3. Tra cielo e terra. Ritualità, sacralità, miti e misteri dei Nativi americani
p. 144-189
Texte intégral
“America, tu eri un peso terribile sulle mie fragili spalle. A volte mi pareva di portarti, tutta intera, sulla schiena. Non sono mai stato capace di prenderti alla leggera, di scherzare con te…”
“La mitologia è bella, la religione contorta e brutta.”
(Emanuel Carnevali, Il primo dio, 1978)
3.1 Il Nord America dei Nativi: stereotipi, suggestioni e appropriazioni perduranti
1“Nessuno è del tutto indigeno; nessuno è semplicemente cresciuto dal suolo, sebbene alcuni resoconti dei Nativi americani sostengano che ciò è quanto di fatto accaduto. Ma la persistenza in un luogo […] è essa stessa una forma di indigenità1” (Wishart 2016: 1). Nel corso di questo capitolo proveremo ad avvicinarci al mondo dei Nativi americani che hanno vissuto, e tuttora vivono, nella parte settentrionale del continente Americano. Lo faremo tenendo conto che, per quanto non esistano popolazioni del tutto native, vi sono però genti che hanno dimorato in alcuni luoghi per un tempo così lungo da divenire, se non indigeni, almeno lo specchio dell’ambiente che hanno abitato, in virtù di una conoscenza profonda e complessa del territorio, in cui si possono riconoscere le tracce e i segni di dimensioni altre dell’esistenza direttamente proiettati sugli elementi ambientali. Un territorio legato a doppio filo con la vita economica, ecologica e simbolica di quelle genti, che ne hanno tracciato i contorni culturali. Un paesaggio e un ambiente che si riflettono nelle genti che lo hanno vissuto e viceversa, in un gioco di intrecci che rende ogni elemento imprescindibile l’uno dall’altro. Del resto, come ci ha ricordato più volte lo stesso Comba: la religione dei Nativi americani esiste solo in relazione al proprio ambiente e agli elementi del paesaggio. Dietro ogni attribuzione di significato al proprio habitat di vita si celano profondi e complessi meccanismi di costruzione della cultura.
La connessione tra sacralità, montagne e territorio è ampiamente diffusa tra le culture più diverse, tanto da presentarsi come un elemento costante e quasi universale. Tale ampia diffusione, tuttavia, rischia di mascherare, dietro l’apparente “naturalità” del fenomeno, i meccanismi specificatamente culturali che ne stanno alla base. Ben lungi dall’essere il semplice riflesso sulla mente umana di quelle caratteristiche spontanee e “naturali” che costituiscono l’essenza dei fenomeni orografici – l’altezza, la maestosità, l’imponenza – l’attribuzione di sacralità a un rilievo montano consiste in un meccanismo di creazione e costruzione culturale, attraverso il quale si attribuisce un significato simbolico a una parte del paesaggio che altrimenti non ne avrebbe alcuna (Comba 2006: 77).
Iniziando la marcia lungo i sentieri tracciati dagli stereotipi sui Nativi, che per anni hanno condizionato l’immaginario popolare legato agli Indiani d’America, proveremo a scoprire il mondo di coloro che nel nord dell’America hanno popolato quelle terre.
2Gli stereotipi non si producono in modo gratuito ma hanno spesso una loro origine in determinati processi storici a cui andrebbero ricondotti. Quando debitamente gestiti e resi funzionali alla conoscenza, fungono in parte da forma primaria di approccio alla diversità e come tutela dell’individuo durante il percorso di apprendimento dell’altro. Agiscono quotidianamente e sono difficili da cogliere con lucidità, nel momento in cui vi si è immersi e circondati. Alcuni dei tratteggi stereotipati di cui sono stati protagonisti in passato i Nativi americani, appaiono oggi ai nostri occhi ridicoli o banali, ponendoci in una posizione di autoassoluzione e di permeabilità al fenomeno, senza tener conto di quanto la distanza posta dallo sguardo storico su di un fenomeno agisca come agevolatore di riflessioni e tematizzazioni più equilibrate e intellettualmente oneste. Anche gli stereotipi positivi, non solo quelli negativi, quelli in cui l’altro non è percepito come inferiore o degradato, bensì idealizzato o enfatizzato, poggiano sulle fondamenta di visioni semplicistiche e sclerotizzate.
3Il “peccato originale”, se così vogliamo chiamarlo, in relazione agli stereotipi più diffusi e duraturi sugli Indiani d’America, che hanno percorso l’Occidente, va fatto risalire all’invenzione nel 1883 del Wild West Show ad opera di Buffalo Bill, all’anagrafe William Frederick Cody (1846-1917). Buffalo Bill fu il primo a pensare che i Nativi americani potessero essere oggetto di attenzione per un pubblico desideroso di avventura, mistero e passione. In tal modo egli fu l’artefice dell’origine di molte delle tradizioni più comunemente associate agli Indiani d’America che si sono riverberate poi nel cinema, nella letteratura, nei fumetti, in ambito pubblicitario e così via.2 Il tema portante dello spettacolo, con alcune immagini divenute classiche (l’inseguimento alla diligenza, l’attacco degli indiani ai carri, l’arrivo della cavalleria, ecc.), ha fatto sì che il Nativo americano finisse con l’essere comunemente identificato con l’Indiano delle Pianure: un guerriero a cavallo con il casco di penne. Un’immagine che non tiene conto delle diversità esistenti tra le culture native. La maggior parte delle comparse ingaggiate per il Wild West Show erano, di fatto, provenienti dalle popolazioni delle Pianure e vennero invitati a riprodurre negli spettacoli danze e cerimonie con lo scopo di attrarre l’attenzione del pubblico. Tali riproduzioni avvenivano, ovviamente, in modo semplificato e vennero rese più attraenti in favore del pubblico, anche grazie all’utilizzo di costumi sgargianti. Al grande pubblico dell’epoca erano quasi del tutto sconosciuti gli aspetti legati alla spiritualità dei Nativi e il pensiero diffuso era che determinate manifestazioni come danze e pratiche rituali fossero l’espressione di istinti primitivi, per quanto affascinanti. Anche il pubblico europeo ebbe modo di assistere alle esibizioni del Wild West Show, grazie al tour che Buffalo Bill e il suo spettacolo fecero nel Vecchio Mondo, venendo così a conoscenza e a contatto col mondo dei Nativi americani sull’onda di immagini precostituite.3
4In Italia il principale punto di riferimento per la diffusione di informazioni e immaginario del mondo americano fu lo scrittore Emilio Salgari (1862-1911). Molte delle sue opere trovarono da subito un buon successo e finirono poi con l’essere trasposte nell’ambito dei fumetti e del cinema. Diverse creazioni della produzione letteraria di Salgari sono ambientate nel mondo dei Nativi americani. Salgari disponeva probabilmente di fonti di seconda o terza mano, ma comunque di buona qualità e lo scrittore era solito informarsi anche in presa diretta dai marinai del porto di Genova (Spagna 2008: 78-79). Nell’opera salgariana si incontrano sovente certuni nuclei di stereotipi sui Nativi che saranno poi di grande influenza sulle opere future e sull’immaginario collettivo. Alcuni temi dello scrittore tendono ad evidenziare visioni fugaci, estranee e con declinazioni discriminatorie o razziste. Gli Indiani sono spesso descritti come selvaggi inguaribili, protagonisti di un’ambivalenza diffusa tra ferocia e fascino. Per la “fiera razza della prateria” sconfitta dall’avanzata dell’uomo bianco, non vi è però che commiserazione e delusione. Si tratta di Indiani patchwork, in cui elementi di lingue, popoli, culture native e aree geografiche differenti vengono a mescolarsi senza soluzione di continuità in un amalgama disomogeneo e confuso. Nonostante ciò, resta il valore della testimonianza di un mondo lontano e profondamente diverso con cui molte persone hanno potuto prendere contatto. “Bisogna dunque riconoscere a Salgari, oltre alla passione per la letteratura e la documentazione, l’aver ritenuto opportuno interporre ai suoi mondi fantastici fatti di Indiani feroci e fascinosi – secondo le esigenze del consumo del tempo – brevi ma efficaci informazioni storiche” (ivi: 83).
5Nel mondo del cinema e in quello dei fumetti, alcuni elementi delle culture native, più di altri, sembrano aver attratto maggiormente l’attenzione e la fantasia di pubblico e autori. Il tema del totem, ad esempio, ricorre molto frequentemente nelle rappresentazioni delle storie a fumetti, anche in contesti in cui questo elemento non faceva parte della cultura dei locali. I pali da totem, infatti, esistevano in America solo in una specifica area, quella della Costa di Nord-Ovest: un’area che in realtà non è mai stata parte dell’immaginario legato al genere western. Occorre tuttavia ricordare che i temi totemici hanno investito per lungo tempo il dibattito nelle scienze dell’uomo, fin dalla fine dell’Ottocento. Grazie a pensatori come Durkheim o Freud, il totemismo è stato considerato l’origine di tutte le forme di religione, se non la forma di religione più primitiva. Non c’è da stupirsi pertanto che il tema del totemismo abbia pervaso la fantasia degli autori che si sono occupati di raccontare il West ad uso e consumo di un pubblico curioso e appassionato di esoticità.
6Come ci ricorda Enrico Comba4, e come accaduto a diversi elementi delle culture native americane, anche il tema del totemismo ha subito un lento e progressivo processo di trasformazione che lo ha portato gradualmente dall’essere un elemento estraneo ed estraniante, a essere un qualcosa di sempre più affascinante, positivo, familiare e intimo, così che ognuno avesse la possibilità di scoprire il proprio animale totemico, alla stregua di una guida spirituale e ancestrale.
7Un processo analogo è avvenuto anche per il tema dello sciamanismo5, anch’esso protagonista di una lenta trasformazione. Occorre però dire che il termine “sciamano” entra piuttosto tardi nell’immaginario pubblico. In un primo momento la locuzione usata più ricorrente è stata quella di “stregone”, a volte rappresentato in modo arbitrario con delle corna di bisonte in testa, ornamento che non ha direttamente a che fare con la figura dello sciamano. L’uso del vocabolo stregone richiamava l’idea di una religiosità primitiva e selvaggia, guidata dalla magia, una connotazione che ne tratteggiava sicuramente aspetti di fascino e attrazione, ma che lasciava anche intendere che si avesse a che fare con qualcosa di misterioso, inquietante e potenzialmente pericoloso. Questa figura ha assunto man mano una connotazione sempre meno negativa e la parola sciamano è diventata sempre più comune, venendo associata a tratti positivi quali saggezza, sapienza e capacità di accedere a poteri non comuni.
8Come ci indica lo stesso Comba, due testi fondamentali, legati entrambi alla figura di Black Elk, hanno segnato altrettanti passaggi importanti nella storia della percezione della figura dello sciamano6. Il primo testo, redatto da Neihardt sui dialoghi con lo sciamano oglala, è Black Elk Speaks (in originale), un testo del 1932, da cui emerge la biografia di un uomo complesso, la cui esistenza è stata dominata dalla visione giovanile che ne determinò il cammino futuro. L’opera passò quasi inosservata, dispersa tra le numerose biografie di nativi pubblicate all’epoca. Sotto la spinta di un rinnovamento culturale che investì gli Stati Uniti a partire dagli anni 1960, il testo ebbe una nuova vita e una nuova edizione nel 1968. L’interesse nei confronti di Black Elk poggiò sul terreno fertile di una rivoluzione culturale americana più sollecita al tema dei diritti civili e delle minoranze, un ambiente culturale attento alla ricerca di culture alternative, al tema della psichedelia e alla commistione con religioni, discipline e pratiche provenienti dall’Oriente. Un humus adatto a far germogliare temi come l’esperienza onirica, la trance e così via. Black Elk Speaks fornì un valido modello di spiritualità alternativa basata sul tema del sogno e della visione. Il secondo testo fondamentale uscì a distanza di un ventennio, nel 1953, ed è intitolato La Sacra Pipa. Protagonista è lo stesso Black Elk, il quale questa volta racconterà della religione nativa americana, facendo emergere il quadro di una profonda spiritualità, complessa e ricca, ma accessibile. Il testo troverà accoglienza favorevole anche negli ambienti della controcultura europea, incluse le frange più esoteriche, fino a giungere nell’alveo dei testi di riferimento del nascente movimento New Age.
9Attraverso la denigrazione, o forse ancor di più con la successiva (recente) mitizzazione, sembra che l’approccio occidentale al Nativo abbia sofferto di sbilanciamenti in un senso o nell’altro, come una sorta di oscillazione tra il senso di colpa per lo sterminio operato e la nostalgia per la scomparsa di quell’elemento selvaggio così profondamente legato a tutta l’epopea del West e della frontiera. Dall’iniziale sottovalutazione della complessità del mondo nativo – facilmente giudicabile dall’alto dello scranno che la distanza storica ci fornisce – ancora da considerare soggetta ad analisi e desiderio di ricerca e comprensione, allo stesso modo dobbiamo però
saper valutare criticamente gli atteggiamenti più recenti, sia nel cinema “filo indiano” sia nelle ricostruzioni culturali new age che idealizzando la Cultura Nativa ne hanno proposto spesso un’immagine di nuovo mitica, proiettando sull’indiano americano pulsioni caratteristiche del sincretismo religioso degli anni 90. Al “nativismo” Hollywoodiano ribattezzato a partire dal film Balla coi lupi e all’imprenditoria new age nata dalla celebrazione di un’identità da Buon Selvaggio Spirituale, la poetessa Emma Lee Warrior ha dedicato questi polemici versi: Lo sciamanesimo rende bene / Un viaggio a New York / Europa, intorno al mondo / un libro sul mercato / ospite ad un talk show in TV / timore, rispetto, fama / pagati dai deboli / aggrappati alle paglie / in cerca d’identità a ogni prezzo (Manfredi 2019: 8-9).
