoglie la risata gioiosa che condivide sia con quel pubblico del passato, sia con il pubblico che ha davanti a sé in quel momento, in una osservazione partecipante stratificata. Cavalcando il tempo, si rivolge a entrambi questi gruppi direttamente con il tu, confondendoli intenzionalmente: uno per come lo ricorda, l’altro per com’è davanti a lei. Poi si sgancia dal ricordo per rivolgersi agli spettatori che ha davanti e dire quanto vorrebbe che potessero essere stati lì anche loro. In quel desiderio, c’è il monito che il pubblico non saprà mai da sé, ma solo grazie alla sua guida, come ci si era sentiti a partecipare a quello spettacolo in mezzo a quel pubblico di gente di Settimo Torinese all’inizio degli anni Settanta; eppure anche il pubblico presente partecipa al suo spettacolo nel momento presente, dal momento che gli spettatori la ascoltano.
46Curino complica ulteriormente il suo posizionamento quando procede nella rievocazione della visita di Fo e Rame con un vero ritratto del monologo di Rame della Passione di Maria davanti alla croce da Mistero buffo. La pièce di Curino esprime una capacità di fratturarsi nel tempo e nello spazio coerentemente con la teoria del sociologo Erving Goffman per cui esistono cornici con funzione di confini che orientano la gente verso una comprensione collettiva di norme comportamentali40. Goffman indica un sé che si adatta a seconda della cornice in cui si esiste, ma Curino in queste ultime scene dimostra che le dinamiche del sé possono esistere anche in un’unica cornice. Ci sono diversi filoni sovversivi nell’abile spostamento delle cornici creato da Curino, a partire dal fatto di stratificare lo spazio della rappresentazione della periferia di Torino dopo la guerra sovrapponendola a quella in cui si trova lei in quel momento, fino al fatto di mettere in crisi non solo la pratica tradizionale del teatro ma anche quella dello storytelling, oscillando tra i suoi personaggi e se stessa. Inoltre, l’argomento stesso della scena di Maria sposta drasticamente l’attenzione da Gesù alla madre. La pratica di Curino gioca con le costruzioni della memoria (ciò che lei ricorda dell’interpretazione di Rame) e mette in discussione ciò che nella storia andrebbe ricordato (ciò che lei, Curino, ha deciso che valga la pena raccontare al pubblico). Nel caso di Rame, Curino riscrive la storia di una rappresentazione che comprende un pubblico variegato proveniente dalla classe operaia ma anche, ed era ora, un pubblico che consente a Rame di condividere un riflettore che è quasi sempre puntato su Fo.
47Curino attribuisce il merito al monologo di Rame da Mistero buffo, che offre un punto di vista femminista sul rituale cattolico della Passione che sconfina nel sacrilego (e secondo la Chiesa sicuramente lo era), di averle fatto desiderare di dedicarsi al teatro. Mentre guarda morire lentamente Gesù, Maria impreca e insulta selvaggiamente le guardie romane, e alla fine cerca di corromperle affinché le lascino tamponare il corpo sanguinante del figlio. Con un richiamo alla rivoluzionaria teoria femminista degli anni Settanta che tiene conto del linguaggio e dell’écriture feminine, il monologo di Rame è scritto segnatamente in una lingua arcaica a metà tra il latino e un dialetto meridionale, che la porta a fare affidamento su un linguaggio di comunicazione esperienziale. Dopo il rifiuto delle guardie, Maria condanna prima di tutto l’angelo Gabriele per averle fatto visita. Nella sofferenza atroce di assistere alla morte cruenta di Gesù, vorrebbe che il figlio non fosse mai nato. Questo ritratto di Maria si allontana di gran lunga dalla santa paziente e comprensiva che ha accettato il suo destino e ha riconosciuto l’onore del proprio ruolo nella vita di Gesù. Maria è un essere umano che piange, un genitore impotente, una combattente con l’unico obiettivo di continuare a protestare fino alla fine amara.
48La presenza stessa di Rame e di Curino come artiste donne sole in scena introduce in questa versione di Maria una storia implicita di resistenza. Come hanno scritto le studiose-interpreti Lynn C. Miller e Jacqueline Taylor, l’autobiografia delle donne nella rappresentazione deve scontrarsi con il “soggetto universale” disincarnato, tradizionalmente maschile, che vincola moltissimi al ruolo di “altri” privati di voce o di fisicità41. Stratificate sull’interpretazione pubblica della Maria di Rame, le rievocazioni private di Curino dimostrano sia l’importanza del suo ricordo, sia la costante rilevanza politica di attruibuire a Maria la voce potente che le ha dato Rame. Ryan Claycomb rivendica la reciprocità intrinseca nel teatro femminista, dove rappresentare in teatro la vita vera dimostra fino a che punto la vita vera è teatrale. Claycomb aggiunge che questa azione autobiografica sfida le strutture culturali che definiscono e continuano a rafforzare le norme di genere42. Curino rende onore alla Maria di Rame come una figura rappresentativa del coraggio e della resistenza delle donne in condizioni di estrema costrizione e minaccia fisica (qui da parte dei soldati romani). Allo stesso tempo, incarna anche le passioni intellettuali e creative di un’artista donna con un progetto ampiamente indipendente, che presenta il suo lavoro in uno spazio per tali individui tradizionalmente inospitale.
49Presentando diversi aspetti di sé, Curino e Baliani accolgono un posizionamento di vulnerabilità. Quelle che Miller e Taylor, Claycomb, e Heddon hanno segnalato come tecniche per un teatro femminista sono applicabili a tutto il teatro di narrazione, che risponde alla loro definizione di una metodologia femminista. Per citare ancora Miller e Taylor, l’autobiografia “rivendica, celebra e complica la costruzione del sé femminile”43. Nel caso di Curino, quando ricorda l’interpretazione di Rame e ne presenta la sua personale versione, corregge il passato creando uno spazio per le donne artiste della scena. Mentre invece Baliani crea uno spazio di rievocazione per la gente comune, in cui “rivendica, celebra e complica” quegli individui che hanno sacrificato la vita per incidere sul cambiamento della società. Muovendosi tra storytelling, recitazione, rievocazione privata e storie condivise, Curino e Baliani reinventano la cornice goffmaniana trasformandola in uno spazio capace di contenere una molteplicità di diversi sé. Per Curino questa è una scelta di genere, ma questa tecnica suggerisce anche un posizionamento ribelle, che indica che il teatro di narrazione può essere veicolo di controversia ideologica.
