Umani e animali nell’antropologia socioculturale contemporanea
p. 191-227
Texte intégral
Introduzione
1Da almeno trent’anni si è verificato un notevole cambiamento negli approcci degli antropologi socioculturali allo studio dei rapporti tra gli esseri umani e gli altri animali. Questo cambiamento è stato strettamente correlato a un profondo ripensamento della relazione tra umanità e animalità, in particolare per quanto concerne la sua omologia con quella tra cultura e natura.
2In un profilo sintetico degli sviluppi più recenti della riflessione su questi temi, White e Candea (2018) osservano che prima di questa “svolta”, gli animali non umani erano considerati dagli antropologi novecenteschi parte del proprio oggetto di studio soprattutto in quanto risorse materiali per la sussistenza umana o dal punto di vista delle logiche culturali e transculturali in base al quale determinate specie sono impiegate per rappresentare simbolicamente determinate identità, relazioni e valori tra gli esseri umani in una determinata società (Kilani 2000; Mullin 1999). In pratica, ricerche e analisi si sono concentrate in passato sui modi in cui gli animali non umani sono o diventano “buoni da mangiare” e/o “buoni da pensare” per gli esseri umani (Lévi-Strauss 1962).
3Dal 1990 fino a oggi si è assistito allo sviluppo di diversi indirizzi teorici e di studio – l’approccio di Tim Ingold, la cosiddetta “svolta ontologica”, l’etnografia multispecie – che, al di là delle loro differenze di impostazione teorica e di metodo, convergono nella considerazione degli animali non umani, cui si riconoscono forme di soggettività e di agency, come parti attive nella costruzione e nella coevoluzione della socialità umana.
4Nonostante questi aspetti di intersezione con gli human-animal studies (ad es. Demello 2012; Hurn 2012, Taylor 2013) e con la zooantropologia (ad es. Marchesini, Tonutti 2007), il dialogo non solo con queste correnti ma con le teorie e i movimenti di animal advocacy, (cfr. Tonutti 2007; Bertuzzi 2018; Guazzaloca 2021; Pollo 2016; Zuolo 2018; Carié, Traïni 2019; Evans 2020) è ancora poco sviluppato e caratterizzato più da una reciproca diffidenza che da un confronto costruttivo.
5In questo scritto, proverò a mostrare il nesso che vi è tra i modi con cui gli antropologi socioculturali otto-novecenteschi si sono interessati ai rapporti umani-animali e la concezione dominante nel pensiero filosofico e scientifico tra il Settecento e il Novecento dei rapporti tra umanità e animalità. Tratteggerò poi gli indirizzi che, a partire dall’ultima parte del Novecento, hanno portato a un ripensamento dei rapporti tra umanità e animalità nell’antropologia socioculturale. Infine, farò cenno ad alcuni problemi aperti, che investono le possibilità, in un prossimo futuro, di sviluppare un dialogo più serrato tra questi nuovi indirizzi di studio emersi nell’antropologia socioculturale, da una parte, e, dall’altra, i critical animal studies e i dibattiti e i movimenti nel campo dell’animal advocacy.
1. Umanità e animalità nell’antropologia socioculturale ottocentesca e novecentesca
6Si è prima menzionato come nell’antropologia socioculturale novecentesca i rapporti tra umani e animali non umani si siano concentrati su quegli aspetti legati a costanti e variabili nelle loro funzioni per la sussistenza materiale e il loro impiego come simboli e metafore delle identità e delle relazioni sociali tra esseri umani. Nonostante le differenze che distinguono gli approcci dell’antropologia novecentesca da quella del secolo precedente, questi approcci possono essere retrospettivamente accomunati per condividere una particolare concezione dei rapporti tra animalità e umanità diffusasi in molte correnti del pensiero illuminista e rafforzatasi con lo sviluppo del positivismo nel diciannovesimo secolo.
7Secondo tale concezione, l’animalità appartiene totalmente alla sfera della natura; il comportamento animale è mosso dalla pura vitalità degli istinti di sopravvivenza e di riproduzione, e la stessa sensibilità animale tende a essere assimilata alle reazioni di un meccanismo. Gli animali non umani vengono dunque considerati privi di una vita soggettiva, di autocoscienza e di ogni intenzionalità non meccanica. Ovviamente questa concezione, cui può essere approssimata l’idea cartesiana dell’assimilazione tra vitalità animale e funzionamento di una macchina, non è la sola presente in questo periodo: basti pensare a posizioni ben diverse a tal riguardo, come quelle di Hume, Voltaire e Rousseau (cfr. de Fontenay 1998; Guazzaloca 2021). Tuttavia, soprattutto nell’Ottocento, essa tende a diventare egemonica tra le élites intellettuali, soprattutto quelle per cui l’adesione a un’ontologia materialista va considerata la premessa fondamentale dello sviluppo della conoscenza scientifica.
8Tale concezione dell’animalità è correlativa al modo di definire la condizione umana. Anche se in seguito alla pubblicazione (1758) della classificazione degli esseri viventi elaborata da Linneo, gli esseri umani vengono ascritti al regno animale, l’umanità viene caratterizzata come una condizione che si afferma e consolida attraverso la progressiva liberazione dalle costrizioni naturali dell’ambiente (natura esterna) e dagli istinti e bisogni primari (natura interna); tale liberazione si manifesta nel correlativo sviluppo, in forme sempre più complesse e raffinate, della cultura e delle istituzioni sociali (Ingold 1988; Corbey 2008).
9Nella prospettiva di quella che prima venne chiamata “storia naturale” e successivamente “evoluzione della civiltà”, questo processo di emancipazione è considerato avere avuto origine nel momento, non precisamente determinabile, in cui gli esseri umani hanno acquisito il linguaggio simbolico. La nascita del logos (sia nel senso di razionalità che in quello di linguaggio simbolico), combinandosi con l’acquisizione della stazione eretta e di nuovi dotazioni anatomiche (differenza nell’anatomia di arti inferiori e superiori, pollice opponibile), che favoriscono le capacità di manipolazione degli oggetti (e quindi la produzione di strumenti), permettono ai membri della specie umana di intraprendere un cammino evolutivo che al contempo li porterà gradualmente a sottomettere gli altri animali e a sottrarsi, almeno parzialmente, alle costrizioni ambientali (Corbey 2008).
10I rapporti tra logos e nascita e sviluppo delle istituzioni sociali e culturali sono dunque considerati organici e in egual misura definitori del genere umano e della sua unità distintiva. L’uomo è, a differenza degli altri animali, “animale razionale”, non più, come nel pensiero aristotelico e nella sua rielaborazione da parte della teologia cristiana, in virtù di una sua particolare condizione creaturale, legata alla peculiarità dei suoi legami con divinità e altri principi “sovrannaturali”, ma in quanto esito di una “storia evolutiva” che tuttavia, progredendo, diviene sempre meno “storia naturale”, e sempre più “storia dello sviluppo della civiltà e delle istituzioni sociali”. Tale sviluppo è strettamente associato alla coltivazione della razionalità, in modo sempre più purificato e autonomo dalle pastoie di istinti e credenze irrazionali, e tale dunque da promuovere tanto il progresso della conoscenza scientifica, identificata con una conoscenza “oggettiva” dei fenomeni, quanto lo “spirito d’impresa” e il disegno e la costruzione di istituzioni sociali sempre più ordinate e in grado di fornire un ambiente propizio sia per l’esercizio delle libertà individuali che per l’integrazione degli individui nel tessuto eminentemente morale della vita in società.
11In questo senso, la valorizzazione kantiana dell’autonomia, della soggettività e della libertà come emancipazione del genere umano da uno stato di minorità può essere resa compatibile con il carattere cogente delle regole e delle convenzioni legate alla vita sociale e ai valori culturali. Queste, infatti, oltre a essere testimonianza di un’esigenza d’ordine e di organizzazione, divengono progressivamente la manifestazione di un modo di vita e di convivenza intersoggettiva edificato silla base di uno “stato di diritto”, in quanto fondato su principi di razionalità e sugli apporti delle nascenti “scienze sociali”: antropologia, sociologia, psicologia, economia.