“C’è, nella cultura americana [contemporanea], una presenza del paesaggio, un’attitudine al nomadismo, un’inclinazione visionaria, un senso intimamente spirituale della vita anche nei suoi aspetti più prosaici, che non si sarebbe mai sprigionato senza il contatto con i Nativi Americani” (ivi: 10-11). Un debito di riconoscenza che forse non verrà mai confessato del tutto, e che forse non potrà mai essere ripagato del tutto, se non provando a comprendere profondamente un mondo, come quello delle popolazioni che vivevano nel Nord America e che per millenni hanno costruito una complessità e una ricchezza simbolica in cui natura, cultura, uomo, animali, paesaggio, elementi eterei e spirituali, hanno convissuto e si sono intrecciati fino a diventare un tutt’uno diversificato. Così come diversificate erano le popolazioni e le culture native, allorché l’uomo bianco irruppe nel loro mondo.
3.2 Il Nord America dei Nativi: le tracce nella storia di un tempo immemore
10Per lungo tempo, anche in virtù della scarsità di documentazione storica, le culture amerindiane sono state percepite come unità separate, isolate, scarsamente in comunicazione tra loro e pertanto portatrici di dimensioni culturali circoscritte e limitate (Chanau 1964, cit. in Comba 2001a). Una posizione di questo tipo risulta oggi poco sostenibile. Le ricerche in campo archeologico hanno messo in evidenza tra i popoli americani l’esistenza di una fitta rete di commerci e di scambi, col conseguente passaggio di idee e di influenze culturali e religiose. Parallelamente gli studi sulle mitologie native hanno evidenziato le similarità tra i racconti delle diverse tradizioni, mettendo in luce una fervente dinamicità delle culture native. Un mosaico culturale in cui diversità e somiglianze si rincorrono e divengono termini di differenziazione e complementarietà che portano in superficie molteplici esperienze e sviluppi, con momenti di differenziazione, assimilazione, rielaborazione. Un caleidoscopio di popoli e tradizioni religiose che vanno dai gruppi più isolati che parlano lingue diverse, con forme di unità quasi autonome, ai nuclei organizzati in forme confederative più ampie e capaci di far confluire esperienze più omogenee e condivise (Comba 2001a).
11Nella complessità e diversità di questo quadro, occorre comunque mettere in evidenza come le popolazioni native americane condividano di fatto un’origine preistorica comune. Il Nord America fu inizialmente popolato da cacciatori-raccoglitori che giunsero nel continente attraverso la Beringia (il ponte di terra dello stretto di Bering, creatosi a seguito delle ultime glaciazioni). Non si è certi della data ma si pensa che i primi uomini a mettere piede sul continente americano lo abbiano fatto almeno 30.000 anni fa.
12I discendenti dei Nativi Americani hanno antenati comuni con le attuali popolazioni asiatiche, spostatesi in Nord America attraverso l’attuale Alaska e Canada. Esistono forse tre principali flussi migratori dall’Asia: (1) paleo-indiano, circa 40.000 anni fa; (2) Na-Dine, circa 12.000 anni fa; (3) Inuit (Eskimo) e isolani delle Aleutine, circa 10.000-9.000 anni fa. Queste migrazioni diradate, avvenute attraverso lo stretto di Bering o su acqua hanno funto quasi da barriera per la diffusione di elementi patogeni in Nord America (Thornton 2004: 26).
13Per un lungo periodo il dibattito scientifico sull’origine delle popolazioni americane è stato unanimemente concorde nello sposare la teoria della cultura Clovis. Questa ipotesi trae origine dagli scavi effettuati a Blackwater Draw, vicino Clovis (New Mexico), che hanno portato alla luce delle eleganti punte di freccia ricavate da ossa di mammut, la cui datazione risale a 13.000 anni fa circa. Gli archeologi concordarono sull’ipotesi che le genti appartenenti alle culture Clovis fossero cacciatori di grandi prede migrate proprio attraverso lo stretto di Bering nel corso dell’ultima glaciazione. Questo spostamento non venne considerato come una vera e propria migrazione, poiché si ritenne che i popoli Clovis non avessero una reale meta in mente, bensì si muovessero sul territorio nordamericano semplicemente seguendo le prede da cacciare. Secondo la teoria, i popoli Clovis riuscirono a colonizzare il Nord America nell’arco di poche centinaia di anni.
14L’espansione degli scavi e delle ricerche archeologiche, hanno reso il modello Clovis sempre meno persuasivo e hanno portato all’evidenza prove di una presenza dell’uomo nelle Americhe antecedente. Sembra infatti che una popolazione preesistente si trovasse già sul suolo americano quando i popoli Clovis arrivarono; sembra inoltre che i più antichi abitanti non disdegnarono di adottare le più efficienti punte di freccia Clovis per la caccia. Dagli scavi risulta che le popolazioni americane cacciavano una grande varietà di grosse prede: mammut, mastodonti, cavalli, bisonti, cammelli, oltre a prede più piccole. Alle attività di caccia si abbinavano quelle di raccolta, fondamentali per la sussistenza dei primi abitanti: radici, bacche, noci erano un cibo più facilmente reperibile in determinati periodi dell’anno, rispetto alle sfuggenti prede animali. Il mondo popolato dai primi abitanti non era però un ambiente con un clima stabile: dalla fine della glaciazione del Winsconsin (11.000 anni fa circa) fino a 7.000 anni fa circa, il clima continuò a scaldarsi a livello generale, per iniziare poi un lento processo di raffreddamento. Uomini e animali furono costretti ad adattarsi. Anche gli esseri umani agirono con la loro opera sulla trasformazione dell’ambiente. Uno degli strumenti che influì maggiormente fu l’uso del fuoco, sia per le attività di raccolta e agricoltura, sia per le attività venatorie. Alcune ipotesi, avanzate verso la fine degli anni 1950, parlano addirittura di “sterminio del Pleistocene”, secondo cui le attività di caccia dei primi abitanti del continente provocarono l’estinzione di alcuni grandi mammiferi, tra cui il mammut, le cui ultime testimonianze fossili risalgono a poco meno di 11.000 anni fa, oppure il bradipo gigante (preda facilmente catturabile), piuttosto che cavalli o alcune specie di antilopi. Tra gli studiosi che hanno condiviso questa visione troviamo Sauer, oppure il geoscienziato Paul Martin, i quali attribuiscono le cause dell’estinzione all’abilità dell’uomo nel cacciare le grandi prede utilizzando il fuoco, piuttosto che l’ecologista Pielou, il quale ha fatto più volte notare come la scomparsa dal Nord America di alcuni mammiferi, come cammelli, lama, alcuni tipi di cervi e così via, fosse avvenuta in concomitanza dell’arrivo dei cacciatori Clovis, mentre in precedenza ebbero vita agevole per milioni di anni. Gli oppositori della “teoria dello sterminio” tendono invece a far notare come il processo di estinzione di queste specie ebbe a verificarsi molto tempo prima. Il dibattito tra queste diverse visioni resta molto acceso e probabilmente non troverà mai soluzione (Wishart 2016: 3-7).
15Dopo il periodo Clovis gli archeologi hanno identificato diverse altre popolazioni di cacciatori che hanno abitato il continente nordamericano. I popoli della cultura Folsom seguirono quelli della cultura Clovis e si stanziarono nella parte centrale dell’America settentrionale intorno a 12.000 anni fa circa, seguiti dalle culture Plano nella regione delle Grandi Pianure, fino a 8.000 anni fa circa, prima di passare al Periodo Arcaico, che nella parte settentrionale delle Pianure durò fino a 2.000/2.500 anni fa circa. Popolazioni che soprattutto nella zona delle Pianure hanno vissuto come cacciatori-raccoglitori, in accampamenti composti da tende, la cui economia di sussistenza era basata principalmente sul bisonte. Degli abitanti di quell’area e dei loro aspetti storico-culturali-religiosi parleremo in modo più compiuto in seguito. Per ora, prima di entrare nel merito della grande diversità religiosa delle popolazioni del Nord America, ci limiteremo a fare nostra una suggestione di Wishart (2016: 15), nella quale viene suggerito che, se gli Indiani avessero usato dividere per segmenti temporali la loro storia, la divisione cardinale delle loro vicende sarebbe contraddistinta da una demarcazione indicata con BE, Before Europeans (prima degli Europei) e una con AE, After Europeans (dopo gli Europei). A partire dalla metà del Cinquecento infatti, nella zona del Sud-Est e nelle Grandi Pianure meridionali, e verso la fine del Seicento anche più a nord, gli Europei entrarono in America settentrionale e trasformarono irreparabilmente il mondo dei Nativi facendolo diventare un condensato di tumulto e incertezza.
3.3 Il mondo religioso dei Nativi americani
16Nell’affrontare il tema religioso tra i popoli nordamericani, una scelta metodologica operata da Comba è stata quella di utilizzare il concetto di religione come una sorta di contenitore, come un concetto ad ampio spettro, utile per classificare i fenomeni culturali e sociali dei Nativi. Sebbene molto diffusa e utilizzata nell’ambito delle scienze umane, la nozione di religione appare comunque piuttosto sfuggente e non trova sempre un corrispettivo nelle culture non-europee, incluse quelle native. Alla base della scelta dello studioso vi è la convinzione che l’utilizzo di un concetto differente possa soltanto spostare il problema della definizione del fenomeno o risultare anche più elusivo o impreciso. Nell’adozione di questo concetto occorre altresì fare in modo che venga trasformato in una categoria transculturale, flessibile, dai contorni non troppo definiti, più adatto ad accogliere le numerose inflessioni del pensiero e dei sistemi simbolici dei Nativi. È necessario quindi lasciarsi alle spalle un concetto di religione in cui dogmi, credenze o l’idea di divinità risultino essere categorie definite e determinate. Il mondo religioso nativo si mostra invece, alla prova dei fatti, come un sistema aperto, flessibile e molto più adatto ad accogliere influenze esterne, diversità e cambiamenti. L’esperienza religiosa nativa si presenta fortemente incentrata sull’esperienza individuale, sulle capacità e le sensibilità del soggetto, all’interno di un quadro generale di riferimento di miti, credenze e riferimenti simbolici. Anche i rituali e le cerimonie assegnano al singolo individuo una grande discrezionalità di azione, al punto che la stessa cerimonia officiata da soggetti diversi, anche appartenenti alla stessa comunità, può presentare numerose variazioni; può avvenire inoltre che a distanza di tempo lo stesso soggetto operi cambiamenti nella celebrazione di un rito o di una danza. Accade quindi che i quadri di riferimento di un popolo vengano sottoposti a riadattamenti e rielaborazioni da parte dei singoli, correlando di fatto l’esperienza religiosa nativa all’esperienza personale. Un’esperienza che è orientata allo sviluppo di una percezione non ordinaria e alla ricerca della conoscenza, in particolar modo attraverso il sogno o la visione, oppure ancora tramite pratiche rituali efficaci, anche in riferimento alla quotidianità. Un aspetto strettamente correlato alla religiosità indigena è il concetto di “potere invisibile”, un elemento ricorrente e importante per le culture native. Il “potere invisibile” non è qualcosa di strettamente vincolato ai soli aspetti religiosi dei Nativi, ma arriva a permeare ogni aspetto della vita. La stessa distinzione di momenti e pratiche strettamente identificabili come collegate alla religione o meno, appare piuttosto complesso analizzando le culture nordamericane. Le attività religiose non sono viste come nettamente separate dalla vita sociale o individuale, sono parte stessa della quotidianità e si riverberano in ogni contesto e azione, dalla caccia all’agricoltura, dalla preparazione e cura degli utensili e delle armi alla costruzione di un edificio e così via; ognuna di queste attività è strettamente collegata ad un sistema di pratiche e ritualità di ordine religioso. La manifestazione del “potere invisibile” non avviene in un ambito nettamente distinto da quello delle comuni attività dell’essere umano. Il mondo della natura è forse il contesto privilegiato in cui è più facile entrare in contatto con questo potere. I Nativi tendono poi ad operare una distinzione precisa tra lo spazio degli uomini, identificato con il villaggio, contesto di vita abituale, teatro della quotidianità e delle altre attività umane, e il dominio di tutto ciò che opera e si muove al di fuori dell’ambito umano, quindi il mondo selvaggio, della natura, delle foreste, il regno degli animali e degli spiriti. La ricerca di un contatto con il mondo delle potenze, degli spiriti e degli animali, deve essere operato pertanto isolandosi da tutto ciò che è strettamente riconducibile alla sfera dell’uomo, per addentrarsi in un mondo misterioso. I principali detentori di questo potere invisibile sono gli animali. Entità in relazione con le popolazioni di cacciatori nordamericani con una duplice valenza: fonte di cibo e di vita e simboli possenti, metafore, nonché soggetti dotati di potere. Un potere che l’uomo può acquisire, un potere che l’animale può decidere di trasferire su di lui, in un rapporto che investe l’uomo con tutta la sua ambivalenza. I cacciatori si appropriano del corpo dell’animale e della sua energia, della sua forza, ma tutto questo può avvenire solo all’interno di una relazione di scambio, in cui l’animale decide di donarsi all’essere umano, solo se questo se ne dimostrerà degno, osservando pertanto le dovute pratiche e prescrizioni, sancite in tempi mitici, per rinverdire un antico patto predatore-preda. Per quanto sfera umana e animale possano essere distinte, nel mondo nativo la linea di confine tra queste due entità non è mai così netta e non vengono viste come categorie impermeabili, quanto piuttosto complementari, con sovrapposizioni e intersezioni. L’essere umano ha bisogno dell’animale per costituirsi come un essere umano completo e senza di esso non è considerabile tale. Un aspetto che riporta alla mente un tempo in cui uomini e animali condividevano diversi tratti in comune, sintetizzati nelle figure di alcuni personaggi mitici, dotati di forza, che abitavano la terra. Esseri che racchiudevano in sé gli aspetti di complementarietà e di condivisione dell’essenza tra uomo e animale. Una completezza che è andata perduta nel tempo, una completezza che l’essere umano può recuperare solo accedendo al “potere invisibile” che gli animali sono in grado di donargli. La ricerca della visione è uno dei principali strumenti per ottenere questa energia e ambire al recupero della completezza perduta. Questa ricerca comporta un’uscita dalla sfera di competenza dell’uomo, una penetrazione nel mondo selvaggio, isolandosi e addentrandosi in una dimensione dell’invisibile in cui anche il mondo ignoto e pauroso delle potenze appare sotto un’altra veste. Anche il cacciatore, in parallelo, addentrandosi nel mondo della natura alla ricerca di prede, agisce qualcosa che va oltre la propria abilità nell’attività venatoria; egli si muove alla ricerca del benvolere della selvaggina, solo elemento capace di assicurare successo alla sua impresa. In entrambi i casi, anche per quel che riguarda l’attività più carica di contraddizioni e paradossi, la caccia, il rapporto con la natura e gli animali si configura come un rapporto di scambi, di prestazioni e controprestazioni, che fa leva sulla permeabilità del confine tra uomo e animale. Un rapporto in cui l’uomo può ottenere il suo sostentamento, sia materiale (la carne e le altre parti dell’animale) sia spirituale (il potere che ne deriva dall’ottenimento della visione), solo grazie alla benevolenza e alla generosità degli animali. Un obbligo resta in capo all’uomo: adottare norme comportamentali e prescrizioni cerimoniali per il trattamento dei resti delle prede che ne garantiscano la riproduzione e la continuità. In questo modo, parallelamente agli umani, anche gli animali garantiscono a se stessi una modalità rituale di rigenerazione e moltiplicazione (Comba 2001a: 13-18).