50Essere la voce solitaria in scena, caricata della responsabilità di offrire una rilevazione storica più dinamica tramite specifici punti di vista, comporta il rischio che si sviluppi una dinamica di potere in sinergia con il gesto più magnanimo di dare voce ad altri. La capacità di spostare i punti di vista che emerge da un impulso di auto-riflessione contestualizzata insieme allo spirito pluralistico del teatro di narrazione è in contrasto con le implicazioni autoritarie di un singolo individuo in scena. I narratori potranno anche sforzarsi di promuovere la gente comune e il valore di una narrazione critica, ma come autori e attori si trovano in una posizione di potere. Questo dipende dal mezzo di espressione che hanno scelto e somiglia a simili dilemmi affrontati dagli etnografi.
51Un modo che i narratori hanno per correggere o almeno controllare la propria autorità è semplicemente questa auto-consapevolezza nello spirito di Ginzburg, che quando conduceva una ricerca ammetteva la propria soggettività. Un altro modo di lavorare in questa dinamica è praticare un’auto-etnografia in sinergia con la ricerca etnografica. Madison sostiene che “l’etnografo critico ci porta anche sotto le apparenze di superficie, altera lo status quo e sconvolge sia la neutralità che le ipotesi date per scontate portando alla luce latenti e oscure operazioni di potere e di controllo”44. Craig Gingrich-Philbrook è d’accordo, e riformula l’auto-etnografia trasformandola da metodo a orientamento. Lo studioso ipotizza che l’auto-etnografia si sia sviluppata dal bisogno “di segnalare il momento in cui gli etnografi si interrogavano sulla loro partecipazione alla dominazione dell’altro attraverso il proprio regime culturale di verità”45. L’idea di includere se stessi come modo per controllare la propria autorità prende atto di una dinamica impari, e aiuta i narratori a richiamare l’attenzione su quella realtà invece di fingere che non esista.
52In Corpo di stato, i piccoli fatti di tutti i giorni che racconta Baliani, come andare in giro in macchina con la sua compagna e il figlio o godersi una giornata al mare con gli amici, indicano uno spostamento epistemologico di prospettiva perché affrontano un materiale che fino a quel momento non aveva pertinenza con la Storia scritta dai borghesi e che non sarebbe stato riconosciuto come portatore di alcun valore morale, estetico, politico o storico. L’attenzione al micro-livello del quotidiano mette in atto un processo di riscoperta non solo delle storie ignorate in precedenza, ma anche degli esiti disastrosi del conflitto e della lotta. Le conoscenze locali e regionali non riguardano solo gli eventi che sono stati ignorati. Corpo di stato lavora per ampliare la conoscenza delle esperienze nel processo per svelare queste battaglie, mentre al contempo dimostra l’ampio valore e le più grandi implicazioni storiche che possono essere contenute nelle istanze private colloquiali.
53I narratori esercitano anche l’obiettivo interpretativo specifico di rettificare le strutture di potere insite nel proprio lavoro. Mentre incoraggiano gli spettatori a pensare ai propri ricordi e alle proprie battaglie private, i narratori stanno riorganizzando le “strutture di conoscenza” del pubblico. Guccini e Marelli hanno scritto che dopo ogni narrazione la storia si dissolve in un residuo di segni resi nuovamente disponibili affinché qualcuno li interpreti, incoraggiando la memoria individuale a esercitare il suo oscuro potere di creazione46. Nel perseguire il procedimento di abbinare il personale con il pubblico, e nell’implicita implicazione che chiunque li ascolti possa fare lo stesso, i narratori evidenziano l’obiettivo implicito degli spettatori. Qui di nuovo si vede il volto dell’operatore culturale come colui che crea il potenziale per l’attivismo parallelamente al suo costante discorso nell’arte e nella critica.
Guardare all’esterno: Nati in casa di Giuliana Musso
54Le voci embricate nel teatro di narrazione hanno origine nel narratore, ma attraverso interviste e storie documentate passano rapidamente a prendere in considerazione le esperienze di altri, spesso utilizzando metodi di storia orale per costruire resoconti pluralistici del passato. La lente della teoria postmoderna, per cui il sé può essere sia stabile e lineare sia multiplo e frammentario, fornisce una metafora al narratore: nel teatro di narrazione il sé è una forza stabile e centrifuga da cui la storia si allontana per mescolarsi con le esperienze di altri, e a cui poi ritorna. I testi teatrali stabiliscono legami tra eventi, persone, idee e battaglie, e operano su registri molteplici per distillare un punto di vista che è difficile affrontare attraverso forme di riflessione più convenzionali. Se i narratori cominciano da se stessi, alla fine spostano la strategia etnografica per comprendere il mondo attraverso la lente di chi è loro vicino, e spesso questo centro di attenzione è il contenuto principale della rappresentazione. Oltre al fatto che muovono la narrazione verso la sua sequenza principale, questi spostamenti segnalano anche momenti cruciali della messa in scena interpretando l’interconnessione tra la storia privata di qualcuno e quella di un altro, e come insieme queste storie formino l’arazzo di una storia pubblica.
55Questa negoziazione tra storie plurali, che sono essenzialmente una raccolta di storie singole, esorta il pubblico a riflettere su come l’esperienza personale sfoci all’esterno, e sul fatto che riflettere sui collegamenti tra la propria esperienza e quella di altri costituisce il farsi della Storia. La Storia, dunque, è sempre una collezione vivente di voci a opera di molti autori. Come osserva Pollock: “Nessuna persona ‘è proprietaria’ di una storia. Ogni storia è inserita in una stratificazione di ricordi e altre storie. Ricordare è inevitabilmente un atto pubblico la cui politica è legata al rifiuto di essere isolati”47. I narratori mostrano questa titolarità congiunta quando includono altre voci nelle loro opere, con l’aiuto di pratiche di storia orale. Quando i narratori affrontano altri punti di vista nello sforzo di creare una storia multidimensionale, diventa evidente che molte storie non servono solo a chiarire aspetti del passato da quelle prospettive inedite fino a quel momento ma anche, cosa assai importante, a interpretare quegli eventi in modi sia personali che collettivi.
