Le scene dello sguardo animale
p. 268-285
Texte intégral
Premessa
1Lo sguardo animale e le sue scene; per provare a parlarne prendo spunto da un lavoro precedente (Marsciani 2017) su alcune tipologie di sguardi animali (due in particolare, quello di una gatta e quello di una cerva) per tentare in questa occasione un’espansione del campo di indagine e provare a montare un setting più allargato e coerente a partire da una ricostruzione semiotica di quelle che chiamo “scene discorsive”, ovvero scene enunciate, fatte di elementi come viventi e cose (attori) e spazi e tempi articolati. Tali scene sono quelle che lo sguardo animale stesso allestisce ogni qualvolta si effettua nel mondo delle relazioni intersoggettive (“si effettua” = si dà, viene colto e interpretato, prende corpo e posizione per quello che è, uno sguardo attivo).
1. Lo sguardo fune
2Ebbi modo a suo tempo di riflettere sulla spazialità e la temporalità che organizzavano la scena dei nostri rapporti ogni volta che la mia gatta si piazzava in posizione di richiesta, richiesta di cibo, accanto alla sua ciotola. Il suo sguardo poteva essere descritto attraverso il riconoscimento di una serie di peculiarità che vorrei ricordare brevemente, riprendendo alcune di quelle considerazioni. Al momento opportuno (che è un momento che decide la gatta stessa, anche se si stabiliscono col tempo alcune abitudini che favoriscono il ricorrere regolare di quel momento all’interno dell’arco della giornata) lo sguardo della gatta aggancia il mio passaggio e all’istante si produce lo scambio ineguale. Lei ha deciso che otterrà soddisfazione soltanto se io, a mia volta, deciderò di accogliere la sua richiesta, e dunque mi richiama a un gesto che tutta la situazione dichiara essere quello: riempire la sua ciotola, o aggiungere qualcosa a quello che già c’è. Come rendere conto del tipo di interazione a cui vengo invitato, o per meglio dire sottoposto? Si tratta di un certo allestimento della scena enunciata, o “scena discorsiva”: lo spazio, improvvisamente, si restringe; poiché mentre passavo sono stato portato sull’intorno della sua ciotola, siamo a un tratto entrambi lì, a condividere quel minimo orizzonte disegnato dal tappetino di plastica su cui poggia, centrale e come dotato di forza gravitazionale, il piattino da riempire, la gatta accanto, io che comincio a orbitare intorno, quello sguardo che mi tiene legato come un filo di aquilone, il cibo che, fino a quel momento poggiato altrove, trova in quel punto preciso il suo destino ideale, come se il mondo l’avesse prodotto per finire lì, lungo i passaggi che dalla fabbrica l’hanno condotto proprio lì dove qualcuno lo aspetta. Questa circoscrizione dello spazio, questa sua riduzione a un intorno limitato, dove lo sguardo della gatta risiede e insiste e dal quale quello stesso sguardo richiama le linee di tutti i vettori che contano e che lì sono obbligati a convergere come in virtù di una deviazione orbitale, comincia ad assomigliare a un sistema di forze con un proprio centro e, sulla periferia, un insieme di componenti che da esterne si fanno interne, subiscono appartenenza, entrano a far parte. Il tempo, a sua volta, trova una sua scansione specifica: mi stavo alzando dal letto, oppure stavo per andare a lavorare, oppure mi preparavo a uscire per una passeggiata, qualunque cosa stessi facendo o per fare, lo sguardo della gatta mi richiama a una soglia temporale che è tutta sua, decisa da lei e regolata su ritmi che le appartengono. O meglio, probabilmente appartengono a entrambi, nella ampia realtà mondana dell’organizzazione della giornata abituale alla quale ci siamo a poco a poco conformati entrambi, e tuttavia la sua richiesta attiva lì, in quel momento, la temporalità pregnante della scena e quello sguardo che avverto come insistente ne proclama l’importanza e l’urgenza, la fissa e la sostiene: quello sguardo non mi lascerà, non mi sgancerà spontaneamente, resterà in attesa che, per così dire, il tempo, quel tempo, per quanto infimo, si compia. Tra i mille altri sguardi con cui la gatta mi richiama ad altri compiti quotidiani, quello della richiesta di cibo ha i suoi tratti caratteristici: è uno sguardo dal basso, fisso, insistente, da povera bestiola affamata, che guarda il mio ritardo nell’eseguire ciò che spesso, peraltro, ritengo scorretto eseguire (se ascolto i consigli del veterinario, ad esempio) e manifesta la sua profonda e stupefatta incomprensione per la mia crudeltà: come e perché farla aspettare, lei che non fa altro che chiedere cibo e che con quegli occhi fissi, in realtà, esprime quello che, ai miei occhi talvolta sfuggenti, è una delle forme del giudizio più gravi, radicali e perentorie, quella di uno sguardo che vi tiene nel suo campo visivo e vi inchioda con freddezza alle vostre inadempienze, quella di uno sguardo capace di produrre, come tutti gli sguardi dei deboli e dei derelitti, quell’immane senso di colpa riflesso in cui ci troviamo costretti a dibatterci se soltanto ci viene attribuita la possibilità, la capacità, il potere di risolvere, di alleviare se non mettere fine alla sofferenza. È uno sguardo che esercita pertanto più di un fare e che, per quel tanto che riesco a osservarlo dal di fuori, posso descrivere narrativamente come un attante manipolatore che impietosisce, ma che pure, proprio nella forma del giudizio impietoso, con un rovesciamento