12Una simile concezione del genere umano e dell’umanità, sostenuta dalle élites intellettuali europee e nordamericane, non poteva che condurre alla posizione per cui tutti gli animali non umani non solo sono privi di qualsiasi forma di logos, di soggettività, di cognizione e di cultura, ma non fanno parte della società umana, in quanto quest’ultima implica relazioni intersoggettive mediate da istituzioni. Gli animali non umani, al pari delle entità inanimate, vengono quindi considerati semplici risorse e strumenti per la sussistenza, la vita sociale e la cultura degli esseri umani; ogni legame sociale tra umani e non umani, sia di tipo utilitario che affettivo, va dunque ricondotto a questa funzione strumentale e di prelievo.
13Le frontiere tra umano e non umano vengono dunque a essere marcate da dicotomie, quali quelle tra cultura – o società – e natura, o persona e organismo, i cui stessi termini, lungi dall’essere di diffusione universale, sono invece il frutto della particolare traiettoria storica seguita dal pensiero, dall’antropologia, e dalla cosmologia occidentale. In questo scenario, il consolidamento di queste dicotomie, e la loro coincidenza con quella tra umano e non umano, si rivelano anzi essere un prodotto eminentemente moderno.
14Inoltre, come sostenuto da Latour (2009), tale consolidamento procede parallelamente alla separazione tra sfera della “scienza”, deputata a trattare le matters of fact, cioè i “fatti oggettivi”, e la sfera della “politica”, in cui a dover essere trattati, confrontati e ricomposti sono invece gli interessi soggettivi (matters of concern), che per definizione coincidono con quelli degli esseri umani. Infine, sempre secondo Latour, a queste operazioni di “depurazione” di ogni associazione tra elementi considerati appartenere esclusivamente a uno di questi campi dicotomici – operazioni che secondo lo studioso definiscono dal punto di vista metafisico e ideologico la “Costituzione dei Moderni” – corrisponde storicamente la sempre maggiore proliferazione, nel mondo moderno, di reticoli e associazioni “ibride”, in quanto composte di entità sia umane e non umane (Latour 2005).
15Tra il Settecento e il Novecento, anche la distinzione legale tra persone e cose, introdotta nel diritto romano e fondante la diversità dei diritti e dei doveri associati a queste due categorie giuridiche, tende a combaciare con quella tra umani e non umani. (Rescigno 2005). Da un lato, i movimenti per l’abolizione della schiavitù hanno come conseguenza l’affermazione del principio secondo cui, legalmente, nessun essere umano può essere oggetto di proprietà, principio coerente con la posizione kantiana per cui ogni membro del genere umano va considerato dal punto di vista etico un fine e mai un semplice strumento di un’azione. Kant tuttavia sostiene che questo status va attribuito esclusivamente agli umani, in quanto soltanto essi sarebbero soggetti autonomi e liberi; agli altri animali, poiché non vanno ritenuti tali, non può invece essere riconosciuta una dignità di tipo propriamente morale, e quindi la loro assimilazione giuridica alla sfera delle res appropriabili va considerata eticamente legittima (Koorsgard 2018).
16Anche per Kant, ciò non significa che siano eticamente accettabili tutte quelle forme di maltrattamento degli animali non umani che vanno considerati abusi e crudeltà, perchè contravvengono ai più fondamentali principi etici di umanità e di rispetto di ogni essere: questi comportamenti vanno evidentemente sanzionati e repressi, anche se non in seguito al riconoscimento agli animali non umani dello status di soggetto di diritto ma perchè moralmente inumani (Guazzaloca 2021, 19).
17Come mostrato da Thomas (1996), la posizione di Kant si inserisce in una temperie storica caratterizzata da una mutata sensibilità verso il trattamento degli animali, che tuttavia si afferma parallelamente alla crescente separazione, anche spaziale, tra animali di compagnia (pets), considerati parte dell’unità domestica, e animali impiegati per finalità di produzione economica, il cui allevamento e riproduzione saranno gradualmente “adeguati” ai principi dell’industria fordista, fino a farne delle “macchine animali” (Dalla Bernardina 1996; Digard 2009, Harrison 2013; Patterson 2003; Stépanoff 2021).
18Non sorprende dunque che una posizione come quella di Bentham, per cui gli animali non umani, in quanto esseri senzienti capaci di provare piacere e dolore, hanno gli stessi diritti a non patire sofferenze ingiustificate, abbia ricevuto piena accoglienza nei dibattiti etici solo nel 1975, con la pubblicazione di “Liberazione animale”, il libro di Singer (2015) che, assieme ai testi di Regan (ad es. 2003, 2009), ha costituito la base per lo sviluppo successivo dei dibattiti sulla legittimazione teorica dei movimenti contemporanei di animal advocacy.
19Last but not least, la concezione dei rapporti tra umanità e animalità prevalente in Occidente tra Settecento e Novecento, mentre sosteneva l’unità del genere umano e la sua distinzione gerarchica dal resto del mondo animale, manteneva l’idea premoderna secondo cui gli individui, le categorie e i gruppi umani possono essere differenziati in base al grado di sviluppo delle istituzioni sociali e culturali e della misura in cui, nei comportamenti, l’elemento razionale è andato soppiantando gli istinti e tutte quelle credenze e rappresentazioni che appaiono contrarie alla “realtà”, una volta che questa sia stata indagata sperimentalmente e interpretata alla luce della ragione.
20Come hanno evidenziato Horkheimer e Adorno (2010), l’Illuminismo, inteso come auto-interpretazione che l’umanità costruisce della propria storia e della propria natura umana, – e dunque non come semplice termine impiegato per designare il particolare movimento di pensiero del secolo XVIII – può infatti essere concepito come una “filosofia spontanea” della storia della condizione umana, in cui essa è vista come un percorso di conquista di autonomia e libertà dalla necessità e dall’imprevedibilità della natura. Questa conquista è strettamente correlata non solo all’instaurazione di un progetto di dominio sulla natura “esterna” (attraverso la sua progressiva trasformazione, appropriazione e presa di possesso), ma sulla stessa “natura umana”: solo il controllo, la repressione e il dominio degli istinti permettono agli esseri umani di affermarsi come soggetti e come individui autonomi e liberi. Per molti esponenti delle correnti universaliste del movimento illuminista – inclusi i fondatori dell’antropologia evoluzionista ottocentesca che possono annoverati tra i loro eredi – la Ragione e la Scienza sono viste come mezzi e, al contempo, valori che si situano alla base di questo movimento storico in cui si considera impegnato, dalla sua apparizione originaria sulla Terra, tutto il Genere umano e in cui, di fatto, emancipazione e dominazione, soggettivazione e soggezione, affermazione di sé e reificazione dell’altro da sé, si intrecciano in modo costitutivo.
21La maggioranza dei pensatori e delle élites politiche ed economiche dell’Occidente moderno tendevano comunque a concepire questa dialettica in modo non problematico. Sebbene venisse sostenuta l’idea dell’unità del genere umano e della sua coincidenza con i membri della specie umana, veniva altresì dato per assodato non solo che l’umanità, in senso proprio, si definisse come auto-trascendimento della “natura”, ma che esistesse una vera e propria scala evolutiva nella quale le diverse categorie di umani occupavano posizioni ordinate gerarchicamente in base al grado di sviluppo culturale raggiunto (Ingold 1988).
22Questa concezione permetteva alla gran maggioranza degli intellettuali europei dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, pur così attenti alla libertà dell’Uomo (il cui prototipo, come è stato più volte ricostruito, era il maschio europeo di classe medio-alta) di non considerare in termini radicalmente problematici la dominazione coloniale, lo sfruttamento del lavoro salariato, la subordinazione delle donne, portandoli,in molti casi a nutrire un atteggiamento indulgente verso la discriminazione razzista (che poteva giungere al supporto della tesi, da parte di molti antropologi ottocenteschi, secondo cui le popolazioni dell’Africa subsahariana rappresentavano, l’anello evolutivo intermedio tra primati superiori e Homo Sapiens) e la diffidenza verso i devianti.
23Queste forme di dominazione potevano essere giustificate dall’imperativo di sviluppare una civiltà “realmente” umana” ed essere dunque concepite come una forma di tutela protettiva e guida esercitata dai dominanti sui dominati, per “aiutarli” a superare l’incompiutezza della loro umanità. Questa ideologia appariva d’altronde compatibile con l’interpretazione della storia umana in termini di “darwinismo sociale”, secondo la concezione, cioè, che i rapporti di dominazione sono espressione di un processo evolutivo basato sulla “sopravvivenza del più forte”.