56Nati in casa di Giuliana Musso (rappresentato in repertorio a partire dal 2001) è un esempio sia di come si possa plasmare la Storia attraverso una molteplicità di esempi, sia dell’atto di interpretare quella storia e le sue implicazioni nel presente con l’aiuto delle testimonianze orali di persone comuni. Il testo, che fa parte della trilogia del “teatro d’inchiesta” di Musso, è una tessitura di storie di levatrici dell’inizio del XX secolo nell’Italia del Nord-est, la regione natale di Musso. Gli altri due testi sono Sexmachine (2005), per cui ha fatto ricerche e condotto interviste sulla prostituzione, e Tanti saluti (2008), sul modo in cui la società gestisce la morte e i moribondi. I temi di queste produzioni si muovono tra meditazioni sulla nascita fino al sesso e alla morte (in altre parole, i processi fondamentali della vita), e tuttavia esse sono spesso pensate come una trilogia, soprattutto per via dei metodi di ricerca di Musso, che fanno grande affidamento sulla raccolta di storie orali. Gli spettacoli successivi sono stati adattamenti di testi in poesia e prosa trasformati in drammaturgie teatrali, ma poi a metà degli anni 2010 Musso è tornata a simili metodi di ricerca con Mio eroe (2016), basato su testimonianze di madri di soldati italiani caduti nella guerra condotta dalla Nato in Afghanistan contro i Talebani e al-Quaeda (2001-2014). Nel 2017 Musso ha vinto il prestigioso premio Hystrio alla drammaturgia per più di sette diversi testi ma, pur avendo esplorato anche altre modalità di scrittura, la sua ricerca rigorosa di storie orali è l’ambito in cui riceve maggiori riconoscimenti. Come ha dichiarato il critico Roberto Canziani, se non fosse un’attrice di così grande talento, sarebbe stata una formidabile giornalista per la capacità di fondere indagine rigorosa e pathos nei problemi di tutti i giorni che la società spesso trascura48. Questo potrebbe costituire un mantra per tutti i narratori.
57Nata nel 1970 a Vicenza, provincia del Nord-est, e spostatasi in seguito ancora più a est, a Udine, a soli trenta chilometri dal confine con la Slovenia, Musso ha subito l’influenza di antiche tradizioni regionali del teatro italiano fisico basato sull’attore, e il suo stile artistico somiglia a quello delle compagnie itineranti nello stile della commedia dell’arte. È magistrale nell’improvvisazione e tecnicamente geniale nella precisione del gesto fisico, che può essere sia ampio ed elastico, come quello di Dario Fo, sia minimo e discreto. Quella direttiva fisica si estende alla sua estensione vocale nel tono e negli accenti, che Musso utilizza nelle sue messe in scena per creare molteplici personaggi. Anche se alcuni critici la associano all’altro narratore del Nord-est, Marco Paolini, e pur avendo studiato in laboratori di membri di Teatro Settimo tra cui Laura Curino, Mariella Fabbris e Gabriele Vacis, la sua discendenza artistica deriva da quelle compagnie itineranti che spesso interagivano con il pubblico secondo i loro sketch o i loro copioni. Nati in casa ha debuttato nel 2001, ma è stato solo all’inizio degli anni 2010 che i critici hanno cominciato a celebrare Musso come uno dei grandi narratori.
58Musso porta la pratica in diverse direzioni, soprattutto con più dense sequenze di monologo oltre al tipico stile interattivo della narrazione uno a uno, che impiega in Nati in casa. Nelle sue opere successive la presenza del narratore diventa sempre più discreta, assumendo forme diverse. Il choreopoem d’apertura messo in musica in Sexmachine, e i clown con gli occhiali da sole, che rappresentano la morte e al tempo stesso sono essi stessi cronaca della morte in Tanti saluti, sono incarnazioni sperimentali del narratore in messe in scena che per lo più prediligono personaggi o rappresentazioni di personaggi (come con i clown). Nati in casa (fig. 7) è la produzione radicata in maniera più convincente nelle tradizioni del teatro di narrazione, tuttavia Musso apre anche qui lo spettacolo con un grande monologo, di frastornante effetto. Con un costume da donna incinta che poi si toglierà, interpreta una donna che affronta il travaglio. In una sequenza comica di battute con voce stridula a ritmo serrato, questa donna descrive le sue angosce e dice di essere molto sollevata all’idea di partorire in ospedale, viste tutte le complicazioni che possono insorgere. Accelerando il ritmo, descrive le conversazioni iniziali mentre si ricovera e si sistema. Poi rallenta quando l’infermiera che le piaceva se ne va perché ha finito il turno, il dottore le rompe le acque e il personale medico si sforza in maniera calcolata di strapparle il controllo. C’è una squadra di persone a osservarla, le somministrano un’epidurale (“Come in America!”, esclama con una risata nervosa), e all’improvviso non sa quando spingere, cosa fare e ha perso quasi ogni sensazione del proprio corpo.
59A questo punto, a quindici minuti dall’inizio, il pubblico sente una voce calma e raccolta, a metà tra quel personaggio e Musso stessa, che chiede più volte: “Come facevano le donne prima…?”. Questo è il primo momento chiave di transizione tra un personaggio contemporaneo inventato, Musso stessa, e la sequenza successiva, che risponde alla sua domanda. Grazie alla sua ricerca e alle sue interviste alle levatrici, Musso racconta le loro storie e le storie di donne che da queste sono state aiutate nel travaglio. Originariamente, la Pro Loco (associazione sponsorizzata dalla Regione per promuovere la cultura locale) della cittadina di San Leonardo Valcellina, vicino Pordenone nella regione del Nord-est del Friuli Venezia Giulia, aveva commissionato al regista Massimo Somaglino la creazione di un testo teatrale che celebrasse la loro ostetrica locale, Maria, che aveva aiutato a nascere generazioni di bambini della città. Lui aveva passato il progetto a Musso, che aveva fatto il grosso della ricerca, delle interviste e della scrittura. Queste pratiche di indagine storica in sé costituiscono molto del significato più ampio di questa specifica messa in scena, e in generale del teatro di narrazione, perché dimostrano la ricchezza contenuta nelle microstorie. Mettono l’umano – e in questo caso non la scienza e la tecnica del parto – al centro della scena, nominando individui veri e forgiando una narrazione fortemente mediata dalle storie orali.
60L’idea stessa di posizionare l’umano sul palcoscenico in maniera frontale e centrale condivide fondamenti filosofici con il processo della storia orale, che sostituisce i resoconti documentati con quelli portati alla fruizione solo grazie alla voce di un altro essere umano. Divenuta molto popolare nel corso degli anni Sessanta e Settanta, la storia orale è un metodo associato principalmente agli storici sociali perché essi conducono la “storia dal basso”, con persone marginalizzate come gli individui appartenenti alla classe operaia, le minoranze razziali e le donne. Offre scorci di esperienze che in generale sono difficili da rintracciare, ma con il lavoro di Luisa Passerini, Alessandro Portelli e altri l’attenzione si è spostata dalle narrazioni vere e proprie alle soggettività e ai processi culturali49. Per Passerini, le imprecisioni, come il ricordo distorto di un evento, si leggono come lapsus freudiani che cionondimeno forniscono significati chiave. La storica Joan W. Scott descrive il modello Passerini:
[Passerini] utilizza le interviste non per raccogliere fatti, non per chiarire cosa è successo o non è successo nel passato, ma per esplorare i modi in cui si negozia il rapporto tra privato e pubblico, personale e politico. È questo negoziato a produrre l’identità, il senso di appartenenza a una collettività… La memoria, suggerisce Passerini, sostiene l’identità tramite la sua invocazione di una storia comune.50
61Scott prosegue spiegando che per Passerini uno degli aspetti più preziosi della storia orale è ciò che resta sottinteso. La storica legge analiticamente le pause, le esitazioni e le discrepanze dei suoi intervistati, fornendo uno spaccato della complessità della loro soggettività. Questa idea del sottinteso condivide una base teorica con il lavoro d’indagine dei rappresentanti della microstoria e con il paradigma indiziario, che affronta le lacune delle registrazioni storiche. Invece di portare lo storico a nuove scoperte, nella storia orale le scoperte sono proprio le cesure.
