1. Il discorso sulle religioni come approccio alla complessità
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Texte intégral
“Abbi pazienza, ché il mondo è vasto e largo”
(Edwin A. Abbott, Flatlandia, 1884)
1.1 Introduzione alla religione: inquadramenti teorici e scientifici e questioni epistemologiche
1Nel campo dello studio delle religioni, come per altri ambiti disciplinari, si sono affermate diverse prospettive con corrispondenti scuole di ricerca. L’Ottocento è stato caratterizzato da un processo di diversificazione delle scienze naturali e delle scienze umane a cui hanno fatto da contraltare le trasformazioni radicali che hanno investito l’Occidente e che hanno posto la cultura europea (tutta) di fronte al bisogno di trovare nuove chiavi di interpretazione di se stessa, nonché di tutte le altre società con cui l’Occidente aveva intrapreso rapporti di interscambio oppure di dominazione. Si è assistito ad un allentamento del predominio cristiano in Occidente, un “disincanto del mondo”, come venne chiamato da Max Weber (1864-1920), in parallelo alla necessità di dover sempre più sottoporre al vaglio critico la storia cristiana nel confronto con tutte le tradizioni religiose ora accessibili, siano esse tradizioni orali, raccolte grazie al lavoro di trascrizione ad opera di missionari, viaggiatori o studiosi, quanto piuttosto disponibili attraverso la traduzione di testi scritti.
2Verso la metà del xix secolo si osserva la nascita di una nuova disciplina, la storia delle religioni, che fece dello studio comparato la propria caratteristica principale, rivolgendosi alle differenti tradizioni religiose allora note. Accanto a questa si assiste, nella seconda metà del secolo, al progressivo sviluppo di altre discipline nell’alveo delle scienze umane quali la sociologia, la psicologia, la linguistica e l’antropologia culturale. Si viene quindi ad affermare sempre più frequentemente l’esigenza di poter ricondurre tutti questi differenti contributi – secondo una tendenza tipicamente illuministica – all’interno di un’unica disciplina, la scienza della religione. Questo ambito di studio si troverà ad essere dibattuto da un lato tra impegni apologetici e scientisti, che la porteranno ad inseguire l’obiettivo di dimostrare il primato del Cristianesimo sulle altre religioni, dall’altro a porsi nell’ottica di una conoscenza scientifica della religione, allo scopo di contribuire alla sua inarrestabile, ed inevitabile, scomparsa (Filoramo, Prandi 1987: 9-10).
3Il problema epistemologico di fondo che si viene a porre è costituito dall’alternativa tra spiegare o comprendere la religione. Questa alternativa ha visto in più stagioni dibattiti e analisi in campo scientifico, per quanto, fino all’Ottocento, il discorso sull’uomo e sulla società non costituì un sapere vero e proprio, cioè un ambito scientifico per il quale porsi questioni di ordine epistemologico. Dal dominio delle scienze della natura, per cui si arriva ad affermare che la scienza moderna nasce come scienza naturale, basata sul metodo sperimentale e la matematizzazione, si passa alla contrapposizione natura/storia per la definizione di una nicchia di competenza delle scienze dell’uomo. Già nel Settecento Vico (1668-1744) con la sua idea di fondare una “scienza nuova” aveva posto l’attenzione sulla possibilità di una comprensione storica del mondo delle istituzioni prodotte dall’uomo e Herder (1744-1803) aveva richiamato alla comprensione dei popoli attraverso la varietà delle loro lingue, tradizioni e “culture”. In quest’ottica, non è più la natura, ma sono la storia, il linguaggio e l’esperienza umana a diventare sedi di senso oggettivo e universale. È però solo nell’Ottocento che si assiste ad una fase di codificazione dei paradigmi per le scienze dell’uomo e della società, accompagnata da una specifica riflessione epistemologica. Si vengono a delineare due prospettive diverse ma speculari: la prospettiva positivista, secondo cui le scienze della società vanno ricondotte alla questione metodologica generale della scientificità della ragione, da un lato, e la prospettiva storicista secondo cui le scienze della cultura vanno ricondotte alla questione specifica della storicità della ragione. Il positivismo di ispirazione comtiana, secondo cui la ragione scientifica si è affermata come metodo unitario delle scienze empirico-naturali, costituisce l’ideale epistemologico di riferimento. La dimensione sociale si viene così a connotare come un territorio da aggiungere al dominio della razionalità scientifica.
4Alla fine dell’Ottocento questo modello di fondazione unitaria viene messo in discussione; lo storico Droysen (1808-1884) introduce la distinzione tra scienze naturali fisico-matematiche, caratterizzate dal procedimento della spiegazione, e scienze storiche, caratterizzate dal procedimento della comprensione. Di fatto, nonostante il dibattito in proposito abbia visto altre teorizzazioni, perlopiù sempre in chiave dicotomica, il confronto e la riflessione scientifica ottocentesca approdano al Novecento con un impianto irrigidito tra la questione storicista della comprensione (Verstehen) di azioni di soggetti storici e la tradizione scientifica della spiegazione (Erklären) dei fatti attraverso leggi. Nel Novecento l’attenzione, sia nella prospettiva neopositivista sia in quella ermeneutica, si sposta invece sul linguaggio, in chiave logica nel primo caso e in chiave ontologica nel secondo. Dal punto di vista epistemologico, neopositivista, la giustificazione delle scienze avviene attraverso la “ricostruzione razionale” del loro linguaggio, alla ricerca di un metodo organico fondato sull’analisi logica e nell’ottica di una scienza unitaria in cui la spiegazione è di per sé uno schema logico-formale, in cui non vi è differenza di principio tra un oggetto storico-sociale e un oggetto fisico. L’oggettività è così assimilata alla struttura inferenziale della spiegazione. Nella prospettiva ermeneutica, invece, a partire dall’ontologia di Heidegger (1889-1976) in Essere e tempo del 1927, la conoscenza ha la sua condizione di esistenza nell’essere dell’uomo. Linguaggio e tempo connotano ontologicamente la conoscenza in chiave di mediazione ad opera loro. “L’ermeneutica insegna a sottrarre la conoscenza agli a-priori metodologici, e a situarla nella mediazione linguistica e nella temporalità” (Borutti 1999: 3-12).
5Successivamente, il tentativo corposo di Max Weber di rifondazione del metodo delle scienze storico-sociali lo porta ad adottare uno sguardo strabico, riconoscendo cioè un doppio regime (insieme nomologico e comprendente) così da porre l’attenzione su quanto sia importante fornire le condizioni di costituzione di una conoscenza oggettiva nel campo delle scienze storico-sociali, connettendo il “come” del metodo alla specificità dell’oggetto. L’oggettività alla base delle scienze è quindi da intendere come istituzione delle “connessioni concettuali dei problemi” entro il discorso scientifico, a partire da punti di vista rilevanti. Questo è il processo di costruzione di eventi che Weber chiama “tipo ideale”: formale nel senso costitutivo della schematizzazione, che trasforma un evento in un fatto storico, secondo un nesso genetico ed una concatenazione causale. Ciò porta lo studioso a riconoscere nelle scienze storico-sociali una specifica tensione tra oggettività e valori, spostando l’attenzione dal metodo ai livelli di costituzione dell’oggetto (Weber 1922a [1958: 79]).
6Per quanto riguarda le prospettive orientate in modo unilaterale sull’oggettività, sul senso, sul formalismo del metodo, ciò che viene a mancare è la domanda sull’oggettivazione. A tal proposito Cliffod Geertz (1926-2006) si è interrogato su ciò che fanno coloro che praticano una scienza, su come costruiscono i loro oggetti gli scienziati umani e sociali. Egli arriva ad interpretare il problema dell’oggettivazione nei termini secondo cui uno scienziato (sociale) debba interrogarsi sulle procedure categoriali di costituzione degli oggetti scientifici. In sostanza, Geertz afferma che nell’analisi della propria conoscenza scientifica, non è necessario interrogarsi direttamente sugli oggetti come se fossero dati, bensì ricostruire i modi attraverso cui vengono resi visibili e conoscibili. Gli oggetti dei diversi saperi si vengono quindi a costituire a partire da diversi modi di interazione tra forma e contenuto, su diversi livelli e dispositivi: tecnici, analogici e retorici (C. Geertz 1973 [1987: 47]). Gli oggetti scientifici vengono quindi ad essere interpretati come oggetti non-naturali, come costrutti artificiali, risultato di complesse procedure di messa in forma. Gli oggetti, anche quelli dell’antropologia, si mostrano in un orizzonte di esperienza vincolata ed artificiale (nel “campo”). In antropologia l’esperienza non si soggettiva nella forma ripetibile (e reversibile) dell’esperimento, bensì nella forma eventuale, relazionale e processuale di avvicinamento all’altro o di avvicinamento a sé attraverso l’altro (Borutti 1999: 15).
7Nel dibattito tra spiegazione e comprensione la religione viene vista, nel primo caso, come elemento distinto dall’oggetto di fede, nella forma di una manifestazione antropologica e storica che può, e deve, essere sottoposta ai metodi dell’indagine scientifica: ne consegue pertanto che il dato religioso possiede in sé una sua “verità”, che va portata alla luce in modo critico, neutrale e oggettivo, senza che l’interprete possa svolgere alcun tipo di interferenza di tipo valutativo. Nel caso dei modelli interpretativi, poggianti sulla comprensione (Verstehen), il focus si concentra sulla possibilità di poter afferrare l’esperienza embrionale alla base delle produzioni spirituali e culturali. Una volta applicato al mondo dei fatti religiosi, un tale modello ha visto l’emergere di vere e proprie correnti di tipo fenomenologico. Il paradigma della comprensione presuppone di per sé un’autonomia assoluta della religione: una religione che altro non racconta che di sé, nei termini di esperienza vissuta (Erlebnis). In questo movimento circolare che si inaugura, la stessa religione è punto finale ed iniziale di se stessa. Ne consegue che l’interprete non ha l’opportunità di porsi in modo distante o neutrale, essendo al contempo ingaggiato in termini di compartecipazione vissuta con il proprio oggetto di studio (Filoramo, Prandi 1987: 11-12).
8Le contrapposizioni e le dicotomie emerse appaiono sempre più in via di superamento all’interno del dibattito scientifico e, anche nell’ambito delle scienze della natura, lo spazio lasciato alla soggettività, alle capacità intuitive e di creazione dell’operatore, ha acquisito sempre maggiore importanza. Una separazione radicale tra scienze dell’uomo e scienze della natura appare sempre meno efficace, nei termini in cui le premesse delle prime invadono il campo delle seconde, mentre le generalizzazioni delle seconde interessano sempre più le prime. Sembra affacciarsi all’orizzonte un modello di integrazione tra saperi in grado di portare al progressivo superamento della dicotomia tra interpretazione e comprensione (cosa peraltro già intuita da Max Weber), nell’ottica di un pluralismo metodologico che trovi all’interno dei singoli percorsi la garanzia della propria “scientificità”, da un lato, e che risponda alle sempre più pressanti istanze volte a tener conto degli aspetti “soggettivi” della ricerca, come parti integranti della stessa, dall’altro.
9L’espansione coloniale, agli albori della nascita della disciplina antropologica, ha suscitato in sempre più occidentali curiosità ed interesse crescenti nei confronti della cultura, dei costumi e delle pratiche, dei riti e dei miti, del pensiero e della religione dei popoli privi di scrittura. Dalle coltri di questa storia sono emerse due figure particolarmente degne di nota: missionari ed etnologi. I primi avevano come obiettivo la divulgazione del Vangelo e la conversione dei popoli appena “scoperti” alla parola di Cristo, mentre i secondi si sono interessati maggiormente a ciò che investiva la vita sociale di queste popolazioni. Attingendo da idee derivate dai filosofi del xviii secolo, l’etnologia arriverà a considerare il fatto umano come fatto sociale, nella visione di un’umanità che si evolve dallo stato selvaggio alla civiltà. Le prime teorizzazioni sulla religione e sul tema del sacro poggeranno su due fattori-base: il mana, visto come forza impersonale ed anonima presente nel clan, e il totem, forma di espressione e simbolizzazione del mana (Ries 1981 [2012: 7]).