24La tesi secondo cui tutti i membri del genere umano sono uguali, ma alcuni sono “più umani degli altri”, in quanto hanno raggiunto un grado di civiltà più avanzato, dal momento che nei loro modi di vita la razionalità appare più libera dalle pastoie degli istinti e dei vincoli ambientali, era dunque intimamente connessa all’idea secondo cui le donne, i bambini, i disadattati psichici, i popoli selvaggi e le stesse “masse” urbane mantenevano una maggiore prossimità alla natura, ed erano dunque espressione di un’umanità inferiore.
25Da questo punto di vista, si può scorgere una forte connessione tra l’argomento secondo cui tutti gli animali non umani sono privi di ogni soggettività e individualità psicologica, e quello secondo cui queste proprietà, come anche la facoltà di autocoscienza riflessiva e di giudizio etico sono meno sviluppate e suscettibili di regressione in certe categorie di esseri umani: così come gli animali non umani vanno studiati e classificati in quanto organismi, popolazioni, specie (o, più recentemente, come contenitori per la replicazione di geni), per certe categorie o gruppi umani la spiegazione dei loro comportamenti va ridotta o a quella di puri organismi biologici o all’influenza determinante di fattori, come la cultura o la società, concepiti come fenomeni di carattere sovra-individuale (Ingold 2000).
26Inoltre, è difficile non vedere nelle teorie secondo cui le classi subalterne sono particolarmente inclini a trasformarsi in “masse” irrazionali e eterodirette, l’espressione di una loro parziale assimilazione alle popolazioni di animali non umani rette dagli istinti e, in particolare, alle greggi e ai branchi di animali i cui comportamenti, coordinati all’unisono, sono il frutto dell’adeguamento passivo ai comandi del padrone (Canetti 2015).
27La caratteristica più significativa di queste idee non risiede tanto nella tesi che gli esseri umani restano pur sempre radicati, più che nell’animalità, nella bestialità (che di questa è considerata la componente più lontana dall’umanità), quanto nel porre una differenziazione, basata su criteri razziali, etnici, di genere e di classe, tra gli esseri umani stessi rispetto alla capacità di opporre “difese immunitarie” (la ragione, l’educazione, la civiltà) a questi rischi di regressione.
2. Il nesso tra domesticazione, dominazione sugli animali e sviluppo della civiltà nell’antropologia ottocentesca
28Le teorie dello sviluppo culturale proposte dagli antropologi dell’Ottocento identificano il suo avvio nell’inizio della “domesticazione” delle risorse ai fini della soddisfazione dei bisogni primari di sussistenza. I processi di domesticazione sono infatti considerati dal punto di vista dell’acquisizione di una qualche forma di controllo sull’appropriazione di tali risorse (Ingold 2000).
29Lo sviluppo di un controllo sugli altri animali, conseguente alla scoperta o all’invenzione di strumenti sempre più efficaci di difesa dai potenziali predatori, e l’addomesticamento sia di specie in precedenza cacciate sia di quelle da impiegare come mezzo di trasporto o ausilio nelle battute di caccia, sono stati considerati dai “padri fondatori” dell’antropologia, come Tylor e Morgan, il primo passo verso una crescente padronanza (mastery) dell’uomo sulla natura, che gli ha consentito di distaccarsi progressivamente da essa e di consolidare le principali istituzioni che caratterizzano la “cultura o civiltà”.
30Per Tylor, la coevoluzione tra emersione del linguaggio simbolico, stazionamento bipede, differenziazione evolutiva e funzionale tra mani e piedi e accresciute capacità di manipolazione, avrebbe determinato nella specie umana un potenziamento di capacità assenti o scarsamente presenti nel resto delle specie animali, consentendogli di acquisire un crescente potere di intervento sulla natura e una «immensa preminenza su di loro [gli animali non umani]» (Tylor 1870, p. 14, cit. in Mocerino 2016).
31Sebbene fosse convinto che tutte le specie animali fossero dotate di “germi di pensiero” (1981, 1), e che in alcune di esse le facoltà mentali includessero quelle di valutazione delle possibilità di azione ai fini della sua pianificazione, anche Morgan riteneva quelle degli esseri umani, e in particolare di quelli “civilizzati”, più sviluppate delle loro (Ingold 1988, 86-87). Tale sviluppo era il frutto di una “coltivazione”, e nel renderla possibile il progresso delle tecnologie di sussistenza aveva inizialmente giocato un ruolo fondamentale (Morgan 1981: 27). Per Morgan, uno dei suoi primi risultati era stato costituito dall’avvio della capacità di produrre i mezzi e gli strumenti per la propria sussistenza materiale e, successivamente, dalla domesticazione e dall’acquisizione di un dominio (command) sugli animali. Ciò, infatti, aveva permesso agli uomini di acquisire un controllo crescente sulla natura, in particolar modo fornendo sicurezza nell’ottenimento della sussistenza materiale e nella difesa contro i predatori. Consentendo agli esseri umani di emergere dalla loro «abietta condizione» primordiale, nella quale erano dominati dai più «bassi appetiti e passioni animali» e vivevano come «animali selvaggi», questa risoluzione dei bisogni fondamentali di sussistenza aveva aperto alla strada all’evoluzione delle principali istituzioni della civiltà (Morgan 1981, 14-34).
3. Gli animali non umani come risorse materiali e/o simboliche
32L’antropologia ottocentesca si è a lungo occupata della questione di rintracciare principi di razionalità in tutte quelle credenze e rituali dei popoli da essa considerati “primitivi” che implicano la concezione di una qualche consustanzialità comune di carattere “genealogico” tra uomini e altri animali (totemismo) o di una loro similitudine di facoltà cognitive (animismo).
33A Durkheim si deve una risposta che ha avuto una grandissima influenza nell’antropologia socioculturale novecentesca, in quanto ha permesso di sfruttare il potenziale esplicativo della tesi dell’universalità delle distinzioni della società e della cultura dalla natura. Per Durkheim, non solo l’attività mentale è attività simbolizzante, ma ciò che viene simbolizzato è in primo luogo la forza morale che ha sull’individuo il suo universo sociale di appartenenza. Peraltro, nella fissazione dei simboli è attiva una forte componente emozionale e non razionale, messa in moto e consolidata periodicamente dalla partecipazione dell’individuo ai rituali collettivi. In sintesi, credenze e comportamenti apparentemente irrazionali dal punto di vista di un estraneo a quella società risultano invece razionali perché espressione simbolica di particolari relazioni, interdipendenze e identificazioni sociali proprie di una determinata collettività umana.
34Questa spiegazione ha permesso a gran parte dell’antropologia novecentesca di salvaguardare sia l’idea che le distinzioni tra società (o la cultura, concetto che nell’antropologia statunitense gioca nell’economia della spiegazione teorica di credenze, istituzioni e pratiche un ruolo analogo a quello che “società” ha negli studi britannici e francesi) e natura sono universali e omologhe a quelle tra umano e non umano, sia l’idea di una razionalità comune al “genere umano”. L’esercizio di questa razionalità non è necessariamente diretto a scopi pratici e strumentali, ma è piuttosto espressione dell’ordine e della coerenza che tengono assieme le parti differenti di una stessa società (o cultura) (Simonicca, Dei 1998).
35Questo paradigma teorico ha orientato in modo fondamentale l’approccio degli antropologi novecenteschi alle relazioni tra uomini e altri animali nella direzione di studi diretti a mostrare come essi siano assunti a “simboli” e “metafore” di relazioni sociali e valori culturali. In questa prospettiva, i particolari nessi tra logiche sociali e valori culturali offrono inoltre una spiegazione della varietà nei tabù e nelle preferenze alimentari che si riscontra tra le diverse popolazioni del mondo. L’argomento secondo cui il fatto che gli animali siano o meno “buoni da mangiare” dipende fortemente dal loro essere “buoni da pensare” ha peraltro trovato un contraltare negli indirizzi, fioriti nell’antropologia statunitense del Secondo Novecento, dell’ecologia e del materialismo culturale, che hanno insistito sulle cause di ordine ecologico e di soddisfacimento dei bisogni nutrizionali cui in ultima analisi andrebbero ricondotti le preferenze e i tabù alimentari vigenti in una determinata società in un dato momento storico (Harris 1985).
36In conclusione, gli approcci dell’antropologia novecentesca alle relazioni tra umani e altri animali hanno la tendenza a offrire analisi che insistono su spiegazioni di carattere sociologico, culturalista od alimentare delle pratiche e dei valori associati a tali relazioni. A questo ha generalmente corrisposto l’espunzione tanto degli aspetti politici e legati all’esercizio di potere e dominazione, quanto di quelli affettivi connessi non solo a tali relazioni, ma a quelle tra gli stessi umani.