62Musso utilizza le interviste nello stesso modo: non per raccogliere fatti ma per creare una memoria collettiva basata sulla storia personale di un individuo. Come facevano le donne a partorire prima? Prima degli ospedali, prima delle strade asfaltate, prima dei telefoni e prima di un assalto di interventi medici che ha tolto alla madre naturale ogni capacità di azione? Dal suo calmo e pensoso interrogarsi, Musso comincia a spostare dolcemente il corpo da una parte all’altra, descrivendo una città rurale nel cuore della notte, e trasformandosi in una levatrice che sta andando in bicicletta – con il campanello a destra del manubrio e una borsa di pelle a sinistra – su per una ripida collina prima di arrivare a casa di Rosina, una donna in travaglio. Quando arriva, Musso descrive sia la sorella piccola di Rosina, l’esuberante quattordicenne Rosetta che darà una mano nel travaglio della sorella, sia la levatrice. Musso dà alla loro conversazione una sfumatura di dialetto friulano, che conferisce alla storia un sapore più antico e regionale. Poi scivola di nuovo in un narratore più vicino a lei, facendo riferimento al procedimento delle interviste come preparazione alla messa in scena. Guardando direttamente il pubblico, annuncia:
Tutte le ostetriche condotte di una volta, quando le incontri, come prima cosa ti vogliono raccontare delle loro corse in giro, a tutte le ore, con tutti i mezzi necessari, ma più spesso a piedi o in bicicletta, e poi magari con la bici in spalla in salita, oppure su le cotole, con le gambe dentro al fango fino al ginocchio.51
63Nel corso del testo, Musso trasmette la forza fisica delle levatrici, e la loro dedizione fisica ed emotiva nel sostenere altre donne nei loro momenti di intensa forza fisica ed emotiva. Nati in casa non è solamente una pièce che rende più forti e consapevoli. Riscrive tanto la Storia quanto la narrazione attuale della nascita, giustapponendo la scena d’apertura di nervosismo e in definitiva di impotenza di una madre di oggi in un ospedale a numerosi aneddoti di spazi incentrati sulle donne, basati su ricordi di donne, in cui esse avevano una più piena partecipazione alla nascita dei loro figli.
64Questi abili spostamenti tra i personaggi e il narratore come ricercatore che conduce le interviste mostrano il modo in cui le persone comuni, lei compresa, hanno il potenziale per creare narrazioni storiche di vasta scala. La chiave è nell’ascolto. Per prima, Musso ha dovuto ascoltare, e poi è stata la volta del pubblico. Anche se Musso non riconosce la gerarchia insita nel fatto di essere l’osservatrice di queste storie, scegliendo quali raccontare e come trasmetterle, aggiungendo e sottraendo, inventando a sua discrezione, nondimeno dimostra che è possibile costruire una più ampia narrazione storica intrecciando quelle individuali. Pollock sottolinea il carattere drammatico di queste metodologie di ricerca:
Nella misura in cui è un processo di fare storia nel dialogo, la storia orale è performativa. È co-creativa, co-incarnata, espressamente inquadrata, contestualmente e intersoggettivamente contingente, sensuale, vitale, artistica nel suo ottenere la forma narrativa, il significato e l’etica, e capace di insistere nel fare attraverso il dire, sull’investire il presente e il futuro con il passato, ri-contrassegnare la storia con soggettività precedentemente escluse, e sfidare gli ambiti convenzionali della conoscenza storica con altri modi di conoscere.52
65Oltre ad attribuire importanza ai soggetti reali di Nati in casa (le neo-mamme, le levatrici, e Musso stessa), la presenza della storia orale nel teatro di narrazione porta a un’epistemologia con interessi nella storiografia stessa. La storia orale può creare Storia attraverso il dialogo, ma il teatro di narrazione dimostra che la storia e gli altri elementi necessari per farlo (dall’interpretazione creativa alla testimonianza documentaria) sono intrinsecamente performativi.
66Il pubblico, e la sua responsabilità nell’esperienza del fare Storia attraverso la narrazione, è una componente vitale del teatro di narrazione. Pollock sostiene che quando le storie orali compaiono in scena, rivelano “la portata e la responsabilità insita nell’assistere alla storia di qualcun altro” e dimostrano che le storie sono esperienze incarnate e vissute che forniscono “uno spazio per le complessità delle concettualizzazioni autoctone o vernacolari dell’esperienza”53. Musso tratta quanto ha appreso dagli altri con un’inequivocabile venerazione molto drammatizzata dal disegno luci della pièce, che la illumina al centro con un riflettore o la immerge nel blu, associandola a Maria e al miracolo che ha segnato la nascita del cattolicesimo. Spesso Musso fa anche riferimento al Nord-est raccontando queste storie, specie con l’accento e il dialetto, ma anche con riferimenti al paesaggio della regione. Anzitutto, Musso dimostra che l’atto di rappresentare queste storie davanti a un pubblico è parte di ciò che compone una storia generale, una narrazione unica, una Storia che consiste di storie individuali.
67Se la scelta di Musso di non riflettere sulle problematiche della soggettività o almeno riconoscerle può sembrare positivistica, altri narratori hanno parlato più apertamente dell’argomento e hanno lavorato schiettamente sulle proprie esitazioni. Considerando gli elementi che possono alterare il punto di vista, quando Celestini ha riflettuto sui meccanismi in gioco nello storytelling, ha osservato che la memoria orale avviene in un determinato momento del presente, anche se sempre legato al passato. Per lui, la memoria fa talmente parte del presente che ricordare eventi specifici cambierà o cancellerà parti del passato54. Quest’idea riconosce che il problema insito nella rievocazione di un ricordo è che pur se gli intervistati possono voler condividere le loro esperienze, tuttavia censurano e reprimono a caso diversi aspetti di un evento perché non sono pienamente consapevoli o capaci di articolare una visione che vada al di là della propria soggettività.