di valenza tra chi è povero diavolo e chi invece è persona degna, consegna il suo interlocutore alle sue responsabilità, alle sue promesse, al patto che lega quei due viventi. Ogni volta che colgo quello sguardo puntato sul mio, ogni volta che quell’enunciato cattura il mio sguardo, tramite l’artificio del posto vuoto nel quale vengo installato dal richiamo, allora si attiva il meccanismo tipico di ogni discorso che si attualizza, ovvero la messa in presenza di una produzione di senso. Sono obbligato a interpretare quanto avviene, sono tenuto a prendere parte, a prendere posto, a rispondere. Rispondere… sembra infatti rendersi attuale e farsi percepibile la gravità della domanda più profonda, quella che potrebbe essere letta come proveniente da un fondo originario, da un abisso del vivente: la richiesta di risposta, appunto, che è prima di tutto la richiesta di uno scambio di presenza. È questo che l’enunciato produce sull’enunciatario, attraverso la sua natura di discorso attuale: la richiesta dell’atto di interpretazione, col che intendo il riconoscimento, l’assunzione e l’accettazione del fatto che di fronte a me, nello schermo del fenomenico, si va producendo senso, si vanno formando immagini. È allora il “fatto” dell’enunciato che mi chiede una risposta adeguata, e adeguata vuol dire, prima di tutto, il riempimento del posto dell’enunciazione. Lo scambio di presenza, allora, è proprio il riconoscimento della sensatezza di un atteggiamento, di un comportamento. La gatta, prima ancora di chiedermi del cibo, mi chiede di rendermi sensibile alla sensatezza della sua presenza, la quale dipende da me (ed è per questo che può scatenare senso di colpa, tra l’altro), dipende dalla mia disponibilità a cogliere quello sguardo come dotato di senso, come espressivo di una richiesta che non avrebbe esistenza se non per quel tanto che è capace di catturare lo sguardo di uno spettatore del mondo in cui, allestendolo, lo sguardo primo, quello della gatta in questo caso, si colloca sensatamente.
3Uno scambio di presenza attuale, tutto giocato intorno all’enunciato che si produce, a fronte di un patto di reciproca presenza, qualcosa che da qualche parte a monte si è stabilito e convenuto, un’antica alleanza tra me e la mia gatta che, non ricordo più esattamente quando e dove, dobbiamo avere firmato, forse nel corso delle generazioni passate o semplicemente nel momento in cui io e lei ci siamo scelti senza saperlo. Ma questa reciproca presenza, attestata nella forma di uno sguardo che “tira”, uno sguardo che non molla, intorno al quale lo spazio si raccoglie restringendosi, il tempo si condensa e gli attori si scoprono coinvolti nella relazione di reciprocità, dove tutta la scena si compatta e si addensa, è, come si può ben capire e immaginare, soltanto uno degli svariati modi in cui lo sguardo animale, gli sguardi degli animali, possono determinare forme specifiche di scambio tra i viventi.
2. Lo sguardo pertica
4Vi è uno sguardo che sembra capace di produrre una dinamica opposta a quella della gatta che chiede cibo. Uno sguardo che anziché tirare sembra respingere, o meglio produrre una tensione giocata sul mantenimento della distanza. Se la gatta mi richiama a un avvicinamento, questo sguardo diverso mi mantiene a distanza e misura con precisione le soglie che regolano le reciproche relazioni, soglie rigide e invalicabili. È uno sguardo che si apprezza in più occasioni, ma ve ne è una tipica e relativamente accessibile e la si può sperimentare quando si va a far visita a un gruppo di cervi in natura, preferibilmente all’inizio dell’autunno quando sono più esposti e soprattutto sul far della sera. L’ideale è non farsi scorgere, in modo tale da poter godere di quello spettacolo che consiste in un branco di cervi liberi al pascolo. La condizione per poter essere spettatori fortunati è non farsi vedere, mantenersi in una simulazione di assenza, per così dire, far finta di non esserci, ma basta poco perché qualche individuo del branco avverta la vostra presenza, un qualunque rumore, una girata di vento che porta fino a loro il vostro odore, un movimento brusco. A quel punto, in quel preciso istante, tutta la pace che accompagna abitualmente l’esperienza di una visita discreta, guardinga e silenziosa, si spezza e si produce una scossa, un improvviso irrigidimento di tutti gli elementi dove prende posto una tensione ormai ineliminabile che organizzerà d’ora in avanti tutto il sistema di relazioni tra i presenti. Non appena i cervi si sono accorti della vostra presenza, dopo un attimo di riorganizzazione del loro spazio nel quale si erano un poco sparpagliati per pascolare e dove interagivano tra loro a loro modo, si assiste all’aggregarsi del branco in forma di fila incolonnata, guidata dal maschio adulto e formata dai più giovani insieme alle femmine, la quale fila prende lentamente ad allontanarsi da voi, senza fretta, in una presa di distanza che non è affatto una fuga precipitosa quanto piuttosto uno sdegnoso distacco, come se il controllo sulla vostra posizione, con gli eventuali pericoli connessi, fosse garantito da qualcosa. Ed è proprio così perché vi è tra loro qualcuno che non si allontana e che garantisce la sicurezza presidiando, per l’appunto, le retrovie. È la femmina anziana che mantiene lo sguardo fisso su di voi e che misura la tenuta della distanza di sicurezza.