37È stato retrospettivamente sostenuto (Kilani 2008; Burgat 2017) che il campo in cui queste tendenze sono state maggiormente operanti è probabilmente quello delle teorie e analisi delle diverse forme e significati che nelle differenti società assume il sacrificio animale. Esso, infatti, è stato generalmente considerato come un atto rituale fondamentale diretto a rinsaldare la coesione sociale ed espungere la violenza dall’ambito dei collettivi umani, in cui tuttavia le questioni della materialità della messa a morte dell’animale e della sua presunta inevitabilità per il soddisfacimento dei bisogni alimentari umani, vengono relegate sullo sfondo o, al più, ridotte a un’elaborazione simbolica dell’ansia – e a volte del rimorso – causato da questi atti.
4. Ripensare i rapporti tra ecologia, evoluzione e divenire vitale: Ingold
38Nel 1986 si svolse a Southampton il World Archeological Congress. Nel congresso, cui presero parte antropologi, filosofi, biologi e linguistici, uno dei temi principali proposti fu “Cultural Attitudes to Animals, including Birds, Fish and Invertebrates”. Il tema fu articolato in quattro sessioni: “What is an animal”, “The Appropriation, Domination and Exploitation of Animals”, “Semantics of Animal Symbolism”, e “Learning from Art about the Cultural Relationships between Humans and Animals” (Ingold 1988; Clutton-Brock 1989; Willis 1990; Morphy 1990). Affrontare la questione formulata nel titolo della prima sessione fu considerato un passo preliminare per la discussione del tema generale. Infatti, come spiegava Ingold nella sua introduzione a What is an Animal:
Come possiamo raggiungere una comprensione comparativa delle attitudini culturali umane verso gli animali se la stessa concezione di cosa potrebbe essere un animale e, per implicazione, di cosa significa essere umano, è essa stessa culturalmente relativa? (Ingold 1988, 1).
39Secondo Ingold l’antropologia novecentesca ha oscillato tra «due approcci piuttosto differenti alla definizione dell’animalità: come un dominio o “regno” che include gli umani; e come uno stato o una condizione, opposta all’umanità» (ivi, 4). Per il primo approccio, privilegiato dall’antropologia fisica, «il processo del “divenire umano” […], sebbene comporti una sequenza unica di innovazioni morfologiche e di comportamento, non è un movimento che porta fuori dall’animalità, ma un’estensione delle sue frontiere» (ivi,5). Per il secondo, invece, dominante nell’antropologia socioculturale
il concetto di animalità è stato impiegato per caratterizzare un modo di essere (state of being) altrimenti noto come “naturale”, in cui le azioni sono innescate da moti innati emozionali non disciplinati dalla ragione o da un senso di responsabilità. In tal modo, questo concetto è stato esteso per descrivere la condizione degli esseri umani immaginata ‘allo stato grezzo’, ossia non ancora toccata dai valori e dai mores della cultura o civilizzazione. “Diventare umano” equivale dunque al processo di inculturazione al quale tutti i bambini della nostra specie sono sottoposti nel loro passaggio verso la maturità e che – secondo l’antropologia dei primordi – l’intera specie è destinata ad intraprendere nel suo ineguale passaggio verso la civilizzazione (ibid.).
40A partire da questo scritto, portando avanti una riflessione che continua anche oggi, Ingold è pervenuto a una visione teorica che oltrepassa la questione dei rapporti tra umanità e animalità, in quanto diretta a proporre una concezione dei processi vitali che trascende le distinzioni ortodosse tra biologia evolutiva, ecologia e vita sociale.
41Secondo Ingold, infatti, per comprendere i fenomeni vitali in quanto manifestazione di relazionalità dinamica, movimento e animazione, occorre superare sia la particolare visione della vita, dei processi evolutivi e dei rapporti tra organismi e ambiente elaborata dai neodarwinisti, sia la nozione antropologica di cultura come complesso di istruzioni che orientano il comportamento e i cui contenuti sono trasmessi, con poche modifiche e adattamenti, da una generazione all’altra. Entrambe tali concezioni avrebbero finito per assegnare un ruolo unidirezionale ai “codici” – quelli di una determinata cultura nel caso degli umani, quelli genetici nel caso di tutte le forme viventi – rispetto all’orientamento dei comportamenti e del tessuto di relazioni socioecologiche presenti in un determinato habitat, in esse considerato qualcosa che si limita a condizionare dall’esterno i processi vitali, e non invece, come sarebbe più appropriato, di intrinseco alla loro manifestazione e un risultato della loro storia passata.
42Solo sbarazzandosi di una simile concezione “istruzionista” dei rapporti tra “patrimonio” culturale” (nel caso degli umani) e/o “genetico” (nel caso di tutte le forme di vita) e ambiente, e sottolineando invece la loro coevoluzione dinamica, si potrà tornare a cogliere il carattere fondamentalmente ecologico, “aperto” e in continuo dispiegamento, dei processi della vita sociale, in cui quella degli umani è interconnessa non solo con quella degli altri animali, ma con quella di ogni altra componente dell’habitat.
43Per questo, il concetto di personhood e i suoi nessi con la nozione di organismo vanno radicalmente ripensati. La personhood andrebbe infatti intesa come qualcosa che emerge, in modo intermittente, nei processi e nei movimenti legati al divenire vitale, i quali a loro volta hanno come caratteristica l’esperirsi come un sé attivamente implicato in un campo di relazioni. L’autocoscienza riflessiva e il senso morale possono dunque anche non essere rilevanti nello “svolgimento” di queste relazioni e nel gioco tra disposizioni e “affordances” che informa una determinata “poetica della vita” e, in ogni caso, non vanno considerati un suo punto di partenza (Ingold 2000, 2001, 2011, 2019).
44Un tema ricorrente dell’opera di Ingold è la perdita, nel mondo moderno, di un senso fenomenologico del proprio stare nel mondo e del partecipare ai suoi processi vitali.
45Sebbene in questa tesi si possano rintracciare echi della critica della Scuola di Francoforte, Ingold ha invece tracciato questo contrasto tra le disposizioni “moderne” che caratterizzano l’approccio tra umano e mondo e quelle non moderne riprendendo alcune categorie della filosofia heideggeriana e, in particolare, l’opposizione concettuale tra “costruire” e “dimorare”.
46La “poetica del dimorare” va intesa come una modalità di sentirsi nel mondo caratterizzata da un senso di coinvolgimento e di interdipendenza dinamica tra tutti i viventi. Essa sarebbe particolarmente presente tra le popolazioni umane in cui la caccia e raccolta mantengono un’importanza primaria per la sussistenza. Considerare i loro modi di vivere nei termini di “cultura primitiva” e, correlativamente, di una maggiore vicinanza alla “natura è, secondo Ingold, profondamente fuorviante.
47Con il concetto di “prospettiva del dimorare”, Ingold ha in definitiva voluto evidenziare che la produzione della vita sociale, dei luoghi e degli habitat è qualcosa che nasce non solo dall’attività umana ma da relazioni a cui gli umani e i non umani prendono parte assieme. Da questo punto di vista, ciò che risulta rilevante per le politiche contemporanee di protezione ambientale, e che va salvaguardato, non è la “natura”, ma le relazioni storiche di co-engagement tra gli esseri umani e i diversi “costituenti” di un habitat.
48Parallelamente a quanto è avvenuto, come si vedrà, sia nell’etnografia multispecie, sia in molti influenti approcci, come quelli di Derrida (2006), Agamben (2002), Deleuze e Guattari (2017), della filosofia continentale e dei “Critical Animal Studies” (ad es. Calarco 2012; McCance 2013), anche per Ingold una nuova impostazione delle relazioni fra umani e altri animali passa per la decostruzione della dicotomia tra umanità e animalità, in quanto la sua configurazione non può essere disgiunta dagli esiti di violenza e dominazione che hanno caratterizzato la storia delle relazioni tra umani e non-umani, toccando il loro culmine negli ultimi due secoli, con l’occidentalizzazione del mondo.
