Il corpo fluido. Costruzione e dissoluzione dell’umanità tra i kichwa dell’Alta Amazzonia peruviana
p. 228-250
Note de l’éditeur
La Comunità Nativa El Wayku si trova nell’Alta Amazzonia peruviana. Precisamente nella provincia di Lamas, regione di San Martín
Texte intégral
1. Verso un approccio ecologico
1Mentre mi trovavo alloggiata nella casa di Manuél, ubicata all’interno della Comunità Nativa kichwa El Wayku1, mi resi conto che i suoi cani non toccavano cibo da ben due giorni. Sembravano improvvisamente stanchi e malati. Non riuscendo a comprenderne il motivo, domandai al mio ospite se desiderasse aiuto: avrei potuto chiamare un amico veterinario e decidere, insieme a lui, il da farsi. Alzando le spalle, Manuél mi disse di non preoccuparmi: i suoi cani stavano benissimo. Avevano semplicemente deciso di assumere piante medicinali e praticare una dieta priva di grasso e sale, che li avrebbe condotti a migliorare le loro abilità venatorie. Interdetta dal commento del padrone di casa, guardai suo figlio in cerca di chiarimenti. Il ragazzo, indicando il cane più anziano, spiegò:
due giorni fa, alla chakra2, Lobo ha provato a catturare un topo. Bello grosso era. Ha corso come un matto e quasi lo prendeva, ma plam! Il topo si è infilato in un buco. Lobo non è più un buon cacciatore. Sta troppo tempo in casa con noi e da un anno, ormai, non fa la dieta. Lui sa quando ha bisogno di [assumere] piante (William, 20/05/2018).
2Poche settimane più tardi, un caro amico mi raccontò una storia che mi fece ripensare al comportamento dei cani di Manuél. Mi disse che vicino alla comunità kichwa di Yurilamas3, un armadillo (karachupa) decise di intraprendere un isolamento volontario che, per un mese intero, lo avrebbe condotto a nascondersi in un pertugio e a consumare soltanto poche gocce di acqua al giorno. In questo modo sperava di migliorare la sua concentrazione e catturare (una volta terminato l’isolamento) una grande quantità di formiche e termiti. Un giovane opossum (inti mama), tentato dalla possibilità di diventare un cacciatore migliore, decise di imitare l’armadillo privandosi del cibo e nascondendosi in una fessura tra le rocce. A seguito dell’estenuante periodo di emarginazione, il karachupa uscì dal suo rifugio provato e temprato dalla ferrea dieta. L’inti mama, invece, ne rimase fatalmente colpito: «Perché [l’opossum] morì? È che non puoi metterti a fare cose da uomo, se non le sopporti! Il karachupa, forse, era già abituato a prendere le piante. [...] Quando lo fai, il tuo corpo deve essere ben preparato: molte persone rischiano la vita con la dieta» (Felipe, 02/06/2018).
3Attraverso il presente intervento mi propongo di osservare come, nel contesto kichwa, gli esseri umani e i non-umani animali possano comprendere e penetrare a fondo l’intenzionalità di altri individui senzienti, generando volontariamente spazi di relazione transpecifica, caratterizzati da una temporanea sospensione delle rispettive differenze ontologiche. In questo modo, spero di poter fornire un ulteriore argomento etnografico alla tesi secondo la quale, all’interno della cosmologia amazzonica, le nozioni di “natura” e “cultura” non costituiscano affatto delle categorie sostanziali: esse, per i nativi della Selva Alta e Bassa4, lungi dal rappresentare delle «regioni dell’essere» (Viveiros de Castro 2004, 28), vengono interpretate come vere e proprie configurazioni relazionali.
4L’esperienza di campo portata a termine nell’Alta Amazzonia peruviana5 mi ha indotto a interpretare la complessa epistemologia indigena alla luce di alcune recenti teorie etnografiche, che vedono nella prospettiva ecologica un importante punto di approdo per l’analisi antropologica dei contesti nativi (Ingold 2000, 2016, Kohn 2013, Descola 2004). A partire da tale concezione, gli etnografi sono invitati a mettere da parte un approccio meramente antropocentrico e ad allargare le proprie indagini all’intricato sistema di rapporti che viene a generarsi all’interno del territorio indigeno tra gli esseri umani, gli animali, le piante e le altre persone non-umane6. Osservando attentamente il sistema di pensiero kichwa appare chiaro, in effetti, come le molte specie viventi e gli innumerevoli elementi del paesaggio non vengano percepiti dai nativi come semplici risorse (utili per l’approvvigionamento di beni di consumo) o come meri oggetti della conoscenza umana. Rappresentano piuttosto dei soggetti dotati di intenzionalità, che interagiscono vicendevolmente (e con gli individui umani) all’interno di specifici luoghi di socialità che, «a loro volta, li identificano nel mito e li collocano nella storia, nell’ambiente, nell’economia e nella società». (García Hierro, Surralés 2004, 12).
5Fare affidamento su un approccio ecologico non significa, quindi, voler perpetrare l’idea che l’individuo amazzonico rappresenti il prototipo del «buon selvaggio ecosostenibile» (Mangiameli 2017, 260), pronto salvaguardare l’ambiente in cui vive in virtù di un presupposto e tradizionale attaccamento agli elementi della biosfera7. Si rivela piuttosto un’operazione necessaria per poter comprendere e interpretare i fondamenti su cui poggiano le conoscenze native, descrivere i meccanismi di produzione e di differenziazione della persona umana all’interno del “continuum relazionale” (Viveiros de Castro 2019) esperito nella selva e, conseguentemente, definire le modalità di auto-comprensione indigena.
6I recenti studi condotti da Philippe Descola (1992, 2005, 2014), Eduardo Viveiros de Castro (1998, 2017) e Tim Ingold (2000) rappresentano sforzi teorici distinti ma compatibili, nell’esplicitazione dei nessi (presenti e attivi) che intercorrono tra le società native e gli elementi della biosfera. Tanto la teoria animista, quanto quella prospettivista hanno largamente contribuito alla ridefinizione dei rapporti tra i raggruppamenti umani e gli esseri non-umani, sottolineando come le modalità indigene di approcciarsi all’ambiente facciano riferimento a un contesto “naturale” la cui «esistenza e sviluppo [non dipendono] da un principio esterno alla volontà umana» (García Hierro, Surralés 2004, 15-16). Contestualmente, le minuziose comparazioni etnografiche offerte da Tim Ingold, presentano innumerevoli casi concreti che rendono manifesti il costante intreccio, la continua interazione e la reciproca influenza interspecifica. I nuovi e interessanti strumenti concettuali forniti da tali studiosi hanno ispirato innumerevoli antropologi contemporanei che, svolgendo la propria ricerca di campo presso i raggruppamenti della Selva sudamericana, ritengono di dover prendere le distanze dalle teorie riduzioniste basate sull’implicito dualismo tra natura e società8.