5Da quel momento si impianta una tensione enunciazionale. È una struttura molto tipica e che chiunque conosce. Si tratta di un gioco di sguardi, o forse meglio di una reciproca presa di posizione degli sguardi, che installa in un colpo solo tutta la scena enunciata, in cui quanto avviene o può avvenire prende senso in funzione di un’interpretazione dei gesti, degli atti, degli spostamenti, dei rumori che vanno a comporre quello che, in questo modo, va formandosi come un vero e proprio enunciato-mondo. Il primo effetto di questo mutamento consiste nell’organizzazione di una spazialità che prima non esisteva, una spazialità articolata su una linea di confine che gli sguardi, e direi prima di tutto lo sguardo della cerva, mettono in campo e a cui tutti si rendono sensibili. La cerva fissa gli occhi sull’intruso e non li stacca più. È uno sguardo che stabilisce una misura e la impone, la fissa e ne valuta la tenuta. Quegli occhi inviano il loro sguardo e sembrano lanciarlo fino a incontrare lo sguardo di colui che va tenuto sotto controllo, formano come una retta che, più che un legame, sembra una pertica, una lunga bacchetta sensibile capace di apprezzare nel dettaglio ogni spinta che subisce o ogni allentamento. Quella pertica è la distanza, è la qualità dello spazio enunciato nella tensione tra due poli che da quel momento diventano i protagonisti di qualcosa come un tiro alla fune o, con la stessa logica, una spinta del travetto. Quella distanza, una volta stabilita, dovrà rimanere esattamente la stessa in una specie di contrattazione tra due soggetti per l’uno dei quali, la cerva, non dovrà diminuire e per l’altro, l’osservatore curioso, non dovrà aumentare. L’ideale per la cerva sarebbe che io mi muovessi, ma nella direzione contraria alla sua, cioè che semplicemente me ne andassi da lì, che mi facessi carico di quel patto di reciproca assenza che una ormai sedimentata modalità di relazione tra specie cosiddette selvatiche e quella umana mi imporrebbe di rispettare, se soltanto entrassi nell’ordine di idee di ammettere che la cerva, per così dire, “ha i suoi diritti”, diritti ai quali, peraltro, essa si attiene perfettamente e molto correttamente, mantenendo appunto le distanze. Vi sono due spazi ai quali il patto ha attribuito distinte pertinenze, come ad una frontiera tra stati, e quella cerva sta facendo la parte del gendarme che intima l’altolà, dopo avere segnato, come dicevamo prima, la linea di confine, la soglia invalicabile che lo sguardo attesta, stabilisce e si occupa di mantenere. Se soltanto mi muovo, anche di poco, in direzione dell’avvicinamento, la cerva si ritrae, e se lo faccio con un pizzico di irruenza, la cerva si farà indietro più velocemente, avvertendo così il suo branco che la situazione si fa critica e che sarà il caso di sparire dalla vista. Finché questo non avviene, l’animale tenderà a non perdere il controllo dei miei gesti, e quindi a volere o dovere mantenere la pertica puntata su di me, in un contatto da lontano che si risolverà soltanto con l’evanescenza del tracciato dovuta al calare della sera, in quel momento in cui lo spazio, nell’oscurità, diventa tutt’altro, indefinito e indifferenziato, e la situazione non è più propriamente una situazione.
3. Lo sguardo elastico
6È una certa ora del pomeriggio, quella che il mio cane non lascerebbe per nulla al mondo trascorrere senza effetto. È l’ora dell’uscita, della passeggiata, il grande momento della pipì, della corsa e degli odori. Ecco un nuovo sguardo inconfondibile a cui è impossibile sottrarsi e dentro al quale prende posto qualcosa di più che una richiesta, più che una preghiera o un richiamo. Tutto è dato per scontato e un mio eventuale rifiuto o una mia distrazione sarebbero del tutto incomprensibili. Quello che ora stiamo per fare è diventato una regola fissa, con un suo orario e una sua ritualità, un mutamento nel respiro, un mio appoggiare le mani alle ginocchia per costruire quel gesto antico di chi si leva da una seduta prolungata, un inarcare la schiena che è tutto un dire: “Bene bene, è ora … possiamo andare”, ma soprattutto la direzione che prendo, verso la porta, verso l’attaccapanni a cui è appeso il guinzaglio, verso un mondo di fuori che è un cambiamento di statuto, una grande promessa, un’avventura, la stessa che si rinnova tutti i giorni, soprattutto, suppongo, nel corpo sensibile del cane per il quale quel momento, che si ripete regolarmente, è sempre una fonte straordinaria di eccitazione. Se anche non perdo tempo e sono puntuale o addirittura in anticipo di poco, lo sguardo del mio cane mi precede; lui è sempre già pronto, lo è già da tempo dentro a un’attesa implicita che sembra costituire il suo stato d’animo di base. Anche quando sonnecchiava sotto al tavolo in realtà era in attesa che qualcosa, questo qualcosa, succedesse e ora, finalmente, gli offro il gancio per appendere in maniera sicura il suo sguardo al mio, il suo