17Il rapporto con il mondo animale, l’idea di una natura animata e vivente, l’importanza dell’esperienza della visione e dell’elemento onirico, lo sciamano come mediatore tra livelli diversi dell’esistenza e come intermediario con il mondo degli spiriti, sono tutti elementi che ricorrono costantemente nei sistemi culturali dei popoli del Nord America, per quanto diversi e fisicamente distanti possano essere tra di loro.
18Nella sua voluminosa opera Testi religiosi degli Indiani del Nordamerica (2001), e nella successiva riedizione Riti e misteri degli Indiani d’America (2003), Enrico Comba raccoglie e analizza le tradizioni e i sistemi religiosi delle diverse popolazioni nordamericane seguendo la classica ripartizione in aree culturali sancita dallo Smithsonian Institution e utilizzata come traccia da quasi tutti i lavori sui Nativi americani. Le aree culturali identificate sono: le foreste nord-orientali, il Subartico, l’Altopiano delle Montagne Rocciose, il Grande Bacino, la Costa di Nord-Ovest, la California, il Sud-Ovest, il Sud-Est e le Pianure.
19La definizione di “area culturale” è sempre qualcosa di arbitrario, qualcosa che traccia confini tra regioni e culture spesso limitrofe, in contatto tra loro, stabilendo ciò che sta dentro e ciò che sta fuori. Tuttavia la loro identificazione può essere un valido strumento di classificazione per aiutare a guidare il lavoro di ricostruzione delle diversità culturali e religiose in un’area, come quella del Nord America, in cui l’aspetto della complessità, della commistione di elementi simbolici, della sovrapposizione di temi e pratiche culturali, nonché una certa frammentarietà delle unità sociali e politiche delle popolazioni native rischierebbe di farci smarrire e perdere l’orientamento.
20Nella nostra analisi seguiremo la suddivisione classica delle aree culturali, come adottate anche dallo stesso Comba, mostrando il caleidoscopio delle forme di religiosità native, con l’intento di “colpire il centro” di ogni area trattata, alla ricerca dei suoi elementi caratterizzanti.
3.3.1 Le foreste nord-orientali
Territorio: regione boscosa del Nord-Est compresa approssimativamente tra la costa settentrionale dell’Atlantico, i Grandi Laghi e la valle dell’Ohio.
Popolazioni: gruppi di lingua algonchina orientale (Delaware, Abenaki, Micmac, Maliseet-Passamaquoddy), gruppi di lingua algonchina dei Grandi Laghi (Chippewa o Ojibwa, Ottawa, Menomini, Suak e Fox, Kickapoo), isolati gruppi di lingua Sioux (Winnebago), grandi confederazioni di lingua irochese (Irochesi [Seneca, Cayuga, Onondaga, Oneida, Mohawk, Tuscarora], Uroni).
Le popolazioni che abitavano quest’area culturale avevano un’economia di sussistenza basata essenzialmente sull’orticoltura, integrata dalla caccia e dalla pesca.
21La cosmologia dell’area riprende un tema piuttosto comune anche a buona parte del Nord America: l’idea di un universo costituito da strati sovrapposti al cui centro si trova la terra, luogo in cui nasce e ha origine l’essere umano. La terra racchiude in sé quel potere che consente la continuità e la riproduzione della vita. Solitamente associata ad una figura femminile, viene spesso identificata con il nome di “nonna terra”. I restanti due strati dell’universo, il cielo e le regioni sotterranee (o che si trovano sotto le acque), sono abitate dalle potenze spirituali. La regione del cielo è dimora della benevolenza, dell’ordine e della luce, e vi si trovano le figure divine del “Grande Spirito”, della “Signora della Vita” e del dio del Tuono e del Fulmine. Nel sottosuolo (o al di sotto delle acque) troviamo l’oscurità, il mistero, la morte e un insieme di forze minacciose. Nonostante questa connotazione apparentemente polarizzata di bene e male, è opportuno precisare come tali caratteri non assumano nella cosmologia nativa toni e inclinazioni di tipo morale, poiché per i Nativi ogni aspetto della vita e degli elementi dotati di potere può assumere caratteristiche contemporaneamente positive o negative (Comba 2001a: 19-20). Il mondo dell’uomo in posizione intermedia tra cielo e sottosuolo diviene di conseguenza il dominio della dualità e della compresenza degli opposti.
22Nelle storie irochesi che narrano dell’origine dell’universo, troviamo tratti comuni anche ad altre cosmogonie del continente americano. Nella religione irochese essere umano e forze spirituali sono ingaggiate in una relazione precaria che va continuamente rinnovata. Nonostante alcune differenze nel racconto delle circostanze, la storia dell’origine poggia sulle vicende di una donna celeste, proveniente dalle potenze superiori, che cadde sulla terra. Un gruppo di animali a turno, si adoperò per accoglierla e offrirle una sistemazione decorosa in un’area al tempo completamente ricoperta dall’acqua. Solo uno di loro, una volta raccolto un po’ di fango dal fondo delle acque e depositatolo sul dorso di una tartaruga, riuscì a creare la terraferma. Un tema, quello dell’animale tuffatore – molto più spesso un uccello – quale mediatore tra il mondo acquatico e quello terrestre, che è ricorrente in diverse cosmologie indigene. Dalla donna precipitata sulla neonata terra nacque una bambina che a sua volta diede alla luce Due Gemelli, tema anche questo mitico e ricorrente in modo trasversale a diverse popolazioni (Comba 2001a: 99-100).
23Le cerimonie irochesi si svolgevano principalmente nella forma del rendere grazie alle potenze e alle forze che reggono cielo, terra e gli esseri viventi. Tra quest’ultimi rivestivano un’importanza speciale le cosiddette “Tre Sorelle”: il mais, i fagioli e le zucche; considerate persone, secondo l’accezione nativa del termine, costituivano la base dell’alimentazione irochese. Il mais veniva piantato in alcuni rialzi del terreno. Una volta cresciuti gli steli si seminavano i fagioli e le zucche tutt’intorno, di modo che lo stelo del mais potesse offrire un sostegno alle piante di fagioli per crescere, e l’ombra delle foglie delle zucche impedisse la proliferazione di erbe infestanti, mantenendo una corretta umidità (Comba, Amateis 2019: 422). Molte leggende descrivono in termini metaforici le “Tre Sorelle”, come per il popolo Onondaga, in cui i protagonisti, un uomo e due donne, altro non sono che personificazioni delle piante: l’uomo è il mais, mentre il fagiolo strettamente abbracciato a lui e la zucca distesa sul terreno raffigurano le donne. Molto più frequentemente accade però che le tre piante vengano associate alle sole figure femminili, anche in virtù del fatto che erano prevalentemente le donne ad occuparsi della coltivazione degli orti (ibid.).
24I popoli di lingua irochese erano soliti celebrare durante i primi mesi dell’inverno una grande festa dell’Anno Nuovo, un rituale che tra i Seneca, ad esempio, prendeva il nome di Kaiwanoska’kó-wah, ed era officiato dopo la prima luna nuova successiva all’ascesa allo zenit della costellazione delle Pleiadi (Hirschfelder, Molin 1992, cit. ivi). La celebrazione si collocava all’interno degli sforzi rituali irochesi volti ad incrementare e a rinnovare le forze che conservavano e rinverdivano la vita. La cerimonia era composta da una prima parte in cui avveniva l’espulsione simbolica dell’anno vecchio e dei relativi aspetti negativi, attraverso riti di confessione, lo spargimento di ceneri, le cerimonie terapeutiche ad opera della Facce False e il sacrificio di un cane bianco. Una seconda parte era composta da danze e celebrazioni a riflesso delle attività cerimoniali degli esseri spirituali del mondo superiore, in cui avvenivano offerte di tabacco (e altro) per continuare ad ottenere la benevolenza delle potenze superiori. Questi eventi rituali erano pubblici e strettamente collegati al ciclo stagionale della vita irochese, mentre le società di medicina si riunivano invece occasionalmente, quando fosse necessario officiare dei riti terapeutici a cui prendevano parte i soli appartenenti.
25La Società della Facce False era una delle più importanti società sciamaniche (o di medicina) tra gli Irochesi. Gli adepti indossavano maschere in legno che rappresentavano gli spiriti della foresta. Si riteneva fossero dotate di un grande potere misterioso, addirittura pericoloso, in caso di inosservanza delle regole rituali prescritte. Venivano impiegate durante le cerimonie per curare gli individui che ne avevano fatto richiesta alla Società, così da scacciare gli spiriti malevoli. Coloro che ne facevano parte erano persone che in passato erano state curate tramite i rituali della Società oppure che avevano sognato di divenirne membri (Comba 2001a: 114). Le offerte di fumo di tabacco alle potenze spirituali erano tra le più diffuse; il fumo del tabacco svolgeva la funzione, salendo in cielo, di farsi portatore delle invocazioni e delle richieste alle potenze e alle divinità (ivi: 115).
26Le popolazioni di lingua algonchina avevano un’interpretazione della dimensione religiosa e del contatto con le essenze spirituali che investiva e coinvolgeva maggiormente la sfera individuale. Aspetto fondamentale, presente in maniera diffusa nel mondo nativo americano, è la ricerca della visione (come anche l’esperienza onirica): una pratica attraverso la quale, l’individuo cerca di entrare in comunicazione con il mondo degli spiriti. Per ottenere ciò, il soggetto doveva abbandonare la propria comunità, recarsi in un luogo sacro, lontano dal mondo dell’uomo, penetrando nel mondo della natura, preparando la propria mente e il proprio corpo sotto la supervisione di una guida, un esperto, uno sciamano o un uomo di medicina. Le modalità di contatto e di ottenimento della visione potevano variare da un popolo all’altro, mantenendo però un ruolo fondamentale nel periodo della pubertà e nel passaggio del giovane o della giovane all’età adulta. Lo spirito si poteva presentare sotto forma di essere umano, di animale oppure anche di uccello. La sua comparsa era fonte di insegnamenti, di conoscenza oppure anche di ammonimenti. Da questi insegnamenti il giovane o la giovane ne avevano a trarre informazioni che lo avrebbero guidato nella vita e ne avrebbero indirizzato il percorso come adulto (ivi: 130-131).
27Nel mondo religioso algonchino esistono una grande quantità di entità spirituali. Una forma di potere capace di manifestarsi con qualità personali o impersonali, come singolarizzazione di un concetto più ampio. Un potere in grado di albergare in ogni manifestazione della realtà: dalle piante, agli animali, alle rocce, oppure ai fenomeni della natura o del cosmo. Questo potere prende il nome di manitou (oki tra gli Uroni, orenda tra gli Irochesi). Manitou è una forza che si esprime attraverso le esperienze oniriche e che manifesta la propria efficacia attraverso gli oggetti sacri; la sua potenza può essere in effetti concentrata e conservata all’interno di amuleti o negli “involti della medicina” (i quali contengono pelli, penne o altri parti del corpo di alcuni animali). A dominare sull’universo spirituale vi è un’entità suprema, il Grande Spirito, il quale, sebbene non se ne abbia la certezza, potrebbe aver subito un processo di personificazione così caratterizzante anche sotto l’influenza della religione Cristiana, introdotta nelle Americhe dai primi missionari. La ricerca della benevolenza degli spiriti, attraverso offerte di tabacco e invocazioni, era volta all’ottenimento del successo nelle proprie attività quotidiane o per propiziarsi fortuna nella vita, salvo dover ricorrere alla mediazione di specialisti del contatto col mondo degli spiriti, gli sciamani, quando il rapporto col mondo delle potenze superiori risultasse alterato o incrinato (ivi: 145).