7Da questo punto di vista, appare evidente che l’approccio di tali autori si discosti da quello di Claude Lévi-Strauss il quale, nella sua opera maestra (Lévi-Strauss 1962a) continua a mantenere attiva una netta distinzione tra il contesto socio-culturale (appannaggio dei soli esseri umani) e il dominio naturale. Le pur innegabili identificazioni degli individui nativi con gli animali e le piante non rappresenterebbero (secondo il pensatore francese) il frutto di concrete interazioni tra soggetti che popolano il mondo: piuttosto descriverebbero «manifestazioni simboliche di una tassonomia mentale» (Rival 2004, 98), che trova la sua origine nella necessità cognitiva umana di classificare e comprendere. La proposta di Lévi-Strauss sembra far perno, in effetti, sull’idea che le categorie naturali e le categorie sociali possano rendersi vicendevolmente comprensibili all’interno di un piano metaforico o analogico. Tuttavia, come ben evidenziato dai diversi studiosi sopra citati, esistono innumerevoli casi etnografici capaci di dimostrare che, secondo i raggruppamenti nativi (amazzonici e non), gli animali e le piante «non esistano soltanto per essere oggetto del nostro pensiero» (Haraway 2003, 5), ma esistano innanzi tutto per generare intrecci e relazioni con gli esseri umani e tra di loro (Ingold 1993). Transitare da un’analisi antropologica a un’indagine ecologica significa, pertanto, allargare l’interesse etnografico a più ampi sistemi relazionali, in cui l’essere umano viene concepito come un soggetto che esiste tra altri soggetti. Egli, per questo motivo, non si limita ad agire in modo indipendente sull’ambiente: piuttosto lo integra (Ingold 2000).
8Per comprendere appieno tale affermazione, risulta necessario chiarire quanto segue. Un’operazione di questo tipo non implica semplicemente un tentativo di razionalizzare le affermazioni degli interlocutori nativi, ritenendo (per esempio) che essi tendano a “socializzare l’ambiente naturale” proiettando su di esso istituzioni, regole e credenze esperite nel contesto culturale. Si tratta, al contrario, di restituire un peso alle affermazioni dell’Altro e di «prenderle sul serio» (Clifford 2002). Nel primo caso (recuperando l’aneddoto proposto al principio di questo paragrafo) ci si troverebbe a dover ammettere che i nativi di San Martín non concedano realmente ai propri animali domestici la facoltà di sottoporsi volontariamente a prolungate privazioni di cibo e all’assunzione di piante medicinali. Questo comportamento verrebbe attribuito agli animali, in maniera metaforica o analogica, per poter spiegare (tramite categorie sociali conosciute) fenomeni naturali di difficile intendimento. Allo stesso modo, l’idea secondo cui l’inti mama, l’armadillo, il giaguaro e gli altri predatori della foresta si isolino intenzionalmente, con l’obiettivo di incrementare le proprie abilità venatorie, dovrebbe essere interpretata come una semplice proiezione: una pratica così diffusa presso i cacciatori indigeni risulterebbe, per i medesimi, uno strumento concettuale utile per offrire una spiegazione familiare ai rapporti di predazione osservabili, quotidianamente, nell’ambiente naturale attiguo alle Comunità Native.
9Il rischio di fornire una simile interpretazione “razionalizzante” è, tuttavia, quello di costruire una formulazione teorica che si basi su un’indebita attribuzione «di categorie forgiate in Europa per pensare il rapporto […] [tra i nativi e] l’ambiente» (Descola 2013, 532)9. Volendo conferire un peso alle parole degli informatori incontrati sul campo, ci si trova invece costretti a partire dal presupposto che essi “dicano la verità”: che essi ritengano, cioè, realmente possibile che i cani (e alcuni animali predatori) vogliano sottoporsi volontariamente alle pratiche di ingestione e alle restrizioni imposte normalmente ai cacciatori, ai cargueros10 e agli iniziandi kichwa. Accettare questa eventualità conduce a un ripensamento profondo di innumerevoli concetti, tra i quali quelli di “umanità”, “animalità”, “identità”, “natura” e “società”.
10Il percorso proposto nelle seguenti pagine è, quindi, volto a individuare le condizioni di possibilità di un discorso nativo che attribuisce agli animali lo stesso grado di intenzionalità degli esseri umani. Esso può essere suddiviso in due sezioni. In un primo momento tenterò di approfondire alcuni temi inerenti la costruzione dell’umanità nativa, nella convinzione che essi possano fornire un’iniziale chiave di lettura, utile alla comprensione dei temi qui introdotti. La generazione della persona kichwa si configura, in effetti, come un vero e proprio processo antropo-poietico (Remotti 1996, 2013), in cui la corporeità assume il ruolo di “luogo della differenziazione” e della definizione della specificità umana. Durante il periodo prenatale e postnatale il corpo del bambino viene plasmato attraverso l’imposizione di tabù ai genitori, dipinto e decorato con tinture naturali, protetto con amuleti, forato e inciso, curato con la saliva e rafforzato attraverso l’ingestione di preparati o l’assunzione di sale. Tali pratiche, come si avrà modo di osservare, vengono considerate (in ambito nativo) necessarie, affinché l’individuo coinvolto esca dallo stato di indistinzione originaria, che caratterizza tutti gli esseri senzienti.
11In un secondo momento (e partire da tali considerazioni) desidero mettere in luce come alcuni adulti kichwa, lungi dal voler mantenere stabilmente gli attributi umani acquisiti durante il processo di plasmazione, provino a ricreare volontariamente tali luoghi di indifferenziazione identitaria. Attraverso la dieta, l’assunzione delle piante medicinali, l’alterazione del proprio stato di coscienza, il vomito e la defecazione, procedono a una fluidificazione volontaria dei propri confini corporei. In questo modo si posizionano all’interno di quelli che l’antropologo Eduardo Kohn definisce “divenire”, veri e propri spazi «trasformativi di sfocatura» (Kohn 2007, 7), caratterizzati da una rimozione delle disposizioni fisiche. All’interno di un sistema di pensiero (come quello amazzonico) in cui la soggettivazione rappresenta l’unica forma di vera conoscenza, questi massicci interventi di diluizione corporea si costituiscono come pratiche di apprendimento necessarie, per chi (come i cacciatori umani e non-umani, i curanderos e gli iniziandi) ha bisogno di osservare il mondo a partire da una nuova prospettiva.