49Da questo punto di vista, si può dire che la riflessione dell’antropologo britannico, partita dalle questioni di “che cos’è un animale?” e “che cosa significa essere umano”, sia approdata a una visione ecologica dei processi vitali, dove ciò a cui è più importante prestare attenzione è il fatto che essi implichino divenire, cambiamento, relazionalità, e dunque una costante “animazione”, di tutto ciò che esiste. Una visione, dunque, non lontana, da quella associata dagli antropologi ottocenteschi al concetto di “animismo”, e che può essere utile a ripensare in modo meno etnocentrico il senso delle concezioni associate a tale concetto (Rivera Andía 2018; Swancutt 2019).
5. La svolta ontologica
50Si associa il cosiddetto ontological turn all’idea che per una migliore comprensione dei modi in cui si articolano le relazioni sociali, tanto tra umani quanto tra umani e non-umani, e per studiare gli schemi e le istituzioni da cui esse sono mediate, non si possa più assumere l’universalità delle distinzioni tra natura e cultura e tra individuo e società. L’analisi di tali mediazioni non può dunque più essere condotta riconducendole semplicemente a determinati ordinamenti “culturali” o “sociali”, o all’agency riferibile a particolari individui, perché sono proprio queste nozioni a essere divenute teoricamente di impedimento allo sviluppo di una loro migliore comprensione (Brigati, Gamberi 2019; Dei, Quarta 2021; Mancuso 2018).
51I capiscuola della “svolta ontologica”, generalmente indicati in Descola, Latour e Viveiros de Castro, hanno in questo senso sostenuto che per l’analisi dei diversi fattori che mediano le pratiche umane di relazione sia con gli altri animali che con gli altri non umani, sia indispensabile mettere a fuoco i loro presupposti ontologici e metafisici. Questi studiosi hanno in questo senso sottolineato che il modo di tracciare distinzioni ontologiche prevalente nell’Occidente moderno non sia il solo possibile, né sia più “oggettivo” di quelli, per molti aspetti differenti, prevalenti in altre epoche e/o in altri universi socioculturali. Sia Descola (2021) che Viveiros de Castro (2019) hanno infine elaborato delle teorie dei “regimi ontologici”, intesi come modi di tracciare somiglianze e differenze tra umani e non-umani.
52L’esperienza di ricerca etnografica condotta presso gli indigeni Achuar dell’Amazzonia ha giocato un ruolo fondamentale nell'indirizzare la riflessione teorica di Descola sul tema delle “ontologie indigene”. Ne La nature domestique (1986), in cui egli espone i risultati di tale ricerca, egli identifica dei paralleli che presso questo gruppo intercorrono tra la strutturazione del campo della socialità intraumana e i modi di rapportarsi con le diverse componenti del mondo non umano. In effetti, concludeva Descola, sarebbe più corretto interpretare tali paralleli come espressione dell’assenza di una barriera ontologica tra queste due sfere di socialità.
53Andando al di là della contrapposizione tra una lettura “materialista” dei modi di rapportarsi con il mondo non umano, tipica dell’ecologia culturale (Steward 1977; Harris 1985), e una lettura strutturalista, in cui l’analisi si concentra su come tali modi sono mediati dalle categorie del “pensiero simbolico”, ma solo in quanto queste strutturano la loro rappresentazione al livello della mitologia e dei rituali, Descola proponeva in questo libro un approccio di “ecologia simbolica delle pratiche”.
54Negli anni successivi, dopo essere pervenuto alla conclusione per cui, al contrario di quanto aveva sostenuto Lévi-Strauss, la dicotomia tra natura e cultura non è un tratto universale che fa da premessa ai particolari modi di funzionamento del pensiero simbolico, Descola ha elaborato una teoria degli “schemi della pratica”, di cui fornisce un’esposizione programmatica in Oltre natura e cultura (Descola 2021) pubblicato originariamente nel 2005.
55Uno degli scopi dichiarati di tale teoria è stato quello di elaborare strumenti concettuali a partire dai quali procedere all’inventario e alla comparazione dei “regimi ontologici”. Si può inoltre affermare che, nel delineare i tratti di un particolare regime ontologico, Descola abbia voluto porre in risalto la loro valenza contrastiva rispetto a quelli riscontrabili negli altri regimi. In altri termini, la sua caratterizzazione dei differenti regimi ontologici sembra diretta più a evidenziarne gli “scarti differenziali”, che a una loro definizione rigorosa in termini di determinati blocchi di proprietà intrinseche invariabilmente presenti in un dato regime.
56Secondo Descola, le somiglianze e differenze nei modi in cui gli esseri umani considerano e si rapportano con gli esseri non umani possono essere schematicamente definite rispetto a due dimensioni la cui distinzione, di carattere “antepredicativo”, sarebbe (a differenza di quella tra cultura e natura) di diffusione universale: l’interiorità – un principio al quale vanno riferiti gli equivalenti locali di termini come “mente”, “anima”, “coscienza”, ecc. – e la “fisicità” – principio al quale va riferita, sempre nelle loro differenti nozioni locali, la sfera del corporeo e delle particolari affezioni e disposizioni che sarebbero legate a un particolare tipo di forma e di apparenza corporee.
57Umani e non-umani possono essere considerati simili o differenti rispetto a entrambe, a solo una o a nessuna di queste due dimensioni. Da questo punto di vista, il modo di tracciare distinzioni e somiglianze tra umani e non-umani nelle concezioni “animiste” può essere visto come l’inverso di quello delle concezioni “naturaliste” dominanti nell’Occidente moderno: nelle prime umani e non-umani sono considerati simili per “interiorità”, ma dissimili per “fisicità”, cioè rispetto alla forma corporea e alle affezioni che vi sono associate; nelle seconde, invece, essi sono considerati simili rispetto a quest’ultima (la corporeità di entrambi deriva dalla comune appartenenza a una stessa “natura”), e dissimili per interiorità (nella specie umana il pensiero simbolico permette forme di vita mentale distinte da quelle di tutti gli altri animali, e ciò rende gli esseri umani gli unici animali “razionali”, “morali” e “culturali”).
58Nel proporre la sua tipologia combinatoria, Descola recupera e reinterpreta un’altra nozione centrale dell’antropologia otto-novecentesca: quella di “totemismo” (si veda Rosa 2003). Questo può infatti essere definito come un regime ontologico in cui tanto umani quanto non umani sono ripartiti in un certo numero di classi, ognuna delle quali è composta da sottogruppi sia degli uni che degli altri, ed è contraddistinta dal possesso di proprietà sia di interiorità che di fisicità la cui condivisione nasce dalla condivisione degli stessi “prototipi ancestrali”. Per Descola, il totemismo, definito in questo modo, è un regime ontologico che trova la sua espressione compiuta nella cosmologia degli aborigeni australiani.
59Infine, l’antropologo francese propone di chiamare “analogismo” la quarta possibilità combinatoria delle somiglianze e differenze di interiorità e fisicità fra umani e non umani; in questo regime ontologico tanto gli umani quanto i non umani formano, nel loro insieme, un complesso in cui ogni individuo è separato e al contempo collegato con gli altri da numerosi assi di distinzione e similarità: questa concezione informerebbe, tra l’altro, le cosmologie della Cina classica, dell’Europa rinascimentale, degli aztechi e degli inca e di un buon numero di popolazioni africane.
60Secondo Descola, nell’orientare gli ethos che informano in modo omologo le pratiche di relazione tra esseri umani e tra questi e i non-umani, i regimi ontologici si presenterebbero sempre associati, secondo principi di compatibilità e incompatibilità che reggono le possibilità di combinazione, con un numero limitato di schemi di relazione; ciò determina inoltre i modi di inclusione ed esclusione di umani e non-umani all’interno della sfera dei rapporti sociopolitici, in quanto questi modi derivano dall’appartenenza a uno stesso “collettivo” e dal carattere simmetrico o asimmetrico dei rapporti tra collettivi differenti.
61È importante sottolineare che per l’antropologo francese la dominanza di un determinato modo di identificazione, ossia di una particolare concezione ontologica dei rapporti tra umano e non umano, condiziona ma non determina il tipo prevalente di disposizioni etiche che informa le pratiche concrete di relazione all’interno di una società. Descola approfondisce in questo senso le possibilità di combinazione tra quello che a suo parere è il regime ontologico dominante in tutte le società indigene dell’Amazzonia, cioè l’animismo, e i tre “modi di relazione” con esso compatibili – la predazione, lo scambio e il dono – mostrando la loro realizzazione concreta mediante la discussione di alcuni esempi etnografici. Questi modi di relazione sarebbero associabili a un regime “animista” in virtù del loro carattere “simmetrico”. I modi di relazione possono essere infatti raggruppati in due sottoinsiemi:
il primo raggruppa delle relazioni potenzialmente reversibili tra elementi sostituibili in quanto situati su uno stesso piano ontologico (scambio, predazione e dono), il secondo comprende delle relazioni orientate e irreversibili tra elementi non sostituibili poiché intrinsecamente gerarchizzati l’uno rispetto all’altro (produzione, protezione e trasmissione) (Descola 2021, 378).