10In questo filone di interpretazione del tema religioso in chiave sociologica ed etnologica, si inserisce il pensiero di Émile Durkheim (1858-1917), il quale arriverà a concepire la società nei termini di una realtà metafisica superiore in grado di trascendere l’individuo, al punto che ogni fatto sociale ha la forza di poter esercitare una sorta di costrizione esterna. In quest’ottica, secondo Durkheim, la religione contiene elementi in grado di dar vita alle diverse manifestazioni della vita collettiva (scienza, poesia, arte, diritto, morale e famiglia) e per questo motivo dovrà essere terreno di particolare interesse da parte del sociologo. Concetto centrale del pensiero durkheimiano è la nozione di coscienza collettiva, concepita come l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla gran parte dei membri di una società tanto da formare un sistema con vita a sé stante. Tale coscienza collettiva arriva a trascendere le coscienze individuali ed è a partire da essa che prendono vita le idee.
11Durkheim chiarisce che solo attraverso l’osservazione del comportamento sociale è possibile definire il fenomeno religioso. Ogni credenza religiosa presuppone che si attui una classificazione delle cose in due generi contrapposti: il sacro e il profano (Durkheim 1912 [1973]). Egli elabora una definizione di religione basata sul sacro:
Una religione è un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a delle entità sacre, cioè separate, interdette; credenze e pratiche che riuniscono in una medesima comunità morale, chiamata chiesa, tutti gli aderenti (Durkheim 1912 [1973: 59]).
La religione nell’ottica di Durkheim è un fenomeno sociale integrale, un fatto universale emanato dalla coscienza collettiva ma anche un assoluto a priori e un fenomeno necessario alla vita collettiva. Per comprendere la nascita del fenomeno religioso e delle sue diverse declinazioni, egli si pone alla ricerca di ciò che considera la religione più primitiva ed elementare, che egli identifica nel totemismo. Una religione alla cui base presiede la classificazione tra sacro e profano e alla cui origine presenzia il mana, una forza che costituisce il centro di tutti i fenomeni religiosi. Il mana totemico rappresenta il sacro per eccellenza, la forza religiosa collettiva e anonima del clan, trascendente ed immanente; è un dio impersonale al principio del sacro. In questa visione di religione delle origini non esistono personalità religiose quali spiriti, demoni o dèi, che subentreranno invece in una fase successiva. Il totem rappresenta l’ipostasi del clan, da cui si evince che all’origine del sacro c’è il clan. Il sacro viene creato dalla società per poi essere trasferito al totem, come corpo visibile del dio, è il sacro a generare il culto ed è sempre il sacro da cui la società trae origine (Ries 1981 [2012: 16-17]).
12L’interesse principale di Marcel Mauss (1872-1950), nipote e allievo di Durkheim, anch’egli facente parte della scuola sociologica francese, si rivolge in particolar modo all’ambito etnologico con l’intento di studiare le società illetterate attraverso l’uso di strumenti sociologici, con particolare attenzione all’analisi dei sistemi magici e delle forme del sacrificio. Senza perdere di vista la connessione tra sacro e interdetto, riprese la nozione di “ambiguità del sacro”, poi ampliata nei termini di “ambivalenza” da Sigmund Freud (1856-1939) in Totem e tabù del 1913, osservando quanto il concetto di tabù risulti applicabile a realtà che appaiono in opposizione reciproca: il sacro e l’impuro. Tutto ciò che è impuro è al contempo dotato di poteri magici, per analogia il sacro risulta essere contagioso tanto quanto l’impuro. Si ha la possibilità di liberarsi dalla condizione di sacralità grazie alla purificazione derivante dal sacrificio, allo stesso modo con cui ci si libera dell’impurità. Il sacrificio mette in evidenza, quindi, una dinamica che ha come funzione essenziale quella di sacralizzare il sacrificante: il fedele che fornisce la vittima acquista, alla fine della cerimonia, un carattere religioso che non aveva in partenza grazie al ruolo da intermediario svolto dalla vittima stessa che, al contempo, mantiene al riparo il sacrificante e lo riscatta (Mauss, Hubert 1899 [1981]). In questa dinamica del rito si osservano due polarità: una legata ai riti di “entrata”, di progressivo accostamento al sacro, e una legata a quelli di “uscita”, o di purificazione, che ha lo scopo di liberare dall’eccesso di sacralità di cui si è investiti e che risulterebbe un carico insostenibile nell’ambito del quotidiano (Filoramo, Prandi 1987: 112-113). Una buona parte del lavoro di Mauss insiste e si concentra sugli aspetti simbolici legati al sacro e alla religione. Il totem rappresenta il simbolo del gruppo, una riserva del sacro, costituito da tutti i sentimenti del gruppo stesso e che su di esso si riversano. Il totem è oggetto del culto e simbolo centrale della coesione del gruppo (Ries 1981 [2012: 18]).
13Le influenze durkheimiane si rilevano anche nel lavoro di Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939), nei termini in cui la possibilità di cogliere ciò che è considerato reale avviene nella forma di rappresentazioni collettive comuni ai membri di un gruppo sociale. Lévy-Bruhl concentra una parte del proprio lavoro sulla comprensione del pensiero primitivo, che definisce prelogico e nel quale coglie una tensione costante tra la credenza e la percezione di un mondo duplice: l’uno visibile, l’altro invisibile, l’uno naturale, l’altro soprannaturale. L’uomo tribale avverte costantemente il sentimento di contatto e di presenza con il mondo invisibile e soprannaturale. Il simbolo ha la funzione, non esclusivamente di rappresentazione dell’essere soprannaturale, bensì di rendere presenti questi esseri invisibili e di creare una forma di partecipazione alla vita di questo essere. Tutto ciò che è sacro, si manifesta nei luoghi sacri, anch’essi forme di rappresentazione degli esseri soprannaturali (Ries 1981 [2012: 28]).
14In area tedesca tra gli autori più importanti, sul versante degli studi socio-religiosi, si colloca senz’altro un autore di cui abbiamo già parlato dal punto di vista filosofico, Max Weber. Distante dalla visione secondo cui la religione funge da strumento di alienazione, proposta da Karl Marx (1818-1883), ritiene che la religione sia da considerare come un fatto culturale che si sviluppa come prodotto storico, e che non ha quindi alcun tipo di natura trascendente. Il pensiero sociologico applicato al tema delle religioni di Weber si articola su due livelli principali: un primo livello legato alla nozione di carisma, inteso come una qualità straordinaria attribuita ad una persona, che fa sì che questa venga considerata come dotata di forza e proprietà soprannaturali, sovrumane o come inviata da Dio. Sullo sfondo dei fatti collettivi viene riconosciuta ad una tale figura capacità attiva ed autonoma di scelta e decisione. Un secondo livello invece ha a che fare con l’etica economica connessa alle religioni, ossia a quegli impulsi pratici all’azione che le credenze e le dottrine religiose sono in grado di produrre o di favorire (Weber 1922b [1974]). Il sociologo tedesco arriva a considerare la religione come uno dei fattori interni ai meccanismi storico-sociali (egli riconosce un ruolo importante al protestantesimo nello sviluppo dell’economia borghese). Secondo Weber le religioni offrono un contributo importante nel plasmare le società, soprattutto in merito a dimensioni strettamente terrene quali l’economia e le leggi. In questo modo egli conferisce un marcato spessore storico e creativo ai fatti religiosi (Filoramo, Prandi 1987: 118-120). Weber sceglie di non dare una definizione di religione all’inizio del percorso di indagine, quanto piuttosto (e nel caso) alla fine dello stesso. Le sue riflessioni si concentrano non tanto sull’essenza della religione quanto sulle condizioni e gli effetti di un determinato agire in comunità. Weber però non giunse mai ad una definizione di religione durante i suoi studi. In virtù di ciò il suo pensiero lascia aperte alcune riflessioni su quanto una definizione formale di religione sia fondamentale e indispensabile per lo studio del fenomeno stesso, oppure su quanto una definizione formale possa contenere affermazioni passibili di opinabilità: alla luce del fatto che il concetto di “religione” è esso stesso un concetto discutibile. Potrebbe risultare utile, in tal senso, riflettere anche su quanto una definizione di religione possa investire ed implicare connessioni con l’esercizio di un potere, da parte di un’autorità secolare ingaggiante, nel dover stabilire che cosa possa essere classificato come religione e che cosa no. Inoltre, si potrebbe anche tener conto del fatto che così come la società cambia, anche la religione sembra mutare con essa. In questo quadro generale l’approccio al tema da parte di Weber appare piuttosto distaccato e avalutativo (Aldridge 2000 [2005: 42-44]).
15Chi al contrario di Weber costruisce una definizione ed un quadro, forse fin troppo preciso, di ciò che sono religione e fenomeni religiosi è René Girard (1923-2015), il quale afferma che saranno da considerare come religiose tutte le manifestazioni collegate con la capacità di ricordare, rievocare, perpetuare e, pertanto, ribadire un’umanità radicata nel sacrificio di una vittima emissaria (Girard 1972 [1980]).
16Secondo l’autore, la teoria della vittima emissaria, il cui nucleo è rappresentato dal ruolo del sacrificio nella vita religiosa, consente di scoprire l’oggetto di ogni rito e di ogni culto (ibid.). Girard respinge l’idea che considera la vittima come sacra, per intravedere nel sacrificio un’efficacia che va ad investire la violenza intestina alla società, andando a restaurarne l’armonia e rafforzandone l’unità sociale. Il sacrificio ha quindi la funzione di dover placare le violenze insite nella società, sotto forma di violenza di ricambio. In una sorta di transfert collettivo, la vittima si sostituisce quindi a tutti i membri della società. Egli intravede nella rassomiglianza tra i riti sacrificali nelle diverse culture qualcosa che lascia pensare ad una sorta di avvenimento primordiale; allo stesso schema sembra obbedire anche il pensiero mitico allorché tutti i miti di origine sembrano rifarsi al sacrificio di una creatura antica immolata da altre creature mitiche, evento questo visto come fondatore dell’ordine culturale. Sulla constatazione di come il tema della “messa a morte” sia largamente presente in numerose celebrazioni rituali, Girard arriva a pensare che l’avvenimento originario fondatore sia un omicidio. Alla base di ogni mito, secondo lo studioso, vi è un fatto (violento) realmente accaduto nella notte dei tempi dell’uomo: il mito rappresenta il racconto di questo avvenimento antico, il rito ne rappresenta la riproduzione rituale che fonda (e protegge dalla violenza) la società. Avviene così quello che egli definisce “duplice sostituzione”: di tutti i membri della società con la vittima emissaria e della vittima sacrificale alla vittima originaria (Fornari 2013). Il cuore e l’anima del sacro sono quindi costituiti da un nucleo di violenza, sebbene Girard ammetta che ci sia anche qualcosa che va oltre. Secondo questa visione, egli respinge fermamente quanto teorizzato da Hubert e Mauss nei termini della funzione mediatrice svolta dalla vittima: la vittima emissaria fonda il gruppo, all’interno della violenza rituale. In base alla sua teoria identitaria tra violenza e sacro, con la dottrina della violenza fondatrice, egli ritiene di poter risalire a quelli che sono i fondamenti della religione primitiva.
17Il Cristianesimo, agli occhi di Girard, è la sola religione non sacrificale. La figura e la persona di Gesù sono giunti ad abolire i sacrifici di sangue e la nozione di riscatto. Si assiste alla fine della produzione del sacro a seguito della predicazione della non violenza di Gesù e del Dio del Vangelo. La trascendenza dell’amore prende il posto del sacro violento (Girard 1978 [1983]).
18Le scuole fenomenologiche, invece, si sviluppano, all’alba della Prima Guerra Mondiale sull’onda culturale del rigetto e del superamento della visione evoluzionistica nel pensiero scientifico e del positivismo. La “svolta fenomenologica” trova la sua espressione più compiuta e organica nella fenomenologia filosofica di Edmund Husserl (1859-1938) e si articola nei termini dell’analisi descrittiva e sistematica dei fenomeni religiosi su base comparata: da un lato il metodo comparativo, dall’altro l’analisi. Elemento cardine dell’agire fenomenologico consiste nell’investigare le realtà circostanti cogliendone l’essenza, grazie alla sospensione del giudizio (epoché) e alla capacità intuitiva del ricercatore.