2. Produrre “veri esseri umani”
12La formazione del corpo del nativo kichwa, intesa come produzione della soggettività individuale, incomincia molto prima della venuta al mondo. Il concepimento, tra i kichwa di San Martín, viene inteso come un mescolamento delle sostanze corporee del padre con quelle della madre, ovvero come un incontro tra il seme maschile e il sangue mestruale. L’atto sessuale viene definito come un vero e proprio “lavoro”, che un uomo deve intraprendere sul corpo della donna, nel momento in cui lei è maggiormente predisposta. Fondamentale, affinché tale attività vada a buon fine, risulta l’assunzione (da parte di entrambi i genitori) di birra di mais e di manioca (saraswa e rumu aswa). Queste due bevande, in quanto considerate comida légitima (vero cibo), provvedono (secondo il pensiero kichwa) a fornire la “materia prima” per la produzione di un ser humano legítimo.
13È all’interno del grembo materno, tuttavia, che ha inizio il vero e proprio processo di specificazione dell’essere umano. In questo luogo, il feto incomincia a vedersi plasmato in una forma antropica, a partire da una serie di tabù (alimentari e sessuali), imposti a entrambi i genitori. Durante questa fase, la madre e il padre in attesa devono imparare a disciplinare il proprio corpo, non consumando alcuni alimenti e non entrando in contatto con taluni animali, per non incorrere nella concreta possibilità di un mutamento dell’infante in persona non-umana. I nativi di San Martín, infatti, ritengono che la consumazione di alcuni tipi di carne provochi, nel bambino, l’acquisizione di caratteristiche animali:
Adesso che Tanith è incinta è meglio che non mangi awiwas [larve di Brassolis Sophorae] in questo modo si evita che il bimbo, in futuro, si svegli piangendo nel cuore della notte: i bruchi, si sa, escono di notte per mangiare plátano [Musa paradisiaca]. Così, se una donna incinta se ne nutre, suo figlio desidererà del plátano, disturbando i suoi genitori (Manuél, 12/08/2018).
14Allo stesso modo, è necessario evitare di consumare carne di tartaruga (yawati) per scongiurare la possibilità che l’infante nasca focomelico. L’Inti mama non deve essere mangiato dai genitori, per evitare il pericolo che il neonato sviluppi qualche problema psichico. L’armadillo, infine, rappresenta un tabù alimentare in quanto la sua consumazione potrebbe inibire la volontà del feto di lasciare l’utero materno, «come l’animale che si nasconde nelle buche per non essere cacciato» (Manuél, 12/08/2018). Non essendo parte della dieta kichwa, il bradipo e la rana non risultano proibiti come alimenti. Devono tuttavia essere evitati: la sola vista del primo provoca la nascita di un bambino affetto da sindrome down; essere esposti al secondo genera invece, nel proprio figlio neonato, un estremo gonfiore addominale. Tali restrizioni risultano diffuse presso innumerevoli raggruppamenti amazzonici che sperano, in questo modo, di tutelare l’umanità dell’infante «dalla malattia dell’ara maka […], [la quale] genera una congiunzione tra la persona malata e l’animale ucciso o mangiato» (Vilaça 2002, 365).
15Attraverso la nascita si inaugura un nuovo stadio, in cui il corpo del neonato «entra in più diretto contatto con gli elementi dell’ambiente materiale circostante» (Vilaça 2002, 354). La sua manipolazione, a questo punto, viene affidata a diversi membri della comunità e della famiglia, anche se la “fabbricazione di umanità” (Remotti 2013) continua a essere mediata dal corpo dei genitori, ai quali vengono imposte nuove restrizioni attraverso la pratica della couvade11. La fragilità di un individuo appena venuto al mondo comporta, in effetti, che quest’ultimo continui a dipendere, dal punto di vista fisico, dal padre e dalla madre (Belaunde 2008, Gow 1991). Per molte settimane dopo il parto, pertanto, i genitori (oltre a dover rispettare i medesimi tabù alimentari che li vincolavano durante la gravidanza) non possono intrattenere relazioni sessuali, bere sostanze alcoliche, cucinare, pulire casa, guidare la moto, cavalcare un cavallo o un asino12. Per venti giorni, inoltre, al padre non è consentito coltivare la terra, lavorare presso la sua chakra o scavare buchi nel terreno con il machete13.
16Per comprendere al meglio tali limitazioni e prescrizioni, appare necessario fare riferimento alla recente corrente etnografica, che vede nel cosiddetto «multinaturalismo prospettico» (Viveiros de Castro 1998) un’adeguata chiave interpretativa per rendere conto delle modalità attraverso le quali (nel contesto amazzonico) gli animali, le piante e gli esseri umani sembrano intrattenere mutue relazioni. Tale complesso sistema interpretativo si basa sull’assunto secondo il quale, facendo riferimento ad alcune epistemologie native14, ogni essere senziente concepisca se stesso come una “persona”. Ciò deriva dal fatto che, secondo diversi attori sociali indigeni, il mondo sia popolato da una serie di soggetti che condividono la caratteristica di possedere agentività. Tale interpretazione trova riscontro anche nella cosmologia kichwa, la quale attribuisce agli animali, alle piante, agli spiriti della foresta e ai defunti una certa intenzionalità, intesa come vera e propria capacità di agire nel mondo. Quest’ultima (considerata come un elemento del tutto simile all’anima accordata agli esseri umani) viene definita, dai nativi di San Martín, in diversi modi: nelle comunità kichwa ci si riferisce ad essa con i termini “madre”, “anima”, “mayriri”, “supay”, “diablo”, “genio” o “yachay”.