28Le cerimonie più solenni erano officiate dalle società sciamaniche o di medicina, sotto forma di rituali esoterici di iniziazione per l’ingresso degli individui all’interno delle diverse confraternite, come ad esempio la società Mîde’wiwin degli Ojibwa. L’appartenenza alla società era consentita solo dietro acquisizione di precetti morali ed etici, ma anche a seguito dell’assimiliazione di una conoscenza di tipo esoterico finalizzata alla cura delle malattie e attraverso un passaggio iniziatico che metteva in scena la morte e la rinascita rituale del candidato (ivi: 157-158).
29La celebrazione dei rituali comportava la costruzione di capanne sacre, uno spazio connotato da un significato cosmologico che delimitava un’area consacrata riproducendo simbolicamente la struttura dell’universo. Uno dei rituali più diffusi tutt’oggi sul continente americano, praticato da quasi tutti i gruppi nativi, è la Capanna del Sudore. Il rito ha sostanzialmente la funzione di purificare il corpo e fa spesso parte di cerimonie e di prassi più ampie, ma viene anche celebrato come rito terapeutico, strumento per scacciare influenze malefiche o come metodo di prevenzione per le malattie. La cerimonia è solitamente officiata da uno sciamano che, una volta chiusa la capanna, spruzza dell’acqua su alcune pietre roventi poste al centro, generando così del vapore e pronunciando successivamente preghiere e invocazioni (ivi: 172).
30La celebrazione delle sacre cerimonie tra le popolazioni di quest’area rappresentava il rinnovamento e la rievocazione del periodo originario, un periodo in cui gli esseri invisibili istruirono per la prima volta le pratiche e le ritualità che poi gli uomini avrebbero riprodotto in seguito; un periodo in cui gli uomini vennero ad essere trasformati in esseri umani grazie al potere di questi esseri invisibili. Una celebrazione che è rievocazione di un tempo che assume le sembianze della circolarità, a connettere il presente con il passato e a rievocare la creazione del mondo e degli universi simbolici e culturali degli esseri umani.
3.3.2 Il Subartico
Territorio: area che attraversa trasversalmente il continente nordamericano, dalla penisola del Labrador a Est, fino all’Alaska a Ovest.
Popolazioni: gruppi della famiglia algonchina a Est (Naskapi, Montagnais, Cree, Ojibwa settentrionali), gruppi della famiglia athapaska a Ovest (Chipewyan, Beaver, Dogrib, Hare, Kutchin, Tanana, Ingalik, Koyukon).
L’area culturale del Subartico è segnata da un paesaggio di tundra boscosa, presenza di molti laghi, corsi d’acqua e terreni paludosi a nord, per declinare a sud, verso il confine tra Canada e Stati Uniti nella rigogliosa foresta boreale di conifere e latifoglie. È un’area che dal punto di vista culturale presenta una grande uniformità ed è composta da cacciatori e raccoglitori, anche pescatori in alcune zone a ridosso dell’acqua, organizzati in piccole unità nomadi, mobili, fluide e senza un’autorità formale, salvo l’occasionale influenza di un personaggio carismatico, un cacciatore o un abile riconosciuto oratore. Gli spostamenti avvenivano per seguire le migrazioni stagionali delle mandrie di caribù, cervi e alci e il ciclo di attività era influenzato dalle fluttuazioni stagionali. La basilare attività della caccia faceva sì che queste popolazioni attribuissero un’importanza fondamentale alla relazione con il mondo animale e agli spiriti posti a presidio della loro riproduzione e crescita. Tra i cacciatori Montagnais esisteva ad esempio la figura del Signore dei Caribù a presidiare le attività venatorie. Questa figura era decisamente importante poiché il caribù rappresentava la loro principale fonte di cibo. La buona riuscita di una battuta di caccia non era infatti esclusivamente legata alle abilità o alle buone armi dei cacciatori, bensì necessitava del favore delle potenze spirituali sovrintendenti al mondo animale. All’origine di questa figura vi è probabilmente un cacciatore particolarmente abile, trasformato in mitico protettore degli animali. Per i Cree la caccia è un’attività che va oltre il semplice procacciamento del cibo ed è costantemente corredata di significati simbolici e rituali, che investono la relazione dell’individuo con il sacro e il suo rapporto con la natura e gli animali (Comba 2001a: 23, 200, 217).
31La sequenza mitologica delle popolazioni del Subartico narra di un periodo antico in cui vigeva una sostanziale indistinzione tra le creature che popolavano la terra; gli esseri delle origini parlavano lo stesso linguaggio ed erano in grado di comunicare. La venuta di un “eroe culturale” segna la frattura e la distinzione tra il mondo degli esseri umani e quello degli animali. Un eroe che sconfigge le creature mostruose che popolavano il mondo e introduce gli strumenti e le creazioni culturali tipiche dell’uomo: armi, abitazioni, strumenti e così via. Tra i Cree, ad esempio, compare la figura di un trickster, un briccone che sarà determinante per stabilire alcuni aspetti del mondo e delle attività dell’uomo. Questo briccone, nella figura del Ghiottone, riuscirà a fare in modo che gli animali donino il possesso e l’utilizzo del fuoco e la padronanza delle tecniche di caccia agli esseri umani (ivi: 218-219). L’acquisizione della cultura da parte dell’uomo comporta un duplice valore: un arricchimento da una parte e lo smascheramento dell’incompiutezza umana dall’altro. Con la cultura l’uomo ha perso per strada alcune qualità che condivideva con gli altri esseri, inclusa una parte di potere e la possibilità di trasformarsi e di comunicare con gli altri animali.
32Il sistema religioso subartico è dominato dall’idea di un mondo popolato di spiriti e dal concetto di potere (manito) che si manifesta in ogni cosa dotata di vita e di energia: animali, piante, fenomeni atmosferici e così via. Un potere che può essere rappresentato materialmente in alcuni oggetti, le “borse della medicina”, e che può essere acquisito dall’individuo attraverso la ricerca della visione. In questo quadro in cui prevale l’idea di un sistema religioso molto caratterizzato sull’esperienza individuale, riveste un ruolo dominante la figura dello sciamano.
33Lo sciamano nel sistema religioso subartico è l’unico specialista del rapporto con il mondo invisibile degli spiriti, nonché colui che detiene tutto il sapere. Viene interpellato nelle situazioni di crisi e di pericolo per la sussistenza: in caso di nubi addensate sul futuro, per combattere l’insorgere di una malattia oppure nel caso in cui il buon esito della caccia possa essere minacciata dalla scomparsa della selvaggina. Posizione accessibile sia dagli uomini che dalle donne, tra gli Ingalik, ad esempio, il ruolo dello sciamano veniva acquisito a seguito della chiamata da parte degli spiriti sotto forma di animali, che attraverso il sogno conferivano il proprio potere al prescelto. Tra i Koyukon invece, il trasferimento dei poteri sciamanici avveniva per via ereditaria, attraverso discendenza paterna o materna (ivi: 251-252). Il potere dello sciamano dipendeva dal potere degli spiriti aiutanti.
34Custode della memoria collettiva della comunità e garante della trasmissione delle tradizioni culturali del proprio popolo, lo sciamano ogni notte intraprendeva incredibili viaggi col proprio spirito, distaccandosi dal corpo, per recarsi nelle regioni celesti o nelle pieghe del sottosuolo, per incontrare figure mitiche, dotate di potere, o per apprendere insegnamenti inaccessibili agli altri uomini. Oggetto simbolo dello sciamano è il tamburo, sul quale vengono spesso rappresentate sotto forma di decorazioni le esperienze oniriche di viaggio dello sciamano. Vero e proprio essere vivente tra i Naskapi, tra gli Ojibwa settentrionali svolge il ruolo di intermediario in grado di mettere in contatto con il mondo dei morti (Hallowell 1955, cit. ivi). Il suono del tamburo è il principale strumento per accedere a quei livelli di percezione che si collocano fuori dell’ordinario. Il battere ritmico, le vibrazioni, riescono a creare una sorta di trance, condizione necessaria per spalancare le porte a conoscenze altre. L’uso del canto per accompagnare il suono dello strumento funge contemporaneamente da evocazione e da manifestazione degli spiriti aiutanti. A tal proposito, un rituale diffuso nella regione, ad esempio tra i Cree, è il rituale della Tenda Tremante. Uno sciamano entrava all’interno di una struttura circolare di pali di legno, suonando il proprio tamburo. Al suono dello strumento i pali iniziavano a vibrare e a volte si potevano udire voci o versi di animali, erano le voci degli spiriti. Che si trattasse di trucchi o di fatti misteriosi, questa cerimonia ha lasciato senza spiegazioni valide molte persone che hanno avuto la fortuna di assistervi. Durante la pratica diversi spiriti potevano manifestarsi; coloro che vi assistevano avevano la possibilità di chiedere loro informazioni o aiuto; solitamente le richieste avevano a che fare con le attività legate alla caccia (Comba 2001a: 221).
35La maggior parte dei documenti etnografici lasciano intendere che vi fosse tra questi popoli la credenza in un Essere Supremo (il Grande Spirito), già prima dell’arrivo dei missionari cristiani. I Beaver credevano che nella creazione del mondo, in cui compare il tema mitologico dell’animale tuffatore, entrasse in azione anche un essere primordiale superiore. Nei miti questa entità superiore tendeva a confondersi con la figura dell’eroe culturale (l’eroe Cigno); un eroe che fungeva da modello, da esempio paradigmatico e da figura con cui identificarsi sia per il giovane in cerca della visione, sia per il cacciatore che nelle attività quotidiane non faceva altro che riprodurre l’esperienza primordiale dell’eroe del mito (ivi: 28, 244-245).
3.3.3 L’Altopiano delle Montagne Rocciose e il Grande Bacino7
Territorio: l’Altopiano comprende l’area che occupa gli attuali Stati di Oregon, Washington e una parte della British Columbia; il Grande Bacino si colloca tra le Montagne Rocciose meridionali e la Sierra Nevada.
Popolazioni: [AMR] gruppi della famiglia salish dell’Altopiano Nord (Shuswap, Lilloet, Thompson, Okanagan), gruppi della famiglia salish dell’Altopiano Sud (Cœur d’Alêne, Spokane, Colville, Sanpoil, Nespelem, Flathead), gruppi della famiglia linguistica sahaptin (Klikitat, Yakima, Nez Perce, Cayuse), gruppi della famiglia linguistica penuti (Klamath, Modoc), gruppi della famiglia linguistica chinook; [GB] piccoli gruppi di lingua shoshone (Shoshone settentrionali, Bannock, Paiute, Ute).
La regione dell’Altopiano delle Montagne Rocciose copre un territorio montuoso in cui sono presenti folti boschi ricchi di selvaggina (cervi, pecore di montagna, lontre, castori) e pianure erbose, con grande abbondanza di fiumi e torrenti, importanti perché teatro della migrazione dei salmoni. La pesca e il commercio intertribale erano le principali attività economiche e di sussistenza.
36L’esperienza individuale, o la pratica in piccoli gruppi, costituivano il centro della vita religiosa, di cui lo sciamano rappresentava l’unica leadership spirituale, oltre che un aiuto ed un supporto psicologico e materiale in caso di malattie o difficoltà. Gli sciamani tra i Klamath, ad esempio, erano soliti curare le malattie attraverso la tecnica dell’aspirazione dell’oggetto ritenuto simbolo materiale del male, il quale una volta estratto veniva ingerito, seppellito o bruciato dallo sciamano. Sebbene figura centrale della vita religiosa delle genti dell’Altopiano, lo sciamano poteva essere visto anche con diffidenza poiché si riteneva che potesse provocare, se indotto, del male a un altro individuo oppure a un altro sciamano, ad esempio per affermare la propria superiorità su di lui (Comba 2001a: 389).
37Tema principale dell’esperienza religiosa dell’individuo era la ricerca della visione e la conquista dei favori di uno spirito guardiano. L’incontro con lo spirito guida, la ricerca della visione, avveniva il più delle volte in età giovanile, intorno agli otto/dieci anni, dopodiché accadeva che l’individuo si dimenticasse di quanto aveva vissuto e dello spirito incontrato. Diversi anni dopo, quando il bambino o il giovane era già adulto, l’entità tornava a fargli visita manifestandosi sotto forma di malattia. A questo punto era necessario l’intervento di uno specialista, lo sciamano, capace di richiamare il potere iniziale dello spirito e fornire le informazioni utili ad indirizzare la vita adulta dell’individuo. Questo schema narrativo è ricorrente in diverse popolazioni dell’area: Sanpoil, Nespelem, Okanagan, Colville. Tra i Klamath i contatti con il potere invisibile erano cercati in particolari luoghi in cui ci si recava perché li si riteneva popolati da entità sacre e potenti; attraverso le attività cerimoniali si cercava di ottenerne la benevolenza. Questo tipo di isolamento e ricerca coinvolgeva i giovani e le giovani a ridosso dell’età puberale, oppure gli uomini adulti in momenti speciali della loro vita, come ad esempio la paternità oppure ancora nelle occasioni di lutto. La permanenza nella foresta, il digiuno, i bagni di sudore purificatori, attraverso la cerimonia della Capanna Sudatoria, erano tutti espedienti atti a meritarsi i favori degli spiriti (ivi: 373-377, 388, 391).