19Secondo Rudolf Otto (1869-1937) le idee necessarie non hanno bisogno di dimostrazione come, ad esempio, l’idea di Dio, l’idea dell’anima e quella della libertà che insieme costituiscono il fondamento razionale della religione. Il mistero religioso è ineffabile, non si scopre mai; la religione ha la missione di preservare il mistero in modo integro. Nel mantenere l’integrità che è preposta a proteggere, la religione si deve avvalere dell’unico linguaggio possibile: il simbolo. Grazie ai simboli la coscienza religiosa ha la possibilità di cogliere l’eterno, ma esclusivamente per intuizione, potendo così accedere all’idea di salvezza che si connota come unione spirituale con Dio (Otto 1917 [1976]). Nell’induismo e nella mistica indiana egli coglie le forme più complete di pensiero religioso; il misticismo costituisce la forma più perfetta di religione. Il concetto di numinoso1 viene utilizzato in vece di quello di sacro, categoria d’interpretazione che, come tale, a suo avviso non esiste nel campo religioso. La dicotomia sacro/profano in ambito fenomenologico vede contrapposte due figure: da una parte “l’uomo naturale”, che non prova alcun senso di piccolezza di fronte al numinoso, dall’altra “l’uomo che è nello spirito”, che avverte invece la profondità del suo essere profano. Il sanctum è il sacro che si contrappone al profano, una categoria composita che è un fattore primario e una facoltà speciale attraverso cui lo spirito può apprendere il numinoso. Secondo Otto l’origine della religione va cercata nella rivelazione interiore del divino che ha trovato come punto di partenza la ragion pura, fonte nascosta nella profondità dell’animo umano e da cui scaturisce il numinoso. Accanto alla rivelazione interiore del sacro, per Otto, si assiste ad una rivelazione del sacro nella storia, così da avere una doppia manifestazione del sacro: da una parte un’epifania interna su cui poggia la religione personale, dall’altra la manifestazione nella storia, grazie a dei “segni”, i simboli. Alla storia delle religioni egli attribuisce l’importante compito di individuare i valori religiosi presenti lungo il percorso degli uomini alla ricerca di Dio. Al centro dell’indagine conoscitiva vi è il fenomeno religioso in quanto tale ed è considerato inscindibile dallo studio dell’uomo religioso e del suo comportamento (ibid.).
20Diverse elementi convergono nella costituzione del pensiero e del metodo fenomenologico ascrivibile a Gerardus van der Leeuw (1890-1950): la fenomenologia filosofica di Husserl, da cui riprende i concetti fondamentali di epoché e di visione eidetica (secondo la quale lo scopo dell’indagine è di cogliere gli elementi essenziali del fenomeno in questione); la componente di tipo psicologica ispirata alla Gestaltpsychologie, sotto forma di teoria “strutturale”, nel tentativo di interrogare le differenti religioni in funzione di determinate “figure d’insieme”, in modo da valorizzare così la centralità dell’esperienza religiosa come esperienza vissuta (Erlebnis); la componente ermeneutica, con la quale sviluppare una fenomenologia comprendente in cui la comprensione (Verstehen) ricopre un ruolo fondamentale; la componente teologica, da cui si ricava che la fenomenologia ha come compito quello di dimostrare i diversi modi in cui l’uomo può arrivare ad intuire e cogliere le verità religiose. Alcune importanti categorie della fenomenologia di van der Leeuw sono derivate dal Cristianesimo, tanto che alla base del suo lavoro si trova la tesi secondo cui l’umanità tenderebbe ad evolvere, in termini religiosi, verso il suo completamento soprannaturale che altri non è se non la rivelazione cristiana (Filoramo, Prandi 1987: 36-38). La fenomenologia rappresenta per van der Leeuw la sola disciplina scientifica in grado di farci cogliere i fatti religiosi nella loro natura. L’esperienza religiosa, sebbene soggetta a forme diverse nella storia, conserva alcune strutture, alcuni tipi ideali che è importante afferrare nel loro senso propriamente religioso, quello di fatto più profondo. L’essenza della religione si concretizza nel potenziamento massimo della vita; il fenomeno è “ciò che appare”, che “si mostra”, non è un semplice oggetto bensì il prodotto dell’incontro tra soggetto ed oggetto (van der Leeuw 1933 [1992]), “tutta la sua essenza consiste nel mostrarsi, nel mostrarsi a qualcuno” (ivi: 530).
21Tra gli esponenti italiani di una tradizione di studi volta ad esplorare la possibile coesistenza tra storia e fenomenologia si mette in evidenza, tra gli altri, la figura di Raffaele Pettazzoni (1883-1959), il cui lavoro è stato orientato al tentativo di integrare le esigenze del metodo storico con i problemi e i quesiti propri dell’analisi sistematica. Pettazzoni rivendica la laicità della ricerca storico-religiosa e decide di introdurre la metodologia comparativista negli studi di storia delle religioni. La scuola pettazzoniana, al di là delle pubblicazioni dello stesso Pettazzoni, ebbe a svolgere un ruolo di primo piano anche nella formazione di studiosi importanti quali, ad esempio, Ernesto De Martino (1908-1965) e Vittorio Lanternari (1918-2010).
22Solidamente fondato sul metodo comparativista il lavoro di Pettazzoni, negli ultimi anni della sua vita, trova una sua sintesi ideale ne L’essere supremo nelle religioni primitive (pubblicato postumo nel 1965), nel quale lo studioso propone la tesi secondo cui il monoteismo non costituiva la forma originaria della religione. Il monoteismo, sostiene, arriva ad affermarsi sempre sotto forma di negazione del politeismo, pertanto lo stadio originario delle religioni è di tipo politeistico. Il monoteismo si fonda sulla negazione di questo stadio, ad opera di un riformatore (proclamantesi fondatore di una nuova religione) che giunge a rigettare le precedenti divinità, affermando l’unicità di Dio. Il monoteismo risulta quindi cronologicamente, e logicamente, posteriore al politeismo, ne costituisce la negazione e si forma per rivoluzione contro di esso (Filoramo, Prandi 1987: 73-77).
23In una sorta di sintesi perfetta, Mircea Eliade (1907-1986) punta a sviluppare un metodo di ricerca integrale volto a coniugare in sé le caratteristiche dei metodi storico, fenomenologico ed ermeneutico. Al centro dell’interesse della storia delle religioni vi è l’homo religiosus in chiave di uomo totale. Egli si mostra contrario alla riduzione del complesso fenomeno religioso al solo piano storico, sociologico, etnologico o psicologico e spinge l’attenzione sulla necessità per lo studioso delle religioni di dover integrare i diversi risultati ottenuti dai diversi approcci al fenomeno religioso. Solo in questo modo egli ha potuto valorizzare al massimo le scoperte fatte relativamente all’archetipo e al simbolo. Eliade ha potuto assistere all’utilizzo fatto da Dumézil (1898-1986) del metodo comparativo nel campo degli studi in ambito indo-europeo sui testi mitologici, epici, teologici, e storici, sui dati linguistici e archeologici e sui fenomeni sociali, da cui Dumézil ha potuto scoprire l’esistenza di un retaggio comune indo-europeo di cui è possibile trovare traccia, nella forma di sovranità e sacro, forza e difesa, fecondità e ricchezza, al contempo nella teologia, nella mitologia, nell’epopea e nell’organizzazione sociale. La morfologia e la tipologia del fenomeno religioso descritto da Eliade sono piuttosto ricche; egli concentra la propria attenzione sul campo delle ierofanie (che costituiscono l’atto di manifestazione del sacro) al fine di scoprire, tra articolazioni e corrispondenze, il tessuto sottostante in grado di regolare il comportamento, le strutture di pensiero, l’universo mentale e le logiche simboliche che guidano l’uomo religioso. Quest’ultimo arriva a scoprire il sacro in quanto realtà assoluta che trascende il mondo e ha la possibilità di accedere ad alcuni elementi, quali archetipo e simbolo, in grado di guidare ed orientare il proprio comportamento in funzione della vita religiosa. L’uomo è in grado di divenire un lettore del sacro poiché ha la possibilità di accesso diretto al suo messaggio grazie alla mediazione attuata dal simbolo.
24Quindi, l’uomo è in grado di conoscere il sacro poiché questo si manifesta sotto forma di ierofania, che a sua volta rappresenta un fenomeno religioso complesso nel quale convergono l’essere o l’oggetto naturale e il “tutt’altro” che si manifesta grazie a questo essere o oggetto; il “tutt’altro” manifestandosi conferisce una dimensione sacrale a questo essere o oggetto, che svolgerà quindi una funzione di mediazione. Questa manifestazione assume i connotati di potenza con carattere di ordine differente dall’ordine naturale. La manifestazione stessa del sacro nel tempo fa in modo che questo si possa storicizzare.
25La storia delle religioni viene così ad essere costituita come un susseguirsi di ierofanie di cui occorre, grazie all’approccio fenomenologico, individuare il significato. L’ermeneutica ha il compito di comunicarne e chiarirne il significato (Ries 1981 [2012]).
26In questo paragrafo si è cercato di offrire uno spaccato, inevitabilmente parziale, di alcuni approcci teorici e di alcune dissertazioni epistemologiche che hanno investito lo studio del fenomeno religioso dal punto di vista di scuole di pensiero differenti. Si è voluto collocare l’esposizione dei diversi approcci all’interno di una breve parentesi che prendesse in esame anche le considerazioni epistemologiche all’interno del più ampio alveo delle scienze umane o sociali. Alcuni temi e punti di attenzione propri dei diversi approcci teorici, emersi durante l’esposizione, sono stati utili per introdurre il paragrafo successivo nel quale troverà spazio la descrizione e l’analisi dell’approccio di Enrico Comba al discorso sulle religioni e alle considerazioni ad esso correlate.
1.2 Introduzione alle religioni: antropologia
Per un Centro Interculturale […] è impossibile sottrarsi al tema della religiosità, del pluralismo religioso e, nello stesso tempo, dell’incidenza dei comportamenti religiosi nel tessuto sociale. Se lo facesse, vedrebbe ridursi di molto la sua funzionalità, la portata dei suoi interessi e dei suoi obiettivi, la motivazione stessa del suo agire, poiché è indubbio che la religione – soprattutto se viene intesa nei suoi caratteri “minimi” – di frequente costituisce una dimensione innegabile, insopprimibile e vitale di ogni realtà culturale, e dunque di ogni progetto o visione interculturale. […] Le difficoltà sorgono già a partire da una definizione, per quanto parziale e provvisoria, di religione, religiosità, comportamento religioso. C’è sempre il rischio che una definizione del fenomeno religioso risenta del condizionamento del tipo di religione a cui si è più culturalmente vicini: presenza di dogmi, di gerarchie, di luoghi e di testi sacri può configurarsi come una serie di criteri troppo vincolanti, mentre d’altro lato un eccessivo rilassamento di criteri rischia di privarci dei mezzi di identificazione e di individuazione. Senza voler affatto esaurire le possibilità di definizione del fenomeno religioso, una proposta “minima” potrebbe coincidere con la combinazione di a) una componente più propriamente culturale, fatta di idee e di simboli che in qualche modo e misura impegnano la facoltà di credere e trascendono, anche se di poco, il piano dell’esperienza direttamente controllabile, e b) una componente più propriamente sociale, quale emerge nella convergenza, condivisione, partecipazione, scambio, soprattutto sul piano rituale. Una seconda difficoltà si annida nelle funzioni tipiche della sfera religiosa. Specialmente in un contesto interculturale, le scelte religiose forniscono mezzi di orientamento nel mondo che tengono conto della complessità sociale (oltre che di quella naturale), e di questa complessità fa parte lo stesso pluralismo religioso (Filoramo, Remotti 2006: 9-10).
