Senza titolo #
p. 341-351
Texte intégral
Due piccole premesse
1Avendo fatto un intervento a braccio, seguendo le tracce indicate dalle domande guida del programma del convegno e dovendo ora produrre un materiale scritto, ho pensato di seguire la stessa modalità. Di seguito, quindi, cercherò di ricostruire i pensieri esposti oralmente nel mio intervento, rispondendo punto per punto alle domande del programma, riportandole all’interno del testo.
2Prima di cominciare a rispondere voglio anche premettere una cosa che potrebbe apparire ovvia ma che preferisco specificare. Quando parlo di sistema di pensiero o di modello culturale senza darne una specifica, mi riferisco al nostro, ovvero a quello occidentale che nel tempo è andato affermandosi come sistema di riferimento, a volte assunto volontariamente a volte per imposizione e che è quello la cui crisi viene dibattuta in questa sede. Altri probabilmente sono in crisi ma per altri motivi, non ultimo la sottomissione al nostro.
• Cosa potrebbe significare, praticare, pensare e scrivere teatro oltre l’umano?
3Credo che per un artista l’agire artistico corrisponda al vivere, tutto il resto non è nulla. Quindi dovrebbe significare cambiare la propria visione della vita e di conseguenza la prospettiva con cui pensa la propria arte. Come questo possa accadere non è facile da immaginare senza cadere nel didascalico, cosa che spesso accade. Specialmente se come umani continueremo a pensare al mondo umano come referente privilegiato delle nostre opere.
4Ma è possibile e avrebbe senso l’arte pensata per un mondo non esclusivamente umano? Forse si potrebbe affermare di sì, ma credo che a oggi si dovrebbe accettare di essere considerati dei pazzi, non c’è altra strada.
5Detto ciò credo appunto che l’arte abbia attualmente, per come siamo in grado di concepirla, come unico referente, l’umano. Questo credo lo si debba al fatto che l’umano è, per quel che ne sappiamo, l’unico essere vivente su questo pianeta (terra) ad aver bisogno di svolgere questa attività, sia in veste attiva che passiva. Questo tipo di attività è uno (se non il principale) dei tratti distintivi della nostra specie. La partecipazione, sia attiva che passiva, a questo tipo di attività da parte del non umano, si risolve sempre in una forma di costrizione da parte dell’umano nei confronti del non umano.
6È sempre indiscutibilmente una partecipazione coatta. Se questa costrizione sia lecita è tema di dibattito, un dibattito tra umani ovviamente. Tale dibattito rileva un ulteriore problema riguardante la scala di valori del non umano, scala che ovviamente è ancora una volta un problema puramente umano e cioè: è lecito stabilire una scala di valori che ci permetta di stabilire quale non umano è coartabile o non all’interno delle rappresentazioni artistiche? Ad esempio: è lecito adoperare animali, vegetali e minerali senza limitazione alcuna? Solo gli animali costituiscono un problema o anche i vegetali? O anche i minerali?
7Quindi nel formulare la domanda “Cosa potrebbe significare, praticare, pensare e scrivere teatro oltre l’umano?”, sembrerebbe innanzitutto necessario stabilire i confini del non umano.
8Limitiamoci in un primo momento all’utilizzo dell’animale non umano. Io credo si possa dire senza alternative, che ogni qual volta si sia cercato di farlo partecipare nella sua immanenza esistenziale, cioè utilizzando un animale vero e proprio, vivo o morto, all’interno di un’opera, risulta evidente che questa partecipazione non è mai (poiché è impossibile) rispettosa della sua volontà. Non esiste una procedura che ci permetta di stabilire la volontarietà dell’animale non umano o del suo consesso sociale, a partecipare. Nello stesso modo, per quanto molto meno frequente, accade nel caso si voglia un animale non umano o più, come spettatori di un’opera. Sappiamo perfettamente che nessun animale si presenta di sua volontà alla biglietteria di un teatro, di un cinema o di un museo o altro e che anzi se giunge come accompagnatore di un umano viene, con poche eccezioni, rifiutato. Ma ammettiamo che per caso accada, come potrebbe pagare il biglietto d'ingresso? Quest’ultima non è una battuta di spirito, è un rilevare ancora una volta che tutta la struttura che orbita attorno all’arte è su misura umana e solo umana e che al momento non sono previste altre prospettive, non solo sul piano della creazione artistica, ma anche su quello del suo intero sistema.
• Come potremmo praticare, pensare e scrivere un teatro – e fare arte – che sia in linea con il turbolento presente planetario in cui sono presenti non solo gli esseri umani e altri animali, ma anche i fiumi, gli oceani, le coste, le acque, la foresta, il ghiaccio?