68Questa struttura è anche evidente nei tentativi di Baliani di prendere in considerazione punti di vista diversi dal suo in Corpo di stato, compreso quello dei rapitori. Li immagina nel momento in cui hanno sparato a Moro e lo hanno ucciso: “Quello che ha sparato per primo ha premuto con forza il grilletto? Avrebbe potuto in quel momento fermarsi, non farlo? Oppure no, oppure è sempre così, che a quel punto del gioco le mani si muovono da sole, come fossero meccaniche?”55.
69Baliani ricostruisce un dramma psicologico di un’azione che ebbe conseguenze enormi su tutta una nazione, circoscrivendo quell’attenzione su una sola persona, domandandosi se, quando l’arma è stata alzata, Moro fosse già morto, o se c’era ancora un barlume di speranza. Ciò che è particolarmente rivelatore della pratica del teatro di narrazione è quanto dice subito dopo Baliani: “Eppure tremano, tremano! E allora bisogna farle diventare più forti, più dure, ci si fa di corazza, fino ad avere di fronte non più un uomo ma, soltanto una figura, una funzione di qualcosa, una cosa.”56. Baliani ha spostato il punto di vista su quello dei rapitori mentre confessano cosa è necessario fare per compiere questa impresa. Anche se Baliani sta solo immaginando la situazione e non sta citando da uno dei memoriali dei rapitori, sta comunque offrendo un certo tipo di esplorazione di persone indisponenti, rendendole più deboli, tremanti. Le umanizza descrivendole come persone comuni che tentano di misurarsi con una scelta morale, piuttosto che come ideologi senza sentimenti. Baliani va ben oltre la propria auto-etnografia, eppure la sua testimonianza della militanza in quegli anni in cui anche lui partecipava alla lotta gli consente di accedere a un’empatia che apre una finestra sulle esperienze di altri.
70In modo simile all’accettazione del presente di Celestini, Baliani sostiene che sia la soggettività che la capacità di riconoscerla siano utili vantaggi nella costruzione della storia. L’argomento di Celestini riguarda il rapporto tra il presente e il proprio punto di vista proveniente dal presente. Ciò che influenza i ricordi del passato non è solo il presente, ma il punto di vista che il presente offre. Portelli condivide questa idea, portandola in una direzione leggermente diversa quando introduce le possibilità di ricordare male e di immaginare nel rievocare il passato; i narratori affrontano questo secondo caso quando costruiscono i dettagli delle loro scene. Forse le mani dei rapitori tremavano. Forse ci fu un momento di esitazione, forse no. Quello che Baliani mostra, anzi interpreta, è proprio il meccanismo che fa fronte a questi eventi pubblici: l’empatia. Nata dalle proprie esperienze, l’empatia gli permette di riflettere e di comprendere l’esperienza degli altri in modo personale. Trafficando con la sua empatia e flirtando con quella altrui, Baliani dimostra la prossimità del rapporto tra pubblico e privato. In questo esempio sta dicendo che forse, per poter uccidere Moro, i rapitori lo hanno dovuto spogliare del suo status di leader della nazione, perfino di essere umano, e pensarlo come un’entità priva di valore. Di fatto, hanno dovuto arginare la loro empatia.
71Varie tendenze intellettuali degli anni Settanta riaffiorano anche in queste composite molteplicità di storie orali. Anche Passerini intuisce queste associazioni. In una delle sue prime opere, fa un collegamento esplicito tra soggettività, autobiografia, oralità e Storia, e poi collega l’insieme di questi quattro elementi all’impatto degli eventi che accaddero dal 1968 fino a tutti gli anni Ottanta – i lunghi anni Settanta. Dà il merito al movimento delle donne di aver reso rilevanti le narrazioni personali in pubblico e sulle piattaforme politiche. Riconosce anche ai movimenti studenteschi post-1968 di aver tentato di creare un soggetto storico basato su condizioni quotidiane che affermava un doppio diritto: essere nella Storia e avere una storia57. Mentre descrive il procedimento della narrazione autobiografica come mezzo per riconoscere la soggettività di ciascuno, parla della necessità di un’alternanza tra narrazione autobiografica e posizioni oggettive, e aggiunge che tramite questi scambi ha luogo un diverso tipo di scoperta di sé58.
72Le riflessioni di Passerini mostrano parallelismi notevoli con il teatro di narrazione perché in esso collidono gli stessi elementi di soggettività, autobiografia, oralità e storia. Il teatro di narrazione si preoccupa meno, però, dei diversi sé che può rivelare l’intersoggettività, e più della effettiva rappresentazione di come questi molteplici sé vengano vicendevolmente riplasmati attraverso la loro giustapposizione e interazione. Presentando diversi punti di vista, una delle funzioni del narratore è dare forma drammatica al legame tra chi sta ricordando e ciò che si sta ricordando. In Nati in casa, è la stratificazione dell’esperienza etnografica di Musso come intervistatrice e come rappresentante del Nord-est, che quindi conosce bene il paesaggio e può intimamente immaginare di inerpicarsi su per le colline e nelle cittadine infangate in primavera, insieme alle storie delle levatrici che ricordano i loro viaggi, i loro ricordi di esperienze di nascite specifiche, è questo avanti e indietro a permetterle di realizzare una visione ad ampio raggio. Musso destabilizza il racconto muovendosi tra vari personaggi, eppure è nell’accumulo di queste storie, nell’intrecciarle facendo ricorso ai personaggi, che rintraccia una storia condivisa. Qui espone una caratteristica che risuona in tutto il teatro di narrazione: il fatto che incorporando queste esperienze, i narratori dimostrano di avere un diritto all’esistenza nella Storia, e che questo diritto si estende a tutte le persone tra il pubblico, e a tutte le persone intervistate. Questa valorizzazione congiunta di esperienze individuali crea la possibilità di memorie collettive costantemente rivisitate.
73I narratori giocano con un sistema che costruisce un rapporto tra interprete e pubblico il quale o imita i rapporti dei narratori con se stessi oppure si espande dalla loro auto-consapevolezza etnografica. In una delle sue più celebri metafore teatrali, Erving Goffman spiega il sé pubblico e privato descrivendo il comportamento di una persona come una dicotomia tra il dietro le quinte o l’essere in scena. Il comportamento in scena ha a che fare con i vari condizionamenti che una persona subisce per apparire in un certo modo in presenza di altri, mentre il sé dietro le quinte non si comporta secondo le percezioni, ma agisce di sua volontà in modo informale59. Questa metafora anticipa la consapevolezza secondo la quale una persona decide da sola come comportarsi in base al pubblico, ma quando il pubblico non c’è fa come gli pare. Goffman non considera mai il sé un pubblico. Nel teatro di narrazione, quando i narratori raccontano le proprie storie personali, quando discutono dei loro procedimenti di ricerca, quando si avvalgono delle storie degli altri, costruiscono dei passati e il loro comportamento in quei passati, sia per se stessi che per il loro pubblico. La capacità di azione è una rappresentazione dietro le quinte con un comportamento in scena.
