La testuggine africana e l’acqua. L’umanità estesa in un mito kassena
p. 251-267
Texte intégral
1. Introduzione
1In questo saggio si tenta di coniugare l’intenzione di alimentare l’etnologia dell’Africa occidentale arricchendo la conoscenza delle narrazioni mitologiche dell’area1 e l’ambizione di contribuire al dibattito corrente che si situa sulla doppia frontiera mobile, proiettata, assente o al contrario rinforzata tra umani e non umani e tra natura e cultura, doppia frontiera che rivela una particolare rigidità e una conseguente fragilità quando le due dicotomie vengono trattate come sovrapponibili.
2Con dichiarata fedeltà al principio antropologico secondo cui ciò che va messo in luce è la creatività culturale dell’umanità nelle sue più differenti manifestazioni, anche e soprattutto quelle periferiche, e all’idea correlata che i pensatori cui dare voce siano gli interlocutori indigeni, di qualunque contesto siano indigeni, più che i celebrati autori che occupano il centro della scena della produzione culturale, il materiale su cui si lavorerà è costituito da un mito raccolto nel 2019 da chi scrive, nella savana dell’Africa occidentale, all’estremo nordorientale del Ghana, non lontano dal confine con il Burkina Faso, mito che fa parte di una rete di narrazioni in circolazione in contesto kassena2. Queste narrazioni hanno come tema il mondo dell’epoca degli antenati, che descrivono facendo frequente riferimento alle azioni degli animali non umani. Lungi dal porre gli esseri umani come protagonisti unici, la mitologia kassena descrive un panorama sociale composito in cui gli umani e i non umani si muovono e si relazionano con pari dignità, anzi, forse sarebbe meglio dire con pari indegnità. Se c’è qualcosa che accomuna gli esseri viventi che insieme abitano il mondo, infatti, è la loro imperfezione.
3Nel caso qui narrato, come in altri esempi analoghi, infatti, non si può fare a meno di notare l’intreccio di superficialità, egoismo, stupidità, ingenuità e improvvisazione che caratterizza le azioni dei protagonisti: relativamente decentrati, gli esseri umani compaiono in apertura per poi lasciare la scena ai non umani, che non si dimostrano migliori né peggiori dei primi. Tuttavia, è proprio da concatenazioni di azioni motivate o stimolate da desideri, imbrogli ed errori di umani e non umani che prende forma il mondo. I non umani compaiono come co-autori del mondo nel suo farsi in quanto interagenti sin dal tempo delle origini. Le performance in cui le narrazioni vengono tramandate, nel corso di momenti di intrattenimento domestico o di situazioni rituali, richiamano dunque altre performance, quelle proprie del tempo degli antenati che sono alla base di quel variegato apparato eziologico che è inscritto nella mitologia.
2. Il teatro degli antenati e l’autopoiesi del mondo
4Esiste in generale una importante affinità tra rito e teatro3. Innanzitutto, perché entrambi si manifestano o consistono in atti performativi. In secondo luogo, perché questi atti performativi hanno carattere convenzionale, preordinato, ripetibile e prevedibile. Sia al rito sia al teatro è associata l’idea di un copione, per quanto questo possa essere decostruito, esorcizzato, negato o aggirato in numerosi esperimenti artistici di pregio. La presenza del copione conferisce un’aura di compiutezza al fenomeno culturale, per cui quest’ultimo diventa qualcosa che punta in una direzione preventivata, più o meno progettata a tavolino da un autore (nel caso del teatro) o ereditata dalla “tradizione”, eventualmente riformulata o riadattata e comunque nota a un esperto esecutore. Gli atti che compongono la performance rituale o teatrale conducono da qualche parte in maniera consapevole dal punto di vista degli attori sociali e in questo caso anche da parte degli attori tout court. Probabilmente, però, la compiutezza appartiene più al rito che al teatro, se non altro perché quest’ultimo sembra voler rifuggire, talvolta, le costrizioni legate all’idea di compiuto. Ora, se anche volessimo escludere dal rito (forzando la mano) ogni margine di apertura o incompiutezza, adottando un’accezione di rito come operazione rassicurante nel suo avere uno sviluppo e un esito garantiti, dovremmo poi distinguere per questa ragione il campo del rituale dal più ampio universo di cui esso fa parte, cioè la cultura. La compiutezza può forse caratterizzare il rito, ma non certo la cultura. Meglio ancora, sarebbe opportuno distinguere tra la cultura nelle sue manifestazioni singole, che possono contenere richiami alla compiutezza o proiettare un’autorappresentazione di compiutezza, e la cultura come principio antropologico, che è necessariamente un’opera aperta, come la vita stessa.