17Se tutte le persone (umane o non-umane), che abitano il cosmo amazzonico, condividono la caratteristica di possedere un’intenzionalità volitiva, pare naturale domandarsi quale sia il principio distintivo che permette agli esseri di diversificarsi in quanto umani, piante, cani, giaguari, armadilli o spiriti. Secondo la teoria prospettivista, «il grande differenziatore nelle cosmologie amazzoniche» (Viveiros de Castro 2002, 387) è rappresentato proprio dalla corporeità. La peculiarità dell’elemento fisico consiste, infatti, nella capacità di fornire a ogni persona che abita il mondo un punto di vista relativo: se (in condizioni normali) gli umani vedono se stessi come umani e gli animali come animali, «i predatori e gli spiriti, percepiscono gli umani come prede, mentre le prede vedono gli uomini come spiriti o predatori (anche se ognuno di essi percepisce se stesso come un essere umano)» (García Hierro e Surralés 2004, 15). Risulta chiaro come, a partire da tali rivelazioni, l’attenzione riservata alla corporeità, in ambito amazzonico, assuma nuovo significato.
18È lo stesso Eduardo Viveiros De Castro a sottolineare come, nella Selva Bassa e Alta, la fabbricazione dell’essere umano possa avvenire soltanto attraverso «una combinazione di interventi sulle sostanze che connettono il corpo al mondo: fluidi, alimenti, preparati di tabacco e tinture vegetali» (Viveiros de Castro 1987, 31). In accordo con quanto sostenuto dall’antropologo, risulta interessante osservare quanto segue. Presso i nativi di San Martín, il sudore paterno viene definito come un dispositivo di plasmazione necessario, affinché si possa conferire una forma umana al proprio figlio neonato: è particolarmente frequente osservare uomini che, per rafforzare gli infanti, li prendono in braccio «immediatamente dopo aver realizzato uno sforzo che li fa sudare» (Berjón Martinez, Cadenas Cardo 2014, 14). Parallelamente, i genitori che desiderano proteggere il proprio bambino dall’attacco degli stregoni e dalle malefatte degli spiriti della foresta, utilizzano la propria saliva (llawsa) per massaggiare la pelle del neonato. Tale operazione viene indicata, in lingua nativa, con il termine “kakuy” (letteralmente “impastare”): questo verbo, in accordo con una prospettiva antropo-poietica, pone l’accento sulla plasticità del corpo indigeno (Remotti 2013), al quale viene letteralmente “conferita una forma umana”, facendo uso di diversi fluidi e sostanze corporee15.
19Il cibo, è stato detto, rappresenta un elemento di differenziazione peculiare in quanto, passando dal corpo del padre e della madre a quello del feto (o del neonato), risulta capace di indirizzare la configurazione futura di un individuo. Per comprendere appieno le limitazioni alimentari imposte (e il pericolo paventato dai neo-genitori), risulta fondamentale aggiungere un piccolo tassello alla teoria prospettivista: il corpo, presso diversi raggruppamenti amazzonici, viene concepito come una sorta di guscio esterno, capace di proteggere e «nascondere un’essenza […] invisibile» (Viveiros de Castro 2019, 69): quella che, nelle pagine precedenti, è stata definita “capacità intenzionale” o “anima”. Presso i nativi di San Martín si ritiene che un individuo, durante la sua prima infanzia, sia estremamente vulnerabile in quanto “completamente aperto”16. Attraverso questa singolare espressione, gli indigeni kichwa indicano come l’anima di un bambino, non ancora difesa attraverso i confini corporei, risulti esposta a qualsiasi tipo di interazione con il mondo esterno. Lì vivono una serie di esseri che rappresentano un concreto pericolo per il neonato, poiché capaci di plasmarlo in una forma non-umana e condurlo, pertanto, ad acquisire il loro peculiare punto di vista. Basti pensare al fatto che, in ambito nativo, l’improvvisa morte di un infante venga spiegata come effetto del suo sfortunato incontro con uno spirito del defunto (aya): quest’ultimo spera di fargli cambiare prospettiva, plasmando il suo corpo attraverso «un soffio d’aria gelida che bagna il suo corpicino» (Manuél, 27/03/2018), in modo tale da poterlo trasformare in ex-umano.
20Per scongiurare questo e molti altri pericoli, dopo la sua nascita, il piccolo viene nascosto agli occhi della Comunità Nativa per trenta o sessanta giorni. Egli permane nella camera da letto dei suoi genitori, i quali devono mettere in atto tutta quella serie di comportamenti di astensione, definiti attraverso la pratica della couvade. Tra di essi emergono, appunto, le innumerevoli precauzioni alimentari, utili per evitare il rischio di una consustanzialità bambino-animale, considerata particolarmente pericolosa poiché in grado di innescare un meccanismo di «contro-predazione […], intrapresa dallo spirito della preda trasformata in predatore, in un’inversione letale di prospettive che trasforma l’umano nell’animale» (Viveiros de Castro 2019, 113).
21Il processo di plasmazione del bambino si considera concluso (nel Wayku e nelle comunità kichwa limitrofe) soltanto a seguito della somministrazione della kachi bola (letteralmente, “palla di sale”). Quando un infante compie otto mesi, suo padre si mette in cammino verso una cava di salgemma e (insieme a un gruppo di amici e parenti) estrae un piccolo agglomerato di questo minerale. Al suo ritorno a casa lo offre al figlio, il quale dovrà morderlo, con lo scopo di rafforzare il suo corpo.
22Questi e molti altri dati raccolti, durante la permanenza nella Comunità Nativa el Wayku, sembrano suggerire una particolare definizione nativa di “infanzia”, intesa come vero e proprio “spazio di indistinzione”, in cui il soggetto coinvolto non ha ancora assunto una precisa posizione prospettica all’interno dell’universo «cento percento relazionale» (Viveiros de Castro 1998, 51) della selva.
23Pur riconoscendo la portata sostanziale delle pratiche di formazione di una persona legítima, risulta importante tenere a mente quanto segue. La definizione dell’umanità, elaborata durante il periodo infantile, non si esaurisce con l’acquisizione dell’età adulta: essa viene continuamente negoziata e rigenerata all’interno dei rapporti sociali nativi. Come afferma l’antropologa Aparecida Vilaça, presso le popolazioni amazzoniche, «l’umanità è concepita come una posizione, essenzialmente transitoria, che viene continuamente prodotta attraverso un vasto universo di soggetti» (Vilaça 2002, 356). Per tale motivo, tutta la fanciullezza e alcune fasi dell’età adulta risultano marcate da un’enorme suscettibilità, al punto che innumerevoli autori amazzonisti definiscono la persona indigena come un essere “fluido” o “cronicamente instabile” (Vilaça 2002; Berjón Martinez, Cadenas Cardo 2014; Chaumeil 2010).