Alcuni temi cari al pensiero in campo antropologico e religioso di Comba iniziano ad affacciarsi come argomenti di ragionamento e discussione di cui tratteremo all’interno di questo lavoro: il legame tra la religione e la società che l’ha prodotta, il tema del dialogo interdisciplinare, la difficoltà (sempre che se ne senta la necessità) nel trovare una definizione formale e condivisa di religione, l’aspetto e le peculiarità culturali della religione, il tentativo di dare una risposta alla complessità del mondo e la complessità stessa di cui è intriso ogni fenomeno religioso.
Le diversità religiose come soluzioni alternative rispetto a che? Comunque si voglia intendere la religione, è difficile rifiutare il concetto secondo cui le religioni (di qualunque tipo esse siano) coincidono con idee e rituali che concorrono a fornire un “senso” agli eventi, a offrire un orientamento nella complessità e imprevedibilità del mondo, e nel contempo a suggerire, proporre o imporre modelli di umanità (ivi: 10).
Una consistente parte degli studi di Enrico Comba è stata dedicata ai popoli nativi nordamericani e all’analisi dei sistemi religiosi e delle credenze mitologiche da essi sviluppati; questo interesse lo ha portato a condurre le sue ricerche soprattutto in Nord America (Canada e Stati Uniti) e in Siberia.
27Affrontare il tema della religione significa fare ciclicamente i conti con una domanda (“Che cos’è la religione?”), che si ritrova e ritorna all’interno di tutta la documentazione della storia umana, da Platone fino ai giorni nostri. Nella prospettiva di Enrico Comba affrontare un discorso sulla religione dal punto di vista dell’antropologo (culturale), significa ampliare ulteriormente lo sguardo sul tema; l’antropologia è un sapere composito che si presta ad offrire uno sguardo “altro” sul mondo e sul panorama ed orizzonte di studio, nonché un sapere trasversale (Remotti 1990 [2009], 2013) in grado di coniugarsi in maniera ottimale con un approccio interdisciplinare capace di amalgamare conoscenze e sguardi differenti su uno stesso argomento o “oggetto” di studio, nonché un sapere adatto ad essere agito e pensato in chiave comparativa (Comba 1997, 2008, 2014).
28Lo studio della diversità nel mondo umano è ciò che possiamo considerare come fulcro dell’indagine dell’antropologia culturale – distinta dall’antropologia biologica (un tempo chiamata “fisica”), che si occupa di studiare gli aspetti fisici e biologici dell’essere umano – tali diversità riguardano le cose che si fanno, si pensano, i costumi, le tradizioni, in una parola la “cultura”.
29Partendo dal presupposto che tutti gli uomini elaborano culture, queste possono essere colte nella forma di modi e sistemi di orientamento con cui gli esseri umani si pongono nei confronti del mondo, lo interpretano, ci dialogano, lo utilizzano, danno senso e significato alle cose (Kluckhohn, Kroeber 1952, Rossi 1970, cit. in Remotti 2013; Fabietti, Malighetti, Matera 2002 [2012]). Tutte le culture sono il prodotto dell’attività degli esseri umani, sono diverse e si può cogliere l’opportunità di trovare sempre degli elementi di novità al loro interno. Le culture umane sono sempre particolari, sono condizione fondamentale dell’esistenza dell’essere umano e fonte di “informazioni” essenziali per l’uomo che può trovare in sé la propria guida interna. L’essere umano è tale in quanto culturalmente determinato ed è, a quanto pare, l’essere più dipendente dalla cultura, in quanto animale incompleto, non finito, che giunge a completamento e si rifinisce solo attraverso la cultura (C. Geertz 1987). Questa incompletezza rappresenta in sé un’apertura alla possibilità, o alle possibilità, in cui, accanto a ciò che si è realizzato, trova spazio la constatazione che il modellamento dell’uomo in forma di essere culturalmente determinato, può anche essere letto ed interpretato nella forma di un’azione di “selezione”, di “sfrondamento”, di scelta di opportunità e di abbandono di altre, in una visione di forte plasticità e dinamicità del processo formativo ed acquisitivo (Allovio, Favole 2002).
30Il punto di partenza da considerare è che esistono grandi differenze tra gli esseri umani, ma è proprio attraverso l’approccio a queste diversità che gli antropologi hanno potuto constatare e ritrovare diverse somiglianze che finiscono per riflettersi nella produzione e costruzione di culture particolari. In tema di studio delle religioni, un equilibrato approccio antropologico arriva a considerare che più che di religione appare opportuno parlare di religioni (Comba 2008).
31Nel pensiero di Comba in campo religioso, la diversità che coglie l’antropologia dal proprio punto di osservazione è una diversità più ampia rispetto a quella portata da altri contributi. Appare evidente, oggigiorno anche all’interno delle nostre città, come esista una differenza religiosa osservabile e percepibile empiricamente. Questo aspetto viene riconosciuto abbastanza facilmente anche in ambito di dibattito pubblico, sebbene esista la tendenza a considerare questa diversità soprattutto in riferimento alle grandi religioni: Cristianesimo, Islamismo, Ebraismo, Buddhismo e Induismo. L’antropologia ha invece ben presente che esistono maggiori differenze, anche nelle religioni più piccole, proprio grazie alla natura stessa della disciplina, formatasi dall’idea germinale di andare a cercare la diversità negli angoli più remoti del globo: isole del Pacifico, Australia, Americhe, Amazzonia, ecc., da cui si è potuto raccogliere elementi di una grande ricchezza di tradizioni religiose, a volte limitate magari a poche centinaia di persone, ma comunque molto importanti per l’antropologo poiché presentano una enorme varietà di modelli e di forme di interpretazione che mettono in discussione le normali modalità attraverso cui noi percepiamo il fattore religioso. Ad esempio, uno dei parametri che più comunemente identificano la religione, il “credere in Dio”, non sempre funziona per diverse tradizioni indigene, in quanto non sempre esiste una figura di divinità assimilabile a tale concetto. La sfida portata da queste tradizioni alla cultura europea ci coinvolge nel riflettere su quanto, forse troppo in fretta, ci si sia sbarazzati di queste tradizioni, attraverso una serie di ideologie: il concetto di primitivismo (a cui hanno contribuito anche diversi antropologi, soprattutto in origine), che ha considerato queste credenze infantili, rozze oppure dominate dalla superstizione; il ruolo e il decorso della storia, che ha immaginato come in via di scomparsa le tradizioni e le religioni dei popoli conquistati, a seguito della “scoperta” dell’America, e contemporaneamente ha visto svanire migliaia di culture e persone (ibid.). Non è in realtà vero che le popolazioni indigene siano scomparse dal palcoscenico della storia, sebbene resistano in modo minoritario; allo stesso modo sono sopravvissute le loro tradizioni religiose che hanno assistito negli ultimi anni ad una sorta di rinvigorimento, quandanche a forme di conservazione che si pongono rispetto al complesso più ampio del pianeta in una modalità di dialettica e continuo interscambio e trasformazione tra il globale ed il locale (Appadurai 1996 [2012]; Fabietti, Malighetti, Matera 2002 [2012]).
32L’esperienza sul campo svolta da Comba lo porta ad osservare quanto i locali mostrino assennatezza, competenza, ragionevolezza e capacità di vivere ed abitare il proprio ambiente. Attraverso il contatto diretto con queste realtà ci si accorge di avere a che fare con individui che hanno sviluppato tecniche e modi per dare senso ed importanza al proprio esistere (questo processo e questa competenza sono stati spesso messi in luce anche grazie allo studio e al lavoro degli antropologi). Sovente si pensa alle grandi religioni come a tradizioni antiche (il Cristianesimo, ad esempio, è una tradizione di 2.000 anni circa) senza considerare che altre tradizioni, quali quelle dei Nativi americani o degli aborigeni australiani, sono forse vecchie di 20.000 o 40.000 anni. Alcune di queste tradizioni… Against all odds (Wishart 2016: 91-103), contro ogni possibilità o previsione, sono sopravvissute anche alle leggi degli anni 1880 (e a seguire) emanate dal governo federale degli Stati Uniti d’America, che hanno tentato di proibirle. Enrico Comba vede in questa tenacia e resilienza la forza di queste tradizioni che porta a far sì che vadano considerate come qualcosa di più che pratiche curiose o strane, bensì come parti seminali di un radicamento, di una storia, di un’eredità del passato e di una profonda appartenenza ad un territorio: montagna, albero, ruscello (Comba 1987, 2001a, 2003a2, 2006, 2008, 2011d, 2012), nel cui paesaggio si vanno inoltre ad inscrivere i segni identitari, culturali e religiosi dei popoli indigeni (Venturoli 2004).
33La cosmologia di molti popoli indigeni si articola costruendo una fitta trama di relazioni fra gli esseri umani e l’ambiente in cui vivono, tessendo “una complessa rete di correlazioni in cui i diversi esseri del creato si distinguono per talune caratteristiche ma si identificano per altri aspetti, si trasformano gli uni negli altri e i confini tra una categoria e l’altra si presentano labili, indefiniti, mutevoli” (Comba 2008: 176). Una contrapposizione rigida tra ambiti della natura e della cultura è una semplificazione che raramente si trova nelle tradizioni e culture indigene. La rappresentazione dello spazio indigeno viene creata distinguendo spazi abitati e spazi disabitati; nei miti e nei racconti il mondo degli esseri soprannaturali viene collocato in un “al di là” degli spazi abitati dall’uomo, gli esseri umani identificano poi luoghi e aspetti del territorio così da creare punti di contatto tra dimensione umana e non umana: grotte, montagne, laghi, fiumi, rocce. Questi ambienti sacri svolgono quindi la funzione di punti di congiunzione tra mondi e luoghi in un continuo rimando al mondo e al tempo delle origini.
34Nell’interrogarsi su che cosa sia la religione, Comba si chiede se sia veramente necessaria una sua definizione con confini e termini chiari (o definitivi); nel fare ciò egli “interpella” diversi autori e pensatori di tutte le epoche che hanno posto attenzione a tale argomento. Max Weber sostiene, come abbiamo già visto, che sarà eventualmente possibile giungere a una definizione di ciò che la religione ‘è’ solo al termine di un’indagine, piuttosto che al suo avvio (Weber 1922b [1974]), indicando che l’esplicitazione del termine religione può giungere così solo al termine di un percorso di studio svolto sulle grandi religioni. Agli occhi di Comba, un approccio come quello weberiano non appare però del tutto soddisfacente in quanto, soprattutto all’inizio di un percorso di studio, lascia un po’ disorientati di fronte alla vastità del tema. È molto complesso dare una definizione univoca di religione e forse le molteplici descrizioni che ne sono state date hanno contribuito a creare un po’ di nebulosità. Dal punto di vista teorico sembra che ogni definizione sia funzionale al modo di concepire la religione così che ogni studioso possa interpretarla nell’ottica di quella che è la sua teoria della religione. Ogni espressione sembra quasi rappresentare un piccolo sunto di una teoria della religione che lo studioso ha elaborato. Altro aspetto da tenere in considerazione è la natura etnocentrica, già messa in evidenza da diversi autori, del concetto di religione, “la cui origine è strettamente legata alle condizioni storico-culturali che hanno determinato un certo tipo di sviluppo delle istituzioni religiose e della pratica religiosa nei paesi occidentali [..]” (Comba 2008: 18).
La religione, vale a dire la parola, l’idea e soprattutto l’ambito particolare che esse designano, rappresenta una creazione del tutto originale che solo l’Occidente ha concepito e sviluppato in seguito alla conversione al Cristianesimo (Dubuisson 1998, cit. in Comba 2008: 18).
Anche una definizione come quella di Clifford Geertz – molto popolare, ripresa ed ampliata – ossia quella secondo cui la religione rappresenta un sistema di simboli che, attraverso la formulazione di concetti di ordine generale dell’esistenza, rivestiti di un’aurea di concretezza, fa in modo che si creino profondi, diffusi e durevoli stati d’animo negli uomini che appaiono come del tutto realistici (C. Geertz 1966 [1987]), riletta nell’ottica del pensiero di Comba sulle religioni appare piuttosto generica e alquanto criptica, sebbene (o forse in conseguenza di ciò) ampiamente applicabile (Comba 2008).