5Accettare la vita come processo che non ha una direzione predeterminata e la cui forma imprevedibile deriva dall’interazione tra organismi nei contesti in cui essi vivono significa adottare un atteggiamento che può illuminare anche il concetto di cultura non come sostanza ma come processo sempre in corso, opera mai completa come l’ambiente nell’accezione ingoldiana (Ingold 2000, 20) e irregolare, disomogenea e contraddittoria come il manoscritto menzionato da Geertz (1998, 17) nella sua celebre definizione di etnografia, che ovviamente è anche e soprattutto un modo per dare un’immagine di cultura. Sin qui abbiamo quindi abbozzato una linea di continuità che collega cultura, vita e ambiente all’insegna delle forme emergenti da processi dal basso. In altre parole, il concetto chiave cui occorre appoggiarsi per ancorare l’analogia tra cultura e vita è l’autopoiesi (dell’ambiente).
6A questo proposito, ci può venire in aiuto un’altra parte della cultura, il pensiero mitico, che si avvicina anch’esso al teatro, come il rito, ma in una maniera differente, in quanto espressione di creatività che può essere sganciata dal contesto originario ed entrare a far parte della letteratura (orale o scritta). Dilatando i concetti, in ossequio alla tradizione antropologica che trova proprio in questa operazione il suo potenziale dissacrante, possiamo provare a leggere la performance come autopoiesi, per esempio nel pensiero mitico. Il mito intrattiene un rapporto diretto da un lato con il rito e dell’altro con il teatro e la letteratura, rinforzando un asse tra situazioni o strumenti attraverso i quali l’umanità non si limita a rappresentarsi ma si costruisce e si regola.
7In questo saggio ci occupiamo di un racconto dell’Africa occidentale che fa parte di un complesso mitologico nel quale si inquadra il “mondo delle origini” mostrando che la vita in senso lato (l’ordine del mondo, il complesso delle specie, le caratteristiche delle singole specie) prende forma a partire dagli atti performativi degli stessi esseri viventi e non come esecuzione di un disegno divino. Per di più, questo frammento mitologico fa questo inducendo il lettore/ascoltatore a riflettere sull’inconcludenza come aspetto ineludibile della realtà.
8Per inconcludenza generalmente si intende qualcosa di negativo, ma può essere opportuno riconoscere che c’è qualcosa di “realistico” nel descrivere i fatti del mondo senza espungere l’inconcludenza. Evidentemente, in una macchina narrativa ben congegnata, gli elementi inseriti dall’autore hanno tutti il loro sviluppo più o meno armonico, o perlomeno così ci si aspetta, e tutto o buona parte di ciò che viene mostrato ha un ruolo, un esito e dunque un senso. Il mito, tuttavia, non ha la responsabilità di rispondere a queste attese, forse perché ne ha una più importante, quella di dire qualcosa di profondamente vero del mondo, contrariamente alla diffusa accezione ingenua secondo cui il mito sarebbe qualcosa da sfatare perché frutto di fantasia, falso. Lungi dal limitarsi a dire cose fantasiose o irreali, il mito kassena della testuggine africana ci mostra una vita plurale pensata non in termini teleologici ma come processo creativo sempre in corso e senza una fine: è a questo proposito che si rivela pertinente l’inconcludenza, cioè l’etichetta che si è deciso di apporre su quel complesso di percorsi interrotti, cambi di direzione, tautologie e apparenti nonsense che il lettore troverà nel mito trascritto nelle prossime pagine.
9L’intenzione consapevole può creare percorsi armonici nelle narrazioni per sostenere tesi specifiche. Dal canto suo, la mitologia kassena propone una visione secondo cui il mondo risulta da episodi creativi nei quali gli umani appaiono come attori tra gli altri, spesso non come protagonisti. Il mondo è fatto di profili sospesi, cangianti o ingannevoli, mentre le vicende creative sono caratterizzate da interruzioni, accelerazioni, vuoti, come a dire che in profondità è questa la verità, perché la realtà non possiede necessariamente né il ritmo né le strutture eleganti e finalistiche della finzione. In altre parole, non c’è sempre un posto definito e uno sviluppo ordinato per tutto ciò che accade.