saltellare ai miei passi, il suo puntare la porta al mio gesto di aprirla. Ora lo spazio finalmente si riempie di mondo, ora tutto è saliente, tutto il creato, per così dire, si offre al suo naso, ai suoi salti, al suo sguardo, al suo entusiasmo. La porta si è aperta e siamo pronti, entrambi, per passare insieme quella sua ora di vita vera, di vita piena. Insieme dico … sì e no…insieme ma secondo una sua potenza, una sua volontà, una forza che attribuisce a quell’uscita tutto il suo senso, un senso propriamente animale, un modo di scorrazzare, di correre avanti e indietro, di saltare da un cespuglio a un’aiuola che io gli vedo compiere senza poterne condividere la modalità ma che in lui, mi accorgo, è vissuto come un goderci entrambi il nostro momento. Questo piccolo paradosso ha una sua maniera di risolversi, una maniera molto pratica, molto concreta e che fa tutto il valore di quel preciso rapporto che si stabilisce tra uomo e cane. Lui è libero, ora finalmente è libero, lo lascio andare e il guinzaglio lo porto con me solo per precauzione, corre avanti, pochi salti poi torna verso di me, poi ancora avanti, un po’ di più, poi ancora verso di me, e poi ancora più avanti, lungo il sentiero che conosce bene, fino a scomparire per un attimo dalla mia vista, ma non dura neanche un istante perché eccolo di nuovo là in fondo che mi guarda, che si sincera che io ci sia e che lentamente, a modo mio, prosegua anch’io nella sua stessa direzione. È come se tra noi ci fosse un elastico, come se la distanza che si avvera variabile e in un certo senso libera, quella lunghezza che passa dal suo starmi tra le gambe al suo essere laggiù in fondo al prato, fosse percorsa da una forza attrattiva che non cede ad alcuno strappo, ad alcuna lacerazione. Il mio cane può andare lontano, anche molto lontano, ma non più lontano di quello che ci consente il nostro restare in contatto. Può nascondersi dietro un albero, o in un portone, ma non lascia mai trascorrere più tempo di quello che gli garantisce, in un qualunque modo, la possibilità di tenermi a vista, di avermi sotto il suo sguardo e di tenersi sotto il mio. È uno sguardo di relazione, profondamente reciproco e con un valore fatico essenziale nel quale quell’essere insieme ci viene assicurato nonostante le due uscite possano considerarsi diverse e distinte: io faccio la mia passeggiata con lui e lui fa la sua scorribanda con me, due esperienze differenti, due vissuti diversi, i suoi odori e i miei saluti ai conoscenti, eppure lo stiamo facendo insieme e la reciprocità del nostro voler essere insieme è garantito dallo sguardo di controllo, uno sguardo che si allunga e che si accorcia e che certifica da qualunque distanza la nostra contiguità essenziale. Non vi è alcuna differenza di potenziale tra il suo sguardo che, ancora in casa, si accertava delle mie buone intenzioni di uscire e quello che, dalla fine della strada mi rassicura e si rassicura di quella stessa intenzione (“facciamo questa cosa insieme…”), c’è la stessa intensità, lo stesso senso e la stessa forza, e questa continuità di valorizzazione può mantenersi giustamente perché la distanza reale, la distanza misurabile in metri e in curve e in nascondigli, non è nulla per la forza di quello sguardo, non ne può modificare la tenuta elastica, la capacità di allungarsi e accorciarsi, quella sua qualità che consiste nell’essere prossimo anche da lontano.
7In questo modo tutta la scena enunciata, la scena che quello sguardo realizza, assume caratteristiche peculiari; diventa mondo denso, tutto abitato da cose da vedere e da apprezzare nella loro varietà, ma al tempo stesso diventa un grande palcoscenico che contiene i modi di relazione tra questi due protagonisti che lo percorrono in lungo e in largo e che tra loro producono come una curvatura libera che a poco a poco ne copre la superficie facendo di esso qualcosa che appartiene loro, che, in un certo senso, altro non è che lo sfondo della loro relazione. È uno spazio dove gli oggetti che lo popolano diventano nascondigli, o occasioni di svelamento, o lunghezze da percorrere, eventualmente panchine per riposarsi per l’uno e riparo per i bisogni per l’altro. Il mondo, al tempo stesso, diventa l’espansione della casa, di quel piccolo mondo di relazioni ravvicinate in cui tuttavia il senso dello sguardo era già fatto di queste cose, attestazione di presenza reciproca e conferma reiterata della tenuta del rapporto. Anche il tempo della passeggiata, a ben vedere, nonostante il suo essere circoscritto nella durata di un’occasione speciale, sembra espandersi nella temporalità totalizzante di un mondo esperienziale intenso, concentrato in quell’ora circa ma aperto sulla possibilità che è quella della vita vissuta pienamente, e anche per questo lo sguardo animale assume quella carica così speciale, quella domanda di condivisione che ne fa un punto di forza fondamentale di questa relazione interspecifica.