3. Sasinakuna17. Il vegetalismo come via per la conoscenza
24Nella Selva Alta di San Martín, la condizione umana di vulnerabilità e indeterminatezza, non viene semplicemente accettata come presupposto intrinseco al prodursi e al continuo ri-generarsi della vita nel mondo (Lévi-Strauss 1993). Piuttosto rappresenta una posizione desiderabile, che viene minuziosamente ricercata attraverso lunghe ed estenuanti pratiche di dissoluzione controllata dei confini corporei.
25Come accennato all’inizio di questo percorso, nel Wayku si ritiene, per esempio, che un cacciatore possa avere fortuna nell’attività venatoria soltanto dopo essersi sottoposto alla cosiddetta sasina18. Con questo termine, in lingua nativa, si indica l’attività di purga, o dieta. Quest’ultima viene considerata come una delle tecniche di cura, iniziazione e apprendistato più importanti del vegetalismo amazzonico e consiste in un prolungato isolamento, accompagnato dall’assunzione di piante della foresta. Secondo il sistema di pensiero kichwa, chi desidera catturare una buona quantità di prede deve sottoporsi a una dieta di almeno tre mesi. Durante questo periodo di emarginazione, l’individuo coinvolto è tenuto a consumare preparati di uchu sananku (Tabernaemontana sanaho) oppure di ajo sacha (Mansoa alliacea)19. Entrambe le piante provocano nell’aspirante cacciatore visioni, dissenteria e forti conati di vomito20. Ciò consente al soggetto coinvolto di spogliarsi di alcune caratteristiche antropiche, al punto di non essere più riconoscibile (dall’alterità animale) come essere umano: «Per tre mesi, ho preso l’uchu sananku. […] Caspita! La caccia, poi, è stata un successo: non li dovevo nemmeno cercare, gli animali! Venivano verso di me. E lo sai perché? Perché ero diventato foresta» (Felipe Cachique, 2/04/2018).
26L’espressione “hacerse monte” (“diventare foresta”), è estremamente comune presso i kichwa e potrebbe essere spiegata in questo modo: provocandosi volontariamente vomito e dissenteria, l’aspirante cacciatore spera di rendere permeabili i suoi confini corporei e perdere alcune caratteristiche umane. In questo modo ritiene che la sua figura possa dissolversi nel paesaggio della selva: ciò, agli occhi delle prede, significa diventare apparentemente inoffensivo.
27Non è soltanto la purificazione, ottenuta attraverso il vomito e la defecazione, a produrre una fluidificazione intenzionale dei confini corporei. La sasina prevede una serie di tabù, che impongono all’aspirante cacciatore di astenersi da innumerevoli alimenti21. Nel paragrafo precedente è stata evidenziata la centralità del cibo, nel processo di plasmazione dell’essere umano: attraverso le preclusioni alimentari, si ricorderà, si evita che un infante assuma una forma animale; a partire dalle prescrizioni, invece, si prova a fabbricare un “vero essere umano”. Se, pertanto, il morso della kachi bola garantisce la formazione di un ser humano legítimo, è fondamentale che la dieta sia caratterizzata dalla totale astensione dal sale. Secondo il pensiero locale, in effetti, questo minerale possiede un’importante facoltà umanizzante22. Contestualmente, un individuo che assume piante medicinali viene invitato ad esimersi dall’ingerire grasso e condimenti23, alimenti ai quali si attribuisce la capacità di dotare gli esseri umani del proprio peculiare odore.
28I parallelismi, individuabili tra la condizione del lattante e quella del dietador24, non sono affatto casuali. A ben vedere, entrambi sono posizionati all’interno di uno stato di “indistinzione prospettica”: se, tuttavia, il primo si appresta a compiere un percorso di rafforzamento corporeo (con lo scopo di definire la propria umanità) il secondo sta affrontando un processo inverso25. L’anima di entrambi, seppur in condizioni diverse e per motivi differenti, non si trova protetta dai confini corporei e risulta, pertanto, particolarmente vulnerabile. Per tale motivo, un uomo che pratica la dieta viene obbligato a rispettare le medesime limitazioni imposte ai neo-genitori durante la couvade26.
29Ad una prima analisi, i dati qui presentati potrebbero indurre il lettore a ritenere che, nel Wayku, le pratiche di liquefazione controllata dei confini corporei siano orientate semplicemente alla perdita degli attributi umani. Questa affermazione, tuttavia, non trova riscontro nelle innumerevoli testimonianze etnografiche che indicano come, nel contesto indigeno, la dissoluzione delle specificità umane si configuri come una condizione necessaria per la produzione e il raggiungimento della conoscenza autentica.
30Per i nativi di San Martín, in effetti, non è solo l’abilità di catturare animali selvatici a dover essere perfezionata attraverso la sasina. Ogni occupazione, che richieda una certa perizia o conoscenza specifica (il curanderismo, per esempio, la coltivazione, la pesca o la produzione di artefatti in ceramica), è intrinsecamente connessa al consumo delle piante medicinali e alla perdita temporanea dei propri attributi corporei. Sembra ragionevole, pertanto, supporre che la definizione (offerta dai cacciatori indigeni) della dieta, come pratica di dissoluzione dell’umanità e “mimetizzazione” nel territorio, non sia affatto sufficiente.
31Al fine di chiarire quest’ultimo punto, risulta necessario operare una breve digressione intorno alle cosiddette mamayuk (le piante medicinali, appunto). Esse vengono considerate, dai kichwa di San Martín, come veri e propri soggetti senzienti, caratterizzati dalla presenza di un’anima antropomorfa27. Tale sostanza viene definita dai nativi “madre”, ma può presentarsi, a chi la ingerisce, sia sotto forma di spirito maschile, sia sotto forma di spirito femminile. Per esempio, «la madre dell’Uchu Sananku [Tabernaemontana sananho], è una donna con le radici, mentre la madre del Chirik Sananku [Brunfelsia grandiflor] è un vecchio con la barba lunga» (Artidoro,15/05/2018).