38Dal tema della ricerca della visione e dello spirito comune, hanno origine anche le grandi (e lunghe) celebrazioni collettive invernali. La partecipazione era aperta a tutti coloro che avevano ottenuto uno spirito guardiano, sciamani e persone comuni. I partecipanti, sotto la supervisione di alcuni sciamani, prendevano parte a danze in cui impersonavano il proprio spirito guida, intonando canti e muovendo passi appresi direttamente da lui. La danza invernale era l’occasione cerimoniale più importante nell’Altopiano durante la quale l’individuo rappresentava in un contesto pubblico, attraverso i canti, il proprio rapporto con la potenza spirituale. La danza avveniva attorno ad un palo centrale che fungeva da asse di collegamento tra il mondo umano e quello degli spiriti. Tra gli Okanagan e i Colville la danza era anche l’occasione per coloro che avevano ricevuto la “chiamata” in età giovanile per iniziarsi al cammino per diventare uno sciamano. La cerimonia era inoltre il teatro di lotte segrete tra sciamani, con lo scopo di ottenere maggiore prestigio e potere. Anche tra i Nez Perce, in cui assumeva il nome di Danza dello Spirito, questa cerimonia era la circostanza pubblica in cui rivendicare l’ottenimento di un potere da parte dell’individuo o anche l’arena in cui venivano messe in gioco o riconfermate le gerarchie di potere tra sciamani (ivi: 33, 411, 422).
39La regione del Grande Bacino si presenta più arida e scarsa di corsi d’acqua. Si tratta di un ambiente più povero di quello dell’Altopiano, in cui la base alimentare era costituita da semi e radici, integrati dalla caccia ai conigli selvatici e alle antilopi.
40La vita religiosa prevedeva alcuni momenti comuni, spesso ridotti a occasionali riunioni tra bande, per organizzare battute di caccia collettiva o per la raccolta di risorse utili. Anche nella zona del Grande Bacino la vita religiosa era incentrata sull’individuo e sulle esperienze personali, vissute attraverso l’esperienza della visione o del sogno, che costituiva lo strumento principale per ottenere la protezione di uno spirito guardiano. Quest’ultimo avrebbe istruito il soggetto a proposito della preparazione di involti sacri da custodire gelosamente e sulle prescrizioni necessarie per rinnovare e conservare il potere ottenuto dallo spirito stesso. Tra i Paiute, la vita religiosa era piuttosto povera di cerimonie collettive; l’esperienza religiosa era concepita come un percorso di intima e soggettiva vicinanza con un’entità soprannaturale, con la quale instaurare una relazione di stretto contatto in favore dell’ottenimento di un potere. Da questo rapporto discendevano anche tutte le indicazioni e le prescrizioni da seguire nella relazione con la natura; una relazione intesa in termini di scambio reciproco tra uomo e altre specie (ivi: 33, 439, 452).
41Tra gli Shoshone si riscontra lo stesso schema religioso incentrato sull’individuo. Le principali cerimonie collettive consistevano in danze, celebrate soprattutto all’inizio della primavera, con lo scopo di promuovere la rigenerazione degli animali e garantire il ritorno dei salmoni. Si registra tra queste popolazioni una sostanziale assenza di sistemi rituali elaborati e di una vera e propria figura specializzata nelle pratiche religiose. Il nomadismo tipico delle società shoshone e la loro alta mobilità prevedevano un’organizzazione societaria con carattere fondamentalmente egualitario. Ogni membro era di fatto lo sciamano di se stesso, salvo che per alcuni individui particolarmente dotati di potere, in grado di metterlo a disposizione del benessere della comunità (ivi: 435-436).
3.3.4 Costa di Nord-Ovest e California8
Territorio: la Costa di Nord-Ovest è costituita da una stretta striscia costiera che dalla California settentrionale arriva fino all’Alaska; l’area della California occupa per buona parte quella dell’attuale Stato omonimo negli Stati Uniti d’America e include l’intera penisola degli Stati californiani nell’attuale territorio del Messico.
Popolazioni: [CNO] gruppi della famiglia salish (Bella Coola), divisioni linguistiche settentrionali (Comox, Pentlatch, Sechelt), divisioni linguistiche centrali (Squamish, Halkomelem, Nooksack, Saanich, Clallam), gruppi meridionali (Lushootseed, Twana, Quinault, Chehalis, Cowlitz), gruppi della famiglia wakash (Kwakiutl, Bella Bella, Nootka, Makah), gruppo tsimshian (Tsimshian, Nishka, Gitksan), Haida, Kaigani, Tlingit; [CA] gruppi settentrionali (Karok, Yurok, Shasta, Hupa, Wiyot, Wintu, Chilula, Tolowa), gruppi meridionali (Pomo, Achomawi, Maidu, Yana, Nisenan, Miwok, Wappo, Yokut, Salinan, Chumash, Luiseño o Payómkawichum, Serrano, Cahuilla, Diegueño o Kumeyaay).
La Costa di Nord-Ovest mostra una grande varietà di famiglie linguistiche e allo stesso tempo una grande varietà di forme di organizzazione sociale e sistemi cerimoniali. L’ambiente si presentava particolarmente favorevole, il salmone costituiva la principale risorsa alimentare, a cui venivano accompagnati altri pesci, frutti di mare, mammiferi marini, radici, frutti, piante e selvaggina terrestre. Le popolazioni dell’area vantavano un’efficiente tecnologia per la cattura e la conservazione delle risorse alimentari, cosa che ha favorito la formazione di comunità stanziali e villaggi permanenti ad alta densità abitativa. Le popolazioni abitanti lungo la costa avevano una società fortemente stratificata che andava dai ceti più bassi, occupati da schiavi e prigionieri di guerra, alle classi delle persone nobili e di rango. Tra le classi nobiliari vi era un’ulteriore scala gerarchica che non precludeva però la possibilità di mobilità sociale o di mantenimento dello status quo attraverso le feste distributive: i potlatch, in cui venivano elargite grandi quantità di cibo e di doni per aumentare il proprio prestigio o per guadagnare un migliore grado sociale. Il cibo era considerato una sostanza sacramentale, il suo consumo nelle occasioni dei pasti collettivi avveniva all’interno di grandiose celebrazioni rituali, al termine delle quali venivano poi organizzati i potlatch. Le fiorenti e diffuse attività rituali e le celebrazioni cerimoniali erano anch’esse legate all’organizzazione sociale e alle distinzioni di rango.
42L’origine del potere che permea il mondo risiede negli spiriti. Tutto il mondo è colmo di poteri invisibili che si manifestano in forme visibili, perlopiù sotto le sembianze di animali. Questo potere va padroneggiato e viene richiamato attraverso i comportamenti rituali, anche grazie all’utilizzo di maschere e costumi cerimoniali. Uno spirito poteva manifestarsi all’individuo attraverso il sogno o la visione e cedergli i propri poteri, tanto che guerrieri, cacciatori di balene e pescatori, dovevano il successo nelle proprie attività proprio all’aiuto soprannaturale ricevuto (Comba 2001a: 35, 462).
43Gli animali rappresentavano la manifestazione tangibile di un potere invisibile e sacrificavano se stessi a beneficio dell’essere umano, a condizione che anche l’essere umano sacrificasse se stesso a beneficio degli spiriti. Esseri umani e spiriti erano difatti legati da una complessa rete di reincarnazioni reciproche.
44La pratica dello sciamanismo, ad esempio tra i Kwakiutl, era prerogativa di alcuni gruppi piuttosto che altri e anche gli sciamani erano collocati all’interno di una gerarchia, per quanto non rigida e immutabile. Tra i più considerati e rispettati vi erano coloro che erano capaci di curare le malattie e di arrecare morte a nemici e avversari; tra i meno prestigiosi venivano “relegati” coloro che erano in grado di curare solo alcune afflizioni. Celebrato in occasioni critiche, il rituale di cura dello sciamano avveniva pubblicamente, al ritmo di canti, al suono di sonagli e al pulsare di percussioni suonate dagli astanti. Nel momento culminante lo sciamano cadeva in preda alle convulsioni e dal corpo del malato venivano estratti alcuni oggetti come segno tangibile della malattia e della sua estirpazione (ivi: 463).
45L’arrivo della stagione invernale segnava l’ingresso in un periodo delicato per le celebrazioni sacre, specialmente tra i Kwakiutl e i Nootka. Il rituale invernale era una delle cerimonie più importanti. Durante la sua celebrazione – da novembre a marzo circa – trovavano spazio danze, feste, scambi rituali di doni e assegnazione di cariche; al termine si svolgevano i potlatch. Ogni attività economica e produttiva, se non strettamente collegata alla cerimonia, veniva sospesa e si poteva assistere al capovolgimento della normale organizzazione generale: la forma di struttura sociale basata sulla parentela cessava di essere operativa, al suo posto subentrava il complesso di associazioni che riunivano gli individui in base alla comune iniziazione ad opera di un determinato essere soprannaturale. In questo periodo gli individui abbandonavano i loro nomi abituali per assumere un apposito nome cerimoniale (Comba 1992a: 36-37). Culmine del rituale d’inverno era la drammatica cerimonia finale di iniziazione in cui alcuni giovani della comunità venivano rapiti dallo Spirito del Cannibale (hamatsa), tra i Kwakiutl, e dallo Spirito del Lupo, tra i Nootka. Alcuni giovani venivano ritualmente prelevati e portati nella foresta. Durante questo periodo di isolamento, al di fuori del mondo degli uomini, nel contesto della natura e delle potenze soprannaturali, apprendevano i segreti, i rituali e i canti dallo spirito iniziatore. I giovani venivano posseduti dallo spirito dell’hamatsa, o del Lupo, e sperimentavano una condizione non umana che li metteva direttamente in contatto con le potenze invisibili. Ricondotti al villaggio, i giovani venivano recuperati alla vita nel contesto dell’uomo, dopo essere stati sottoposti a purificazione e ad un esorcismo atto ad allontanare il potere aggressivo che li aveva posseduti. A questo punto gli iniziati potevano essere considerati a tutti gli effetti dei membri della società (Comba 1992a, 2001a). L’essere umano, essere incompleto, non può considerarsi realizzato senza un apporto da parte degli spiriti. Con i rituali di iniziazione, l’essere umano sperimentava temporaneamente una sorta di disumanizzazione, trasformandosi in un animale feroce, in un cannibale. Egli si spogliava delle costrizioni culturali che lo distinguevano dagli altri animali. Uno sconfinamento verso il selvaggio che rappresentava un ampliamento a dismisura del potere umano e al contempo l’impossibilità di poter restare all’interno dei confini tracciati dal mondo ordinato e regolato dell’uomo. Un conflitto che chiedeva una risoluzione attraverso l’opera di addomesticamento dell’individuo (Comba 2001a: 36).
46Le espressioni religiose tra i popoli della costa presentavano diversi tratti in comune e temi ricorrenti: le grandi distribuzioni cerimoniali (potlatch), la ricerca della visione e l’acquisizione di uno spirito guardiano (ad es. tra i gruppi salish), il potere terapeutico degli sciamani e la celebrazione delle danze collettive invernali. Le società di danza rappresentavano forse l’espressione più eclatante della vita cerimoniale della costa, come ad esempio la Società del Cannibale tsimshian. Oltre ad essere protagoniste delle celebrazioni religiose, queste società erano anche il volano che garantiva un buon rodaggio dei rapporti sociali e consentiva lo svolgimento delle normali attività, rafforzando i legami sociali, instaurando rapporti di scambio e presidiando le relazioni di potere e di rango.
47L’area della California presentava invece un ambiente più variegato. Si poteva passare da regioni desertiche e torride, agli alti picchi delle sierras, a montagne ricoperte di foreste di conifere. Alla grande diversità paesaggistica faceva da parallelo anche una grande diversità linguistica e di usi. Tra i mezzi di sussistenza più comuni si trovano l’utilizzo della ghianda per uso alimentare, accompagnato da caccia, raccolta e pesca.
48Nella California settentrionale si osservano cerimonie analoghe a quella della costa. Tra i Pomo, il culto Kusku – nome dell’eroe culturale, rappresentato nelle cerimonie da danzatori in costume – prevedeva danze mascherate con travestimenti sgargianti. In queste occasioni avevano luogo le iniziazioni dei giovani alle società segrete e cerimoniali. I danzatori incarnavano gli eroi mitologici – esseri di un tempo primordiale – e la cerimonia metteva in scena il ristabilimento delle condizioni originarie dell’universo, sotto forma di ripetizione cosmogonica. Analogamente, nei territori nord-occidentali, tra i Karok, e tra il loro vicini Chilula, Hupa, Tolowa, Wiyot e Yurok, si svolgeva la cerimonia di “Rinnovamento del mondo”, con lo scopo di rigenerare le risorse della natura, attraverso canti e invocazioni, e di favorire la riproduzione degli animali, in particolar modo del salmone. Nella cerimonia venivano rappresentate la morte e la rinascita del mondo (Comba 2001a: 564-565). Principale risorsa alimentare anche tra gli Yurok, il salmone era protagonista di un rito specifico in occasione della sua cattura. Gli Yurok ritenevano che l’animale fosse immortale e che assumesse forma di pesce come espressione materiale del proprio potere, offrendosi volontariamente ai popoli locali, se soddisfatto del trattamento ricevuto. Per consentire il ritorno dei salmoni l’anno successivo, il primo salmone catturato doveva ricevere un trattamento rituale che trasmettesse rispetto e onore. Per il primo salmone veniva preparato un apposito altare e, prima della sua macellazione, venivano svolti precisi atti rituali da parte di un sacerdote. Solo successivamente allo svolgimento del rito la pesca diveniva attività aperta a tutti (ivi: 553).