35Dal punto di vista empirico l’applicazione del concetto di religione appare in realtà più semplice della sua definizione. Se si osservano gli scritti di coloro che raccontano i fenomeni religiosi, si assiste a descrizioni (delle diverse religioni) piuttosto comprensibili tanto che l’uso della parola religione appare molto meno problematico della sua dissertazione teorica, al punto che l’uso del termine nella pratica della ricerca e della descrizione etnografica è da tempo regolare e consolidato. Potrebbe essere utile quindi orientarsi in modo differente, ossia considerare il concetto di religione come qualcosa di non scientifico (come lo sono invece, ad esempio, il concetto di elettrone o di buco nero), bensì come qualcosa che appartiene al linguaggio comune. A tal proposito ci giunge in supporto Wittgenstein (1889-1951) ed il concetto di somiglianze di famiglia e di prototipo. Se si cerca ad esempio una definizione di “gioco”, nel farlo è possibile che si finisca sempre con il trascurare qualcosa, mentre invece se partiamo dai giochi, da che cosa sono i giochi che conosciamo e affermiamo successivamente che un’altra cosa, presa dipoi in considerazione, può essere assimilata ai giochi che già conosciamo, riusciamo a costruire un qualcosa che cresce in base al nostro rapporto con l’esperienza, man mano che aggiungiamo elementi che assomigliano e possiamo ricondurre al gioco (Wittgenstein 1973; cit. in Comba 2008: 25-27). Nel parlare di religione si può quindi partire dalla propria esperienza di religione, senza però considerarla come l’unica “vera”, l’unica che conta, quanto piuttosto come punto di vista relativo a cui integrare ulteriori elementi raccolti grazie all’esplorazione di altre culture ed esperienze. Si può tentare di collocare quanto appena illustrato in parallelo al ragionamento sviluppato da Bergson (1859-1941) in merito alle due componenti presenti in tutte le religioni: una componente statica, istituzionale, della tradizione e tramandata, che costituisce la continuità di ogni religione; una componente dinamica, che coinvolge la persona, l’individuo, l’esperienza, quindi anche il misticismo o la spiritualità. La religione svolge pertanto una funzione mediatrice fondamentale, ma comunque inserita in un sistema di potere: più questo prevale, più vi è la tendenza a controllare le esperienze, le variazioni, le alternative, nell’ottica di un consolidamento della struttura che lo fonda. Meno l’aspetto del potere prevale, più tendono ad emergere le esperienze individuali (Bergson 1932 [2006]). L’articolazione del sistema religioso con il sistema di potere crea un meccanismo di controllo del comportamento sociale.
36Il concetto di religione preso in considerazione da antropologi come Comba non parte da una definizione preliminare, ma si presenta nella forma del concetto aperto, frutto delle rappresentazioni che derivano dalle religioni che conosciamo a cui si aggiungono nuovi apporti provenienti da informazioni antropologiche, storiche e di altri contributi. Si può quindi partire dall’esperienza comune di che cosa è la religione, con sguardo aperto e flessibile in grado di integrare altre e diverse forme, così da adottare un concetto dai confini sfumati: con un nucleo preciso composto da tutti i fenomeni che siamo sicuri appartengano alla religione e con un “mondo esterno” considerato come ciò che non è religioso (ad esempio la politica, l’economia, ecc.). Fra questi due elementi esiste una “zona grigia” con fenomeni che in parte sono religiosi ed in parte non lo sono, sebbene anche per quanto riguarda i concetti afferenti al mondo esterno, gli stessi possano assumere connotati di religiosità a seconda dell’approccio e di ciò che si sceglie di mettere in evidenza (Comba 2008). Il concetto di religione degli antropologi è quindi un concetto fluido che consente di inglobare diverse realtà, un concetto che si offre a chi è in grado di adottare un punto di vista più aperto così da ricomprendere i fenomeni che più assomigliano ma che, allo stesso tempo, presentano grandi diversità al proprio interno.
37La prospettiva di Comba rispetto a che cosa sia la religione e a quale sia il filo comune che lega le diverse religioni è l’idea che il mondo non si limiti al mondo come lo vediamo, tocchiamo e con cui ci confrontiamo tutti i giorni. C’è una componente importante del mondo che va al di là di questo. Vi è l’idea che il mondo sia composto da dimensioni diverse, alcune di queste non le conosciamo e le possiamo intravvedere soltanto in modo molto indefinito (altre le tocchiamo in parte o possiamo accedervi solo in parte). Il concetto di religione, per Comba, si delinea come il tentativo di comprendere, di andare oltre la visione comune del nostro mondo quotidiano per cercare di cogliere qualcosa che sta al di là3.
38Si arriva oggi ad osservare, da parte del mondo occidentale, una grande disponibilità ad andare alla ricerca di situazioni, connessioni, aspetti, temi che riguardano i popoli indigeni. Aspetto questo in controtendenza con l’atteggiamento di supponenza e superiorità osservato durante il periodo del primitivismo, ma non solo. Si vedano a tal proposito le idee di Kuper rispetto alla faziosità dei popoli indigeni in tema di rivendicazione, culturalmente fondata, delle proprie terre e all’inconsistenza del valore dei miti dei nativi a confronto con l’obiettività dei dati della scienza occidentale (ibid.).
39Si assiste al grande desiderio di muoversi in direzione della ricerca dei fenomeni propri delle religioni più arcaiche e di mondi lontani, in qualità di depositari di un sapere religioso antico utile anche all’Occidente. Nel corso del Novecento, nel pieno della secolarizzazione, si è rilevato un progressivo allontanamento dalla religione, con l’idea che si sarebbe potuto osservare un sempre maggiore ridimensionamento della religione stessa, se non addirittura la sua scomparsa. Questa visione, nata anche sulla scia del processo di industrializzazione, secondo cui il pensiero scientifico avrebbe soppiantato il pensiero religioso, è stata condivisa da numerosi studiosi, tra i quali Freud, Marx e Durkheim.
40Verso la fine del xx secolo si assiste invece ad un cambio di tendenza: non si attende più la scomparsa della religione come ipotizzato e contemporaneamente si viene a modificare il modo di confrontarsi con il pensiero religioso (Aldridge 2000 [2005]). Si osserva che le chiese istituzionali faticano a conservare il proprio bagaglio di credenti e di adesioni e parallelamente si ha un incremento nella tendenza alla ricerca di “qualcos’altro” che, nel mondo contemporaneo caratterizzato da una grande fluidità dei fenomeni, assume le fattezze della ricerca di spiritualità. Il termine – uno strumento linguistico – tende ad esprimere anche un livello di insoddisfazione, diffidenza e difficoltà legato all’uso del termine “religione”, identificato con una dottrina precisa, uso di dogmi e aderenza ad un sistema ben definito. La spiritualità esprime la ricerca di un qualcosa di più fluido, meno definito, più individuale. L’argomento della religione ci coinvolge ancora, il mondo contemporaneo è ancora permeato da interrogativi di ordine religioso, sebbene diversi da quelli del passato. Compito degli studiosi delle religioni è quello di fornire gli strumenti per la comprensione della complessità dei fenomeni contemporanei.
41I sistemi religiosi si presentano nella forma di sistemi complessi. L’aspetto della complessità, relativamente alle idee sulle religioni indigene nel pensiero di Comba, verrà trattato in modo più esaustivo successivamente. Un errore compiuto da molti autori è stato quello di identificare la complessità religiosa con la complessità sociale e la modernità, al punto che le religioni indigene, extra-europee, sono state per un lungo periodo considerate come esempi di forme arcaiche, primitive e più semplici di religione. Il pensiero di Comba tende a muoversi nella direzione di considerarle invece come sistemi complessi di interpretazione della realtà, nella forma di sistemi epistemici che fungono quasi da specchio con cui, e su cui, proiettare la complessità insormontabile presente nel mondo (Comba 2017).
42Le religioni dei popoli indigeni, lungi dall’essere categorie particolari della più ampia categoria religiosa, costituiscono un insieme di elaborazioni culturali che hanno avuto un loro indipendente e autonomo sviluppo storico. Si tratta di sistemi religiosi tutt’altro che semplici ed elementari, si tratta di “oggetti” complessi in grado di rappresentare aspetti epistemologici che includono riflessioni di tipo cosmologico, ontologico, sociologico, antropologico, nonché di carattere teologico sulla natura e la struttura dell’universo, della società e dell’uomo (Wautischer 1998, cit. in Comba 2008: 37-38). Le rappresentazioni delle religioni indigene sono state sovente il teatro delle proiezioni di fantasmi, angosce o paure della civiltà europea, con conseguenze drammatiche anche sulle modalità con cui l’Occidente ha agito le proprie politiche nei riguardi delle popolazioni con cui è entrato in contatto. La progressiva dismissione dell’approccio primitivistico e lo spazio sempre maggiore dato al punto di vista nativo hanno avuto conseguenze anche sulla percezione legata alla produzione di conoscenza, non più esclusiva prerogativa dell’osservatore “scientifico”. La religione arriva a delinearsi quindi come una forma di produzione di sapere all’interno di forme plurali di conoscenza, in cui coloro che partecipano ad una determinata forma di religione vengono ad essere interpellati sempre più spesso per comprendere come essi vedono e percepiscono se stessi ed il proprio agire nel mondo.
43“Camminare nei mocassini degli altri” è un’espressione proverbiale dei Nativi americani utilizzata dallo studioso delle religioni Ninian Smart (1927-2001) per descrivere il compito di chi si occupa di religioni. Un’espressione efficace in cui si mette in evidenza l’importanza del rispetto nei confronti dell’altro riconoscendone al tempo stesso valore e dignità (Comba 2008). L’altro è in grado di rivelare una conoscenza della realtà che merita attenzione e va presa in considerazione, sull’onda di una sorta di epistemologia del rispetto e dell’ascolto, da accogliere come una preziosa riscoperta delle scienze sociali. Modelli più paritari e pluralistici di produzione della conoscenza consentono di riconoscere la capacità che hanno i soggetti di produrre, in relazione al proprio mondo, sistemi efficaci di interpretazione e spiegazione. In sintesi, si tratta di riuscire ad integrare i modelli classici della spiegazione e della interpretazione con un modello epistemologico fondato sul dialogo e sulla condivisione di conoscenza.
44L’ordine e i mondi socialmente e culturalmente costituiti si connotano come precari in sé. Diversi aspetti della vita sociale e collettiva tendono a mettere in crisi i confini su cui si fonda la quotidianità attraverso esperienze di raggiungimento e di scavalcamento dei suddetti confini, nella forma di esperienze di liminalità capaci di offrire uno sguardo differente sull’arbitrarietà e sul carattere contingente delle convenzioni culturali. Nei rituali di iniziazione, ad esempio, i giovani vengono sottratti al naturale ordine stabilito della società per diventare “materia grezza”, per sperimentare esperienze liminali e liminari, prendere coscienza di ciò che sta al di fuori e al di dentro dell’ordine costituito sia sociale sia di rappresentazione del proprio mondo. Questa “materia prima” sarà il punto di partenza da cui verrà modellato l’uomo culturalmente costituito. Queste forme rituali antropo-poietiche (di “seconda nascita”, di plasmazione culturale dell’essere umano), lungi dall’essere momenti in cui vengono insegnati o appresi i valori tradizionali, rappresentano invece momenti in cui prendere coscienza critica delle forme di umanità a cui si appartiene e potersi porre la domanda su come si possa fare umanità, in uno slancio di apertura verso la possibilità (V.W. Turner 1982, cit. in Comba 2008; Remotti 2013: 52-53). Questi momenti assumono il carattere di opportunità in grado di insinuare il dubbio dell’esistenza di qualcosa di altro, di non consueto, di differente rispetto a ciò che viene percepito come “normale”. Ingabbiare la complessità sfuggente e inquietante dell’universo all’interno di un sistema di ordine e formulazioni leggibili, nonché far sì che l’esperienza umana possa portare continuamente verso i limiti di queste formulazioni, in direzione di ciò che trascende o si spinge al di là dell’ordine del cosmo, questo rappresentano i sistemi religiosi, che si caratterizzano come fonti di conoscenza di ciò che si trova nell’Aldilà.