9Personalmente credo che a essere in crisi sia esclusivamente il mondo umano. Il resto del cosmo si muove al di fuori delle logiche che per noi definiscono un determinato evento o serie di eventi, una crisi. Penso che la maggior parte degli umani e dei movimenti siano spinti non tanto da una reale coscienza di rispetto dell’ambiente, ma dalla preoccupazione che la mutazione delle condizioni ambientali si sta rivelando svantaggiosa e anche pericolosa. I paradigmi di pensiero non stanno in sostanza mutando, come invece sarebbe necessario; questo lo si vede in modo esemplare nelle strategie che vengono continuamente indicate per affrontare il problema energetico, dove viene continuamente proposta la sostituzione di una fonte energetica con un’altra, la cui valutazione di efficienza è se la seconda sia in grado soddisfare il fabbisogno coperto attualmente dalla prima e anche la richiesta crescente, senza mai mettere in dubbio la sostenibilità di questa produzione esponenziale. Come questo potrei fare molti altri esempi da cui si evince che in sostanza, com’è tipico del nostro approccio, non si punta a rimuovere le cause ma a curare i sintomi, dimenticando, e in questo caso specifico è assolutamente vero, che la situazione che si affronta è esclusivamente il frutto di azioni umane, che quindi non sono metafisicamente inalterabili. Si tratta in sostanza di cambiare i bisogni che noi stessi abbiamo creato e che abbiamo scambiato per bisogni naturali. Quindi, per tentare una risposta alla domanda, direi che per praticare, pensare e scrivere un teatro in linea con il turbolento presente planetario dovremmo innanzitutto sconvolgere l’intero sistema di valori e di bisogni. Qualcuno a questo punto potrebbe chiedere quali dovrebbero essere questi nuovi bisogni non vedendone altri al di fuori di quelli che lo hanno mosso e hanno mosso l’intero consesso sociale fino ad oggi. Ma è semplice, non c’è bisogno di inventare nulla, basta osservare la situazione e porre la questione con un’altra prospettiva (quella giusta?), ad esempio, riguardo il problema energetico sopra accennato si potrebbe dire che non si tratta di un problema di produzione di energia impiegabile ma si tratta di un problema di eccesso di consumo energetico. Come si può immediatamente notare il “bisogno” cambia radicalmente e scaturisce dalla domanda stessa posta in altro modo. Il “bisogno” passa da produrre uguale o maggiore energia a produrre meno consumo energetico. Questo processo di ribaltamento è applicabile praticamente a quasi tutto, il fatto è che si continuano sempre a proporre soluzioni sbagliate poiché non si pongono le giuste domande o meglio non si identificano i reali bisogni del momento continuando a puntare verso bisogni ormai esausti. Non si tratta nemmeno di avere fantasia ma, di avere capacità d’ascolto. Come un qualunque nevrotico, siamo una società che continua ad analizzarsi senza porsi le giuste domande, semplicemente perché le risposte che ne deriverebbero imporrebbero dei cambiamenti e cambiare è uno sforzo molto grande e quindi si procrastina questo momento fino a quando l’evidenza dei bisogni reali e naturali non si trasforma in una catastrofe inevitabile.
10Sono preso spesso dal dubbio che sia proprio il nostro specifico sistema di pensiero il vero problema. Penso che questo sistema esaurisca ciclicamente le sue possibilità di risoluzione dei problemi. Questo è uno di quei momenti. Rientrare nel flusso naturale prevede cose per noi impensabili ma soprattutto impronunciabili.