3. Perché la tartaruga di terra ama stare vicino all’acqua
10Vediamo la trama del mito della testuggine, basandoci sulla trascrizione di un’esecuzione orale raccolta sul campo dall’autore nel nordest del Ghana4. Quello che segue è un estratto da una serie di incontri sul corpus mitologico kassena con donne e uomini di vari nawuura (sezioni o villaggi) dell’estremo nord del paese, a pochi chilometri dal confine con il Burkina Faso. Le narratrici e i narratori erano liberi di scegliere l’episodio da raccontare, nel corso di interazioni il cui scopo dichiarato era quello di prendere contatto con questo patrimonio narrativo ed eventualmente di ragionare sulla possibilità di riattivarne la circolazione. Gli incontri di questo tipo si sono svolti nel corso di permanenze sul campo comprese tra aprile 2018 e dicembre 2019. Più precisamente, la versione del mito della testuggine che segue è stata raccolta nel mese di novembre del 2019.
11Una tartaruga si aggirava nella foresta. Le donne del palazzo del capo si erano svegliate di prima mattina, avevano preso le loro sciabole per tagliare la legna, per raccogliere legna da ardere, e si erano avviate. Quando arrivarono nella foresta, videro passare la tartaruga e dissero: «Quella è carne». Catturarono la tartaruga, la legarono a un arbusto e la lasciarono lì per poi riprenderla al ritorno, portarla a casa e mangiarla.
12Mentre le donne erano nella foresta, la scimmia arrivò sul posto, vide la tartaruga legata e chiese: «Tartaruga, chi ti ha legato qui?». La tartaruga rispose: «Sono state le donne del palazzo del capo. Ho fatto sesso con loro, ma non erano ancora soddisfatte e mi hanno legato qui e torneranno a prendermi». La scimmia allora disse: «Ah! Tu fai sesso con le donne?». Poi slegò la tartaruga perché andasse via e si legò all’arbusto per poter fare sesso con le donne al loro ritorno.
13Le donne tornarono sul posto dicendo: «Adesso mangeremo un bel po’ di carne». Videro la scimmia legata lì, presero della legna e iniziarono a colpire la scimmia per ucciderla. Poi l’avrebbero portata a casa, fatta a pezzi e cucinata. Ma non riuscirono a ucciderla. L’avevano colpita duramente, la scimmia sanguinava parecchio, ma fu capace di liberarsi e di scappare via.
14La tartaruga era ferma vicino a un albero. La scimmia arrivò nei pressi dello stesso albero, si arrampicò e si fermò lì. Dato che era ferita, il sangue cominciò a colare dall’alto e arrivò addosso alla tartaruga. La tartaruga disse allora: «Ma chi è? Chi è che mi fa cadere addosso il suo sangue? Non farlo». La scimmia rispose: «Tu sei quella che ha fatto sì che io venissi picchiato e ora sei qua a riposarti». Poi scese giù dall’albero, prese la tartaruga e le disse: «Vai, tartaruga, vai a prendere della legna da ardere, così che io possa accendere il fuoco, arrostirti e darti la carne da mangiare». La tartaruga allora disse: «D’accordo, vado a prendere il fuoco».
15La tartaruga si recò a casa del cane, che aveva quattro o cinque figli. Lì c’era il fuoco acceso, allora la tartaruga prese il fuoco e andò via, ma appena uscita lo spense e tornò indietro a prenderlo di nuovo. E continuò a fare così ripetutamente. Allora il cane gli chiese: «Ma tu dov’è che vai a portare il fuoco e poi torni sempre indietro?». La tartaruga gli rispose: «C’è una scimmia che mi ha chiesto di portarle il fuoco perché vuole arrostirmi e darmi da mangiare una parte della mia carne». Il cane disse: «Aspetta. Ti darò un po’ di intelligenza. Vado lì, e invece di arrostire te, ucciderò la scimmia, e poi arrostiremo la scimmia e ce la mangeremo».
16Il cane diede il fuoco alla tartaruga, poi le disse: «Portami là, sono morto». Le chiese di trasportarlo dalla scimmia mentre fingeva di essere morto. Quando la scimmia vide arrivare la tartaruga con il fuoco e il cane addosso le chiese: «Che cosa mi stai portando oltre al fuoco?». La tartaruga rispose: «Questo cane è morto, l’ho preso lungo la strada e l’ho portato, così lo arrostiamo e mangiamo di più». La scimmia si congratulò con la tartaruga.
17Poi chiese: «Allora il cane è vivo o morto? La tartaruga rispose che era morto. La scimmia allora le disse: «Buttalo giù». Poi la scimmia chiese alla tartaruga di portare legna da ardere e iniziò a cantare: «Ti dicevano vai e prendi una scimmia. La scimmia ha preso te!». Cioè normalmente si usa mandare i cani nella foresta a catturare scimmie per poi ucciderle, cuocerle e mangiarle, ma adesso è la scimmia che ha preso il cane e lo mangerà.
