Il bestiario di Anagoor
p. 375-383
Texte intégral
1La scena e la lingua del teatro di Anagoor sono costellate di apparizioni animali. Più che di reali presenze fisiche, corporee, queste apparizioni hanno natura fantasmatica, perché solo evocate come ricordi e reminiscenze nell’orazione, o perché si limitano a comparire come simulacri video. Ma ancora più spesso perché le immagini proiettate in scena, pur mostrando un pullulare di vita animale, spesso colto in fasi generative, riproduttive e affettive (monte, raccolta del seme, nascite, allattamenti…), di fatto sono relative a masse di individui deceduti nel meccanismo della caccia o dell’allevamento intensivo. Le centinaia di pulcini che si vedono nascere in batteria e poi saltare uno sull’altro sfolgoranti di vita sebbene rinchiusi in cassettiere, così come le moltitudini di maialini che esplodono di energia guizzando come pesci, in vasche ribollenti ma troppo anguste, quando lo spettatore ne osserva gli slanci nelle proiezioni video che fendono la drammaturgia scenica di Virgilio Brucia (2014), sono già stati tutti macellati: non a caso il titolo dell’episodio è Libro VI / discesa nel regno dei morti. I titoli di coda della produzione più recente, il film-concerto Mephistopheles (2020), lo esplicitano con amarezza: in luogo del consueto «No animals were harmed in the making of this film», sullo schermo, al termine della proiezione, campeggia la didascalia «All animals were harmed in the making of this film. No one has survived».
2Ancora in video, quasi ai margini dell’inquadratura, nella grande stele verticale di Lingua Imperii su cui sono proiettati più di trenta ritratti di giovani dal volto serrato in orride museruole che impediscono loro la parola, si può scorgere che alcuni, soli o in gruppo, reggono in braccio pelli di animali, per lo più manti screziati di cerbiatti scuoiati, accarezzandoli come per consolarli-per consolarsi. E poco prima, nello stesso spettacolo, il corifeo, con parole di Sebald (2013), liberamente adattate, non riesce a trattenere in un flusso di coscienza due ricordi associati per analogia spontanea: la visione, una mattina sulla strada per la scuola, di una catasta di cerve gettate sul selciato di fronte alla macelleria del paese, e le torture naziste:
Ricordo di essere passato una mattina, sulla strada della scuola, davanti alla macelleria proprio nel momento in cui una decina di cerve venivano scaricate da un carretto e gettate sul selciato. Per un pezzo rimasi lì impietrito, tanto ipnotica era la vista degli animali uccisi. Episodio conclusivo di una storia dalle lontane ascendenze nel nostro oscuro passato e che, quando ero piccolo, mi aveva già ispirato sgradevoli presentimenti. E tutte quelle cerimonie, poi, che i cacciatori facevano con i rami di abete già allora mi risultavano sospette. Mentre i fornai, con ogni evidenza, non avevano bisogno di simili decorazioni. In Inghilterra ho visto in seguito ghirlande di alberelli in plastica verde, poco più alti di una spanna, che incorniciavano i tagli di carne e le interiora esposti nelle vetrine. L’irrefutabile idea, secondo cui quella decorazione sempreverde e sintetica doveva essere prodotta da qualche parte su scala industriale con l’unico scopo di tacitare i nostri sensi di colpa di fronte al sangue versato, era per me, proprio nella sua totale assurdità, la riprova di quanto forte sia il nostro desiderio di riconciliazione e di quanto poco, da sempre, siamo disposti a pagare per ottenerla. Questo mi era tornato in mente mentre osservavo il gancio appeso con una corda al soffitto di una delle casematte del Fort Breendonk in Belgio. Nessuno può spiegare esattamente che cosa succede in noi quando si spalanca la porta dietro cui sono celati i terrori dell’infanzia. Io però ricordo ancora che quella volta, nella casamatta di Breendonk, mi salì alle narici un disgustoso odore di sapone tenero, che quell’odore si associava, in un angolo confuso della mia mente, con una delle espressioni preferite di mio padre: “spazzola di saggina”. Non posso dire che insieme a quel senso montante di nausea fosse affiorata in me un’idea precisa dei cosiddetti interrogatori di rigore condotti in quel luogo: fu solo anni più tardi che lessi in Jean Améry della spaventosa vicinanza fisica tra vittime e carnefici, della tortura cui egli era stato sottoposto a Breendonk; tortura consistita nel sollevarlo in aria per le mani legate dietro la schiena affinché i condili saltassero dai glenoidi nell’articolazione delle spalle con uno schianto e uno scheggiarsi che lui, ancora al momento di scriverne, non aveva dimenticato, e nel lasciarlo pendere nel vuoto con le braccia slogate, tirate in alto da dietro e chiuse sopra la testa in posizione rovesciata (Lingua Imperii 2012).