49Pratica non così diffusa nel Nord America, tra gli Yokut e i Miwok si riscontra l’utilizzo di sostanze psicotrope (toloache) con lo scopo di raggiungere condizioni di coscienza non ordinaria e per poter comunicare con gli spiriti ausiliari. Parallelamente l’individuo doveva osservare lunghi periodi di privazioni e di addestramento durante i quali apprendeva il sapere mitologico e cerimoniale. Un sapere che tra i Chumash e i Serrano era riservato ad un gruppo ristretto e selezionato di individui, i quali, oltre a svolgere una funzione religiosa, avevano anche un peso importante dal punto di vista politico e sociale (ivi: 37).
3.3.5 Il Sud-Ovest
Territorio: la regione occupa i territori degli attuali Stati dell’Arizona e del New Mexico, con alcune porzioni di Colorado, Utah e Texas, a cui si aggiunge la parte settentrionale del Messico.
Popolazioni: [prime culture agricole nordamericane: Mogollon, Patayan, Sinagua, Anasazi, Hohokam], popoli sedentari (Hopi, Zuni, Tewa, Pueblo del Rio Grande), popolazioni di lingua athapaska (Navajo, Apache).
L’area sud-occidentale vanta un’antica presenza umana, si pensa già a partire da 12.000 anni fa. Nella regione si hanno ritrovamenti risalenti al 3000-2500 a.C. dei primi esperimenti di domesticazione e coltivazione di piante commestibili, facendo dell’area il luogo delle prime colture agricole del Nord America. L’economia autoctona poggiava sulla coltivazione del mais, dei fagioli e delle zucche, prodotti alla base dell’alimentazione locale. Intorno al xiv-xv secolo d.C. si assistette ad alcuni grandi spostamenti di popolazione, forse in seguito a cambiamenti climatici, forse alla ricerca di risorse idriche, e successivamente all’arrivo delle popolazioni di lingua athapaska (Navajo e Apache) che si insediarono stabilmente. L’area è stata da sempre terra di scambi, interazioni e circolazione di influenze culturali. Si tratta di un ambiente fortemente connesso alla spiritualità dei popoli che vi vivevano, i quali hanno costruito uno stretto collegamento con il territorio elaborandone una sintesi, modificandolo, facendolo proprio fino a costruire un profondo legame tra la terra e i suoi abitanti, in una forma decisamente distante da quella di un locus inerte (Venturoli 2004: 10). Particolarmente forte era la relazione con la terra, chiamata Madre Terra, forza vitale e dispensatrice di energia rigeneratrice.
50Tra i Pueblo si può cogliere una visione del mondo analoga a molte cosmologie native: un universo stratificato su livelli differenti, di cui la terra occupa lo spazio centrale. Al di sopra di essa si trova il livello dei cieli, al di sotto diversi mondi sotterranei sovrapposti. L’umanità ha origine nei livelli inferiori, grazie all’azione di esseri primordiali che, insoddisfatti della loro condizione, hanno iniziato un percorso di risalita verso l’alto fino alla superficie, arrampicandosi tramite un albero (una canna o una scala, in atre versioni). In superficie si assiste alla comparsa di personaggi mitici, come i Gemelli della Guerra, che fungono da ordinatori delle condizioni esterne, uccidono i mostri sulla superficie e rendono la terra adatta alla presenza dell’uomo delle origini (Comba 2001a: 38-39).
51Dal punto di vista cosmologico, diverse popolazioni condividevano l’idea che il proprio villaggio occupasse una posizione centrale nel sistema dell’universo: gli Zuni si autodefinivano “il popolo di mezzo”, gli Hopi situavano il proprio villaggio al centro del cosmo e i Tewa collocavano se stessi nell’ombelico della Madre Terra. Anche i Pueblo posizionavano il proprio insediamento al centro dell’universo, con il quale risultava collegato attraverso i luoghi sacri. Tutto intorno, in una configurazione circolare si trovavano le montagne sacre, collocate nei quattro punti cardinali (rappresentate da colori, animali, simboli e oggetti sacri). Nelle stanze cerimoniali sotterranee (kiva), nei santuari della natura e negli spazi dei villaggi trovavano posto poi quelle rappresentazioni cerimoniali che mettevano in scena la raffigurazione simbolica dello schema cosmologico, al cui centro si incontrava l’ombelico della terra, connessione tra i diversi livelli dell’universo. È nei luoghi di potere collocati sul territorio che si manifestavano concretamente le potenze spirituali, tra le quali i kachina, esseri delle nuvole che comparivano in differenti forme a rappresentare diverse caratteristiche del mondo visibile e invisibile: animali, piante, sole, astri oppure personaggi mitologici (come ad esempio i Gemelli di Guerra). Costoro abitavano regioni periferiche e luoghi ai margini, ove è garantita la presenza di acqua, umidità e pioggia.
52Dal punto di vista dell’organizzazione religiosa, i Pueblo presentavano una struttura fortemente basata sulle società cerimoniali, con funzioni differenti e intrecciate con il sistema dei clan e dei gruppi di discendenza. Ogni società aveva il compito di presiedere determinati rituali e di preservare una parte della memoria e degli insegnamenti degli antenati. I riti potevano andare dalle cerimonie per la fertilità e per la crescita dei raccolti, a quelli legati alla guerra o alle pratiche terapeutiche, che costituivano il cuore anche del sistema religioso navajo (ibid.).
53I Navajo hanno ereditato molti aspetti del sistema cerimoniale pueblo impiantandolo su un retroterra di tipo sciamanico rielaborato in riti terapeutici detti “canti”, di cui ne esistevano almeno ventiquattro diversi complessi. L’universo navajo era popolato da numerosi poteri personalizzati, molti dei quali simili agli esseri umani o capaci di acquisirne le sembianze. Ogni cosa poteva assumere forma antropomorfica: montagne, fenomeni naturali, nuvole; i Navajo ritenevano che un tempo piante e animali fossero “persone” e che ogni elemento dell’universo, anche il più piccolo, fosse personalizzabile e partecipasse al mantenimento dell’armonia e dell’equilibrio cosmico. Un’attenta analisi della religione navajo ne mostra ancora la complessità. Accade infatti che le potenze, gli esseri divini e mitologici compaiano sovente con nomi, aspetto e funzioni diverse e in contesti spazio-temporali differenti. Ogni cerimonia conteneva riferimenti a esseri soprannaturali (le “Sacre Persone”) che potevano assumere diverse forme e consistenze, racchiudendo in sé qualità e poteri di natura e coloritura differenti; tutti poi concorrevano al complesso equilibrio tra bene e male, coppia di opposti complementari, di cui l’uomo era chiamato ad essere custode (ivi: 590).
54La cerimonia centrale della religione navajo era il rito della Blessingway, donata all’uomo dalla Donna Cangiante al tempo delle origini. La Donna Cangiante è una delle principali figure divine del mondo navajo. Chiamata anche “madre creatrice”, fu la prima donna a concepire e a mettere al mondo degli esseri viventi: gli antenati dei Navajo. Scopo della cerimonia era quello di mantenere o restaurare l’armonia, allontanare la malasorte e promuovere la fortuna, proteggere dalle disgrazie e dalle malattie e altre azioni di tutela delle attività quotidiane e dei passaggi di vita importanti. Il rito veniva utilizzato anche per rinnovare gli oggetti cerimoniali e ridare nuova energia agli involti sacri, nonché per rievocare il mito fondamentale che racconta dell’emersione dell’essere umano dagli strati più profondi del sottosuolo. La Blessingway venne creata dalle Sacre Persone mentre la Donna Cangiante ideò i canti poi appresi dagli uomini. I canti della cerimonia si presentavano come una ricapitolazione della genesi del mondo e della terra; rievocando i nomi delle diverse entità si ripercorreva il cammino con cui le essenze di tutte le cose sono venute all’esistenza. Uno dei compiti dei rituali come la Blessingway era quello di riportare l’individuo ad una condizione di benessere e armonia (hózhóó), combattendo la malattia, che è il risultato di una situazione cattiva (hoxchóó) derivante dal contatto con fonti di pericolo e contaminazione (ivi: 40, 597-606, 614).
55Pur presentando molti tratti in comune con quella navajo, la religione apache rifletteva in modo più marcato la base sciamanica legata alla sua lontana origine subartica. Alcune cerimonie avevano carattere collettivo, la maggior parte erano officiate da individui che avevano ricevuto l’autorità per celebrarle a seguito di una visione. Alla radice di ogni cerimonia e della religione stessa tra gli Apache vi era la convinzione dell’esistenza di un potere soprannaturale che pervadeva tutto l’universo da cui gli esseri umani potevano attingere a proprio beneficio, utilizzando le opportune tecniche rituali. La malattia e la sofferenza erano causate da qualche spirito o divinità sfavorevole o dalla mancata osservazione delle norme e prescrizioni rituali. In alcuni frangenti anche la stregoneria, ossia il potere di nuocere ad altri (che alcuni individui possedevano), era fonte di malattia e disequilibrio. La maggior parte delle cerimonie apache verteva sulla possibilità di acquisizione di un potere soprannaturale, attraverso l’esperienza della visione, che il singolo individuo poteva utilizzare a proprio beneficio (ivi: 654-655).
56Così come per il popolo Navajo, anche per gli Apache l’organizzazione sociale prevedeva un ordine parentale di tipo matrilineare. Questo faceva sì che la figura femminile rivestisse una grossa importanza all’interno della società, sia in termini pratici che simbolici. La figura della Donna Cangiante (detta anche Donna Dipinta di Bianco) occupava un ruolo centrale anche tra gli Apache ed era protagonista della cerimonia che segnava il passaggio delle ragazze alla pubertà, nella quale venivano ritualmente conferite alle giovani le caratteristiche fisiologiche e psicologiche che consentivano di identificarle come donne, pronte per adempiere alle proprie funzioni. La Donna Cangiante rappresentava la capacità della natura di rinnovarsi e rigenerarsi, al punto che si credeva che la divinità non andasse incontro ad alcun processo di invecchiamento, rigenerandosi e tornando giovane ogni volta. Questo potere corroborante veniva utilizzato durante il rituale per plasmare la ragazza, trasformandola in una donna adulta con tutte le caratteristiche attribuitele dalla cultura apache (ivi: 666).
57Gli Hopi avevano un’organizzazione religiosa, su scansione temporale stagionale, che poneva al centro delle funzioni sacre il villaggio come unità spaziale fondamentale. Esistevano due grandi categorie di attività cerimoniali: una che prevedeva la presenza di personaggi mascherati e una che non prevedeva tale presenza. I danzatori in costume, detti kachina, comparivano nelle due grandi ricorrenze che aprivano e chiudevano il ciclo celebrativo (tra il solstizio d’inverno e il solstizio d’estate): il Powamu, durante il quale i bambini venivano iniziati alle società di culto, e la cerimonia Niman, associata al raccolto. Durante l’estate avevano luogo le funzioni a carattere più sociale, mentre in inverno trovavano spazio quelle delle società femminili.
58La visione dell’universo per gli Hopi si presentava con una prospettiva dualistica che separava il mondo ove risiedevano i morti (sotterraneo) da quello degli esseri viventi (parte superiore). Il sole possedeva una duplice casa, una in ognuna delle due sezioni. Di notte l’astro albergava e transitava nel mondo sotterraneo, dove portava la propria luce. Il mondo hopi veniva quindi a costituirsi apparentemente in forma dicotomica, come una serie di opposti: vita/morte, giorno/notte e così via, che in realtà disvelava una complessità capace di includere la divergenza dei fattori e al contempo la complementarietà degli stessi. Mondo degli uomini e mondo degli spiriti finivano col rispecchiarsi, in un continuo rapporto di scambio e di reciprocità in cui trovavano connessione tutti gli elementi dell’universo e di cui preghiere, invocazioni e canti ne erano l’espressione più sostanziale e profonda, capaci come erano di garantire sopravvivenza e coesione tra gli elementi in antitesi (ivi: 672-674).
59Sistema socio-politico e sistema religioso tra gli Zuni si intrecciavano col ciclo delle attività cerimoniali e con le reti di parentela, in un complesso articolato e, per certi versi, unico e particolare nel panorama nordamericano. Un sistema integrato di quattro diversi sistemi organizzativi, ognuno indipendente ma perfettamente in continuità con gli altri: i clan, i gruppi dei kiva (che insieme formavano la Società dei Kachina), le società terapeutiche e le società sacerdotali. Il sistema di relazioni parentali determinava in quale di questi quattro sistemi sistemi veniva ad essere posizionato il singolo individuo. L’iniziazione di un giovane ad una delle associazioni maschili o gruppi kiva, avveniva per decisione parentale (materna o paterna) al momento della nascita, ma non restava vincolante per tutta la durata della vita. La partecipazione alle società terapeutiche dipendeva dalle circostanze della vita, da una malattia o da infrazioni di prescrizioni rituali, che potevano portare alla necessità di affiliazione ad uno di questi ordini. La posizione di sacerdote invece dipendeva dall’affiliazione del proprio clan. L’integrazione di un giovane all’interno di un gruppo kiva instaurava una nuova rete di relazioni di tipo “parentale” con gli altri membri: i compagni divenivano come “fratelli”, i capi come “padri”, i membri anziani come “nonni”.