18In quel momento, il cane improvvisamente balzò su e colpì alla testa la scimmia spaccandogliela. La scimmia morì. A quel punto arrivò la tartaruga. Il cane le disse: «Dato che non hai figli, ti darò da mangiare solo le budella, mentre userò la carne per prendermi cura dei miei i figli». La tartaruga accettò: «Va bene, io non ho figli». Il cane prese allora la carne da portare a casa, mentre la tartaruga si lamentava: «Tu con quella bocca lunga. Pensi di essere intelligente. Io ti ho portato qui e tu mi dai solo le budella. Ma che è? Non sono d’accordo». Il cane però sentì: «Ma che dici?» e la tartaruga gli rispose: «Io non ho figli, e la carne per me è troppa, prendine un po’». Il cane allora ne prese. Poi la tartaruga di nuovo: «Tu, cane, mangi veramente troppo, non mi lasci niente». Allora il cane le chiese: «Che stai dicendo?». La tartaruga rispose: «Puoi venire e prendere tutto, io non ho figli», allora il cane prese tutto e stava andando via. Doveva attraversare l’acqua, e c’era un albero nell’acqua. La tartaruga entrò in acqua, si arrampicò sull’albero e si accomodò lì.
19Arrivò il cane, e la tartaruga lo insultò: «Bocca lunga, mangi troppo, imbrogli le persone». Il cane stava per appoggiare la carne per terra per cercare di acchiappare la tartaruga, ma questa cadde in acqua e il cane non riusciva più a vederla. Il cane allora decise di agire: «Metto la carne a terra e poi prendo tutta l’acqua, ti prendo e ti ammazzo».
20Arrivò una capra e gli chiese: «Cane, perché stai prendendo tutta l’acqua?». Il cane: «Una tartaruga mi ha insultato ed è caduta in acqua, così prendo l’acqua e poi prendo la tartaruga». La capra: «Va bene, allora ti aiuto».
21Dopo un po’ arrivò la jena: «Che fate, come fate a prendere tutta l’acqua?». Il cane le spiegò, la jena allora decise di aiutarla. Poi la capra disse che dato che stavano lavorando insieme dovevano cantare: «Se non cantiamo, questo non ci aiuterà».
22La capra doveva dare una canzone: «Sto prendendo l’acqua e la mia intelligenza è in me». La jena cantò: «Sto prendendo l’acqua e aspetto due tipi di carne». Il cane cantò: «Sto prendendo l’acqua, ma sto pensando che correrò via». E iniziò a correre. E la jena lo inseguì. E la capra entrò nell’acqua, dove c’era del fango e lasciò fuori solo gli occhi. Tornò la jena e chiese (perché vide gli occhi della capra ma non capì che era la capra): «Hai visto la mia carne?». La capra rispose: «È andata di là. Corri!» e la jena andò nella foresta. La capra uscì dal fango, si lavò con l’acqua e andò a casa. Nessuno di loro mangiò la scimmia. Poi passò qualche altro animale, che prese la carne.
23Questa è la ragione per cui la tartaruga sta vicino all’acqua. Questa storia significa che quando fai qualcosa in due, devi condividere, non devi prendere tutto e tenertelo per te.
4. Un’umanità estesa (e fallimentare)
24I miti kassena sono composizioni narrative senza titolo. In questa sede, senza voler attribuire un titolo posticcio dall’esterno e senza neanche voler imporre l’idea stessa di avere un titolo, evidentemente estranea alla creatività kassena, si è deciso di proporre una sorta di etichetta temporanea, solo per gli scopi del presente articolo, sulla base dell’individuazione di una parola chiave: il mito dell’inconcludenza. Questa scelta è legata innanzitutto al fatto che nessuno dei protagonisti riesce mai a mangiare. Come ne Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel, ogni volta che per i protagonisti sembra ormai giunto il momento di sfamarsi, accade sempre qualcosa che comporta una deviazione o un rinvio.