3Nel Faust di Charles Gounod di cui Anagoor ha curato la regia per i Teatri di Reggio Emilia, Modena e Piacenza nel 2017, nella scena della festa del secondo atto, trionfa un enorme bue squartato e appeso, come quello del dipinto di Rembrandt. Candido e crocifisso emblema del sacrificio della vittima. Ma sarà il veau d’or a cui inneggia Mefistofele a catturare l’attenzione e suscitare la brama degli abitanti del villaggio. Per tutta la durata dell’Agamennone, in Orestea del 2018, il cadavere di una cerva albina aperto giace inerte sul pavimento. Dal suo ventre aperto vengono estratte ossa bambine. Per pudore la carcassa viene presto velata sotto un sudario di garza, ma la cancellazione del muso non fa che rendere più persistente il cospetto del corpo scandaloso. Per tutto il tempo la presenza sconveniente della vittima graverà sulla scena, sulla casa.
4L’ostinazione della presenza animale è sempre un richiamo indecente alla nostra protervia – la presenza animale o l’equivalente ominoso del suo cadavere. In fondo il corifeo di Lingua Imperii, all’inizio dello spettacolo raccontando “ancora una volta” la storia dolorosa di Ifigenia, lo ricorda provocando il pubblico: «Perché è questo che ci si aspetta dagli animali, no? che possano cadere sotto i nostri colpi senza proferire parola».
5Gli animali sulla scena nel teatro di Anagoor sono più di una metafora della condizione umana, sono un tassello essenziale per rivelare un modo violento e profondamente ingiusto di guardare al mondo come a un parco di risorse di cui disporre a piacere infinitamente, senza ritegno, e a se stessi (specie umana e individui) come supremi detentori del privilegio fino alla riduzione, alla prevaricazione e alla cancellazione dell’altro qualora si ponga come ostacolo di un pieno godimento. I cadaveri degli animali, o i loro fantasmi, sono l’allarme, tardivo, di un difetto dello sguardo, del sentire, della coscienza di sé nel mondo. Sono Erinni.
6La presenza degli animali nel teatro di Anagoor è in diretto rapporto con la poesia di Eschilo e in relazione a due fallimenti. Tra il 2004 e il 2007 la compagnia si immerse in un lungo studio dell’Orestea. Questa fase laboratoriale rappresentò un momento genetico per il gruppo. Tuttavia la coscienza di non essere strutturati e maturi a sufficienza per reggere la scalata al gruppo montuoso della trilogia ci invitò a lasciare sedimentare lo studio, le scoperte, una certa lettura dell’opera. In particolare la nostra capacità di sostenere la lingua di Eschilo sulla scena era ancora troppo acerba. Tuttavia lessico e figure e una più generale visione metafisica del mondo erano entrati sotto pelle. Ne uscimmo con un senso di fallimento che chiedeva uno spostamento radicale a partire da quelle premesse. Quasi in una sorta di contrappasso ci obbligammo ad andare a servizio di un centro equestre sui colli dell’asolano. Fu una partecipazione collettiva: eravamo io, Anna Bragangolo, Marco Menegoni e Moreno Callegari. Chiedemmo un asilo che fu accolto. Iniziammo prendendoci cura degli stalli e dell’igiene dei cavalli. Lavaggi quotidiani, prossimità e contatto. Ingenuamente cercavamo di ricostruire un dialogo che sentivamo non aver trovato autenticità nelle nostre esplorazioni teatrali. Un allenamento al dialogo partendo da quello più difficile, quello con il più alieno da noi, l’animale che non possiede voce articolata e traducibile. Dopo alcune stagioni di dedizione e relazione con gli istruttori e gli animali emerse l’idea di una resa performativa di questo incontro. L’esito fu *jeug – che nel 2008 presentammo al Premio EXTRA – segnali dalla nuova scena italiana, e che nel 2009 fu il primo nostro lavoro a essere programmato al Festival Drodesera. Si trattava, come cercava di raccontare il titolo – la radice