Le costruzioni cosmologiche di molte culture indigene ci presentano infatti l’immagine di un cosmo fornito di molteplici aperture, che consentono, ad esempio, un continuo arricchimento e integrazione del mondo delle divinità o degli esseri spirituali con apporti provenienti dall’esterno, da altre culture. È quell’aspetto che Marc Augé (1982: 79) ha chiamato di grande «tolleranza» nei confronti delle altre tradizioni religiose tipico delle religioni indigene, in contrasto con l’intolleranza, la rigidità e la tendenza all’ostilità nei confronti di altre forme religiose tipiche dei monoteismi. Inoltre, spesso le religioni indigene lasciano un ampio spazio alla ricerca e alla realizzazione di un’esperienza personale, che viene certo orientata e modellata dal sistema religioso e dalla tradizione, ma che consente anche una considerevole possibilità di creatività e innovazione (Comba 2008: 46-47).
Il carattere di innovazione insito nelle tradizioni orali ci porta a porre una distanza netta rispetto alla visione stereotipata di una tradizione che tende a ripetere in modo uniforme e monotono modelli trasmessi nel tempo e ritenuti immodificabili. L’interazione che se ne ricava risulta estremamente complessa e con carattere di continuità, cambiamento e invenzione (A.W. Geertz 2003, cit. in Comba 2008: 47). “La ripetizione rituale, che rimanda ad una concezione ciclica del tempo e a un modello mitico riattualizzato ogni volta, svolge però una funzione di costruzione del tempo e delle attività sociali: «serve non solo a computare il tempo, ma anche a crearlo. […] la messa in opera di un rituale serve effettivamente a iniziare, delimitare e costruire un nuovo tempo»” (Gill 1982, cit. in Comba 2008: 47).
45Strumento di interpretazione del mondo, il pensiero religioso ha un forte carattere epistemico; ha il compito di costruire sistemi di conoscenze e di favorire la convalida e la giustificazione delle stesse. Mondo esterno e mondo interiore riescono ad assumere significato grazie alla visione del mondo e alla cosmologia condivisa col resto della comunità che si viene a creare, e che rappresenta la cornice all’interno della quale l’individuo ha la possibilità e la facoltà di agire. Una cornice cosmologica complessiva orienta il comportamento degli individui, attraverso aspetti che un osservatore può ritenere più propriamente religiosi e altri che apparentemente non lo sembrano, ma che per un indigeno risultano indissociabili e indistinguibili. Nelle religioni indigene infatti, la visione del mondo contempla spesso aspetti legati alle conoscenze pratiche ordinarie (legate alla caccia, al mondo degli animali o delle piante, allo scorrere delle stagioni, all’ambiente, ecc.) e aspetti più facilmente riconducibili nell’alveo della religiosità (rituali, proibizioni, prescrizioni cerimoniali, ecc.). All’interno del quadro cosmologico ed epistemico e delle modalità con cui gli esseri umani interagiscono con la realtà, si sviluppa il riferimento ai diversi livelli dell’esistenza, alle dimensioni nascoste e invisibili in cui si ritrovano forze e poteri al di fuori del controllo dell’umanità, senza che questo risulti in contrasto con la realtà empirica o addirittura venga percepito come bizzarro o eccentrico.
Le religioni indigene offrono una vasta gamma di queste modalità di confronto con la complessità, di dialogo e di incorporazione parziale del disordine, di riflessione sulle alternative e sull’alterità. Per riconoscerle dobbiamo però abbandonare una serie di luoghi comuni, di stereotipi e di immagini deformate che l’antropologo ha elaborato nel corso del tempo sulle religioni di quelli che, nella fase aurorale dello sviluppo della disciplina, venivano chiamati «primitivi» (Comba 2008: 48).
“Gli antropologi «osservano», «studiano», «descrivono» gli altri, coloro presso cui trovano ospitalità, accoglienza, attenzione, disponibilità. Ma che cosa conferisce loro il diritto di effettuare osservazioni, studi e descrizioni di altre persone?”, questo si chiede Enrico Comba riflettendo sulla propria professione e sulla propria disciplina. In seguito egli riferirà che in diverse occasioni, scambiando discorsi con persone appartenenti a culture indigene americane si è trovato di fronte all’uso frequente di due concetti che potrebbero costituire un fertile terreno di incontro tra il sapere antropologico e il sapere tradizionale: il concetto di “rispetto” e quello di “condivisione” (Comba 2008: vi-vii). Il tema del rispetto assume un carattere determinante nel lavoro sul campo e nel successivo lavoro di elaborazione di pensiero e contenuti di Enrico Comba: il rispetto sta ad indicare un reale riconoscimento dell’alterità, della sua inesauribilità e inconoscibilità ma allo stesso tempo il bisogno profondo e l’esigenza di mantenere un rapporto con la diversità e di aprirsi all’altro. Applicare questa visione alla relazione che si crea tra osservatore ed osservato significa riconoscere il punto di vista dell’altro come plausibile. Nel campo dell’antropologia delle religioni, il rispetto si modella nella forma di un abbandono della concezione secondo la quale alcuni fenomeni religiosi altro non siano che stravaganze o bizzarrie da interpretare con distacco o sufficienza. Vuol dire avvicinarsi a queste pratiche e a questi mondi riconoscendone la plausibilità, il diritto e la legittimità ad esistere in quanto strumenti di interpretazione del mondo atti ad orientare la vita di individui e collettività. Rispetto significa riconoscere a questi sistemi quell’aspetto di complessità troppo spesso negato loro in passato.
1.3 Introduzione alle religioni: visioni native di pratiche tra trasformazioni e ricreazioni cosmiche
46Alla ricerca della “visione del nativo”, Enrico Comba affronta nel terzo capitolo di Antropologia delle religioni, quattro passaggi importanti legati ad altrettante coppie studioso/nativo: Griaule/Ogotemmêli, Boas/Hunt, Radin/Blowsnake, Neihardt/Black Elk che useremo per ampliare le considerazioni e le riflessioni anche ad altri aspetti legati al tema delle religioni indigene.
47Marcel Griaule (1898-1956) conduceva ormai da quindici anni ricerche in Africa, in particolar modo nel Sudan francese (attuale Mali) con la comunità dei Dogon. Nel 1946 il vecchio cacciatore cieco chiamato Ogotemmêli (m. 1962), in accordo con gli altri anziani e sapienti dogon, gli rivela il suo sapere e lo fa accedere al livello di conoscenza proprio degli anziani e dei saggi. Quanto raccolto da Griaule durante quegli incontri andrà a comporre Dieu d’eau (1948), testo classico in campo etnografico (Comba 2008: 83). Solo grazie alle rivelazioni di Ogotemmêli lo studioso riesce a trovare una sintesi e una coerenza tra il sistema cerimoniale e rituale dogon (con il concetto chiave di nyama – principio mitico/energia dinamica, ripartita in tutti gli esseri –, la sua stretta connessione con il meccanismo sacrificale e un importante ruolo svolto dall’astronomia all’interno della religione dogon) e il complesso impianto mitologico che regola ogni aspetto della vita e dell’universo (con una cosmogonia basata su alcuni tratti fondamentali: l’acqua, come emblema di forza vitale, la parola, simbolo dell’ordine nel mondo, la dualità dell’essere umano, che nasce con un’anima al contempo maschile e femminile). Nella sua monografia Griaule fa emergere una complessità del pensiero dogon mai immaginata prima che lo portano ad affermare che il sistema di pensiero delle società africane sia da considerare all’altezza di quello delle culture del mondo antico e dell’Asia, così da poter riabilitare tutte quelle culture un tempo ritenute arretrate e “primitive” (Griaule 1948 [1996]). Quanto raccolto da Griaule rappresenta un articolato patrimonio di saperi che ingloba tutta la sfera della realtà, del mondo e dell’universo, dall’elemento più piccolo al più vasto, in una fitta rete di connessioni e coerenze interne in cui il mito viene percepito ed interpretato dai Dogon come storia “vera”. All’interno di questa vasto panorama di conoscenza che governa il cosmo, la vita sociale arriva a riflettere il funzionamento dell’universo, in un legame di reciprocità in cui anche l’ordine del mondo e della natura sono strettamente determinati dall’ordinamento della società (Griaule 1957a, cit. in Comba 2008: 85-86).
48Il lavoro di Griaule e dei suoi collaboratori, in particolar modo Germaine Dieterlen (1903-1999), fu oggetto di numerose critiche e attacchi, tra i più significativi vi sono i rilievi di James Clifford e Walter van Beek. Clifford contesta principalmente il metodo “militare”, di penetrazione dei segreti dei popoli indigeni, con cui lo studioso svolgeva le sue indagini sul campo e il processo di conferma delle proprie idee etnografiche (a priori) che si tramutava in un piegare, un forzare il lavoro etnografico stesso in modo da ottenere i riscontri cercati a quelle stesse convinzioni. Nonostante ciò, viene riconosciuto a Griaule di muoversi e lavorare in un preciso contesto coloniale, in una situazione di negoziazione tra un popolo africano soggiogato dal dominio coloniale e uno studioso occidentale portatore di un’ambivalenza endogena legata alla propria provenienza. Inoltre, si riconosce l’importante svolta etnografica rappresentata dai discorsi che Ogotemmêli ha condiviso con gli studiosi, sebbene questo metta in luce quanto in realtà fosse forte il controllo dogon sulle informazioni rese accessibili agli etnografi. Al contempo, è come se i Dogon avessero investito gli studiosi del ruolo di ambasciatori della propria cultura, in una sorta di ricerca di un rappresentante qualificato in grado di proteggere il proprio mondo dall’impatto dell’ondata del colonialismo (Clifford 1983, cit. in Comba 2008: 87-88).
49Le critiche di van Beek appaiono da subito più aspre e arrivano addirittura a mettere in discussione l’attendibilità stessa del materiale prodotto e pubblicato dagli studiosi. In particolar modo van Beek mette in evidenza come i resoconti etnografici di Griaule e Dieterlen portino alla luce la descrizione di una cultura caratterizzata da una complessità e da una raffinatezza di pensiero che costituisce un’anomalia nel panorama della letteratura etnografica africana. Lo studioso olandese è convinto di poter confutare le tesi avanzate da Griaule e le descrizioni che ne sono derivate. Egli sostiene che lo studioso avesse modellato le informazioni raccolte in funzione delle proprie convinzioni e conoscenze pregresse, tanto che la sua stessa influenza fosse stata decisiva per la costruzione del sistema mitologico e cosmologico che egli ha poi presentato come proprio del popolo dogon. L’accesso al complesso della conoscenza dogon avviene attraverso diversi livelli, alcuni più iniziatici ed esoterici, non accessibili a tutti. L’accesa critica di van Beek poggia sulla constatazione che, durante il suo lavoro sul campo, egli non avesse avuto accesso o riscontrato alcun sapere di tipo esoterico tra i Dogon, senza aver voluto considerare a sufficienza quanto alcuni circoli di conoscenza potessero essere ristretti e inaccessibili ai più. Alcune critiche a margine del lavoro di Griaule e Dieterlen, come ad esempio l’enfasi alla dimensione ideologica e simbolica, non scalfiscono alcuni aspetti importanti che Comba, in linea con la propria idea di lavoro sul campo e di accesso all’altro, tiene a mettere in evidenza. Viene messo in rilievo il forte carattere relazionale del lavoro svolto da Griaule sul campo, carattere messo in evidenza proprio nella costruzione di un rapporto di profonda fiducia con Ogotemmêli, frutto di una permanenza prolungata e di una conoscenza fondata sul rispetto e il riconoscimento reciproco. Un rapporto particolarmente intenso si è venuto a creare e a perdurare negli anni tra un gruppo di ricercatori e un gruppo di sapienti, grazie alla combinazione favorevole tra la condiscendenza dei Dogon nei confronti degli studiosi, considerati come autorevoli e dotati di autorità, e la personalità e il metodo di ricerca adottato dagli etnografi (Comba 2008: 87-95).