25Il mito della testuggine africana racconta una sequenza di fallimenti e impasse. Innanzitutto, (1) le donne del palazzo del capo legano la tartaruga per mangiarla in un secondo momento, ma il loro progetto fallisce. (2) La scimmia si sostituisce alla tartaruga con l’obiettivo di avere rapporti sessuali con le donne, ma finisce bastonata e rischia di morire. Contestualmente, però, la scimmia riesce a scappare (3), e quindi le donne falliscono anche nell’obiettivo di consumare la carne della scimmia in sostituzione di quella della tartaruga. Quando la scimmia incontra nuovamente la tartaruga (4), la prima convince la seconda a procurarsi il fuoco per arrostire la carne della tartaruga e darla da mangiare alla tartaruga stessa, ma anche questo progetto fallisce, seppure in maniera più articolata, attraverso alcune sequenze successive. Quando la tartaruga, realizzando il piano concordato con la scimmia, si reca dal cane per prendere il fuoco (5), reitera più volte un ciclo di azioni che consiste nel prendere il fuoco, uscire dalla casa del cane, spegnere il fuoco e tornare a prenderlo nella casa del cane. Le reiterazioni vengono interrotte dal cane, il quale decide di intervenire attivamente. Successivamente (6), il cane si fa portare dalla tartaruga presso la scimmia fingendosi morto. La scimmia si prepara allora a mangiare il cane, sovvertendo peraltro l’ordine antropocentrico che usa i cani per catturare le scimmie e metterne la carne a disposizione degli uomini, ma resterà delusa e, al contrario, sarà lei a morire. La questione della spartizione della carne della scimmia (7) tra il cane e la tartaruga comporta una nuova fase inconcludente, in cui la tartaruga continua ad assumere un atteggiamento contraddittorio di condiscendenza e di opposizione alle proposte del cane. Di fronte a questo atteggiamento ondivago, il cane decide di dare una svolta (8) tentando di aggredire la tartaruga, ma quando questi appoggia la carne a terra, la tartaruga, che nel frattempo si è rifugiata su un albero, perde l’equilibrio e cade in acqua; il cane, quindi, non la vede più. Il tentativo successivo (9) è smaccatamente irrealizzabile o quasi: il cane decide di portare via tutta l’acqua per poter catturare la tartaruga. A questo proposito intervengono ad aiutare il cane anche altri animali, tra i quali la capra (10), che in un tripudio di inconcludenza dichiara che per raggiungere l’obiettivo sarà necessario cantare. Gli animali si mettono al lavoro e iniziano a cantare, ma ovviamente non arriveranno a concludere l’operazione. È proprio il cane (11), in maniera del tutto inspiegabile, a interrompere i lavori annunciando attraverso il canto la sua intenzione di correre via, imitato poi, in maniera altrettanto inspiegabile, dalla jena. Quest’ultima torna verso l’acqua per “cercare la carne” (12), ma si fa sviare piuttosto ingenuamente dalla capra e quindi fallisce. Infine, ovviamente, per dare paradossalmente un senso di compiutezza a questa sequenza di fallimenti, ecco che (13) “poi passò qualche altro animale, che prese la carne”. Il narratore non si prende neanche la briga di dirci quale animale.
26Come numerosi altri racconti kassena sul tempo delle origini, anche questo mette in scena un’idea di umanità estesa alle forme di vita non umane, i cui corpi segnalano differenze ma lo fanno all’interno di un’unica comunità. Gli animali abitano il mondo insieme agli umani e in maniera fondamentalmente analoga agli umani. Per di più, come gli umani, essi sono caratterizzati da prerogative, capacità e qualità in misura variabile: è il cane, per esempio, a guardare la tartaruga dall’alto quando le dice: «Ti darò un po’ di intelligenza». D’altra parte, se l’umanità si estende ai non umani, in questo caso non è soltanto attraverso l’attribuzione ai secondi di qualità alte generalmente riservate ai primi, ma sottolineando in tutte le forme di vita una loro generale, condivisa e ineluttabile propensione al fallimento, all’inganno e/o all’errore di valutazione.
27In altre parole, l’inconcludenza merita il palcoscenico del mito, anche perché da lì può sancire l’esistenza di una condizione comune a umani e non umani: entrambi si autocostruiscono nel corso della vita in maniera non del tutto consapevole, anzi largamente inconsapevole, mentre sono impegnati a fare altro, e più precisamente mentre si dedicano a obiettivi che non raggiungeranno, mancando il bersaglio a causa di incapacità, dabbenaggine, indecisione, scostanza o inganni.
5. Sproporzione e disconnessione: la morale nel teatro degli antenati
28Come usano commentare i narratori dei miti kassena, «queste storie sono vere», «sono state tramandate dagli antenati»: cioè sono vere in quanto tramandate dagli antenati. Sul palcoscenico del mito, cui si è appena accennato, compare il mondo dell’epoca degli antenati, così com’era davvero. Si può parlare a questo proposito di “teatro degli antenati” (Mangiameli 2019), per intendere da un lato che si tratta dell’esecuzione di narrazioni che sono state tramandate dagli antenati, e dall’altro che gli antenati e il loro mondo rivivono su quel “palco”.