4. Lo sguardo panoramico
8Vi è un protagonista assoluto dello sguardo che coglie la totalità dello spettacolo del mondo e che sa collocarvici con tutta l’attenzione e l’efficacia che ci si possono aspettare da un grande osservatore, e questo protagonista è il lupo. Il lupo è precisamente un grande osservatore, capace di collocarsi di fronte alla scena dello spettacolo della natura come vorrebbe farlo qualunque naturalista, qualunque appassionato della scena più grande che c’è, la forma del mondo. Per poterlo fare, il lupo prende posizione e guarda da lontano; ovunque sia, anche a dieci passi da voi, con quel suo modo di non farsi vedere, di mantenersi silenzioso e fermo, di sfuggire alla vostra attenzione, egli guarda da lontano. La sua posizione rimane, per qualità e caratteristiche vettoriali, quella della cima della collina, del margine del bosco, della vetta della rupe. Il lupo guarda, e vi guarda, da lontano e dall’alto; il suo è uno sguardo che voglio chiamare panoramico perché costruisce il mondo di fronte a sé come un panorama, una visibilità totale e frontale, visto a partire dalla sua prospettiva che è una prospettiva non esterna, certo, ché il lupo ne fa parte e sa bene di farne parte, bensì laterale, marginale, sulla frontiera del visibile. Il lupo costruisce il suo panorama discostandosi rispetto alla scena osservata, proprio al contrario di quanto faceva il cane, insieme a me, dentro al mondo, tra le sue cose. Il lupo ha bisogno di collocare le cose del mondo e tutto ciò che quel mondo abita di fronte a sé, a una distanza che tenderebbe per necessità e caratteristiche intrinseche ad adeguarsi alla visione proiettiva di una presa totalizzante. Il suo sguardo sembra coprire distanze e ampiezze che ci immaginiamo quasi soprannaturali, forse perché riesce a tenere gli occhi fermi a lungo, come se potesse mettere a fuoco la totalità e il dettaglio al tempo stesso, come se potesse vedere il singolo oggetto e tutto l’orizzonte che lo contiene con una sola occhiata comprensiva, come se il suo sguardo fosse già da subito uno sguardo topografico, misuratore, valutatore di percorsi possibili, già impegnato, pur nella sua staticità, nel tracciare piste da battere, tane da scovare, ostacoli da superare. Le valli, i dirupi, i boschi, le cime, gli abitati, le strade degli umani e i loro pozzi, i loro recinti e i loro trattori, il lupo ne sa cogliere le relazioni geografiche, le pertinenze, il valore relativo, le difficoltà e le opportunità. Il lupo guarda, e guarda a lungo prima di passare ad una qualche azione, non fosse altro che cambiare punto di osservazione. Il lupo guarda il mondo e coglie le forze che vi agiscono e le interazioni che vi si compiono. Da lassù, o da laggiù se si vuole (da lontano e dall’alto, dicevamo) il lupo ci guarda, guarda noi e i nostri greggi, guarda i fiumi dove andiamo a fare acqua, guarda il ponte su cui attraversiamo il torrente, guarda noi che giochiamo con il nostro cane, guarda il contadino che miete, il muratore che costruisce, il cacciatore che cerca una preda. Già, il cacciatore. Si dirà che lo sguardo del lupo è tale semplicemente perché è lo sguardo di un cacciatore e che ogni cacciatore deve avere uno sguardo come quello del lupo, o viceversa, se l’uno e l’altro vogliono mai trovare e catturare una preda. Certo, niente di più ovvio, ma, per l’appunto, qual è lo sguardo di un cacciatore? Quali caratteristiche deve avere la visione del mondo propria di un vivente che caccia altri viventi e che, in un certo senso, fa della caccia il proprio stile di vita? Quali tratti di mondo deve tenere in considerazione e quali forme del mondo sono importanti per un cacciatore, quali tempi di attesa, quali distanze di cui tenere conto, quali astuzie della sua cacciagione da non sottovalutare? Il lupo è un cacciatore precisamente perché il suo sguardo è fatto di scorci e di rapporti, perché il suo sguardo organizza la scena della caccia, la monta come si monta uno scenario dove dovranno muoversi, agitarsi e vivere i protagonisti di quel dramma quotidiano che è la sopravvivenza, la vita e la morte, il mangiare e l’essere mangiati, il cacciare e l’essere cacciati. È difficile dimenticare che il lupo è un grande cacciatore ma al contempo è un grande cacciato, non tenere conto del fatto che il lupo guarda noi e il nostro mondo come il mondo di coloro che lo hanno cacciato e che lo cacciano tuttora, e lui sa bene cosa significa cacciare, lui che nei secoli dei secoli si è trovato ad essere il cacciatore cacciato per antonomasia.
9Lo sguardo del lupo spazia e apre lo spazio; fa diventare l’estensione, proprio quell’estensione che più ampia non si può, le montagne, le valli, le praterie, uno spazio articolato dove la nostra presenza è essenziale: il lupo non soltanto guarda, ma, come dicevamo, ci guarda e ci colloca così, da protagonisti appunto, entro la sua scena, quella che fa del mondo intero il suo ambiente vivo, la sua dimora sconfinata.