74Verso la fine di Nati in casa, Musso sembra concludere mettendo alla fine del testo il parto di Rosina nella sua casa in cima alla collina. La prima levatrice, che il pubblico incontra all’inizio della rappresentazione mentre viaggia in bicicletta per andare da Rosina, ha affrontato con lei il travaglio per tutta la notte, e ora il bambino è pronto ad arrivare. Dopo la scena della nascita, Musso dà le spalle al pubblico e fa qualche passo verso il fondo del palcoscenico, sollecitando gli spettatori ad applaudire perché si aspettano che lei si giri e venga a inchinarsi. Ma quando si volta, viene alla ribalta con una mezza risata e, fuori dal personaggio, dice: “Mi dispiace deludervi, la creatura è nata, ma lo spettacolo non è finito. Ci sono ancora un sacco di cose importanti da fare, e dobbiamo farle tutti insieme”60. In questo esempio, che è messo in scena, è presente nel copione ed è del tutto intenzionale, Musso opera con una molteplicità di relazioni, compresa quella tra sé e la gente di cui sta parlando, come pure la gente a cui sta parlando, e soprattutto la gente con cui sta parlando: come puntualizza, questo è un lavoro che bisogna fare insieme. In un altro esempio, Musso rievoca un dettaglio comune raccontato nelle interviste alle levatrici – quelle lunghe pedalate nella campagna alpina solo per arrivare dalla donna in travaglio – e in un altro esempio ancora sta dicendo al pubblico che anche loro sono parte di questa narrazione, che c’è ancora tanto che devono fare con lei. La sua risata può sembrare un lampo di comportamento dietro le quinte, ma è una rappresentazione intenzionale di questo comportamento, che serve a dimostrare la capacità di azione – una capacità di azione che è sia la sua sia quella che spera di condividere con il pubblico.
75In una scena finale con i suoi personaggi, Musso torna alla nascita del figlio di Rosina: Rosetta (la sorella piccola) segue la levatrice in giro per casa con gli occhi scintillanti e le chiede con grande ammirazione della sua professione. In modo un po’ impertinente, sfida la levatrice, la provoca: “Però se [il bambino] non riusciva a nascere chiamavamo il medico”? Domanda a cui la levatrice risponde fredda: “Sì, certo, ma come vedi non è servito”.
rosetta: No… ma quanti sono i bambini che non riescono a nascere?
levatrice: Rosetta, ma quante domande fai! Non lo so… Pochi. Pochissimi.
rosetta: Ma esattamente quanto pochi?
76Nel ruolo della levatrice, Musso fa una smorfia e una lunga pausa come per dire: “Non ho proprio idea del perché siano così pochi”, ma invece di rispondere nel ruolo della levatrice, si sposta improvvisamente più vicina a se stessa e dice impassibile: “Il trentasette virgola sei per cento. Oggi, nei nostri ospedali italiani, il 37,6% dei bambini non riesce a nascere. Ossia non nasce attraverso il parto vaginale come quello di Rosina bensì attraverso il fatidico taglio cesareo”61. Ecco il lavoro che Musso ha ancora bisogno che il pubblico faccia con lei: riflettere su questo. Paragonare le storie che il pubblico ha appena ascoltato alla realtà di oggi, ricordando quel primo personaggio che ha aperto lo spettacolo. Poi gli spettatori potranno decidere da soli come dovrebbe continuare questa storia.
77Anche se tutta la messa in scena celebra un mondo che mette al centro donne capaci, è questo il momento che risuona come più attivista o apertamente politico. Musso continua a raccontare la storia di Rosetta, il fatto che da grande è diventata un’ostetrica e che lavora in uno dei più grandi ospedali del Nord-est. Il personaggio di Rosetta e le sue esperienze si basano su varie levatrici che hanno raccontato a Musso storie di parti in casa e in ospedale. Nella produzione, Musso utilizza l’invenzione di Rosetta anche per puntellare le sue argomentazioni con dati statistici, affermando che secondo “Rosetta”, nel 1985 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che in nessuna parte del mondo c’era alcuna ragione valida perché ci fosse un tasso di parti cesarei più alto del 15 per cento. In questa sequenza – il momento più nudo della messa in scena, il più teatralmente ridotto all’osso con il disegno luci più semplice – Musso non interpreta alcun personaggio, ma guarda gli spettatori come in una conversazione, lasciandoli con domande da affrontare ognuno per conto suo. Eppure c’è una resa di grande precisione in modo che sembri offrire un’intimità “da dietro le quinte” che i suoi monologhi alla ribalta non potrebbero mai dare. Musso parla anche di Rosetta come se fosse una delle sue intervistate, mentre in realtà l’ha creata sulla base di parecchie interviste. Anche questa penultima sezione ha un ritmo molto serrato. Musso non indugia su questi estratti di informazione. Attribuisce a Rosetta il merito di averli condivisi con lei e li lascia agli spettatori perché ci riflettano con calma e decidano da soli come affrontarli.
78Il pubblico ha ancora un altro compito che riguarda l’interpretare quello che ha visto sia in relazione alla propria vita sia in un contesto più ampio. Eugenio Barba complica le idee di Goffman quando spiega che lo sforzo di ricordare può creare piccole tensioni nell’esperienza che il pubblico fa di una messa in scena. Influenzato dagli esercizi psicologici della tecnica di recitazione di Stanislavskij nota come “metodo Stanislavskij”, Barba osserva che c’è una continua conversazione tra la presentazione di sé esterna dell’attore e la sua vita interiore, e che questo scambio, quest’ansia, può trasferirsi sullo spettatore62. Il pubblico assiste e fa esperienza di un meccanismo dialogico, un dibattito interiore, che lavora per portare avanti la storia in scena dal punto di vista narrativo. Guccini ha osservato questa caratteristica quando distingue tra la presentazione aperta, ossia la storia che in questo caso il narratore racconta, e una storia interiore che avviene simultaneamente nei punti con cui il narratore ha un particolare rapporto per via di elementi autobiografici63. Questo elemento autobiografico – che è più di un’etnografia di sé – si aggiunge alle tensioni latenti mentre il narratore si muove tra rievocazioni private e pubbliche. Imitando questa dualità, gli spettatori possono sia identificarsi con le esperienze del narratore, sia ricordare le proprie. Quando Musso parla del lavoro che deve ancora fare insieme al pubblico, si riferisce all’impresa di districare queste tensioni, o almeno alla capacità di analizzarle con chiarezza.