29Numerosi miti kassena contengono un doppio livello di commento alla narrazione5. Il primo livello è quello della morale, il secondo è quello dell’eziologia. L’insegnamento morale si pone spesso su un piano molto rarefatto e marginale rispetto alla narrazione. Qui, nel mito della tartaruga, per esempio, l’insieme della narrazione sembra davvero sproporzionato rispetto a quanto ci dice la “morale” esplicitata in chiusura, e cioè che “non bisogna cercare di tenere tutto per sé”. C’è un investimento simbolico eccessivo, uno spreco di risorse culturali che sembra confermare l’ipotesi del cosiddetto “in più” culturale proposta da Francesco Remotti (2011). In effetti, tale sproporzione può essere spiegata come tentativo della cultura di marcare un suo aspetto che merita attenzione particolare. In questa sede, però, si vuole esplorare un’altra possibilità, quella secondo cui nella sproporzione tra trama e morale e nel carattere tenue della connessione contenutistica tra le due si potrebbe cogliere, sorprendentemente, un effetto di realtà.
30L’esortazione a condividere, a “non tenere tutto per sé”, comprensibile e banale in quanto tale, non è affatto un’ovvia implicazione della trama né risulta centrale rispetto a questa. Una narrazione, anche elementare, appositamente progettata per veicolare questo contenuto avrebbe assunto probabilmente una forma ben differente, in cui le vicende avrebbero suggerito con evidenza il precetto morale che si voleva trasmettere. In questo caso, a nessuno verrebbe in mente, in assenza del commento, di prendere questo racconto come un modo per insegnare che nella vita è bene condividere ciò che si ha a disposizione. Verosimilmente l’attenzione di un ascoltatore estraneo al contesto sarebbe attratta piuttosto, in base a fattori culturali, ideologici, religiosi ecc. ecc., da altri aspetti del mito: in ordine sparso e senza pretese di esaustività, il desiderio di un animale non umano di avere rapporti sessuali con donne umane; l’intenzione della scimmia di dare da mangiare alla tartaruga la carne della stessa, chiamandola per di più a collaborare a questo proposito; il susseguirsi di segmenti narrativi che sembrano non avere adeguata conclusione; la collaborazione interspecifica in vari passaggi narrativi e in particolare nella parte finale.
31È possibile cogliere in questo una sorta di contorto, cervellotico, sorprendente realismo kassena. Altrove l’intervento estetico consapevole, teleologico, verticistico dell’autore costruisce una trama docilmente funzionale a veicolare un contenuto, quindi la morale della favola ne risulta in maniera chiara e lineare. Nel mito kassena, invece, il fatto che gran parte degli elementi narrativi non abbia nulla a che fare con quello che poi viene esplicitato come contenuto morale produce un effetto di spontaneità, trasparenza, mancanza di manipolazione. Il “realismo kassena” prende forma proprio a partire da materiali narrativi che di “realistico” hanno poco o nulla, almeno nel contesto del naturalismo occidentale (Descola 2005), ma guadagnano credibilità simulando l’assenza di un intervento ordinatore da parte dell’autore. Richiamando ancora una volta questo punto, se “queste storie sono vere” nel senso che “sono state tramandate dagli antenati”, si tratta di pezzi di realtà grezza, non di eleganti intrecci narrativi sapientemente rifiniti da un autore alla ricerca della costruzione più efficace. Tutt’altro: quello narrato è un pezzo di realtà del tempo degli antenati che in qualche modo ha suggerito la riflessione sull’importanza della condivisione. Il suddetto pezzo di realtà del tempo degli antenati contiene ovviamente tanto altro, tanto materiale che può stimolare altre riflessioni o essere del tutto superfluo, esattamente come si può dire di qualunque segmento di vita reale. Questo materiale non è stato espunto o rimodellato, nonostante non fosse pertinente ai fini dell’insegnamento morale. La realtà è fatta così. E i miti kassena, appunto, sono “storie vere”.