5. Lo sguardo in surplace
10Salgo su un sentiero di mezza montagna, ho il respiro un po’ affannoso per la fatica della salita, lo sguardo, il mio, a terra, attento ai sassi e all’erba scivolosa con cui devo fare i conti. Procedo piano, nel silenzio rotto solo dal mio respiro e dai passi che battono ritmicamente il terreno. Potrei andare avanti ancora per molto, ormai ho preso il ritmo e con quel ritmo procedere non è difficile. A un tratto, però, avverto qualcosa che mi turba, come se qualcosa mi avesse appoggiato addosso una specie di aura, un fluido, come se ci fosse uno sguardo diverso dal mio che mi sta tenendo sotto tiro. Alzo gli occhi ed eccolo lì, a circa quattro, cinque metri da me, fermo, con una strana postura diagonale, la schiena un poco inarcata e gli occhi attenti: un gatto selvatico che occupa il sentiero che sto percorrendo. Bell’animale, grosso il doppio di un gatto domestico, relativamente raro a vedersi, decisamente selvatico e, da quel che so, poco propenso alle coccole e alle moine. Anzi, mi venne detto che del gatto selvatico è bene diffidare, che manifesta con una certa facilità una sua non rara aggressività e che comunque un eventuale suo attacco non è un’esperienza che si ricordi con piacere.
11Quel gatto mi guarda. Sta fermo, il corpo è in tensione e lo sguardo è fisso. Guarda me e mi guarda negli occhi, senza spostare minimamente la sua focale; i suoi occhi contro i miei e, a quel punto, i miei occhi contro i suoi. Anch’io lo guardo fisso, non so se per le stesse ragioni tattiche che suppongo determinino il suo sguardo o per il solo fatto che mi sento in dovere di controllare il suo comportamento e vorrei leggere in quegli occhi le sue intenzioni. Siamo fermi entrambi, come bloccati in quel contatto che si è creato, che sembra una scarica elettrica prolungata, come quando si prende la scossa e non si riesce a staccare la mano dal filo scoperto. Siamo lì, entro uno spazio che non è più quello dei nostri rispettivi percorsi, quello della mia partenza e della mia meta, quello delle sue tane e dei suoi territori. Mi ha visto, mi guarda e tutto si concentra in quel contatto visivo, tutto quello che conta, tutte le intensità dei nostri respiri, i nostri battiti e le tensioni dei nostri muscoli, quel momento di percezione sovraccarica, tutto si tiene su quella linea che connette il suo sguardo al mio. Non sono occhiate, non sono viste, sono bensì uno sguardo doppio, uno sguardo con due poli che lo tengono in vita, che lo sostengono e non cessano di alimentarlo. Ma cosa stiamo facendo? Cosa c’è in gioco? Perché a un tratto la scena di un movimento, di una camminata, con i suoi orizzonti disponibili, con le sue salite e discese, le sue curve, le pietre e gli alberi, si restringe al punto da non contenere altro che questi due corpi che si guardano, di queste due paia d’occhi, addirittura, che si fissano come se volessero penetrarsi e scorgere ciascuna dietro le pupille dell’altro le sue intenzioni o il limite prevedibile di quella assurda tenuta, di quella immobilità? Lo spazio tutto è diventato un ring, l’ambito circoscritto di un confronto, e nello stesso momento il tempo si è messo in attesa, ha fermato i suoi battiti, i suoi ritmi, le sue cadenze e si è come sospeso in una pura durata indefinita. Non accade nulla su quel ring, i due combattenti sono pronti, fermi, attenti, e così come sono restano, non si muovono, non fanno altro che guardarsi per veder cosa l’altro farà, o sta per fare, o ha intenzione di fare. Vi è uno scambio, dovuto a quello sguardo, che sembrerebbe la quintessenza dello scambio, dove la circolazione del senso espresso è talmente potente da rendersi quasi indecifrabile, dove il mondo, il piccolo mondo del contatto, si è messo in vibrazione, in una vibrazione trattenuta da entrambi, controllata e che tuttavia investe con la stessa energia tutti gli elementi dell’intorno, noi due ma anche la porzione di sentiero che ci separa, quei sassi e quelle foglie secche che, loro malgrado, si trovano in mezzo tra il gatto e me.
12Lo sguardo di quell’animale ha impostato una scena di attacco. È un attacco solo possibile, un attacco eventuale, ma domina la situazione con tutta la sua incombenza e gravità. Se soltanto uno dei due farà una mossa, l’altro potrebbe attaccare. O no? Forse alla mossa dell’uno l’altro non farebbe altro che scappare, ma nessuno dei due lo sa, nessuno ne è certo e apparentemente nessuno dei due ha il coraggio di fare un tentativo. E d’altronde, dicevamo, cosa c’è in gioco? La disponibilità di un sentiero? Il fatto di poter passare lì dove si trova l’altro? Ma sembra che a quel punto il problema sia la distanza reciproca dei due corpi, perché ci deve essere un “troppo vicino”, un “non abbastanza lontano” da verificare, ed è precisamente quello che lo sguardo reciproco sta facendo, verificare la distanza critica, misurarla e tentare di scorgere, prima dell’altro, il minimo accenno di gesto proibito, di sconfinamento rispetto a quella linea invalicabile che lo sguardo si cura di certificare. E ciascuno sa che, anche rinunciando a rivendicare il proprio diritto sul passaggio, anche nel caso in cui decidesse di retrocedere, non lo si potrebbe fare senza che anche l’altro manifestasse qualcosa del genere, perché un calo di attenzione potrebbe in realtà mettere l’altro nelle condizioni di attaccare più facilmente. Come se ne esce? Quanto durerà questa storia?