62In Oltre natura e cultura, è soprattutto con riferimento all’ambito delle relazioni tra umani e altri animali che Descola “mette alla prova” le potenzialità della sua teoria. In questo senso, gli è stato contestato che in quest'opera manca un'analisi approfondita dei diversi possibili modi di rapportarsi con le “divinità”; il loro esame sarebbe invece stato opportuno in quanto esse risultano sistemicamente influenzare quelle dei rapporti tra umanità e animalità. (Lloyd 2012).
63Inoltre, a Descola è stato rimproverato (Kohler 2016) di reintrodurre surrettiziamente un relativismo morale nell’affrontare la questione dei dilemmi etici che sarebbero associati a quello che Lévi-Strauss (2015) ha chiamato il “problema filosofico” posto dall’uccisione e dal consumo degli animali non umani, cioè di esseri viventi che andrebbero considerati particolarmente prossimi a noi per le loro capacità di “sentience” e, dunque di provare dolore e sofferenza (Aaltola 2012).
64Descola, infatti, contesta tutte quelle interpretazioni (ad es. Hugh-Jones 1996; Dalla Bernardina 2020) dei rituali associati all’uccisione e al consumo di un animale – siano quelli di “purificazione” del cacciatore o della carne prima di cibarsene, o quelli, comuni presso le popolazioni di cacciatori-raccoglitori, riguardanti il trattamento “rispettoso” dei resti della preda o, più in generale, quelli connessi ai sacrifici – che li considerano operazioni dirette a “elaborare” un “senso di colpa” e un “rimorso” che nascerebbero dal compimento di questi atti violenti. Non senza buoni argomenti, egli nota come sia inappropriato assumere l’universalità di questi presunti meccanismi psicologici senza prima prendere in considerazione i particolari quadri cosmologici entro cui l’uccisione e il consumo degli animali prendono senso. In questo senso, pur non negando che tali atti siano universalmente vissuti in modo problematico e diventino spesso fonte di ansia, Descola argomenta che nei regimi animisti essi non costituiscono un dilemma etico. Infatti, laddove, come tra gli Achuar, l’animismo si combina con un ethos incentrato sulla predazione, l’ansia è connessa al timore della vendetta da parte dei Signori della selvaggina, ma non al provare rimorso. Anche laddove, invece, i modi di relazione dominanti sono lo scambio e il dono, l’uccisione dell’animale non porrebbe un dilemma etico, in quanto si crede che la sua morte sia un semplice passaggio verso la rinascita di altri individui a lui simili (Descola 1998).
65Per motivi diversi, i sentimenti di colpa generati dall’uccisione e della violenza inflitta sugli animali si presenterebbero in forma attenuata anche in un regime ontologico naturalista, nel quale gli animali non umani sono considerati privi di interiorità; perfino quando si riconosce loro “sentience”, quest’ultima proprietà verrebbe associata non a questa dimensione, distintiva degli umani, ma alla fisicità (Descola 2021).
66A questo tipo di relativismo etico è stata mossa – a mio parere giustamente – l’accusa di trascurare il fatto che oggi viviamo in un mondo in cui non solo predominano le interconnessioni globali ma in cui anche, e soprattutto, le questioni etiche vanno poste in una prospettiva interspecifica, in cui, cioè, si rende necessario considerare gli effetti e le conseguenze della violenza, dell’uccisione e della dominazione degli altri animali dal punto di vista di ciò che esse implicano per la loro vita e per il loro benessere. Inoltre Descola, come d’altronde Ingold, non distingue le credenze che si riferiscono al rinnovamento delle specie e degli ecosistemi da quelle che riguardano in primo luogo gli individui (Knight 2012; Kohler 2016).
67A ciò va aggiunta l’elusività con cui Descola tratta dei rapporti di dominazione e di sfruttamento, tanto tra umani quanto tra questi e i non umani. Egli giustifica tale omissione con un argomento poco convincente:
Quanto al dominio e allo sfruttamento, di cui potremmo contestare l’assenza visto il ruolo che hanno avuto nella storia, essi si nascondono nelle altre relazioni sotto forma di una delle loro componenti: il primo è inerente alla protezione e alla trasmissione, il secondo si manifesta nei rapporti di forza stabiliti in occasione del controllo delle condizioni di produzione o di scambio. Inoltre, a differenza delle relazioni che abbiamo considerato, è raro che lo sfruttamento e il dominio si presentino per quello che sono a coloro che vi sono implicati; più frequentemente, essi assumono l’aspetto di una relazione di scambio di servizi dietro cui la loro diseguaglianza di fondo si trova parzialmente mascherata (Descola 2021, 378).
68Infatti, che dominio e sfruttamento siano dissimulati non significa affatto che non siano reali, considerazione che porta a ritenere che, al contrario di quanto affermato dalla sua teoria, gli “schemi della pratica” appartengano al campo delle rappresentazioni, se non a quello delle ideologie.
69Al novero degli approcci ontologici è generalmente ascritta anche la teoria del “prospettivismo” di Viveiros de Castro (2016, 2019), che ha dato luogo a diverse proposte di sviluppo e revisione (ad es. Fausto 2007; Willerslev 2007; Kohn 2021). Tale teoria mette l’accento sulla centralità attribuita in molte “metafisiche” indigene al corpo come sede di prospettive (non semplici rappresentazioni) differenti del mondo. Ciò sarebbe correlato alla concezione, particolarmente presente tra le popolazioni indigene dell’Amazzonia, secondo cui la predazione (piuttosto che la reciprocità) è la disposizione fondamentale che attiva e mette in relazione dinamica prospettive differenti. In queste concezioni, inoltre, la caccia, la guerra e lo sciamanesimo sono viste come altrettante attività mediante le quali si opera il passaggio, la “conversione”, la mediazione e l’appropriazione di una prospettiva diversa da quella di partenza.
70Il legame che vi è nell’opera di Deleuze e Guattari (2017) tra i concetti del “divenire animale” e dell’etica come etologia, la possibilità di “pensare altrimenti”, e la critica dei modi prevalenti con cui il pensiero moderno ha tracciato distinzioni ontologiche ed epistemologiche, è esplicitamente rielaborato da Viveiros de Castro. Secondo l’antropologo brasiliano, nelle concezioni “prospettiviste” diffuse in molte società di cacciatori-raccoglitori e di orticoltori, la distinzione tra umano e animale non corrisponderebbe a quella tra cultura (e società) e natura. In queste concezioni, documentabili in particolare tra le popolazioni indigene dell’Amazzonia e delle regioni artiche e subartiche, il principale elemento di differenziazione tra i diversi esseri non risiederebbe nel possesso o assenza di capacità mentali e di soggettività, ma nel tipo di corpo e nelle affezioni (nel senso di Spinoza e Deleuze) ad esso associate.
71In effetti, fa notare Viveiros de Castro, in molti linguaggi amerindiani non esiste una parola generale per “animale”, nonostante vi sia una terminologia assai articolata per designare ogni singola specie. Tuttavia, discostandosi in parte dalla lettura di Derrida (2006) del concetto di animale come puro animot senza referente ontologico concreto, per l’antropologo brasiliano nelle concezioni prospettiviste “umanità” e “animalità”, anche se non sono da intendere come condizioni referenziali “prefissate” e fondamentalmente dipendenti dall’appartenenza di specie, sono assimilate a condizioni mutevoli che dipendono dalla possibilità di occupare le posizioni “deittiche” di “soggetto” e di “oggetto” all’interno di una relazione con un altro sé.
72Si può notare che la stretta correlazione che Viveiros de Castro considera esistere tra questa visione “prospettivista” dei rapporti tra umanità e animalità e una “metafisica della predazione” risulta in una identificazione concettuale tra “animale” e “preda”, non del tutto dissimile da quella tra animale e ciò che può essere ucciso senza che ciò venga considerato un crimine, considerata da Derrida (2006) stare a fondamento della “logica sacrificale” dell’Occidente.