6. Eziologia dei tratti specifici: un mondo emergente
32Come mai la tartaruga di terra vive vicino all’acqua? Per rispondere possiamo provare a immaginare il mondo attraverso il modello ilomorfico (Ingold 2013, 6-7). Lo scenario delle forme di vita è costituito da un insieme di tipi di organismi le cui caratteristiche sono specificate in un codice che preesiste alla loro vita e viene scritto nella materia biologica dopo la nascita. La vita non è che esecuzione di un progetto, mentre il progetto può essere immaginato come microcodice naturale trasmesso di generazione in generazione prima e al di fuori dell’ontogenesi, oppure come manifestazione di un disegno divino. Allora, tornando alla testuggine, se essa vive sulla terra, ma “vicino all’acqua” (cioè, in senso lato, nei pressi di fonti di umidità), questo accade forse perché è stata programmata così? Perché costituita in termini essenziali da alcune proprietà che sono inscritte nel progetto divino della tartaruga? A giudicare dal mito della testuggine che abbiamo appena visto, sembra proprio di no: la risposta che possiamo trarre dal mito non è riconducibile al modello ilomorfico. Sembra piuttosto che dietro questo aspetto del mondo ci sia una catena di eventi (eventi mitologici, d’accordo, e non importa quanto bizzarri possano essere agli occhi del lettore, ma ciò che conta è che si tratta di una catena di eventi). Non siamo di fronte alla realizzazione concreta di premesse ideali: alla tartaruga è semplicemente capitato di diventare ciò che appare ai nostri occhi. In termini più generali, quindi, si conferma qui un assunto della cultura kassena che è stato già messo in luce altrove (Mangiameli 2017; 2019a, 2019b): il mondo prende forma a partire dalle azioni delle entità presenti, cioè non attraverso l’esecuzione di un progetto o la realizzazione della volontà divina, ma per autopoiesi.
33Dal commento di carattere eziologico che chiude la narrazione, dunque, emerge la rilevanza dell’agire nell’ambito dei processi di vita come elemento chiave del farsi del mondo. Nella cosmogonia kassena, in effetti, si narra di un’origine del mondo “senza autore”. A dare il via alla creazione è una spaccatura nella calabash cosmica, da cui fuoriesce la polpa destinata a fornire il materiale di base per le diverse forme di vita, via via che alla prima spaccatura ne seguono altre. La biodiversità nel pianeta è dunque il risultato pressoché casuale del susseguirsi delle spaccature e del modellarsi della polpa della calabash originaria in un processo di differenziazione infinita, mentre l’idea che tutto tragga origine da questa polpa è il fondamento della concezione secondo cui tutte le cose del mondo, per quanto evidentemente differenti, sono imparentate e hanno qualche analogia tra loro.
34Il processo di modellamento delle forme di vita, cioè la loro differenziazione, è sempre in corso. Ora, una volta acquisito questo dato, ci si accorge che gli elementi eziologici della mitologia possono essere opportunamente riletti come resoconti di una ontogenesi fondata su performance creative in quanto autopoietiche. Attraverso il teatro degli antenati si possono cogliere gli elementi caratterizzanti di una cosmologia antiessenzialista che riconduce la realtà a processi di divenire biosociale (Ingold, Palsson 2013). Questo induce a inserire gli aspetti appena sottolineati delle cosmologie antiessenzialiste dell’Africa occidentale nel novero delle ragioni per cui le conoscenze indigene non vanno bollate e archiviate solo come testimonianze del passato, ma possono alimentare riflessioni rilevanti per il presente e il futuro.
35Che cosa dice l’indigeno attraverso il mito? La domanda è pertinente anche a proposito delle ontologie, un tema sul quale si sta da tempo svolgendo un dibattito molto vivo6. A questo proposito, forse nel caso in questione ci si può accorgere che non si tratta davvero e soltanto di procedere come è stato suggerito, cioè di dire che prendere sul serio l’indigeno significa prenderlo alla lettera, perché questo comporta qualche costo. Traendo spunto da uno qualsiasi degli elementi del prospettivismo amerindiano che Eduardo Viveiros de Castro ha reso celebre, ad esempio, o della stessa cosmologia kassena, con specifico riferimento alle relazioni tra umani e non umani, il rifiuto di una comprensione non letterale potrebbe avere conseguenze lesive della stessa possibilità di ascoltare con attenzione. Nel passaggio al sistema dicotomico N/C, e in particolare nel quadro del naturalismo occidentale (Descola 2005), nel e attraverso il quale comunque l’antropologia viene letta, presentare il mondo x alla luce di “intendono davvero ciò che dicono” significa rischiare di squalificare la cultura x: dato che le pietre non si muovono, gli alberi non fanno richieste di sacrifici, il sangue non è birra di manioca e un bufalo non si può trasformare in un essere umano, il naturalismo rischia di non lasciare spazio ad altra interpretazione che non sia quella secondo cui l’indigeno non è in grado di confrontarsi con la realtà e vive senza la capacità di sottoporre a vaglio critico gli strumenti concettuali con i quali filtra la percezione. Per tentare di comprendere altri mondi è necessaria una torsione dei nostri strumenti concettuali (Henare, Holbraad, Wastell, 2019, 212), una metamorfosi (Viveiros de Castro 2019, 312), che però potremmo tornare a chiamare traduzione una volta accertata la necessità di far passare la traduzione attraverso una nostra metamorfosi. Se per tentare di favorire la comprensione è necessario tentare una traduzione, in questo senso rilanciato dalla metamorfosi, allora anche l’idea secondo cui alcuni fatti sono realmente accaduti o alcuni predicati si applicano veramente al mondo va tradotta in altri termini. Bisogna dire che ciò che emerge dalla traduzione da un fronte all’altro della “frontiera ontologica” è differente dal contenuto letterale anche e soprattutto allo scopo di salvaguardare quel contenuto letterale. Ed è così che hanno ragione loro, gli indigeni.