13Tutti i cicloni alla fine si estinguono e anche questo picco di potenziale alla fine tende ad esaurirsi. Il mondo ci prende per stanchezza e, forse più facilmente in me che in lui, forse un poco prima, la tensione cala; lo si avverte nelle posture, nella rigidità delle articolazioni, nelle palpebre che non sembrano più così ferme. Lo sguardo subisce a poco a poco una distensione e il primo passo indietro di uno dei due è sufficiente perché il ring si apra un poco, perché quella sospensione temporale ritrovi qualche aggancio con i tempi della vita e perché, insomma, i due combattenti virtuali si lascino andare ciascuno per la propria strada.
14Lo sguardo fune, lo sguardo pertica, lo sguardo elastico, lo sguardo panoramico e lo sguardo in surplace: altrettante possibilità di costruzione di scene efficaci, altrettanti allestimenti dovuti al gioco degli sguardi di cui gli animali, alcuni animali talvolta, altri in altre occasioni, si fanno promotori. Il loro sguardo chiama il nostro alla sua parte e la relazione è come lo sviluppo di piccoli drammi dove gli attori si vedono necessariamente coinvolti. Gli sguardi che abbiamo appena messo in scena sono tutti diversi e i mondi che essi istituiscono sono anch’essi mondi diversi, alcuni vastissimi altri minuscoli, eppure vi è tra tutti un tratto comune che è di fondamentale importanza e che li rende sguardi propriamente relazionali. In tutti i casi esaminati lo sguardo dell’animale tiene conto dell’altro e del suo sguardo, lo tratta come un interlocutore, un interlocutore reale e presente o un interlocutore da convocare o anche un interlocutore virtuale, ma in ogni caso la sua presenza è prevista e presa in considerazione come un elemento essenziale della situazione che si va creando. Tutti questi sguardi animali puntano su un altro che viene assunto come un soggetto di sguardo a sua volta, e questo significa che l’animale e il suo altro si trovano in una vera e propria relazione intersoggettiva. La gatta mi richiama a un dovere, la cerva mi intima la dovuta distanza, il cane mi chiama e mi vuole compagno, il gatto selvatico mi sfida e il lupo, pur nella sua distanza, si tiene il più possibile al riparo da un mio sguardo eventuale, sa che in quel mondo di cui domina l’insieme c’è qualcuno che a sua volta potrebbe vederlo e se ne tiene alla larga. Tutti questi sguardi ci coinvolgono perché ci riconoscono altri, perché ci mettono in presenza facendoci interlocutori di uno scambio, perché si impongono col loro imporci di esserci, perché, in un certo senso e come altri da noi, ci fanno essere, ci offrono un’esistenza di rapporti e di reciprocità.
6. Lo sguardo oggettivante positivo
15Vi sono animali che non hanno alcuna intenzione di considerarci altri soggetti, o di considerare altri animali soggetti in alcun modo. Non so, in realtà, se questo è vero, ma è quanto mi lascia immaginare il loro sguardo, uno sguardo che non mi fa soggetto a mia volta, che non tiene conto del mio sguardo, ma che al contrario mi sbatte tra le cose di cui è popolato il suo mondo e mi tratta, mi vede, come una delle cose che trascorrono sotto il suo monitoraggio in vista di chissà quale controllo, di chissà quale programma.
16Ecco lo sguardo del predatore, lo sguardo del grosso felino, quasi come lo sguardo del serpente, uno sguardo per il quale non ha alcuna importanza il fatto che io possa rispondere a mia volta con lo sguardo, il fatto che io possa vederlo o meno (a quello pensa già il mimetismo naturale) e come io posso inquadrarlo in un mio schema di azione o di interlocuzione. Lo sguardo del giaguaro mi trova lì, in mezzo alle sue cose, ai suoi rami, alle sue erbe, alla sua boscaglia. Io appartengo a quell’arredo così come fa il ramo dell’albero, l’acqua che scorre, la gazzella che bruca. Sono un oggetto ai suoi occhi, e come tale sono desoggettivizzato, cosa che vale non soltanto per me, ma anche per altri viventi, tutti trattati come le cose di cui è circondato. Lo sguardo del predatore è molto diverso dallo sguardo del cacciatore; quest’ultimo è in tutto e per tutto uno sguardo relazionale, è lo sguardo che misura le mie mosse e che anticipa le mie interpretazioni delle sue intenzioni, è lo sguardo di colui che programma una serie di finte, di inganni, di furbizie che tendono a farmi fare la mossa sbagliata, a prendere la direzione più consona al suo programma di caccia, a cadere nel trabocchetto che mi ha preparato. Lo sguardo del cacciatore è quello che sa attendere a lungo, che sa figurarsi le mie resistenze e che sa mettere in prospettiva tutta la scena che diventerà scena di caccia. Così il lupo organizza le sue cacce in branco e stabilisce diversi ruoli per i partecipanti alla battuta, prepara accerchiamenti e conta sul fatto di non essere visto, o essere visto il più tardi possibile.