sanscrita delle parole giogo, yoga, coniuge, congiungere… –, di una riflessione performativa sull’incontro tra esseri e sulla possibilità dell’unione pur nella coscienza dell’inefficacia della comunicazione, delle parole, del linguaggio. Insomma un tentativo fallibile, ma degno di essere sperimentato. La performance vedeva in scena una giumenta e una giovane donna, Anna. Solo un diaframma di velo separava la scena arena dagli sguardi degli spettatori. Il percorso di avvicinamento seguiva step progressivi desunti dalle tecniche del join up e della doma gentile ed era aperto, aveva durata variabile ed era passibile di fallimento. Presto questa apertura che costituiva il contenuto strutturale della performance ci obbligò alla coerenza: imparammo presto che Pioggia, la giumenta memorizzava i passaggi, li precedeva, la stavamo o si stava ammaestrando. La sequenza degli step poteva essere disattesa e riorganizzata solo un numero limitato di volte: restava latente la possibilità di un automatismo progressivo. Imparammo presto anche che portare con noi Pioggia implicava cure che non sempre compensavano lo stress subito dall’animale nelle trasferte. A Dro, durante la notte che precedeva il debutto del lavoro alla Centrale di Fies, qualcuno aprì lo stallo in cui Pioggia riposava consentendole di uscire. La ricerca la mattina all’alba lungo i sentieri delle marocche, con l’angoscia che potesse essersi infortunata o peggio essere scivolata nel Sarca che scorre al di sotto dopo un salto roccioso di parecchi metri, ci instillò la convinzione che l’autenticità di relazione ricercata stava per essere sacrificata in favore dello spettacolo. Cosa volevamo dimostrare? A nome di chi? A quali costi? E con quale autorità? Perché un animale (il cavallo! tra i più sensibili), con il quale si era costruito un rapporto di evidente fiducia se non di affetto, doveva essere costretto a seguirci e a sottostare a ritmi di un lavoro a cui non aveva chiesto di partecipare? Nonostante l’indubbia poesia dell’incontro dei corpi di Anna e Pioggia, la bellezza commovente della visione, lo sprigionare in scena davanti agli sguardi del pubblico della loro evidente simbiosi, decidemmo di sospendere dopo poche repliche la circuitazione del lavoro. Fu questo secondo fallimento a determinare le scelte successive: la presenza virtuale, non corporea dell’animale come ostinata non-rinuncia e parallelamente l’indagine sulla custodia e sullo sfruttamento dei corpi animali da parte degli esseri umani.
7È questa indagine ad averci condotto fin dentro agli allevamenti intensivi, fin dentro agli stabilimenti di macellazione industriale. Questi ingressi sono avvenuti in tempi distanti tra loro, tutti con l’obbiettivo di raccogliere immagini poi selezionate, rimontate e collocate all’interno di più ampi dispositivi drammaturgici. Sebbene consci che un grande portato di dolore sarebbe stato oggetto della raccolta, lo sguardo ha cercato quasi sempre una posizione obiettiva, non patetica. Non solo, ma le degenerazioni violente di cui questi luoghi possono essere facilitatori non sono mai state oggetto di indagine. Per osservare la violenza della coercizione e dello sfruttamento sistematizzato, e lo spreco di vita in cambio del profitto, è sufficiente posare lo sguardo sulla macchina industriale. In questo senso emblematico è lo smontaggio dei corpi nel macello automatizzato. In poche decine di metri, in poche manciate di minuti, un individuo viene disarticolato, disassemblato, perdendo così l’unità dell’articolazione originaria, i connotati e i contorni che lo distinguono. Un’alterazione e una partizione della forma che, quando le incontriamo sui banchi e nei frigoriferi delle macellerie della grande distribuzione alimentare, non ci inquieta poiché non è più riconoscibile.