60Secondo la loro visione del mondo, gli Zuni dividevano gli esseri che popolano l’universo in due categorie: le “persone crude” e le “persone cotte”. Quest’ultime erano dette anche “persone della luce del giorno”: a questa categoria appartengono gli esseri umani. Le prime erano capaci di mutare aspetto, pertanto la forma “persona” (figura antropomorfica) era solo una delle tante possibili fattezze che erano in grado di assumere. Tra le due tipologie esisteva una relazione di rispetto e dipendenza assimilabile a quella dei gruppi di parentela, nonché un rapporto di scambio, così come avveniva con il Padre Sole, a cui le “persone della luce del giorno” portavano le proprie offerte in cambio di benevolenza e benedizione sotto forma di luce solare. In questa relazione di reciprocità le “persone crude” potevano assumere la forma di pioggia, animali, kachina o piante di mais, da cui le “persone cotte” ricavavano sostentamento. Tutto ciò rappresentava un “insieme di relazioni [che] costituisce ciò che gli Zuni chiamano tewusu, la «religione»” (Tedlock 1979, cit. in Comba 2001a: 703).
3.3.6 Il Sud-Est
Territorio: l’area è formata dalla zona che costeggia l’Atlantico e il Golfo del Messico, includendo la penisola della Florida.
Popolazioni: Cherokee, Chickasaw, Choctaw, Creek, Seminole, Yuchi, Catawba, Tuscarora, Timucua.
L’area sudorientale fu la prima a registrare l’ingresso dei coloni europei intorno al xvi secolo. Il territorio era un tempo ricoperto di foreste, canneti e poteva vantare un fertile terreno alluvionale molto adatto all’agricoltura. I fiumi erano ricchi di pesci e nei boschi si poteva trovare abbondante selvaggina. I Cherokee, in particolare, erano abili agricoltori che coltivavano il mais utilizzando il sistema “taglia e brucia”, disboscando e bruciando appezzamenti boschivi e utilizzando le ceneri degli incendi come arricchente per il terreno. Il lavoro agricolo era inoltre coordinato di modo che potesse rispondere ai bisogni della comunità, secondo la logica di un sistema di aiuto reciproco (gadu’gi) che coinvolgeva tutti gli abitanti di un centro urbano (Comba 2001a: 41, 725).
61La regione venne sconvolta dalla colonizzazione europea. Dal Vecchio Mondo giunsero malattie a cui i Nativi non erano pronti a fare fronte e che sterminarono intere comunità. Anche guerra, schiavitù, sfruttamento per fini commerciali e una politica di espropriazione delle terre contribuirono a determinare il crollo di interi sistemi culturali, con la scomparsa della memoria storica e delle conoscenze antiche depositate negli anziani. Prima dell’arrivo degli Europei esistevano società organizzate in modo piuttosto complesso e strutturate in contesti cittadini, in cui si potevano trovare templi e case per riunioni comuni. Ogni centro abitato principale era circondato da una serie di villaggi più piccoli. Per far fronte all’irruzione dell’uomo bianco e per contrastare l’annichilimento culturale del proprio popolo, nel corso del xvii secolo i Creek si unirono in una confederazione politico/militare. L’iniziativa non contribuì purtroppo ad arginare l’avanzata dei coloni, non riuscendo quindi ad interrompere l’esproprio delle terre native e la cacciata e la deportazione all’interno delle riserve di intere popolazioni (ibid.).
62Sempre tra i Cherokee il contatto con gli Europei portò diversi cambiamenti all’assetto sociale delle comunità locali. Nelle società cherokee gli anziani erano accreditati di grande prestigio, beneficiavano di un profondo rispetto ed erano considerati figure sagge e autorevoli. Le donne godevano di una condizione sostanzialmente paritaria. Con la progressiva penetrazione europea vennero a moltiplicarsi anche gli interscambi matrimoniali, che favorirono l’insorgere di una classe di sanguemisti che acquisì progressivamente sempre maggiore potere politico ed economico, iniziando contemporaneamente un processo di distanziamento dai riferimenti culturali, economici, religiosi tradizionali ed enfatizzando sempre più il divario con i Cherokee di sangue puro. All’interno di questa nuova classe sociale troviamo anche la figura di un intellettuale cherokee, Sequoyah, a cui si devono i pochi “testi” religiosi giunti fino a noi. Sequoyah, infatti, riuscì a costruire un sistema di scrittura fonetico adatto alla lingua cherokee che venne adottato senza fatica dai Nativi – ad esempio da guaritori e sciamani – che trascrissero così le preghiere e le loro formule magiche segrete che usavano per curare i malati (ivi: 41-42, 725-726).
63La religione cherokee poggiava sull’idea di un rapporto di equilibrio e armonia fra tutte le forze vitali dell’universo. Una rottura di questo complesso e delicato equilibrio, favoriva l’irrompere del male e della malattia. I malanni avevano origine dagli spiriti degli animali che intendevano vendicarsi nei confronti degli uomini che li avevano uccisi o maltrattati. Altri mali erano invece causati dagli spiriti dei morti, dal Piccolo Popolo (gli gnomi), oppure ancora da azioni di stregoneria. Le pratiche sciamaniche avvenivano ad opera di specialisti dei cerimoniali e custodi della tradizione. Per la cura delle malattie si adoperavano rimedi di origine vegetale, a cui venivano abbinati canti e formule indirizzati nei confronti dello spirito responsabile del disequilibrio. Queste formule contenevano numerosi riferimenti simbolici ai colori, alla cosmologia e alla mitologia (ibid.).
64A partire dal xix secolo, l’opera persuasiva dei missionari cristiani iniziò ad attecchire tra le genti cherokee sostituendo progressivamente l’antica religione con quella del Dio cristiano. La deportazione forzata verso il Territorio Indiano (l’attuale Oklahoma) attuata dal Governo degli Stati Uniti nel 1838, nonostante l’eroica resistenza di poche frange di popolazioni native, come ad esempio la Banda Orientale, fece sì che il mondo tradizionale della regione del Sud-Est subì una trasformazione irreversibile in tempi rapidissimi e molto prima di altre regioni del Nord America (ibid.).
3.3.7 Pianure9
Territorio: regione formata dall’area centrale del continente nordamericano, composta dall’enorme distesa erbosa che si estende dalle valli del Mississippi e del Missouri fino alle pendici della Montagne Rocciose, attraversando longitudinalmente il continente, dal Canada meridionale fin quasi al Rio Grande.
Popolazioni: famiglia linguistica sioux (Mandan, Hidatsa, Osage, Omaha, Kansa), famiglia linguistica caddo (Pawnee, Wichita, Arikara), popolazioni nomadi (lingua sioux: Crow, Lakota o Teton [Oglala, Sicangu o Brulé, Hunkpapa, Itazipco o Sans Arcs, Sihasapa o Blackfeet Sioux, Oohenumpa o Two Kettle, Minikowoju], {dialetto dakota} Mdewakanton, Sisseton, Wahpeton, Wahpekute, {dialetto nakota} Yankton, Yanktonai; lingua algonchina: Blackfeet, Cheyenne, Arapaho, Gros Ventre; lingua athapaska: Sarcee; lingua uto-azteca: Comanche; gruppo linguistico autonomo: Kiowa).
L’ampia parte del territorio nordamericano identificato col nome di “Pianure” (o di “Grandi Pianure”) è, come abbiamo visto all’inizio del capitolo, forse il paesaggio più comunemente associato alle gesta, alle vite e alle tradizioni dei Nativi. Il territorio offre nella parte orientale un ambiente bagnato da piogge abbondanti con rigogliosa e verdeggiane erba alta, terreno morbido e fertile, meglio noto con il nome di “praterie”. Nella parte occidentale delle Pianure la piovosità inferiore fa sì che il terreno si presenti più duro e arido, con presenza di erba corta e resistente nota come “erba dei bisonti” (Buchloë dactyloides), alimento preferito dall’omonimo bovino che proliferava in quest’area (Comba 2001a, 2012). Lungo il corso del Mississippi l’organizzazione socio-economica prevedeva una combinazione di sfruttamento dei terreni fertili e di caccia agli animali selvatici. Le popolazioni Mandan, Hadatsa, Osage, Omaha, Kansa, Pawnee, Wichita e Arikara vivevano in base a cicli stagionali che prevedevano un autunno/inverno di stanzialità, in villaggi con solide capanne in legno a ridosso dei campi di mais, e una stagione estiva con caratteristiche temporanee di nomadismo da dedicare alla caccia dei bisonti. Nelle regioni occidentali invece, la caccia rappresentava la base fondamentale dello stile di vita di popolazioni dedite in pieno al nomadismo (Lakota, Crow, Blackfeet, Kiowa, Arapaho, Comanche e Sarcee).
65Una svolta fondamentale, che ebbe un enorme impatto e determinò una profonda trasformazione dell’assetto socio-culturale nelle Pianure, fu l’introduzione del cavallo, avvenuta ad opera dei primi colonizzatori europei. Se da un lato alcuni popoli videro accrescere il proprio potenziale “espansivo”, a discapito di altri, dall’altro questo evento, abbinato all’introduzione delle armi da fuoco, provocò mutamenti irreversibili nelle culture native. Il cavallo garantiva una maggiore mobilità, una maggiore efficacia nella caccia al bisonte, costituiva un mezzo di trasporto più efficiente e consentiva la possibilità di accumulare maggiori scorte di beni e di cibo. Queste innovazioni provocarono movimenti migratori e spostamenti di popolazioni: alcuni gruppi, grazie alla maggiore mobilità, si spinsero ancor più verso l’interno alla ricerca di risorse, altri invece furono sospinti via dalle proprie terre ad opera di quelle popolazioni uscite rafforzate dal commercio con gli Europei (ibid.).
66La combinazione di diversi fattori, inclusi l’aumento delle occasioni di scambio e l’adozione di un sistema di linguaggio dei segni che favoriva la comunicazione tra genti native differenti, produsse quello che William Powers (1987, cit. in Comba 2001a) definì un pot pourri di idee religiose. Le Pianure divennero in sostanza un luogo di sintesi, in cui si amalgamarono e vennero rielaborate, in un sistema religioso complesso e originale, i costumi, le usanze, le credenze e le idee religiose.
67Al centro delle idee religiose si trova il concetto di “potere sacro”, un insieme di manifestazioni che possono assumere la forma di sostanze animate o inanimate, spesso concentrate in oggetti sacri da custodire attentamente all’interno di involti, detti “borse della medicina”. Questi oggetti andavano conservati gelosamente poiché racchiudevano un grande potere, legato all’esperienza della visione e al rapporto con il mondo dell’invisibile. Il potere sacro è noto col nome di wakan tra i Lakota, oppure xube tra i Ponca o ancora puha per i Comanche. L’insieme delle manifestazioni di questo potere assume caratteristiche riassumibili nella forma di un’entità – Wakan Tanka tra i Lakota o Maheo per gli Cheyenne – che solo parzialmente presenta le caratteristiche di un essere supremo (Comba 2001a: 30).
68La pipa rappresentava uno degli elementi centrali e dall’altissimo valore simbolico nelle religioni native delle Pianure. La sua conservazione avveniva ad opera di un custode, il quale aveva anche il compito di preservare la memoria storica e le tradizioni tribali. L’oggetto sacro era in prima istanza uno strumento di preghiera. Il fumo della pipa, etereo e volatile, si innalzava verso il cielo a portare preghiere o invocazioni agli spiriti che albergavano nel mondo superiore. La pipa tradizionale è costituita da un fornello in pietra rossa di catlinite e un lungo cannello decorato con penne e ornamenti. Le due parti erano in genere conservate separatamente e unite solo in occasione del loro utilizzo. L’oggetto era trattato con grande rispetto e precauzione, tenuto a distanza da stranieri, bambini o dall’elemento femminile, onde evitare conseguenze gravi o tragiche (ivi: 30-31).
69La Pipa Sacra compare in modo dominante all’interno del panorama religioso dell’area. Tra gli Arapaho, la Sacra Pipa Piatta, insieme alla Sacra Ruota, venne affidata loro in custodia dal Creatore. Il Custode della Sacra Pipa era considerato la massima autorità arapaho. All’oggetto è collegato il racconto dell’origine del mondo, secondo cui troviamo un uomo seduto su una pipa che galleggia sulle acque primordiali. Il racconto include anche il tema dell’animale tuffatore (in questo caso un’anatra) che si getta alla ricerca di un po’ di fango, riuscendo a portarlo in superficie per creare il suolo terrestre (Comba 2012: 146-148).
70Per i Lakota (o Teton), la Sacra Pipa costituisce l’oggetto più sacro e prezioso in possesso della comunità, e oggi viene custodito e protetto nella località di Green Grass, in South Dakota. L’oggetto svolge anche un importante ruolo storico in quanto simbolo e rappresentante delle vicissitudini e delle fatiche del popolo lakota. La Sacra Pipa venne donata loro, insieme ai principali rituali religiosi, da un personaggio mitico, la Donna Vitello di Bisonte Bianco. Nella versione di Black Elk la donna wakan si trasforma in un vitello di bisonte rosso e marrone, una volta fatto dono della pipa (cfr. Black Elk, Brown 1953 [2012]).