36Cercando di “prendere sul serio il nativo”, in sostanza, ci si può incamminare in una direzione che porta lontano da ciò che il nativo “intende letteralmente”, in questo caso verso una lettura generale della vita la cui comprensione comporta una ristrutturazione dei saperi. Una valorizzazione volutamente incauta, provocatoria, di tali cosmologie potrebbe ispirare indirettamente programmi scientifici generali o specifici progetti di ricerca. Ai fini di una riflessione scientifica transdisciplinare che voglia ricondurre le presunte essenze ai processi di vita sempre in corso, probabilmente la dicotomia natura/cultura non è molto utile: sia ciò che va sotto la rubrica Natura sia ciò che chiamiamo Cultura (senza discutere adesso la difficoltà di separare gli ambiti in maniera soddisfacente) sono coinvolti in quei processi ontogenetici nei quali risiede la filogenesi, in quanto non è pensabile che la filogenesi si collochi in un imprecisato altrove. Ed è nei processi ontogenetici che si deve situare una rinnovata prospettiva di ricerca biosociale.
37In una cosmologia come quella che si intravede nel mito kassena dell’inconcludenza, l’interesse per il mondo animale non assume lo slancio moralista che sembra necessario altrove, e più precisamente laddove la sovrapposizione tra la distinzione umani/non umani e quella natura/cultura genera una frattura fra due mondi che gli attivisti cercano di riassorbire. Qui la frattura non c’è, dunque non se ne parla. Il mito dell’inconcludenza, come altri frammenti di cultura kassena, si unisce alle tante voci che da più parti si connettono al dibattito sulla dicotomia natura/cultura. Tuttavia, lo stimolo più significativo che ne deriva indirizza non solo e non tanto a partecipare al dibattito quanto a far sì che la messa in discussione della dicotomia sia efficace, ridefinendo i processi di produzione e riproduzione delle conoscenze che attualmente danno vita ai campi disciplinari riconducibili a un polo o all’altro. Il mondo comune va vissuto e praticato, più che annunciato a parole.
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Notes de bas de page
1 Si veda innanzitutto Goody 1972, 2010.
2 Sul contesto kassena si vedano innanzitutto: Howell 1997; Liberski-Bagnoud 2002; Mangiameli 2010, 2017.
3 Jack Goody fa notare che «noi riconosciamo tratti comuni al rito e al teatro, ma li separiamo concettualmente e praticamente perché gli uni sono un’attività seria (work), l’altro gioco, messa in scena, play» (2000, 98).
4 Upper East Region, Ghana, novembre 2019.
5 Numerosi, non tutti, in quanto alcuni ne contengono solo uno o nessuno. Più precisamente, peraltro, la presenza o l’assenza di questi livelli di commento andrebbe opportunamente attribuita all’esecuzione narrativa più che al mito in quanto tale, che si presenta appunto nelle sue singole manifestazioni/variazioni ma non possiede una versione originale da considerare più autentica delle altre.
6 Per raccogliere alcuni spunti nella letteratura scientifica internazionale e prendere contatto anche con la riflessione italiana sul tema, si vedano: Brigati, Gamberi (a cura di) 2019; Dei, Quarta (a cura di) 2021.
Auteur
È Professore Associato presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Milano - La Statale, dove insegna Antropologia culturale e Antropologia Ambientale. Ha condotto ricerche etnografiche in Ghana (regione nordorientale) e Italia (Sicilia, Lombardia ed Emilia-Romagna); è interessato principalmente alla teoria antropologica, agli studi ambientali, alle relazioni tra umani e non umani, alla mitologia, ai social media e alla complessità, ed è autore di numerosi saggi in italiano e in inglese.
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