73Tuttavia, secondo Viveiros de Castro (2016, 2019), le concezioni “prospettiviste” delle relazioni tra “umanità” e “animalità”, vanno considerate antitetiche a quelle che hanno prevalso nell’Occidente moderno, e implicano un’idea delle potenzialità insite in queste relazioni fondata, anche sotto il profilo etico, su presupposti ontologici e metafisici completamente differenti da quelle a cui siamo abituati. Per questa ragione, la sua teoria del “prospettivismo amerindiano è dichiaratamente rivolta a innescare una rifondazione dell’antropologia come «decolonizzazione permanente» dell’ontologia e del pensiero “occidentali” (Viveiros de Castro 2016). Si può supporre che, per l’antropologo brasiliano, questa mossa sia preliminare a ogni possibilità di “immaginare diversamente” le relazioni tra esseri umani e altre specie; sta di fatto che, a mia conoscenza, egli non si è mai confrontato con le posizioni teoriche e politiche sulla “questione animale” di ispirazione filosofica liberaldemocratica.
6 L’etnografia multispecie
74Negli ultimi decenni, diverse ricerche di etologia, neurobiologia e sulla cognizione animale (ad es. Bekoff, Pierce 2010, de Waal 2017) hanno evidenziato che le abilità cognitive di molti animali non umani oltrepassano di gran lunga quelle riconosciute loro dal behaviorismo novecentesco. Che molti, se non tutti, gli animali non umani siano non solo “esseri senzienti”, ma dotati di forme di agency (spesso configurate in modo particolare a seconda delle specie) e di senso di sé, e capaci di valutazioni e risposte niente affatto meccaniche ma al contrario flessibili di fronte alle sollecitazioni provenienti dall’ambiente che li circonda, porta a vedere in una luce diversa il modo in cui presso molte popolazioni non moderne, essi sono considerati partecipare attivamente alla costruzione della vita sociale e degli habitat che essi condividono con gli umani (Serpell 1996, Haraway 2003, 2008, 2020).
75Gli studi riconducibili all’etnografia multispecie hanno provato a incrociare, in una prospettiva interdisciplinare – ma in cui l’impiego di metodologie etnografiche è un aspetto fondamentale nella conduzione delle ricerche (ad es. Lestel et al. 2006; MacClancy, Fuentes 2010) – gli approcci dell’etologia con quelli della nuova antropologia dei rapporti tra umani e altri animali e dei recenti “Science and Tecnology Studies”.
76L’etnografia multispecie (ad es. Kirksey, Helmreich 2010; Ogden et al. 2013; Locke 2018) si concentra in questo senso sulla «moltitudine di agenti viventi che si sostengono uno con l’altro mediante relazioni di entanglement» (Van Dooren et al. 2016, 4), sulle «ecologie dei sé» (Kohn 2021) che coinvolgono assieme umani e viventi non umani, e in cui gli uni e gli altri attuano in quanto «partecipanti attivi» (White, Candea 2018, 3; per il panorama italiano cfr. Rivera 2016; Fabiano, Mangiameli 2019; Breda 2020; Zola 2021).
77Come argomentano gli antropologi che hanno adottato questo approccio teorico e metodologico, l’agency dei viventi non umani si esplicita nell’articolazione di reti e “assemblaggi” di relazioni socioecologiche e material-semiotiche, nella “simbio-poiesi”, nelle proprietà di “divenire” e “rinascita” (resurgence) intrinseche ai fenomeni vitali (ad es. Ogden et al. 2013; Locke 2018; Tsing 2021). Il concorso di tali forme differenti di agency mostra come i processi vitali non siano diretti, nemmeno negli animali non umani, alla mera “sopravvivenza”, ma implichino sempre determinati modi, come dice Haraway (2008, 2020), di “convivere con”. Per molti di questi studiosi, forme di agency possono essere riscontrate anche in altre forme di vita o di esistenza, come piante, funghi, virus, entità come fiumi, rocce, ghiacciai, montagne, fenomeni atmosferici, geo-luoghi, interi ecosistemi (ad es. Latour 2020; Povinelli 2016; Strang 2017, 2020). Analogamente a quanto sostenuto da Ingold, ciò che va dunque ripensato sono gli stessi concetti di vivente, materialità, agency e i loro rapporti (Van Dooren et al. 2016).
78Sono evidenti le analogie con la proposta, nel decennio 1980-1990, di nuove “poetiche e politiche dell’etnografia” e, in questo senso, di nuove forme di sperimentazione nella ricerca e nella scrittura etnografica (Clifford, Marcus 2016; Marcus, Fisher 1999). In questo senso, il carattere “sperimentale” degli studi apre nuove prospettive non solo di ricerca ma di sviluppo di una sensibilità etica “situata”, attenta al pluralismo dei punti di vista e della “responsività” attive in qualsiasi relazione “multispecie” (Haraway 2008; Van Dooren et. al. 2016), e non definita in base a principi assoluti e decontestualizzati. Al contempo, è stato osservato che essa può incorrere nel soggettivismo e nella sottovalutazione dei contesti strutturali di potere in cui si situano comunque sia la relazione tra l’etnografo e i suoi “interlocutori” sia l’impatto delle sue ricerche nella sfera pubblica (Manceron 2016; Kopnina 2017; Hamilton, Taylor 2017).
79Queste critiche mettono in rilievo alcune tendenze insite nel carattere dichiaratamente “sperimentale” e volutamente “etnografico” degli studi multispecie, in quanto proposta di nuove “poetiche e politiche” dei rapporti tra umani e non umani. Essa, infatti, è più interessata a proiettarsi “in avanti”, concentrandosi su contesti poco studiati e su tendenze “emergenti” prefigurano la costruzione di nuove forme di convivenza più “sostenibili” di quelle attuali, che a offrire una critica dei modi oggi dominanti, in quanto la loro negatività è considerata un fatto assodato.
80Come pensano le foreste di Kohn (2021), Il fungo alla fine del mondo di Tsing (2021) e Avian Reservoirs di Keck (2020) possono essere considerati lavori emblematici sia degli orientamenti che accomunano l’etnografia multispecie, sia dei modi particolari di declinarli a seconda dei particolari riferimenti di ordine teorico privilegiati dai singoli studiosi.
81In Come pensano le foreste, Kohn descrive la vita degli avila runa, una popolazione indigena dell’Amazzonia ecuadoregna, e in particolare il loro rapporto con la foresta e i suoi diversi abitanti non umani, nei termini di una “ecologia dei sé”, in cui la connessione attiva tra i vari viventi è costituita per mezzo di una trama complessa di comunicazioni e scambi semiotici che non coinvolgono solo il linguaggio simbolico (che è una proprietà esclusiva della specie umana), ma i segni iconici e indessicali.
82L’argomento che Kohn applica al suo contesto di studio è che dunque la vita e la semiosi sono coestensive. Si può dunque parlare di forme di pensiero e rappresentazione come processi semiotici i quali non sempre implicano l’uso di simboli. In questo senso si può affermare non solo che le foreste “pensano”, ma che il loro pensare è rilevante per la vita degli uomini come il pensiero di questi ultimi per la vita delle foreste. L’intento dichiarato di Kohn è dunque presentare il suo studio etnografico come esemplificazione delle coordinate teoriche da impiegare in un nuovo ambizioso programma di fondazione e sviluppo di un’“antropologia oltre l’umano”.
83Ne Il fungo alla fine del mondo, Tsing ricostruisce le “storie”, soprattutto negli ultimi due secoli, dei molteplici “assemblaggi” che hanno legato una particolare specie di fungo, il matsusake, oggi considerato una prelibatezza alimentare in tutto il mondo, non solo alle vicissitudini ecologiche delle specie di alberi, piante e animali con cui esso è associato, ma anche a quelle di un capitalismo cangiante anche rispetto alla capacità di connessione e disconnessione tra luoghi (il Giappone, gli Stati Uniti, la Cina, il Sudest asiatico) e di popolazioni diverse (che includono gli immigrati giapponesi e laotiani negli Stati Uniti). Attraverso l’intreccio tra queste storie, Tsing sostiene che un’analisi degli effetti del capitalismo e una riflessione sui contro-movimenti che esso stesso induce, deve affiancare l’attenzione per le immani devastazioni che esso produce con quella per le possibilità di “rinascita della vita” dalle stesse “rovine” che esso lascia dietro di sé.