11Tornando al teatro, credo che anche in questo caso si tratti di comprendere quali siano i reali bisogni del fare teatro, a cosa dovrebbe servirci, quali contenuti dovrebbe portare. Non dobbiamo credere che sia il pubblico a indicarci in modo chiaro di cosa abbia bisogno in una società in cui questa percezione viene continuamente inquinata da un sistema economico che riporta il “bisogno” a qualcosa di acquistabile distogliendoci da un concetto di “bisogno metafisico”. Siamo dunque noi artisti a dover cercare la giusta domanda e tentare di conseguenza la giusta risposta. Nel caso specifico del teatro (ma non solo), è mia profonda convinzione che il primo passo da fare sarebbe quello di ridefinire l’identità del teatro, non con una definizione teorica, ma pratica, meglio direi pragmatica. Cerco di essere più chiaro: oggi il teatro nella sua crisi identitaria tenta continuamente di scimmiottare tutti quei nuovi media che appaiono più affascinanti per un pubblico contemporaneo e futuro. Questa rincorsa non ha avuto altro esito che rendere il teatro una forma senza un suo specifico divenendo un’imitazione sempre di scarso livello di qualcos’altro. Per questa ossessione di essere alla moda, cosa che viene spesso collegata al successo, ha finito per perdere di particolare interesse. Non essendo più una cosa specifica, ma una scarsa imitazione di altro, perché dovrebbe interessare? Il teatro non può per sua natura e non per snobismo essere alla moda. Nello stesso modo il teatro non può essere documento o meglio documentario. Questa tendenza, per quanto mossa da convinzione d’impegno civile si risolve anch’essa in una aberrazione. Nulla di più agli antipodi che realtà e teatro. L’allocuzione “il teatro è specchio del mondo” va intesa esattamente nel senso che non è il mondo, ma il suo riflesso, l’immagine capovolta e trasposta su una superficie bidimensionale, l’immagine rinchiusa nel limite dello specchio. È nell’immagine che prendiamo coscienza della nostra immagine, nella realtà questa immagine non ci è data. Il teatro è luogo appunto di riflessione, la riflessione è profondità, la profondità è permanenza, la permanenza è tempo dilatato.
12Detto tutto questo non credo che il problema teatrale o meglio la funzione teatrale sia da porsi in termini di argomenti da trattare, piuttosto di capacità da sviluppare, quali ad esempio, la contemplazione, la visione, l’ascolto, la pazienza, l’alterità, la lentezza e molto altro. Forse così potremmo avere un teatro che ci conduca a percepire e partecipare del mondo in tutte le sue forme e tornare a sentire di farne parte.
• In che modo le cosmologie riscontrate dagli antropologi in varie parti del mondo ridefiniscono o sconvolgono certi assetti, dati per scontati, legati alla distinzione natura/cultura?
13Ho trovato una conferma di risposta a questa domanda dopo aver presenziato al convegno ed aver ascoltato i racconti meravigliosi degli antropologi. Con meravigliosi intendo dire quasi favolistici, ma non per screditare la veridicità dei loro rapporti, ma per dire che l’elemento di rappresentazione in quelle cosmologie lontane è molto forte e per quanto mi riguarda non fa che confermarmi nell’idea che la rappresentazione, per l’Uomo, è fondamentale per un buon rapporto con il mondo. La demonizzazione della rappresentazione da parte di alcune linee di pensiero ha prodotto una cesura drammatica tra noi e il sistema mondo, togliendoci la più importante possibilità di comprenderlo.
14È stato consolante e nello stesso tempo disperante scoprire quanto una certa parte di umanità abbia conservato vivo e limpido nei millenni il rapporto uomo natura. È stato consolante perché ha gettato un dubbio sulla mia convinzione, precedentemente espressa, cioè che il sistema di pensiero umano sia giunto al suo limite. Allo stesso tempo è stato disperante, perché potrebbe voler dire che a essere in crisi, è il sistema di pensiero di quella parte di umanità che domina sul pianeta e di cui io faccio parte.
• Quanto questa parte di umanità è in grado di ammettere la crisi del suo specifico modello di pensiero?
• Quanto questa parte di umanità, una volta presa coscienza dello stato delle cose, sarà in grado di modificare il suo modello culturale, sociale ed economico?
15Per rispondere quindi alla domanda direi che le scoperte fatte dagli antropologi potrebbero indicarci molte cose. Ma dubito che questa parte di umanità avrà il pudore di ascoltarle.
16Non voglio con questo riproporre il mito del “buon selvaggio” frutto di uno sguardo già infiltrato da un pre-giudizio.
17Credo che nella nostra società certe prospettive siano ancora incluse nello sguardo di una certa parte di popolazione, ma per motivi cosmici a me incomprensibili, questo è un pensiero che fino a oggi non è riuscito a divenire preponderante nonostante l’evidenza dei fatti.
18Non è da ieri che sappiamo di come altre culture si rapportano alla natura e all’ambiente in cui vivono. E dalla stessa quantità di tempo ci svaghiamo deridendole col nostro cinico realismo.
• Con quale aggettivo definiresti l’antispecismo che sostieni?
19Più che con un aggettivo lo definirei come facente parte della nostra parte spirituale, di quel modo di considerare le cose che non appartiene né al logico o razionale, né al sentimentale o viscerale.
• In che modo è possibile pensare un’agenda politica che si trasformi in prassi di liberazione?
20Davanti a questioni poste in questi termini, le risposte metodologiche sembrano essere sempre le stesse: il proselitismo, la via rivoluzionaria o l’agire in modo esemplare. Ovviamente tralascio tutte quelle che adoperano il concetto di liberazione intesa come affermazione dell’ego in modo più o meno esplicito.