71Oggetto fondamentale nella cultura lakota, la Sacra Pipa rappresenta il legame dell’uomo con il mondo invisibile e racchiude in sé la totalità del cosmo e degli esseri che vi abitano. Il fornello raffigura la terra e il legame con essa, il cannello è invece un albero cosmico, un axis mundi, collegamento tra cielo e terra. L’elemento celeste è ulteriormente simboleggiato dalle penne d’aquila attaccate al cannello stesso. L’oggetto sacro è protagonista di tutti i più importanti riti lakota, nei quali vengono spesso effettuate offerte di fumo ai quattro punti cardinali, verso la terra e il cielo, così da rappresentare nuovamente un’idea di unità dell’universo. L’atto del fumare, accompagnato a preghiere e invocazioni, è considerato attività sacra, in quanto percepito come omaggio alle potenze spirituali (Comba 2001a: 31).
72La Donna Vitello di Bisonte Bianco donò al popolo lakota sette grandi rituali, oltre alle indicazioni e alle prescrizioni necessarie per la loro corretta esecuzione: la Capanna del Sudore, la Ricerca della Visione, la Danza del Sole, la Cerimonia della Custodia dello Spirito, la Creazione dei Vincoli di Parentela, la Cerimonia di Pubertà delle Ragazze e il Gioco della Palla Sacra (cfr. Black Elk, Brown 1953 [2012]). Tra queste la Danza del Sole è forse una delle più importanti. Wiwanyang wachipi (la Danza Guardando il Sole) veniva solitamente celebrata a inizio estate, quando i gruppi lakota, rimasti isolati e al riparo durante la stagione invernale, iniziavano a riunirsi per organizzare la caccia collettiva ai bisonti. L’elemento solare non è in realtà costitutivo della cerimonia, infatti tra i Crow e gli Shoshone prende il nome di “Capanna della Sopportazione della Sete” e tra gli Cheyenne invece “Capanna della Medicina”. La cerimonia si svolge durante quattro giorni di allestimenti e altri quattro dedicati alla danza. La preparazione prevede la ricerca di alcuni oggetti sacri: ad esempio, la scelta e l’abbattimento di un albero di pioppo (cottonwood) che fungerà da palo centrale della capanna della danza, nuovamente un asse cosmico, collegamento tra cielo e terra, e che richiama alla mente aspetti dello sciamanismo siberiano. I danzatori sono tenuti all’astensione da cibo e acqua per diversi giorni, danzano accompagnati dal ritmo dei tamburi e dal suono di uno strumento a fiato ricavato da un osso d’aquila. Per alcuni gruppi la cerimonia ha come atto culminante – fortemente drammatico – lo svolgimento di alcune pratiche di auto-sacrificio da parte dei danzatori, i quali attraverso appositi ganci in legno infilzati nei muscoli del petto, danzano intorno al palo centrale fino a procurarsi la lacerazione della carne, liberandosi dai lacci che li tenevano vincolati. La cerimonia, di cui parleremo in modo più approfondito nel quinto capitolo, attraverso la costruzione della capanna, con un’esplicita concezione cosmologica, riproduceva periodicamente e ritualmente una vera e propria ricostruzione ritualizzata dell’universo (ivi: 31-32, 321-322).
73L’universo degli Cheyenne (o Tsistsistas) è popolato da esseri spirituali in relazione più o meno diretta con l’essere supremo creatore e dispensatore di vita, conosciuto col nome di Maheo. Questi esseri spirituali possono manifestarsi in diverse forme: animali, uccelli, fenomeni naturali, piante e così via (cfr. Comba 2004a). La tribù conserva ancora oggi alcuni oggetti sacri capaci di racchiudere in sé la forza e la potenza di questi esseri spirituali, si tratta delle Sacre Frecce e del Copricapo Sacro (o Copricapo di Medicina). Le principali cerimonie erano il Rito di Rinnovamento delle Sacre Frecce, la Danza del Sole e la cerimonia Massaum. Le Sacre Frecce vennero donate in antichità da Maheo all’eroe culturale Dolce Medicina (Motseyoef) nei pressi della montagna sacra (Bear Butte). Il dono consiste in quattro frecce, due delle quali legate al mondo della caccia, con potere misterioso sugli animali (in particolare sui bisonti), e due al mondo della guerra, legate agli esseri umani. Da allora gli Cheyenne custodiscono e tramandano il compito di custodirle di generazione in generazione. Ogni due anni circa, allorché un individuo faceva voto di organizzare la cerimonia, le frecce venivano tolte dall’involto che le custodiva ed erano mostrate a tutti gli uomini della comunità. Rappresentazione dell’unità e dell’integrità comunitaria, le Sacre Frecce e la cerimonia collegata avevano una ricaduta benefica su tutti i membri della tribù. Ogni qualvolta il popolo si fosse trovato in difficoltà o fosse stato minacciato da malattie o pericoli, le Frecce necessitavano di essere rinnovate (cfr. Schlesier 1985 [1987]; Comba 2001a: 32, 305-306).
3.4 Cenni conclusivi: le religioni native e il tempo della storia
74Ad uno sguardo distratto, poco attento alle sfumature leggibili nelle pieghe degli eventi e delle mutazioni storico-sociali, le religioni native possono apparire quasi come oggetti di un lontano passato, sopravvissute in qualche modo all’oblìo della storia. Il pensiero di Enrico Comba, già in parte evidenziato nel corso del primo capitolo, è che le religioni native, più delle altre grandi religioni (soprattutto delle grandi monoteiste), siano da considerare come soggetti dinamici, calati nella storia e capaci di adattarsi più facilmente alle mutevoli condizioni esterne. L’immagine stereotipata delle religioni tradizionali come immobilmente legate al passato e insensibili agli stimoli esterni, appare poco convincente. Le religioni dei Nativi americani hanno mostrato una considerevole capacità di sottoporre se stesse a processi di continua rielaborazione e reinterpretazione, evidenziando ulteriormente la loro dimensione storica, ben prima dell’arrivo degli Occidentali. Le religioni native furono in sostanza capaci di reagire ai colonizzatori, rielaborando le proprie tradizioni in una modalità tale che potesse consentire loro di resistere all’impatto devastante provocato dagli Europei. Il sorgere di profetismi e di movimenti di ribellione e opposizione all’avanzata occidentale visse alcuni momenti di resistenza militare e culturale di grande orgoglio, ma trovò la sua tragica conclusione con i fatti di Wounded Knee del 1890 e la fine della Ghost Dance (Comba 2001a, 2004b).
75Il movimento di carattere messianico della Ghost Dance nacque nel Nevada verso la fine del xix secolo ad opera di Wovoka (1856 ca.-1932). I seguaci credevano in un futuro ricongiungimento tra vivi e morti, nel rinnovamento del mondo e nel ripristino della condizione di pace e armonia universale. Le caratteristiche di creatività e dinamicità del movimento nascevano in risposta al difficile rapporto con gli Europei, mostrando pertanto la duttilità delle tradizioni native. Allo stesso tempo al suo interno continuarono a persistere alcuni tratti tipici delle religioni amerindiane: l’importanza della figura dello sciamano, la visione come canale di contatto col mondo degli spiriti, il messaggio profetico manifesto nell’ottenimento di potere da parte di un individuo e le modalità di celebrazione collettiva con danze e canti. La Ghost Dance seppe anche assorbire diversi elementi propri del Cristianesimo – in una sintesi vitale e creativa – tra cui: l’immagine di un Dio personale e creatore, alcuni riferimenti biblici, l’idea di un ritorno dei morti sulla terra e la sensazione di un generale clima apocalittico (ibid.).
76Nel corso del xx secolo emersero altri innovativi fenomeni tra i quali, la religione del peyote e la creazione della Native American Church, poi ufficialmente riconosciuta, capace di fondere elementi religiosi cristiani e nativi. Queste sintesi furono importanti soprattutto per la costruzione di un senso di identità culturale e politica nativo, restituendo un’idea di “ecumenismo” religioso e di “indianità”, con un forte carattere pan-indiano rivolto alla totalità dei Nativi, al di là dell’appartenenza territoriale. Diverse tradizioni, come ad esempio la Danza del Sole o la Capanna del Sudore, assunsero quasi carattere universale, entrando a far parte del bagaglio culturale di altre comunità. Ciò favorì la crescita di un movimento di lotta e di difesa dei diritti civili e politici all’interno delle comunità indiane. Non mancarono comunque anche scontri interni al movimento tra i più tradizionalisti e i più innovatori, quest’ultimi aperti all’inclusione e al coinvolgimento nelle cerimonie anche di soggetti non-Indiani (ivi: 44-45).
77La capacità di stare nella storia delle tradizioni native beneficiò anche di un diverso clima culturale che portò all’emanazione di importanti provvedimenti legislativi. Negli Stati Uniti del 1978, l’American Indian Religious Freedom Act, garantì a Indiani americani, Eschimesi, Aleuti e nativi hawaiani il diritto di poter mantenere le proprie credenze, l’accesso ai siti di culto e il possesso di oggetti sacri, nonché il diritto a celebrare riti e cerimonie. Più di un decennio dopo, nel 1990, venne emanato il Native American Graves Protection and Repatriation Act, con lo scopo di proteggere i cimiteri e i luoghi di sepoltura nativi dai cercatori di reperti archeologici e offrendo la possibilità di richiedere legalmente la restituzione di oggetti e manufatti di importanza cerimoniale.
78Nel panorama odierno emergono alcuni fattori importanti legati alle religioni native. Da un lato esiste un legame sempre più stretto tra le concezioni e le attività religiose e la rivendicazione dei diritti delle comunità native, dall’altro si assiste al ritorno di attenzione alla dimensione territoriale e al legame con la terra delle tradizioni amerindiane. Come evidenzia lo stesso Comba, è oggi necessaria una maggiore consapevolezza e una reale presa di coscienza del fatto che le tradizioni religiose indigene rappresentano, al pari di altre, alcune delle più grandi esperienze spirituali dell’umanità (ivi: 47).
79In un passaggio conclusivo dell’introduzione di Testi religiosi degli Indiani del Nordamerica – che si è scelto di citare in forma ampia – Enrico Comba mette chiaramente in evidenza un aspetto che nei suoi studi ha sempre rivestito un ruolo di primaria importanza: il fattore della storia. Nell’esposizione del proprio pensiero, e nell’approccio allo studio del fenomeno religioso nativo, Comba mette ancora una volta in risalto come egli stesso si ponga come una sorta di sintesi tra le due discipline che costituiscono le fondamenta della sua riflessione scientifica ed etnologica: l’antropologia e la storia (delle religioni). Una sintesi di cui lo studioso si assume la responsabilità e che trasporta all’interno di un quadro più ampio, in cui allo studio e all’approccio storico e antropologico si associa un perdurante senso di rispetto per le simbologie e i significati percepiti come provenienti da persone, a loro volta con un passato e con un’appartenenza. Un senso di rispetto e ammirazione per popoli e tradizioni che hanno superato la prova della storia, l’urto dei processi di secolarizzazione e l’impatto con i grandi monoteismi, rappresentati anche in forma politica e militare dai colonizzatori. Si ha quasi la sensazione, infine, di poter cogliere nella rigorosità della dissertazione un afflato di “resistenza” intellettuale e culturale, anch’essa storicizzata.
Ancora una volta, la storia è ciò che ci permette di discriminare e di cercare qualche spiegazione nei fatti confusi del presente, la storia che ci insegna il lungo travaglio delle religioni indigene e i loro continui sforzi di adattamento e di rielaborazione volti a superare le difficoltà dell’esistenza, la minaccia dell’estinzione, la lotta per la sopravvivenza. Grazie a una prospettiva attenta alla dimensione storica, possiamo cogliere meglio, dietro alle contraddizioni e alla confusione della situazione attuale, il dispiegarsi di una serie complessa di processi e di vicende culturali e religiose. Cercare di comprendere il mondo religioso dei Nativi americani significa non lasciarsi abbagliare dalla apparente semplicità di queste forme correnti di divulgazione, non lasciarsi irretire dall’immagine stereotipata dell’Indiano d’America, ma confrontarsi con la complessa realtà di un universo di pratiche e di significati che sono cambiati nel tempo, che hanno conservato un profondo legame con il proprio passato e con le proprie radici, le quali affondano nel mondo degli antichi cacciatori-raccoglitori preistorici, ma che hanno subito innumerevoli trasformazioni e rielaborazioni nel corso del tempo, riuscendo a sopravvivere fino all’epoca dei computer e della comunicazione telematica (ivi: 48).
Notes de bas de page
1 Traduzione dall’inglese ad opera dello scrivente.
2 Quanto riportato è tratto dall’intervento effettuato da Enrico Comba l’11 maggio 2019 intitolato Stereotipi occidentali sulla spiritualità nativa all’interno del Convegno “Sentieri di carta verso il West” organizzato a Torino (il riferimento a questa fonte è presente nella sezione “Contributi video citati”, collocata di seguito alla sezione “Bibliografia”, rif. video: Sentieri di Carta 2019 pt3, pubblicato l’8 giugno 2019).
3 Ibid.
4 Ibid.
5 Ibid.
6 Ibid.
7 Per l’esposizione si è scelto di mantenere l’accorpamento di queste due aree culturali, così come operato da Enrico Comba nel volume Testi religiosi degli Indiani del Nordamerica.
8 Ibid.
9 Si è scelto di trattare sinteticamente la regione delle Pianure in coda alle altre, per fare in modo che insieme al successivo paragrafo, in cui si farà un breve accenno alle trasformazioni intercorse alle religioni native nel panorama moderno e contemporaneo, si potesse costruire una sorta di introduzione al capitolo successivo, specificatamente dedicato all’area culturale delle Grandi Pianure.
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Religioni e complessità
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