17Lo sguardo del predatore, invece, è lo sguardo che tiene sotto tiro, quello che si attiva al momento dell’assalto, che funge da strumento per il movimento rapido di cattura, nel momento in cui le salienze delle forme eidetiche che marcano lo sfondo del campo visivo si trasformano in pregnanze di predazione per la fame che sopravviene. Ecco, quello è il momento in cui alcune delle sue cose, se vengono riconosciute conformi alle pregnanze del metabolismo, diventano oggetti di predazione, oggetti di cui valorizzare alcune qualità e con cui entrare in contatto alimentare. L’oggetto potrà tentare di sfuggire, certo, potrà essere veloce nell’accorgersi di essere stato preso di mira da parte del predatore, ma non sono previste strategie di risposta che non siano la semplice fuga, la corsa lontano alla quale il predatore dovrà opporre la sua velocità. La preda, in fondo, fugge come l’acqua scorre, come il vento sposta le foglie, e io stesso, una volta puntato dallo sguardo del predatore, non ho altre risorse, nonostante la mia abituale sagacia e creatività di essere umano, che scappare il più velocemente e il più lontano possibile. Se mi dovessi ribellare e sparargli con un fucile o infilzarlo con la spada, lo sorprenderei con un comportamento che non fa parte del suo sistema di attese, che non ha messo in conto, perché quello sarebbe il comportamento di un soggetto, di un interlocutore, non di un oggetto di predazione. Lo sguardo del predatore misura le distanze e gli ostacoli materiali che si interpongono tra lui e me, ma non scruta i segnali di una mia contromossa, non sa che potrebbero essercene al di fuori del mio tentativo di sfuggirgli.
18È uno sguardo oggettivante, ma a suo modo è uno sguardo che mi rende oggetto positivo, oggetto di desiderio, e come tale mi restituisce una certa distintività, la qualità di una cosa differente rispetto all’insieme delle altre cose che non vale la pena predare.
7. Lo sguardo oggettivante negativo
19Tutt’altro è lo sguardo che, indifferente, mi lascia nell’indistinto di un mondo omogeneo. Capita sovente di incontrare lo sguardo di un asino che sta brucando il prato e che non mostra alcun segno di interesse per la vostra presenza, che vi guarda (vi vede…) senza che nel suo sguardo sia possibile leggere la minima nota di attenzione, di attivazione cognitiva. Vi sono cose nel mondo che si muovono, cose che fanno rumore, altri animali che passano, compresi gli uomini, folate di vento, cani che corrono e che abbaiano, una mela che cade. E allora? – sembra dire lo sguardo dell’asino che bruca, come potrebbero entrare nell’universo dell’erba che sto brucando? Sto parlando, evidentemente, di uno sguardo tendenziale. So bene che non sempre lo sguardo dell’asino corrisponde a questa mia descrizione che ha l’aria vagamente caricaturale, eppure questa configurazione si attaglia bene a quell’effetto curioso che si ha quando si prova a scuotere l’attenzione di un asino e non c’è niente da fare: provate a spingerlo per le terga, provate a carezzargli il muso, provate a tirarlo per la cavezza, e lui niente, non si muove, non reagisce, vi guarda talvolta levando la testa, (vi vede…), ma apparentemente qualunque cosa decida di fare, o di non fare, non dipende da voi, dai vostri sforzi, dalla vostra presenza. Che voi ci siate o non ci siate, che voi urliate o lo preghiate, che gli offriate la carota o no, ciò che farà o non farà trova le sue più profonde motivazioni in quel suo mondo interiore che sembra abitare una dimensione altra, al di là della realtà che voi considerate attuale, oltre il confine di ogni enunciazione possibile, oltre la relazione, oltre l’interlocuzione. Sotto questo sguardo, di nuovo, non siamo soggetti ma oggetti, solo che siamo oggetti indifferenziati, né è così chiaro se la nostra figura assume nel suo campo visivo una vera e propria autonomia, un’identità distintiva, ché talvolta quel suo sguardo si spinge così lontano nell’indifferenza che sembra attraversarci anche quando ci inquadra, trapassare la nostra sagoma e vedere in traluce qualcosa che non sappiamo bene se essere nostro o del mondo tutto, qualcosa che per il solo fatto di trasparire attraverso la nostra forma visibile potrebbe rivelare un’essenza che ci appartiene ancora più profondamente della nostra identità di soggetti, qualcosa che ci richiama ad un’origine perduta che con l’asino, con quel suo sguardo fermo e quieto, condividiamo da sempre, senza saperlo o senza ricordarcene più.
Bibliographie
Marsciani F. 2017, Enunciazione animale. Riflessioni a partire dallo sguardo, in Zoosemiotica 2.0. Forme e politiche dell’animalità, a cura di G. Marrone, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo, pp. 55-66
Auteur
È Professore Associato di Semiotica e Etnosemiotica presso l’Università degli Studi di Bologna. Si è occupato di teoria semiotica e di analisi testuale. Negli anni recenti ha lavorato allo sviluppo della prospettiva etnosemiotica e ha fondato il Centro Universitario Bolognese di Etnosemiotica (C.U.B.E.). Tra le sue pubblicazioni recenti, Minima semiotica. Percorsi nella significazione (Mimesis 2012), À propos de quelques questions inactuelles en théorie de la signification, «Actes Sémiotiques » (on line), 117 (2014), pp. 1-30, Per una teoria formale dell’enunciazione e una teoria estesa dell’immagine”, «E|C», XIV, 29 (2020), pp. 31-37.
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