21Il proselitismo lo sento come troppo sentimentale, viscerale e quindi fondamentalmente reazionario. Quindi lo escludo subito.
22La via rivoluzionaria, che mi ha appassionato per lungo tempo e ancora oggi a volte mi sembra l’unica soluzione, porta in sé troppe contraddizioni, ad esempio convivono in essa illuminismo e romanticismo e altrettante incognite nei suoi esiti finali. Sappiamo come gli ideali di libertà uguaglianza e fraternità si siano pervertiti in repressione, disuguaglianza e odio fratricida. E anche la via rivoluzionaria si è spesso, per non dire sempre, risolta in via reazionaria. Quindi la scarto, un po’ a malincuore, perché menare le mani ogni tanto è gratificante, ma ahimè il gioco non vale la candela.
23Non resta quindi che l’agire in modo esemplare, credo che alla fine sia tra tutti il più difficile e anche quello che maggiormente ci espone e ci coinvolge, poiché non basandosi sulle parole, ma sulle azioni, ci costringere a essere attraverso l’agire.
24Anche questa via non è priva di insidie, ma personalmente la trovo la meno predicatoria e falsificatoria. È praticamente impossibile mentire nell’azione, poiché il discorso è ciò che si fa. Inoltre mette insieme l’idea e la sua azione, la qual cosa mi sembra molto efficace ed efficiente.
25Credo che abbia contribuito di più, all’emancipazione degli schiavi, colui che ha rinunciato ad averne più di colui che predicava ad altri di non averne o di chi andava a liberarli per poi assoggettarli a un altro padrone.
26Quindi, la mia ipotesi di prassi politica è quella che molti di noi già agiscono, anche se forse col timore che non sia abbastanza efficace, ovvero quella di compiere azioni quotidiane seguendo principi che si rivelano nell’agire stesso.
27Oggi più che mai abbiamo bisogno di questa coerenza. Abbiamo bisogno di persone esemplari. Questa è una via molto dura e poco eclatante. Ma, sicuramente, è la più pericolosa per un sistema fondato sull’apparenza.
• È possibile leggere la violenza perpetrata sugli animali senza che essa non sia prima stata concettualizzata come tale?
28Il nostro sistema culturale o psichico di elaborazione del mondo se non concettualizza, non è in grado di problematizzare, assorbire, metabolizzare quasi nulla, ma in particolar modo la violenza. La mia risposta è quindi no: non è possibile per noi occidentali e dominatori culturali, leggere la violenza perpetrata sugli animali senza che essa non sia prima stata concettualizzata come tale. Vorrei fare un esempio che mi è sempre parso a questo proposito paradigmatico: l’opera di De Sade. L’importanza dell’opera di De Sade, che nessuna censura pubblica o privata è riuscita a espellere dalla nostra cultura, non risiede tanto nella sua presunta artisticità, quanto nella sua più basilare essenza di aver trasportato l’indicibile su carta, cioè tutta quella violenza che normalmente rimaneva reclusa nel sistema del segreto psichico o nella possibile negazione dell’orale, una volta trascritto su carta emerge e diviene un problema ineludibile, diviene motivo di indagine profonda sulla natura umana. Lo scarto di concettualizzazione prodotto dalla trascrizione sadiana è quello che poi ci ha permesso di “leggere” tutta la violenza intrinseca che è parte costituente della natura umana. È questo atto letterario e di conseguenza di trasformazione dal reale al concettuale che ci ha aperto le porte verso questo tipo di indagine o meglio di riflessione. De Sade non descrive la violenza lecita come fa ad esempio Omero nell’Iliade, ma appunto quella scandalosamente illecita o se vogliamo l’unica vera violenza, cioè quella che distrugge non solo i corpi ma anche le anime e non solo delle vittime ma anche dei carnefici, non solo degli oggetti ma anche dei soggetti.
29Tuttavia è allo stesso tempo vero, che anche quando il processo di concettualizzazione si è compiuto, e si è passati alla problematizzazione, questo non porta automaticamente alla risoluzione e allo sviluppo di quell’empatia necessaria per riconoscere come violenza un determinato modo di agire. Questo perché prima si deve riconoscere al soggetto destinatario della violenza, alla vittima, un grado di dignità o se si vuole di coscienza o sensibilità, che pertiene a un altro segmento dell’intero processo e questo segmento non proviene dal pensiero logico morale o etico e neanche dall’irrazionale-sentimentale, bensì dallo spirituale. È la parte spirituale che definisce il grado di dignità dell’altro da noi e un sistema che tende a relegare lo spirituale al di sotto del logico o in balia del sentimentalismo, trova fatalmente in questo punto un incaglio.