79In definitiva il narratore è una figura dinamica, una figura che aderisce a determinati codici mentre agisce anche in maniera originale e indipendente. I narratori hanno sufficiente libertà per fare scelte uniche e indipendenti, tuttavia hanno in comune influenze che agiscono sul loro pensiero e sui loro comportamenti. Il ruolo del narratore è fondamentalmente quello di guidare il pubblico in un viaggio che contempla una molteplicità di punti di vista. Lavorando con le proprie storie personali, e spesso con storie orali e interviste condotte in prima persona, i narratori percorrono le strade frammentarie in cui il passato si scompone e viene ricostruito in maniera imperfetta. Per i narratori, ricordare non fa il paio con dimenticare: al contrario, suggerisce che in precedenza ci sia stato un atto di smembramento, disgiungimento o scomposizione. Una forte presenza somatica sotto forma di interpretazione dà peso a ciò che è intangibile, come l’esperienza o la memoria. Mentre gli istanti si decompongono nel passato, mentre il tempo e lo spazio li alterano, vengono lasciati lì, sparsi e separati finché qualcuno (chiunque, e questo fa parte dell’argomentazione) li ri-corda tramite il ri-chiamarli alla memoria e ri-evocarli. Questo è in definitiva ciò che costituisce il lavoro del narratore come operatore culturale. Per ricordare un’esperienza, da rimettere insieme, i narratori la devono ricordare. La devono anche richiamare alla memoria, o nominare, in modo che risuoni con il presente. Nominare il ricordo gli ridà forma, e così il passato comincia a riaffiorare, anche se con alcune parti mancanti e altre esagerate. Basandosi sull’idea di un funzionario pubblico culturale, queste ricostruzioni hanno implicazioni politiche in quanto trovano rilevanza nel presente.
80Attraverso una portata intellettuale, un’etnografia di se stessi e infine da una molteplicità di punti di vista, i narratori travalicano l’esperienza personale per trovare il palcoscenico più ampio della storia recente dell’Italia. Mettono in atto un procedimento di identificazione stratificata con il pubblico oltre a una pratica dialogica, come se in scena ci fossero più persone e non solo il narratore. Questa dimensione dialogica assume una responsabilità civile quando Curino, Baliani e Musso evocano la storia subalterna della Torino del dopoguerra, della Roma degli anni Settanta e la storia recente del parto. Attribuiscono a se stessi e agli spettatori la responsabilità del ruolo di mantenere una storia inclusiva, incoraggiando il pubblico a intrecciare le proprie storie ed esperienze personali all’interno di una comune cornice storica. Accolgono lo spirito di quanto dice l’antropologo Edward M. Bruner quando ammette: “Le storie possono avere una fine, ma le storie non sono mai finite”64. Piuttosto, sono raccontate e ri-raccontate, e riconfigurate e ripensate. Quando le identità private affiorano all’interno di un contesto di condivisione pubblica, possono gettare nuova luce su eventi che nelle storie egemoniche erano stati distorti. Il lavoro culturale del narratore è mostrare al pubblico come riscrivere storie più inclusive che siano di ampia portata e al tempo stesso intensamente personali.
Notes de bas de page
1 Kevin Landis, Suzanne Macaulay, Cultural Performance: Ethnographic Approaches to Performance Studies, Palgrave Macmillan, London 2017, p. 38.
2 G. R. Morteo, A. Sagna, L’animazione come propedeutica al teatro cit., p. 5.
3 Laura Curino, Gabriele Vacis, Camillo Olivetti. Alle radici di un sogno, Edizioni di Comunità, Ivrea 2017, p. 11, in corsivo nell’originale.
4 G. R. Morteo, A. Sagna, L’animazione come propedeutica al teatro cit., p. 5.
5 Ivi, p. 6.
6 Ivi, p. 9.
7 O. Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano, 1975-1988 cit., p. 7.
8 Ronald Scott Jenkins, prefazione a M. Baliani, Body of State: The Moro Affair, a Nation Divided, trad. Nicoletta Marini-Maio, Ellen Victoria Nerenberg, Thomas Simpson, Fairleigh Dickinson University Press, Madison NJ 2012, p. ix.
9 F. Rokem, Performing History cit., p. 13.
10 L’influenza delle proteste operaie come potente motore di rivolta nel corso di quasi tutti gli anni Sessanta e Settanta, con l’autunno caldo del 1969 forse come apice, non si può sopravvalutare. In particolare, ebbe un’enorme influenza sia sul piano pratico, in termini di corpi che protestavano per strada, sia per i progressi filosofici del pensiero che ha ispirato in vari movimenti marxisti di sinistra, tra cui l’operaismo e l’autonomismo, che attrassero filosofi come Antonio Negri. Operai e capitale di Mario Tronti (Einaudi, Torino 1966) è stato particolarmente importante, come lo è stata la rivista che fondò con Raniero Panzieri e Romano Alquati (che in seguito scrisse delle critiche dell’azienda Olivetti), «Quaderni Rossi» e più avanti, da solo, la rivista «Classe Operaia».
11 David Forgacs, Italian Culture in the Industrial Era, 1880-1980: Cultural Industries, Politics, and the Public, Manchester University Press, Manchester 1990, p. 130.
12 R. Lumley, States of Emergency cit., pp. 112-115.
13 Jean Baudrillard, Fatal Strategies, trad. Philip Beitchman, W.G.J. Niesluchowski, Semiotexte/Pluto, London 1990.
14 Jennifer Burns, A Leaden Silence? Writers’ Responses to the anni di piombo, in A. Cento Bull, A. Giorgio (a cura di), Speaking Out and Silencing cit., p. 89. Per altri articoli sull’interpretazione della violenza che circondò Moro si veda P. Antonello, A. O’Leary, Imagining Terrorism cit.; Ruth Glynn, Giancarlo Lombardi, Remembering Aldo Moro: The Cultural Legacy of the 1978 Kidnapping and Murder, Legenda, London 2012.
15 Alessandro Portelli, The Battle of Valle Giulia: The Art of Dialogue in Oral History, University of Wisconsin Press, Madison 1997, pp. 232-233.
16 Ivi, pp. 362-363.
17 Vincenzo Binetti, Marginalità e appartenenza. La funzione dell’intellettuale tra sfera pubblica e privata nell’Italia del dopoguerra, «Italica», 74, n. 3 (1997), p. 360.
18 Monica Francioso, Impegno and Ali Baba: Celati, Calvino, and the Debate on Literature in the 1970s, «Italian Studies», 64, n. 1 (2009), pp. 109-110.
19 R. Lumley, States of Emergency cit., p. 63.
20 Ernst Bloch, Tracce. Apologhi, aneddoti, fiabe, leggende, romanzi riletti e trasfigurati tra narrazione e riflessione filosofica, trad.. Laura Boella, Garzanti, Milano 2006, p. 9.
21 Marco Baliani, Alessandra Ghiglione, Fabrizio Fiaschini, Marco Baliani: Racconti a teatro, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1998, pp. 37, 75.