8Eppure nonostante la gelida ferocia della macellazione, paradossalmente non è il mattatoio il girone infernale più devastante da un punto di vista emotivo. Il vero Ade sono le fasi della riproduzione-per-la-morte: tutte le nascite in cattività insostenibili allo sguardo. In tre notti successive trascorse in un allevamento di suini del trevigiano per riprendere le nascite di maialini apprendemmo con sgomento che i corpi delle scrofe, esauriti dai ritmi continui di fecondazione-gestazione-fecondazione, sono come suoli inariditi, esausti, e partoriscono feti troppo deboli o già abortiti. Un vero inferno, un luogo che nega. E in tanta morte – questa la feroce sequenza ripresa ed inserita nel montaggio del video verso il quale canta il coro di Virgilio Brucia – un piccolo, forte a sufficienza e già sollevatosi sulle sue zampine, per istinto cerca di portare i fratelli, che annaspano o giacciono inerti, alla vita. E tenta, e tenta, disperatamente teso verso una vita che verrà negata.
Bibliographie
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Sebald W.G. 2011, Le Alpi nel Mare, Milano, Adelphi
Sebald W.G. 2013, Austerlitz, Milano, Adelphi
10.3917/lpm.005.0146 :Teatrografia di Anagoor
2008 – *jeug - debutto giugno, Vox Animalium, San Zenone degli Ezzelini, spettacolo finalista al premio EXTRA - segnali della nuova scena, scrittura Simone Derai, Anna Bragagnolo, Eloisa Bressan, regia Simone Derai, produzione Anagoor.
2012 – Lingua Imperii - debutto giugno, Trento Film Festival, Castel Sant’Elmo, Auditorium, drammaturgia Simone Derai, Patrizia Vercesi, regia Simone Derai, coproduzione Trento Film Festival, Provincia Autonoma Di Trento, Centrale Fies, Operaestate Festival Veneto.
2014 – Virgilio Brucia - debutto giugno, Festival delle Colline Torinesi, Torino, testi ispirati alle opere di Publio Virgilio Marone, Hermann Broch, Emmanuel Carrère, Danilo Kiš, Alessandro Barchiesi, Alessandro Fo, Joyce Carol Oates, traduzione e consulenza linguistica Patrizia Vercesi, drammaturgia Simone Derai, Patrizia Vercesi, regia Simone Derai, produzione Anagoor, coproduzione Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies, Operaestate Festival Veneto, University of Zagreb-Student Centre in Zagreb-Culture of Change.
2017 – Faust, dramma lirico in cinque atti dal Faust di Goethe, musica di Charles Gounod - debutto dicembre, Teatro Luciano Pavarotti, Modena, direzione musicale Jean-Luc Tingaud, regia Simone Derai, progetto artistico Anagoor, produzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia.
2018 – Orestea - Agamennone, Schiavi, Conversio, dall’Orestea di Eschilo - debutto luglio, Teatro alle Tese, La Biennale, Venezia, drammaturgia Simone Derai, Patrizia Vercesi, traduzione dal greco Patrizia Vercesi, Simone Derai, orizzonte di pensiero e parola S. Quinzio, E. Severino, S. Givone, W.G. Sebald, G. Leopardi, A. Ernaux, H. Broch, P. Virgilio Marone, H. Arendt, G. Mazzoni, produzione Anagoor con il sostegno di Fondation d’entreprise Hermès nell’ambito del programma New Settings, coproduzione Centrale Fies, Teatro Metastasio di Prato, TPE - Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile del Veneto, con la partecipazione alla coproduzione di Theater an der Ruhr.
2019 – Mephistopheles eine Grand Tour - debutto 1° luglio, Cortile d’Onore, Teatro Festival Italia, Napoli, scritto e diretto da Simone Derai, produzione Anagoor , coproduzione Kunstfest Weimar, Theater an der Ruhr, Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee / Museo Madre, Centrale Fies, Operaestate Festival Veneto, in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival - Napoli Teatro Festival Italia, Villa Parco Bolasco - Università di Padova.
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