30In questo sistema di pensiero si tende infatti a partire dalla cura delle conseguenze, dei sintomi, che sono appunto classici indicatori logici (freddi) e poiché sono i più evidenti, scatenano il sentimentale e il viscerale, che sono tipici motori reazionari.
31Sono le reali cause quelle che vanno rintracciate e curate.
32Pertanto nella risoluzione della violenza da parte dell’uomo verso il non umano (ma anche verso l’umano) è necessario, perché venga riconosciuta come tale, una ridefinizione del non umano che lo metta su un piano di parità di diritti. L’antispecismo tenta appunto questa strada, che non è quella dell’empatia sentimentale che spesso si rivela invece essere una forma bifronte e a volte isterica, né quella della logica razionale, per quanto non sia priva di ragionamento, bensì quella dello spirituale, riconoscendo che il valore intrinseco di qualunque essere, trascende la classificazione umana ed è quindi da assumersi come a priori.
33Ed è forse qui che l’atto artistico potrebbe inserirsi in questo processo, ma non in modo diretto, didascalico, politicamente esplicito, ma agendo sull’immaginario. Questo modo di agire nell’arte non è nuovo, anzi è molto antico. Se pensiamo ad esempio alle metamorfosi di Ovidio, possiamo vedere una concezione del mondo in cui naturale e umano coesistono senza un confine definito, su un unico livello di valore metafisico.
34Ma rispetto alla questione specifica dell’atto teatrale (performativo, come piace definirlo ad alcuni), il mio punto di vista è che la presenza di un animale in forma concreta, vivo, morto e anche filmato o fotografato, sia sostanzialmente una forma di violenza nei confronti di esso. L’animale infatti non viene mai, poiché è impossibile, convocato volontariamente, la sua è sempre una convocazione, sia che partecipi o ne sia spettatore, coatta.
35Qualcuno potrebbe a questo punto proporre una classifica di modalità di partecipazione più o meno violenta. Certo, questa potrebbe esser una soluzione, ma sempre e solo nel caso che la libertà dell’animale sia comunque sottomessa a quella dell’umano o che l’animale sia considerato proprietà dell’umano che lo convoca o che lo presta per tale convocazione, il che lo relega in una classica forma di schiavitù.
36Nel caso delle immagini la questione può apparire un eccesso di rispetto, ma spesso questo utilizzo apparentemente innocuo o addirittura a fin di bene, nasconde ancora una volta una inconscia considerazione di sudditanza dell’animale.
37Certo, nella nostra vita ci sono anche gli animali e nel rappresentare certe parti della nostra vita potrebbe essere logico introdurvi anche un animale.
38Per questo io non dico che dovrebbe essere vietato l’utilizzo degli animali o della loro immagine, dico che essendo un atto che avviene senza il loro consenso, (che nel migliore dei casi si risolve in una mancanza di rispetto, in altri in violenza indiretta o involontaria ed in altri ancora in violenza gratuita o a fini personali), questo atto va agito responsabilmente assumendone le reali implicazioni e non mistificandone il valore. Questo potrebbe condurre a un uso degli animali in scena più responsabile e meno “spettacolare”.
39Tuttavia, personalmente trovo che l’evocazione sia sempre la via migliore e rispettosa ed è quella che pratico.
Auteur
(10 aprile 1967), nel 2010 fonda Mesmer artistic association dopo un lungo percorso artistico di oltre vennt’anni con la compagnia Teatrino Clandestino di cui è stato co-fondatore e co-direttore negli anni dal 1989 al 2010, durante i quali ha ideato e diretto oltre trentasette tra spettacoli e applicazioni prodotte in collaborazione con importanti strutture teatrali sia nazionali che europee. Per le sue opere ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti tra cui, in più occasioni, il premio Ubu. Ha in oltre creato nove tra film e video come regista ed autore ed ha anche portato avanti un discorso musicale in qualità di autore ed esecutore. Nel suo percorso vi sono anche esperienze nel campo delle arti visive in collaborazione con altri artisti di questa disciplina, tra questi in particolare il progetto aperto ed ancora in corso Manifesto presentato al Palais de Tokio nel 2014. Nel 2009 è tra i fondatori della rivista di riflessione sull’arte “Rivista”.Con la fondazione di Mesmer si dedica a progetti di ricerca di lunga durata sui linguaggi prodotti dalla contemporaneità in relazione alle problematiche della drammaturgie e delle forme teatrali. Primo fra tutti il progetto E.C.O. pietrobabina.net
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