22 Edward M. Bruner, Experience and Expressions, in Victor Witter Turner, Edward M. Bruner (a cura di), The Anthropology of Experience, University of Illinois Press, Urbana 1986, p. 3. Si può anche consultare il capitolo “Dewey, Dilthey e il drama” in Victor Turner, Antropologia dell’esperienza, il Mulino, Bologna 2014, pp. 149-165.
23 E. M. Bruner, Experience and Expressions cit., p. 9.
24 Craig Gingrich-Philbrook, Autoethnography’s Family Values: Easy Access to Compulsory Experiences, «Text and Performance Quarterly», 25, n. 4 (Ott. 2005), p. 299, https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.1080/10462930500362445.
25 Per una consultazione iniziale dell’ambito molto studiato dell’auto-etnografia, si veda Norman K. Denzin, Interpretive Autoethnography, 2a ed., Sage, London 2014, https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4135/9781506374697; Robin M. Boylorn, Mark P. Orbe, Carolyn Ellis, Critical Autoethnography: Intersecting Cultural Identities in Everyday Life, Left Coast Press, Walnut Creek CA 2013; Tami Spry, Performing Autoethnography: An Embodied Methodological Praxis, «Qualitative Inquiry», 7, n. 6 (2001), pp. 706-732, https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.1177/107780040100700605.
26 Barbara Myerhoff, ‘Life Not Death in Venice’: Its Second Life, in V. Witter Turner, E. M. Bruner (a cura di), The Anthropology of Experience cit., p. 261.
27 Giuseppe “Peppino” Impastato (1948-78, Cinisi, Palermo) è stato un attivista politico che ha combattuto contro la criminalità mafiosa locale siciliana con mezzi politici e culturali (come l’umiliazione pubblica alla radio) e ha lottato per i diritti dei contadini e dei disoccupati. È stato assassinato dalla Mafia lo stesso giorno in cui è stato ritrovato il corpo di Moro.
28 E. M. Bruner, Experience and Expressions cit., p. 12.
29 Marco Baliani, Corpo di stato: il delitto Moro, Rizzoli, Milano 2003, p. 17.
30 M. Baliani, Corpo di stato cit., p. 18.
31 Ivi, pp. 28-29.
32 La “strategia della tensione” fa riferimento ai modi con cui l’estrema destra, tra cui forse partiti che erano sia nel governo italiano, sia in governi stranieri come quello degli Stati Uniti, e che temevano le piattaforme di sinistra, ha manipolato e controllato il pubblico attraverso il panico e il terrore, soprattutto durante attentati come la bomba di piazza Fontana del 1969 a Milano.
33 E. M. Bruner, Experience and Expressions cit., p. 4.
34 V. Turner, “Dewey, Dilthey e il drama” cit., p. 153.
35 Edward M. Bruner, “Ethnography as Narrative”, in V. Witter Turner, E. M. Bruner (a cura di), The Anthropology of Experience cit., p. 153.
36 D. Soyini Madison, Critical Ethnography: Method, Ethics, and Performance, Sage, Thousand Oaks CA 2011, p. 10, in corsivo nell’originale.
37 Richard Schechner, Magnitudes of Performance, in V. Witter Turner, E. M. Bruner (a cura di), The Anthropology of Experience cit., p. 363.
38 Laura Curino, Roberto Tarasco, Gabriele Vacis, Passione, Interlinea, Novara 1998, p. 59.
39 Elementi di questa analisi vengono dalla revisione di un precedente articolo. Si veda Juliet F. Guzzetta, A Presentation of Herself: Laura Curino’s Passions in Everyday Life, «Spunti e Ricerche», 25 (2011), pp. 116-130.
40 Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna 1997.
41 Lynn C. Miller, Jacqueline Taylor, M. Heather Carver, Voices Made Flesh: Performing Women’s Autobiography, University of Wisconsin Press, Madison 2003, p. 4.
42 Ryan Claycomb, Lives in Play: Autobiography and Biography on the Feminist Stage, University of Michigan Press, Ann Arbor 2012, p. 2.
43 L. C. Miller, J. Taylor, M. H. Carver, Voices Made Flesh cit., p. 4.
44 D. S. Madison, Critical Ethnography cit., p. 5, in corsivo nell’originale.
45 C. Gingrich-Philbrook, Autoethnography’s Family Values cit., p. 299.
46 Gerardo Guccini, Michela Marelli, Stabat mater. Viaggio alle fonti del teatro di narrazione, Le Ariette Libri, Bologna 2004, p. 14.
47 Della Pollock, Remembering: Oral History Performance, Palgrave Macmillan, New York 2005, p. 5.
48 Roberto Canziani, Giuliana Musso, storie di provincia e vite qualunque, «Hystrio», n. 2 (2014), p. 52.
49 Martha Rose Beard, Re-Thinking Oral History – a Study of Narrative Performance, «Rethinking History», 21, n. 4 (Oct. 2, 2017), p. 531, https://doi .org/10.1080/13642529.2017.1333285.
50 Joan Wallach Scott, prefazione a Luisa Passerini (a cura di), Autobiography of a Generation: Italy, 1968, trad. Lisa Erdberg, University Press of New England, Hanover NH 1996, p. xii.
51 Giuliana Musso, Nati in casa, in Senza corpo: Voci dalla nuova scena italiana, a cura di Debora Pietrobono, Minimum fax, Roma 2009, p. 26.
52 D. Pollock, Remembering cit., p. 2, in corsivo nell’originale.
53 Ivi, p. 3.
54 Ascanio Celestini, Il vestito della festa: Dalla fonte orale a una possibile drammaturgia, «Prove di Drammaturgia», 2 (2003), p. 23.
55 M. Baliani, Corpo di stato cit., p. 13.
56 Ibid.
57 Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, La Nuova Italia, Firenze 1988.
58 Ivi, pp. 11-12.
59 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione cit.
60 G. Musso, Nati in casa cit., p. 48.
61 Ivi, pp. 49-50.
62 Eugenio Barba, An Amulet Made of Memory: The Significance of Exercises in the Actor’s Dramaturgy, «TDR», 41, n. 4 (1997), p. 130, http://0-www-jstor-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/stable/1146664. Per l’italiano, si veda: Eugenio Barba, Un amuleto fatto di memoria. Il significato degli esercizi nella drammaturgia dell’attore, in Drammaturgia dell’attore, a cura di Marco De Marinis, I quaderni del Battello Ebbro, Bologna 1997, pp. 11-18.
63 Gerardo Guccini, Racconti della memoria: Il teatro di Ascanio Celestini, «Prove di Drammaturgia», 2 (2003), pp. 20-21.
64 E. M. Bruner, Experience and Expressions cit., p. 17.
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