50L’attenzione agli aspetti relazionali del lavoro sul campo e nel rapporto che il ricercatore intrattiene con coloro che osserva, viene messo in evidenza da Comba anche per quanto riguarda il lavoro di Franz Boas (1858-1942). Anche in questo caso Enrico Comba propone una lettura del lavoro dell’etnografo americano (nato in Germania) all’interno dell’intensa e proficua relazione intrattenuta con George Hunt (1854-1933), suo principale collaboratore nativo, di origini tlingit.
51La restituzione della “visione del nativo”, attraverso la minuziosa e fedele trascrizione dei testi indigeni, fu tra le principali preoccupazioni del lavoro di Boas. La sua opera, soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione dei popoli Kwakiutl, appare anche a distanza di tempo importante e ha esercitato una grossa influenza lungo tutto il corso del Novecento. Vitale per Boas è la raccolta e la pubblicazione dei “materiali grezzi”, primari, sempre rileggibili, senza l’influenza di prospettive soggettive ad intaccarne l’efficacia. In questi materiali risiede, secondo lo studioso, la reale possibilità di poter cogliere il “punto di vista del nativo”. Hunt, suo informatore, fu in realtà un compagno e uno stretto collaboratore in senso etnografico di Boas. George Hunt lavorò a gran parte dei testi kwak’wala e sua fu la fondamentale mediazione per accedere alle pratiche, ai cerimoniali e alla vita dei nativi, incluso il potlatch. Hunt produsse una grandissima quantità di testi in lingua indigena insieme a Boas, questi testi nacquero dall’interazione tra due personalità che, nonostante le differenze esistenti tra loro, riuscirono ad operare con una grande sintonia. Boas operò con distacco, ma sempre con profondo rispetto nei confronti delle persone con cui entrò in contatto, senza anelare alcun desiderio di identificazione, funzione che Hunt incarnò alla perfezione, come una sorta di alter ego immerso in un’esistenza vissuta come osservazione partecipante (Comba 2008: 95-98).
52Il pensiero di Paul Radin (1883-1959) in tema di religione si sviluppa nella forma dell’analisi del sentimento religioso, con riferimento agli spiriti esterni all’uomo, più potenti dell’uomo stesso, e in connessione agli aspetti del sistema socio-economico. In questi termini, la religione rappresenta il correlato emozionale della lotta per l’esistenza (Radin 1937, cit. in Comba 2008: 102), ossia quello strumento creato culturalmente dall’uomo per mantenere e promuovere quei valori in grado di garantirgli la sopravvivenza. Radin critica fortemente l’antropologia del suo tempo perché a suo avviso troppo concentrata sulle credenze e pratiche collettive a discapito di una maggiore attenzione alle differenze individuali, di personalità e di attitudini, anche e soprattutto in tema di religioni. In questi passaggi Comba, sebbene non si soffermi direttamente su aspetti relazionali, sembra mettere in evidenza i caratteri di particolarità e di valorizzazione delle specificità individuali delle persone e dei soggetti che si osservano, e con cui si lavora sul campo.
53Nella descrizione del pensiero di Radin, secondo cui la religione è un fenomeno complesso e dinamico, inserito in un processo storico continuo, soggetto ad ampie variazioni e interpretazioni individuali (di uomini e donne specifici, non generici) che dipendono dalle caratteristiche specifiche del soggetto (Comba 2008), Comba riporta l’attenzione sul tema della complessità e dell’apertura al cambiamento e all’assorbimento di pratiche esterne proprie soprattutto delle religioni indigene.
54Per Radin la modalità migliore di raccolta di informazioni attendibili in merito ad una religione, consiste nel concentrarsi sulle biografie dei personaggi religiosi che possiedono il sentimento religioso in modo più marcato. Solo rivolgendosi a questi “pensatori” privilegiati si può avere accesso ad un’informazione atta a comprendere una religione in modo adeguato. Tra le figure di pensatori che costituiscono il fuoco della riflessione di Radin, troviamo lo sciamano. La figura dello sciamano, a volte caratterizzata da conflitto interno, in cui stato conscio ed inconscio tendono a separarsi, è innanzitutto quella di un medico e di un guaritore. Parallelamente alla figura dello sciamano, Radin prende in considerazione quella del trickster, il “briccone divino”, al tempo stesso buffone e ingannatore. Tra i Winnebago, ad esempio, è un personaggio caratterizzato da ambivalenza e dalla doppia funzione di benefattore e di buffone, di creatore consapevole di diversi aspetti culturali e di pasticcione inconsapevole. Protagonista di azioni da cui derivano innovazioni, il trickster è un personaggio del tutto desocializzato. Per i Winnebago rappresenta una satira e una messa in ridicolo dei valori più alti della società e della cultura ed esprime una forma di protesta contro di essi e contro gli obblighi socialmente imposti, mettendo in evidenza i caratteri dell’ambiguità umana e dell’ambivalenza sociale. Il trickster mette in burla il sacro ma è egli stesso, al tempo stesso, il sacro. Egli rappresenta la dualità della vita umana nell’universo e viene a ricordarci che ogni elemento della realtà esiste solo ed esclusivamente in relazione al suo opposto, al suo contrario o in rapporto a ciò che gli è antitetico. Per Radin lo sciamano rappresenta la parte non agita della coscienza umana, nonché incarna in sé l’umanità di ogni specifica cultura in un equilibrio (sempre precario) tra caos e significato, semplice esistenza biologica ed esistenza simbolica (ibid.).
55Il lavoro sul mito del trickster fu svolto da Paul Radin in collaborazione con il winnebago Sam Blowsnake (n. 1875), depositario di un testo tradizionale nativo.
56In qualità di viaggiatore ed esploratore di mondi sconosciuti, lo sciamano si colloca ai limiti delle diverse forme categoriali che costruiscono e descrivono il mondo dell’uomo e svolge un importante ruolo di mediatore tra il proprio gruppo di appartenenza e il mondo invisibile dei poteri superiori all’essere umano. Egli è uno specialista della relazione con l’invisibile, sebbene non sia l’unico a potervi accedere, ed è colui che ha maturato una maggiore familiarità con questa dimensione da cui riesce a trarre una forma di conoscenza da poi riutilizzare a beneficio degli altri membri della comunità (Comba 2001b). “Uomo di conoscenza”, “uomo di potere”, grazie alla sua capacità di aprirsi all’invisibile, egli elabora vere e proprie modalità non ordinarie di conoscenza (di cui tratteremo in seguito). Scrigno di un considerevole potere innovativo, non segue pedissequamente quanto appreso dalla tradizione ma si presenta come una personalità creativa che costruisce in modo graduale il proprio sapere, lo interroga di continuo in un confronto costante tra quanto appreso e tramandatogli dal sapere condiviso e il proprio bagaglio esperienziale in grado di condurlo ai confini della percezione e dell’ordinaria realtà: gli sciamani sono individui creativi (Comba 1999a, 2001b, 2008). L’esperienza sciamanica ha come sua particolare caratteristica quella di essere fortemente fondata sullo specifico vissuto di ogni individuo e si appoggia alle individuali capacità di proiettarsi in forme non ordinarie di conoscenza, per andare oltre, per uscire dai limiti del conosciuto e dagli schemi imposti dalle tradizioni e dai dogmi culturali. Questo aspetto della creatività che emerge, come spazio di innovazione, dallo studio delle religioni indigene e di figure come lo sciamano, rappresenta uno dei temi più frequenti nel pensiero antropologico di Enrico Comba.
La «chiamata» dello sciamano, ben lungi dall’essere la semplice messa in scena di una forma di possessione più o meno simulata, consiste in un andare oltre i limiti del mondo conosciuto, in un lasciarsi trasportare in regioni inesplorate del mondo e della mente, nel saper ritrovare un cammino in mondi che nessuno ha percorso, nel costruire un sapere su ciò che la maggior parte degli altri ignora e nell’impiegare tale sapere per risolvere alcuni dei problemi che affliggono l’esistenza umana (Comba 2001c, cit. in Comba 2008: 173).
Una fonte importante e imprescindibile per la costruzione della conoscenza sciamanica è rappresentata dagli stati non ordinari di coscienza, nella forma di fenomeni quali il sogno, la trance, la dissociazione della coscienza, e così via.
57In molte culture indigene i sogni sono una preziosa risorsa di conoscenza e orientamento. Il messaggio onirico può giungere a costituire una vera e propria guida per la vita futura di un individuo, in grado di orientarne le scelte. In molte culture tradizionali delle Pianure i sogni venivano considerati la principale fonte di conoscenza e potere. Il mondo dei sogni e l’atto del sognare suggeriscono la possibilità di una moltiplicazione delle componenti della personalità.
58Questo aspetto emerge in modo potente anche nei casi di possessione spiritica, aspetto che se considerato solo in chiave razionalistica assume i connotati del comportamento patologico; si è invece a conoscenza di come molte forme di possessione svolgano anche funzioni terapeutiche, sia nei riguardi del posseduto, sia nei confronti dei partecipanti o degli spettatori. La dimensione creativa legata agli stati di dissociazione mentale e di coscienza non ordinaria, in realtà, è un fenomeno non estraneo neppure alla tradizione occidentale, la quale ha saputo spesso riconoscerne (in modo meno esplicito) l’efficacia di creazione e innovazione nell’operato di poeti e artisti, quandanche di scienziati o filosofi (Comba 2008).
59Nel corso del Novecento l’autobiografia indigena ha assunto un ruolo sempre più rilevante come vero e proprio genere letterario: da un lato si è connotata come importante modalità di accesso al punto di vista dell’altro e alla percezione emica del mondo e delle società studiate, dall’altro l’intervento del curatore, spesso tutt’altro che marginale, ha fatto sì che tali opere venissero a costituirsi come veri e propri documenti bi-culturali.
60Tra le autobiografie più importanti raccolte abbiamo quella dello sciamano lakota e “uomo sacro” Black Elk [Hehaka Sapa] (1863-1950). L’uomo venne coinvolto da John G. Neihardt (1881-1973) nel 1931 all’interno del suo progetto di intervistare alcuni anziani lakota che avevano partecipato al movimento della Ghost Dance e al massacro di Wounded Knee (29 dicembre 1890). Da questi colloqui nacque il volume Black Elk Speaks (1932) in cui viene messo in evidenza come la vita di Black Elk avesse ruotato intorno all’episodio centrale e straordinario della grande visione dello Spirito del Tuono il cui messaggio di rigenerazione rimase però incompiuto (Neihardt 1932). Qualche tempo dopo, la scoperta di come Black Elk fosse stato battezzato nel 1904 e avesse svolto inoltre una lunga carriera di catechista cristiano, aggiunta alla constatazione che di questi avvenimenti non vi era quasi traccia nel testo redatto da Neihardt, hanno fatto emergere dubbi sull’attendibilità del documento e sulle impressioni che fosse stato manipolato dall’autore. La vita di Black Elk può essere tracciata passando attraverso quattro tappe fondamentali: (1) la grande visione di gioventù dello Spirito del Tuono, in cui egli acquisisce il carattere di guaritore e “uomo sacro” a cui seguono la Ghost Dance e il disastro di Wounded Knee; (2) il viaggio in Europa al seguito del Wild West Show di Buffalo Bill, che apre gli occhi dell’anziano sulla complessità del mondo al di fuori del suo territorio; (3) l’adesione al Cristianesimo e il successivo ruolo di catechista e predicatore; (4) l’incontro con Neihardt, con la possibilità di ricostruire la propria vicenda e di preservarne la memoria (Comba 2008).