32Affermare che le piante posseggano un’essenza antropomorfa non significa necessariamente dire che quest’ultima si presenti (a chi le assume) in forma umana. La frase più diffusa, presso i guaritori locali, è la seguente: «la madre dell’Ayawaska è il serpente». Essa indica che lo spirito della liana Banisteriopsis caapi si mostra, durante le cerimonie rituali a essa dedicate, sotto forma di un lungo serpente (tendenzialmente giallo e nero). Allo stesso modo l’anima della Bobinsana (Calliandra angustifolia), lungi dall’assomigliare a un umano, si manifesta come sirena. Ciò che rende tale sostanza “antropomorfa” è la sua capacità intenzionale. Non solo quest’ultima può comunicare con gli uomini: a essa vengono attribuiti sentimenti ed emozioni, nonché facoltà decisionali. Una pianta, pertanto, potrà trasferire alcune delle sue proprietà all’umano che la ingerisce, oppure, se quest’ultimo avrà tenuto un comportamento irriguardoso nei suoi confronti28, potrà rifiutarsi:
Esistono molte specie di mamayuk: ce ne saranno circa cento [e le assumi] a seconda di ciò che vuoi. A seconda di dove punti, la pianta ti guida. Ad esempio: voglio essere un pescatore, quindi esiste una specie di pianta che ti guiderà fino a dove puoi camminare con la pesca [intende che la pianta può insegnare a un uomo come diventare un buon pescatore]. Esiste un’altra specie di pianta che guida coloro che vogliono cacciare gli animali, in particolare l’ajo sacha […]. Ecco perché le chiamiamo anche “Piante Maestre”: perché ti guidano (Henry, 15/07/2019).
33Al fine di rendere comprensibile quanto asserito dal mio informatore, appare doveroso presentare un ulteriore esito del cosiddetto multinaturalismo prospettico: si tratta della soggettivazione, intesa come la sola forma di accesso al sapere in ambito amazzonico. Nel corso delle pagine precedenti è emerso come, all’interno della cosmologia kichwa, il mondo risulti abitato da diversi tipi di persone umane e non-umane. Queste ultime condividono la caratteristica di possedere un’anima senziente, ma si distinguono vicendevolmente per via della loro forma corporea. Essa, è importante sottolinearlo, non solo garantisce loro la possibilità di apprendere la realtà a partire da punti di vista differenti: sono le stesse prospettive a configurarsi come “generatrici di realtà”29. «Tutti gli esseri [afferma Eduardo Viveiros de Castro] vedono il mondo al medesimo modo. Quello che cambia è, invece, il mondo che essi vedono» (Viveiros de Castro 1998, 471). Il cacciatore kichwa, secondo tale logica, vive in un «mondo interpretativo» (Kohn 2007, 7) differente rispetto a quello abitato, per esempio, dall’inti mama. Nel primo egli si percepisce come essere umano, predatore di opossum e armadilli; nel secondo, l’inti mama si vede come individuo umano e concepisce il cacciatore kichwa come un predatore (un giaguaro, per esempio, o uno spirito della foresta). Allo stesso modo, la pianta ajo sacha vive in un “mondo interpretativo” in cui si percepisce come sacha runa, ovvero come essere umano che vive nella foresta30. Si potrebbe sostenere, quindi, che l’orizzonte prospettivista proceda a una radicalizzazione (o a un’universalizzazione) della relatività soggettiva (Piasere 2018).
34All’interno di un sistema di pensiero di questo tipo, produrre conoscenza potrebbe risultare problematico, a causa della potenziale incommensurabilità dei mondi abitati dalle persone umane e non-umane. Come sottolineato da innumerevoli antropologi contemporanei31, tuttavia, il mondo amazzonico prevede diverse forme di incontro e comunicazione tra uomini, animali, piante e spiriti. Tali relazioni, che sono in prima istanza conoscitive, si danno a prescindere dall’esistenza delle discontinuità fisiche tra gli esseri (Kohn 2007, 7) e in virtù, invece, della loro condivisione di un’anima intenzionale32. Da ciò consegue che, nel contesto amazzonico, il cammino per la conoscenza non risulti impraticabile e che, piuttosto, esso venga intrapreso attraverso strumenti e con fini differenti.
35Se all’interno dell’epistemologia da noi condivisa apprendere equivale a trasformare il mondo in un oggetto, in modo tale che questo possa essere analizzato e spiegato, il processo conoscitivo amerindio sembra essere guidato dall’ideale inverso. Per i nativi che praticano il vegetalismo, infatti, non è possibile parlare di un soggetto conoscente che si contrappone, in modo dicotomico, a un oggetto conosciuto. Un individuo che possiede la vera conoscenza (yachay) deve, pertanto, poter procedere a una soggettivazione, la quale consiste (in ultima analisi) nell’acquisizione della prospettiva di ciò che deve essere conosciuto. Potrebbero risultare illuminanti, da questo punto di vista, le parole di un curandero nativo:
Un uomo è saggio se prende le piante, e queste stanno nel suo corpo. Per esempio […], ci sono piante che hanno energia dell’acqua, come quelle che hai preso tu [si riferisce a Ilex guayusa, Calliandra angustifolia e Hirtella pilosissima]. Allora, se uno vuole stare costantemente nell’acqua (per pescare o per andare nel mondo degli yakuruna [spiriti dei fiumi]), deve prima conoscerla: devi avere una Pianta Maestra che ti sappia guidare perché, per esempio, vive sulla riva del fiume, come lo yaku shimbillu [Hirtella pilosissima] (Henry,15/07/2019).
36Seguendo una simile logica, l’aspirante cacciatore si trova costretto a dover assumere quelle Piante Maestre (come l’Ajo Sacha e l’Uchu Sananku) che, essendo cresciute nella selva, sono in grado di fornirgli un punto di vista privilegiato sul territorio in cui lui desidera catturare le sue prede.
37A partire da tali considerazioni, risulta interessante osservare quanto segue. In diversi contesti amazzonici, i cacciatori sono soliti incrementare la propria conoscenza delle prede, ingerendo alcuni organi delle stesse. In questo modo ritengono di poter acquisire il loro punto di vista sul mondo ed essere facilitati nel processo di cattura. Contestualmente, i kichwa di San Martín invitano i propri cani a consumare gli scarti di alcuni animali cacciati, in modo tale che possano conquistare nuove abilità. Ritornando, per un momento, all’aneddoto proposto al principio del percorso qui affrontato, alla luce di una simile epistemologia non appare bizzarro nemmeno ritenere che gli animali domestici kichwa desiderino (al pari dei loro padroni) intraprendere volontariamente la sasina, per incrementare le proprie abilità venatorie
38L’antropologo Eduardo Kohn che, da tempo, conduce le sue ricerche presso i quichua runa dell’Ecuador33 ritiene che, in ambito nativo, si proceda spesso alla generazione di spazi di relazione transpecifica caratterizzati (come nel caso qui presentato) da una graduale rimozione degli attributi fisici (Kohn 2007). Lo studioso, prendendo in prestito un’espressione coniata da Deleuze e Guattari (1988), definisce questi luoghi con il termine “divenire”. Egli chiarisce come, per garantire un’interazione semiotica tra le soggettività che abitano il mondo, sia necessaria una dissoluzione delle stesse in quanto unità discrete. I dati raccolti sul campo sembrano mettere in luce precisamente tale intento, nella sasina praticata dai nativi di San Martín. Quello, cioè, di produrre un luogo di compenetrazione prospettica tra gli umani e le alterità non-umane ingerite (le piante, appunto). Sono gli stessi indigeni a proporre questa interpretazione, nel momento in cui affermano che la dispersione delle caratteristiche antropiche sia finalizzata all’incontro con lo spirito del vegetale ingerito e all’acquisizione di alcune sue specificità: «l’ajo sacha, per esempio, ti fornisce la precisione. L’uchu sananku, ti dona la forza» (Felipe Cachique, 20/04/2018).
39Per concludere, appare necessario introdurre un’ulteriore precisazione, volta a chiarire un frequente equivoco concernente la relazione tra corpo e anima, all’interno delle cosmologie amazzoniche. Tale problematica è riportata dallo stesso Eduardo Viveiros De Castro. Nella sua opera monografica, l’autore sottolinea come gli esercizi di soggettivazione, sopra descritti, appaiano intrinsecamente legati alla dottrina dei corpi intesi come “abiti”. Questi ultimi (è stato detto) possono essere indossati e spogliati, lasciando la capacità intenzionale più o meno “scoperta”. Ciò potrebbe condurre chi si approccia alle epistemologie native a ritenere che, a partire dalle stesse, la corporeità non rappresenti null’altro che un sostrato, un’apparenza utile a nascondere la vera essenza spirituale (l’anima, appunto). «Nulla di più distante da ciò che gli indigeni hanno in mente quando parlano di corpi come “vestiti”. […] Indossare un vestito [ovvero una nuova forma fisica (vegetale o animale)] consiste meno nell’occultare l’essenza umana sotto un’apparenza animale, che attivare i poteri di un corpo altro» (Viveiros de Castro 2002, 393).
40Nel contesto kichwa, un uomo che ha saputo ingerire e accogliere le piante medicinali, viene considerato estremamente forte (sinchi sinchi). Egli difficilmente potrà ammalarsi e ogni persona (umana e non-umana) si relazionerà con lui in modo rispettoso, poiché gli riconoscerà (anche a distanza di anni) la conoscenza e il potere ottenuti attraverso l’incorporazione delle mamayuk. Pur avendo indossato differenti attributi corporei ed essendosi, temporaneamente, spogliato dei suoi non smetterà mai di essere umano: avrà semplicemente acquisito l’abilità di muoversi all’interno di mondi interpretativi differenti. La sua posizione, all’interno dell’universo prospettico della selva, non sarà dissimile allo spazio generato dal ragno, attraverso la tessitura di una tela: «una ragnatela [scrive Eduardo Kohn] è sia un’estensione fisica del ragno, sia una rappresentazione estremamente precisa di una mosca – la ricalca così bene che la può catturare . Essere consapevoli di un altro essere (penetrando il suo mondo interpretativo) in un certo senso richiede una sfumatura ontologica» (Kohn 2007: 7). All’interno di un universo di questo tipo, non stupisce che il pericolo più grande, per un essere umano, sia rappresentato dall’incapacità di muoversi tra i mondi. Di essere, cioè, forgiato secondo un unico modello di corporeità e, pertanto, rimanere intrappolato all’interno di una sola e indiscutibile prospettiva.
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Notes de bas de page
1 La Comunità Nativa El Wayku si trova nell’Alta Amazzonia peruviana. Precisamente nella provincia di Lamas, regione di San Martín.
2 Termine kichwa per indicare il campo coltivato dalle famiglie ubicato, tendenzialmente, a diverse ore di cammino dalla casa.
3 La Comunità Nativa di Yurilamas è ubicata nella regione di San Martín (Perù), a nove ore di cammino dal Wayku.
4 La cosiddetta “Selva Alta”, presso la quale ho condotto la mia indagine etnografica, corrisponde a un’area naturale dello stato peruviano costituita da foreste pluviali montane. Essa è ubicata grossomodo sul fianco orientale delle Ande, tra la Selva Bassa (nome con cui è nota la vasta pianura amazzonica) e la Sierra. Non esiste, tuttavia, una definizione esatta di “Selva Alta”: si riscontrano innumerevoli usi popolari di questo termine, che fanno corrispondere questa zona a diverse regioni geografiche.
5 La ricerca etnografica, utile per la stesura della mia tesi di dottorato, è stata condotta tra l’anno 2017 e l’anno 2019, per una durata complessiva di 12 mesi.
6 Defunti, antenati, spiriti della selva. Per una più completa definizione di “persona non-umana” si rimanda alle pagine successive.
7 Tale puntualizzazione risulta necessaria in un contesto etnografico, come quello kichwa, in cui lo stereotipo del “nativo ecologico” risulta assai utile, a livello strategico, per dialogare con gli enti statali e regionali intorno alla promozione dei diritti territoriali indigeni.
8 Tra gli antri si vedano Belaunde 2008, Rival 2005, Gow 1991.
9 È lo stesso Philippe Descola, nel corso di questa recente intervista, a mettere in guardia da una simile interpretazione delle parole degli informatori. Essa si basa, secondo lo studioso francese, su un capovolgimento delle teorie di Lévi-Strauss e, come tale, mantiene intatta la distinzione tra l’ambito sociale e quello naturale.
10 Termine castigliano con il quale i nativi di San Martín indicano gli individui che devono camminare ore nella foresta (o tra diverse comunità) per trasportare sale, legna creta o altri prodotti fondamentali al sostentamento.
11 Il termine “couvade” venne introdotto, nel lessico etnografico, da Edward B. Tylor (1865) per descrivere l’attitudine di alcuni neo-padri indigeni di sottoporsi a una serie di divieti e prescrizioni simili a quelli descritti in questo paragrafo. Claude Lévi-Strauss, tuttavia, fu in grado di dimostrare che le proibizioni e gli obblighi legati alla gravidanza venissero rispettati, tendenzialmente, da entrambi i genitori (Lévi-Strauss 1962b, 258).