61L’aspetto più controverso della vita di Black Elk, quello della conversione al Cristianesimo, porge in realtà il fianco, ancora una volta, alle considerazioni già proposte da Comba: la religiosità dei nativi è sempre stata aperta alle più diverse esperienze mistiche, ritualistiche e visionarie. In quella conversione Black Elk ha riconosciuto un’opportunità, quella di esplorare il mondo dei cristiani, per coglierne il potere, di cui era stato spettatore, sebbene in termini di sottomissione e intolleranza. Questa conversione non ha però mai significato per l’anziano un abbandono delle pratiche tradizionali. Concentrandosi sulla figura di Black Elk, è possibile cogliere in lui i semi che consentono di far germogliare l’idea che egli abbia assunto direttamente su di sé le caratteristiche proprie di un sistema religioso complesso. L’incontro di Black Elk con Neihardt ha significato per questa personalità creativa e dalla grande spiritualità un’opportunità e una nuova svolta nella sua travagliata esistenza. Il racconto della propria visione allo scrittore è stato come una sorta di consegna di poteri a qualcuno in grado di metterli a frutto, così che la sua gente ne avesse a beneficiare. Il messaggio di Black Elk era un deciso sguardo verso il futuro, piuttosto che una forma di nostalgia del passato. Agli occhi dell’anziano le esperienze religiose della gioventù erano del tutto compatibili con il messaggio cristiano, mantenendo come nucleo della propria esperienza religiosa la visione originaria, un nucleo e una spinta propulsiva impossibile da abbandonare (ibid.).
62L’idea che in Black Elk risiedesse un conflitto tra due culture appare sensato e si ha l’impressione di percepire la sofferenza nei riguardi della logica coloniale che vedeva come impossibile il poter conciliare la figura di sacerdote e sciamano in un’unica persona. Non sembra insensato prendere in considerazione l’idea che la trasmissione della propria storia a Neihardt sia stata vissuta dall’uomo come una sorta di liberazione da un fardello culturale (Spagna 2016: 27-28).
63Si può dire che Black Elk abbia vissuto l’intera vita nel tentativo di trovare nuovo ossigeno per una nuova rielaborazione del messaggio religioso, con l’intento di offrire nuova speranza al proprio popolo. Black Elk ha assunto su di sé i caratteri di un sistema religioso complesso coniugando apporti provenienti da religioni e tradizioni spirituali diverse giustapponendole e integrandole, senza una fusione totale né una prevaricazione o sostituzione di una sull’altra (Comba 2008). Traspare in modo evidente l’ammirazione da parte di Comba per questa figura straordinaria della storia dei Nativi americani, un’ammirazione che investe la figura di Black Elk di quei caratteri di complessità, innovazione, apertura al possibile, capacità trasformativa e generativa che lo studioso ha già riconosciuto in altri frangenti alle religioni indigene come sistemi religiosi complessi.
64In conclusione di questo capitolo, si vuole porre interesse a quanto la sensibilità delle elaborazioni simboliche e religiose indigene nei confronti della complessità della vita e dell’esistere umano, abbiano mostrato un’elevata raffinatezza di pensiero anche nel prendere in considerazione e integrare aspetti come quelli della violenza, dell’aggressività e del conflitto.4 Violenza e conflitto sono fenomeni comuni e frequenti nel mondo umano, ma possono assumere configurazioni e dimensioni molto differenti: da un semplice conflitto circoscritto fino a guerre estese a livello mondiale. Il dubbio che queste differenze possano essere ricondotte sotto un unico cappello descrittivo, con un’unica causa scatenante appare subito evidente. Nonostante ciò, e in diverse occasioni, alcuni autori hanno fornito un’interpretazione del fenomeno religioso soprattutto in termini di “violenza”; tra questi ricordiamo ad esempio Girard (come visto in precedenza), Burkert (1931-2015) e Bloch. Può risultare utile, per contro, provare a riconsiderare le diverse forme di violenza e di conflitto come sfumature di un disordine che pervade tutti i sistemi culturali e sociali elaborati dall’essere umano, forme di violenza che agiscono all’interno di un meccanismo di continua minaccia dell’ordine e dell’equilibrio necessario al mantenimento e alla continuità del sistema stesso. I sistemi religiosi, in quanto sistemi complessi, si collocano nella dialettica tra ordine e disordine, all’interno dello spazio di confine tra la necessità di equilibrio e stabilità (relativa) e la necessità di concedere l’accesso periodico ad una determinata quantità di caos che, come vedremo, svolge un’importante funzione rigeneratrice e innovativa (ibid.). Il rapporto tra sistemi religiosi e violenza potrebbe essere identificato, a questo punto, come “cartina al tornasole” della complessità dei sistemi stessi.
65La categoria dei “riti di iniziazione”, la cui presenza nella visione primitivistica delle religioni indigene è sintomo di arretratezza culturale, di manipolazione degli anziani sui giovani e fonte di sofferenze fisiche, in realtà costituisce un “universo” tutt’altro che omogeneo e definito, includendo una grande diversità di pratiche e procedure rituali.
66I “riti di iniziazione” svolgono, nella lettura offerta da alcuni autori, la funzione di assicurare cerimonialmente la transizione dall’adolescenza all’età adulta, inserendo gli individui all’interno della comunità e conferendo loro ruoli e posizioni sociali. Una “seconda nascita” che, come abbiamo già visto, assume la forma di una plasmazione, di una “fabbricazione” culturale dell’essere umano detta antropo-poiesi (Allovio, Favole 1996; Remotti 2013). L’originaria incompletezza dell’essere umano, “animale incompiuto” per Clifford Geertz, rende indispensabile e imprescindibile per ogni società questo meccanismo di costruzione e di trasformazione. La cultura viene ad essere considerata quindi come un’integrazione imprescindibile della natura biologica dell’uomo. Non si può divenire esseri umani (uomo o donna) in modo neutro, naturale o pacifico, bensì solo in modo conflittuale, socialmente negoziato e culturalmente determinato. Il processo di antropo-poiesi con cui gli esseri umani danno forma al loro essere può assumere forme aberranti o edificanti, assumere caratteristiche violente, ma non necessariamente questa cosa avviene sempre e in ogni formulazione (Allovio, Favole 1996).
67Il contesto dei riti, anche quelli di iniziazione, rappresenta spesso l’occasione per mettere in opera un complesso sistema di relazioni che attraversa il singolo individuo in rapporto alla collettività, ma anche all’interno del gruppo sociale: sono il contesto per stringere alleanze, riaffermare distinzioni di genere, rielaborare il rapporto con gli antenati. Sono, in sintesi, veri e propri spazi di riflessione su ciò che si sta mettendo “in scena” e su che cosa implica il diventare esseri umani (ibid.). Nella visione aperta alla complessità di Comba queste attività rituali non possono che avere una duplice veste, in linea con quanto illustrato pocanzi: da un lato sono una modalità di “costruzione” degli esseri umani, dall’altro rappresentano veri e propri momenti di riflessione e di produzione di sapere.
68Un ultimo e conclusivo aspetto legato al tema della violenza, che verrà qui preso in considerazione, ha a che fare con la guerra.
69Nel quadro del mondo contemporaneo, in cui il processo di modernizzazione ha enfatizzato aspetti di disgregazione dell’identità, e sull’onda della stessa crisi identitaria che ha investito il mondo occidentale e industrializzato, spesso le appartenenze religiose hanno colmato il vuoto di significati e offerto risposte al senso di alienazione venutosi a creare. Le religioni si sono connotate, quindi, come potenti strumenti identitari e di appartenenza che sovente hanno fomentato ed esacerbato la conflittualità tra popoli e culture differenti. Alcune letture hanno descritto il fenomeno nella forma della “ri-tribalizzazione” del mondo occidentale, richiamando alla mente immagini tipicamente associate a società arcaiche ed arretrate. Questa visione (che conserva sentori di un retaggio primitivistico), non tiene conto di alcuni aspetti che Augé (1980, cit. in Comba 2008: 145) mette in evidenza insistendo sulla tolleranza e la disponibilità più volte manifestata dalla maggior parte delle religioni indigene. Non è possibile generalizzare riconoscendo un legame indissolubile tra religione e aggressività inter-etnica, aspetto questo molto più spesso familiare ai rapporti tra le grandi religioni. Nonostante ciò, alcuni elementi (associati oggigiorno anche ai conflitti inter-etnici e interreligiosi) come la valorizzazione della morte in battaglia, il valore, la gloria legata all’impresa eroica, rappresentano valori presenti anche in diverse culture native delle Pianure del Nord America.
70Per affrontare la discussione in merito al complesso rapporto che esiste tra cultura e violenza, Comba sceglie, tra gli altri, un esempio appartenente ai Kwakiutl:
I guerrieri che facevano parte del seguito di un nobile erano detestati e temuti dalla comunità, a causa della loro indole violenta e del loro comportamento poco scrupoloso delle norme e delle regole sociali. La qualità essenziale del guerriero, il coraggio, è designata in lingua kwakwala con il termine lwais, che significa letteralmente «selvaggio»; un altro appellativo del guerriero è walibai, «colui che è temuto». La ferocia e la forza del guerriero, pure considerate qualità imprescindibili per condurre con successo una spedizione contro i nemici, erano al tempo stesso viste come un pericolo e un turbamento per l’ordine della comunità. Il guerriero è ritenuto un essere incompleto, ancora parzialmente selvaggio, che deve, grazie al processo di iniziazione rituale, portare a pieno compimento l’opera di socializzazione, mostrando di saper dominare e controllare le forze che scaturiscono dalla sua natura selvaggia (Comba 2008: 147).
In questo breve ma significativo passaggio (cfr. Comba 1992a), vengono posti in evidenza da Comba molti aspetti già affrontati rispetto al tema dell’aggressività, della violenza e del conflitto, elementi presenti costantemente nella vita degli esseri umani. Tra i diversi fattori riemergono alcune considerazioni riguardanti i riti di iniziazione e la natura culturale e incompleta dell’uomo (anche del guerriero) che necessita di un pieno compimento nell’alveo degli orizzonti di significati prodotti dalla cultura di appartenenza. Se da un lato la cultura funge da elemento che agisce per ridurre la complessità del mondo, rendendolo così pensabile e controllabile, dall’altro la violenza rappresenta una delle porte di accesso del disordine all’interno dell’ordine del sistema, capace di intaccarlo e di metterne in discussione la stabilità.
71Ordine e disordine, la loro continua compenetrazione, la loro interazione costante, il loro dialogare e giocare sul filo tra vita e morte, generazione e distruzione, sono gli elementi imprescindibili capaci di generare la vita.
Sembra che le cosmologie indigene fossero perfettamente consapevoli dell’equilibrio instabile che governa l’esistenza dei viventi e dell’incessante danza del cosmo, che il pensiero dell’India ha rappresentato nella figura danzante del dio Shiva, che genera la continuità della vita (ivi: 148).
Notes de bas de page
1 Termine coniato da Rudolf Otto (Das Heilige [Il Sacro], 1917) e da lui introdotto nella filosofia e nella storia delle religioni per indicare l’esperienza peculiare, extra-razionale, di una presenza invisibile, maestosa, potente, che ispira terrore ed attira: tale esperienza costituirebbe l’elemento essenziale del “sacro” e la fonte di ogni atteggiamento religioso dell’umanità. Informazione tratta da: voce numinoso, in Treccani - Vocabolario on line, pubblicato da Istituto della Enciclopedia Italiana [online], <https://treccani.it/vocabolario/numinoso/> (ultima consultazione: 11 agosto 2021).
2 Essendo l’opera Riti e misteri degli Indiani d’America (2003) un’edizione con differente veste editoriale della precedente Testi religiosi degli Indiani del Nordamerica (2001), da questo momento in poi per le citazioni e i riferimenti bibliografici verrà riportata esclusivamente la pubblicazione del 2001.
3 Quanto riportato è tratto dall’intervento effettuato da Enrico Comba nel 2014 all’interno del ciclo “Che cos’è la religione?” organizzato dalla Fondazione Faraggiana (il riferimento a questa fonte è presente nella sezione “Contributi video citati”, collocata di seguito alla sezione “Bibliografia”, rif. video: Enrico Comba - Antropologia delle religioni, 2014).
4 La trattazione degli aspetti che – anche in tema di pratiche della violenza – hanno a che fare con qualunque forma di rapporto uomo-animale, verrà affrontata nel prossimo capitolo.
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