12 Ciò causerebbe, infatti, una violenta nausea al bambino.
13 Ciò viene spiegato, dai miei informatori, facendo riferimento alla grande quantità di animali o piante dannosi, che vivono nei pressi di un campo messo a coltura.
14 Tra le quali, ovviamente, quella amazzonica.
15 Per il medesimo motivo, secondo le norme tradizionali kichwa, i padrini sono invitati a stabilire il primo contatto con il proprio figlioccio attraverso un atto di incisione corporea: essi si dovranno macchiare con il sangue del bambino, recidendo il suo cordone ombelicale. Ciò accade, tendenzialmente, nelle comunità lontane dagli ospedali e dai centri di salute (dove il cordone ombelicale viene tagliato dal personale sanitario). I nativi di San Martín suggellano, inoltre, il rapporto padrino-ahijado attraverso il compimento di un piccolo rituale di connessione dei corpi: il padre e la madre invitano il proprio co-genitore ad “amarcar” in neonato, ovvero a sollevarlo dal giaciglio e tenerlo tra le braccia.
16 «Un lullu està complétamente abierto» (William, 17/05/2018).
17 Il termine “sasinakuna” è il plurale di “sasina”, letteralmente “dieta”.
18 Dal verbo “sasiy”, o “sasikuy”. Letteralmente “fare la dieta”. Il suffisso –na, in kichwa, rappresenta un concretizzatore che, come tale, trasforma un verbo in un nome. Plurale: sasinakuna.
19 Per quanto concerne l’uchu sananku quello offerto tra parentesi, deve essere inteso come un semplice nome scientifico di riferimento. Non esiste, infatti (come nel caso dell’ajo sacha) un registro degli usi specifici di questa pianta: è possibile, quindi, che i nativi di San Martín si servano di diverse specie o sotto-specie vegetali.
20 L’uchu sananku è conosciuto anche per il suo effetto paralizzante e per le vampate di calore avvertite dal paziente (uchu, in lingua nativa, significa “caldo”).
21 Visto il legame intrattenuto tra il rispetto dei tabù alimentari e la purificazione del corpo attraverso l’ingestione delle piante, nel Wayku, il termine kichwa “sasina” viene reso in castigliano indifferentemente con “purga” e “dieta”.
22 Da un lato si ritiene che il suo consumo allontani le persone da una condizione di animalità, inibendo alcune caratteristiche che gli umani condividono con i non-umani (un buon olfatto, una vista sviluppata e un buon udito). Il prodotto, per questo motivo, viene somministrato a bovini ed equini con lo scopo di ammansirli. Dall’altro lato si crede che l’assunzione di sale assicuri una fortificazione del fisico, garantendo che l’anima dell’individuo coinvolto non venga infastidita dagli spiriti, dai demoni e dai defunti che popolano il territorio.
23 In lingua nativa, si afferma che l’individuo deve consumare cibo panku.
24 Termine castigliano con il quale i nativi di San Martín indicano un individuo che si appresta a compiere la sasina.
25 Un processo che, in linea con quanto riportato nel paragrafo precedente, potrebbe essere definito “antropo-litico”.
26 Non potrà, per esempio, intrattenere relazioni sessuali o partecipare alle veglie funebri. Il rischio di entrare in contatto con lo spirito del defunto (e trasformarsi, quindi, in ex-umano) sarebbe estremamente elevato. Lo stesso isolamento in foresta, che l’uomo è invitato a rispettare durante la dieta, si configura come l’emarginazione dell’infante durante i primi mesi di vita. In tale contesto sorge una curiosa inversione: un individuo che pratica la sasina può incontrare solamente il proprio curandero di riferimento e si deve tenere a debita distanza anche dai propri parenti stretti. Al contrario, il bambino potrà vedere soltanto la propria famiglia, mantenendo un sicuro distacco da qualsiasi vegetalista o curandero.
27 Lo stesso termine “mamayuk” ne è una prova. Esso, in lingua nativa, è composto dalla radice “mama” (che significa “madre”) e dal suffisso -yuk che indica un aggettivo possessivo. “Mamayuk” potrebbe, quindi, essere tradotto letteralmente in questo modo: “con la sua madre”, ovvero “esseri dotati di anima”.
28 Per esempio, non avrà rispettato le prescrizioni e i tabù alimentari e sessuali connessi alla dieta.
29 Tale consapevolezza è quella che porta l’autore brasiliano a opporre il prospettivismo amerindio al relativismo.
30 Da “sacha”, “monte” o “selva” e “runa”, “uomo”. Da questo punto di vista, appare doveroso aggiungere che i kichwa di San Martín si auto-identificano proprio come sacha runa. Questo li identifica come veri esseri umani (che consumano sacha mikuna, cibo della foresta) in contrapposizione con le popolazioni creole che vivono in città.
31 E come confermato dagli stessi nativi kichwa.
32 L’esempio delle piante medicinali non è il solo che potrebbe essere offerto, nel contesto etnografico qui analizzato. Sono innumerevoli i casi in cui si registrano incontri tra umani e spiriti della foresta o dell’acqua, tra discendenti e antenati defunti, tra iniziandi e animali (prede e predatori).
33 I runa parlano una variante, appartenente al ramo IIB, dell’idioma quechua. La stessa lingua è diffusa tra i kichwa di San Martín, presso i quali ho condotto la mia ricerca di campo. Al contrario di Eduardo Kohn, che nei suoi testi fa uso di una grammatica castigliana, nel corso della mia trattazione ho fatto riferimento a un sistema di scrittura amazzonico. Da qui la discrepanza ortografica tra quichua e kichwa.
Auteur
Insegna Antropologia culturale presso le Facoltà di Scienze della formazione e di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (sedi di Milano e di Brescia). Ha ottenuto il dottorato di ricerca in Filosofia e Scienze dell’Uomo presso il dipartimento di Filosofia “Piero Martinetti” dell’Università Statale di Milano. Ha condotto le sue ricerche etnografiche presso i kichwa runakuna dell’Alta Amazzonia peruviana e in Euskal Herria (Paese Basco), dove si è occupata degli usi sociali e politici della genetica molecolare. A riguardo ha pubblicato diversi saggi, capitoli e articoli in Italia e all’estero.
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