84In Avian reservoirs. Virus Hunters and Birdwatchers in Chinese Sentinel Posts, Keck, ispirandosi alla teoria di Descola, esplora i modi di riplasmare le relazioni tra umani e non umani suscitati oggi dallo sviluppo di zoonosi e pandemie, in particolare nel caso dell’influenza aviaria, per come in particolare affrontata in Cina e nelle regioni limitrofe, come Hong Kong, Singapore e Taiwan.
85Keck dedica particolare attenzione alle pratiche di osservazione di ciò che accade in quegli spazi, gli “avian reservoirs”, in cui l’osservazione degli uccelli, cui prendono parte sia i birdwatchers che i microbiologi, risulta fondamentale non solo per prevedere lo sviluppo dell’influenza aviaria, ma soprattutto per “prepararsi” ad affrontarla adeguatamente. “Prevenzione” e “preparazione” (preparedness) costituiscono oggi due strategie di gestione e di limitazione degli impatti delle pandemie che coesistono, ma che al contempo sono diversamente dislocate, sia dal punto di vista degli attori che le mettono in atto, sia delle relazioni tra umani e non umani che mobilitano e degli spazi che esse interessano. La prevenzione passa infatti per la soppressione di un gran numero di animali già infetti o potenzialmente infettabili: tali operazioni sono principalmente organizzate da funzionari statali e, secondo Keck, sono assimilabili a uno schema sacrificale che presiede all’esercizio di un “potere pastorale”, per come teorizzato da Foucault. La preparedness si fonda invece sull’osservazione di indizi, implicando tecniche simili a quelle che i cacciatori impiegano per localizzare la preda. In questo caso, l’interesse è quello di mantenere in vita gli uccelli osservati, in quanto i cambiamenti nei loro comportamenti forniscono informazioni importanti sulla diffusione dei virus della pandemia. Come si è detto, questa strategia è quella privilegiata da attori sociali apparentemente diversi, gli appassionati di birdwatching e i microbiologi, tra cui si stabiliscono nuove connessioni sociali proprio in virtù della comune collaborazione in tali attività di “cacciatori di virus”.
86Anche nel caso del lavoro di Keck, è stato tuttavia notato che i modi in cui queste dinamiche investono gli animali non umani tendono a restare sullo sfondo; in particolare «è sorprendente la scarsa discussione esplicita della tacita gerarchia tra salute umana e salute non umana nelle economie capitaliste» e l’altrettanta limitata analisi «dell’economia politica delle produzioni animali in Asia e non solo» (Kehr 2020, 655).
7. Conclusioni provvisorie: le prospettive e i problemi di un dialogo con le teorie dell’animal advocacy e i “Critical Animal Studies”
87Nel corso di questo testo sono più volte emersi aspetti di tensione tra i nuovi approcci alle relazioni tra uomini e altri animali sviluppati negli ultimi trent’anni dagli antropologi, e quelli a cui fanno riferimento le teorie e i movimenti di animal advocacy, ivi inclusi i “Critical Animal Studies”, campo che presenta diversi punti di intersezione con le riflessioni, in Italia, sui fondamenti teorici e le strategie politiche dell’“antispecismo politico” (Filippi, Trasatti 2013; Maurizi 2021).
88Questi aspetti di tensione, che risultano nella limitatezza di esperienze di dialogo mutualmente costruttivo tra questi diversi approcci e tra i loro rispettivi esponenti, nascono a volte da malintesi, ma più spesso derivano da differenze effettive nell'impostazione delle questioni.
89Le intersezioni tra violenza e sofferenza inflitta agli animali e forme di dominazione e sfruttamento che in modi diversi riguardano tanto gli umani quanto gli altri animali, sono un tema centrale per i “Critical Animal Studies” e nei dibattiti su specismo e antispecismo (Caffo 2016; Losi, Bertuzzi 2020), mentre non occupano un posto di rilievo, o comunque restano poco visibili nei nuovi approcci antropologici.
90Ciò è sorprendente non solo per il fatto che questi ultimi approcci assumono in generale che gli animali non umani siano esseri non semplicemente “senzienti” ma capaci di agency, e parte integrante di un tessuto di rapporti sociopolitici che li collegano e al contempo li separano dagli umani.
91Infatti, come è stato sostenuto (Robbins 2013), gli studi e le riflessioni teoriche sulle intersezioni tra violenza, sofferenza, soggettività e dominazione sono oggi al centro dei filoni più vivi e innovativi dell’etnografia e dell’antropologia contemporanea, traversando e connettendo i campi dell’antropologia medica con quelli dell’antropologia politica e della memoria. Il lasciare sullo sfondo dei propri quadri teorici e descrittivi l’analisi di queste intersezioni che, come è stato sottolineato da studiosi di orientamento molto diverso (ad es. Derrida 2006; Kopnina 2017; Patterson 2003; Stépanoff 2021; Taylor 2013), negli ultimi due secoli sono state caratterizzate da un’inedita escalation sia quantitativa che qualitativa, non va però visto solo come “rimozione” di una realtà fonte di un disagio, a volte sublimato (Grusovnik et al. 2020), e manifestazione della persistenza di un’attitudine antropocentrica (ad es. Kopnina 2017).
92Va infatti notato come i nuovi indirizzi antropologici di studio delle relazioni tra uomini e altri animali hanno generalmente privilegiato una prospettiva “ecologica”, incentrata cioè sulle dinamiche attive a livello di relazioni ecosistemiche e rapporti tra differenti “specie” di viventi, subordinando ad essa la considerazione dei vissuti soggettivi individuali, soprattutto per quanto concerne le vite degli animali non umani.
93Sotto questo profilo, la tensione tra approcci antropologici e impostazioni teoriche vicine all’animal advocacy contemporanea ha ereditato per molti aspetti le difficoltà di composizione tra le prospettive “animaliste” e quelle che caratterizzano la maggioranza delle etiche ambientali “ecocentriche” (Callicott et al. 2012; Campbell 2018; Comstock 2017; Hargrove 1992; Varner 1998).
94La strada per superare questi aspetti d’incompatibilità passa probabilmente per la constatazione che oggi nessuna delle teorie etiche in circolazione, offre da sola strumenti sufficienti a dare una risposta all’enorme diversità di dilemmi morali e politici posti dall’altrettanto ampia diversità delle forme, dei contesti e delle situazioni che caratterizzano le relazioni tra umani e altri animali.
95Da questo punto di vista, Robbins (2013) ha argomentato come oggi sia opportuno affiancare e integrare la nuova attenzione per il “suffering slot” che permea l’antropologia contemporanea (anche se in misura più tenue, come si è visto, per quanto riguarda lo studio delle relazioni tra umani e non umani) con un programma teorico e metodologico diretto all’esplorazione etnografica e alla comparazione delle differenti concezioni etiche intorno a ciò che nelle diverse società viene considerato come “bene” (good), e valorizzato, tutelato e promosso in quanto tale.
96Significativamente, una simile indicazione viene anche da alcune recenti proposte di ripensamento della questione della “giustizia ecologica” (Schlosberg 2007) in cui si argomenta che, per tracciarne le linee e trasformarla in una prospettiva ampiamente condivisa e in grado di incidere efficacemente nella sfera pubblica e delle decisioni politiche, è controproducente riferirsi a una sola “teoria della giustizia”, ed è invece preferibile provare ad articolare la pluralità di visioni che esiste sia tra i differenti approcci accademici (teoria della giustizia distributiva, politica del riconoscimento, approccio delle capacità, approccio procedurale) che tra i movimenti sociali e ambientalisti.
97Queste riflessioni, avanzate parallelamente nell’antropologia contemporanea e nei dibattiti sulla giustizia ecologica, indicano, a mio avviso, non solo la necessità di un confronto tra le diverse etiche del “bene” e del “giusto” che sottendono tanto i diversi indirizzi antropologici quanto il campo dei “Critical animal studies” e delle teorie delle etiche animali, ma anche le modalità con cui un tale confronto andrebbe sviluppato.
Bibliographie
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Auteur
Antropologo socioculturale, è professore associato presso il Dipartimento “Culture e Società” dell’Università degli Studi di Palermo. Ha compiuto una lunga ricerca sul campo in Colombia presso la popolazione indigena wayùu. I suoi principali interessi di ricerca e pubblicazioni riguardano la storia, l’organizzazione sociale e la cosmologia di questa popolazione; le etiche e le pratiche sociali dei rapporti tra uomini e animali; l’antropologia ambientale. Il suo ultimo libro, uno studio critico sulla “svolta ontologica”, s’intitola Altre persone. Antropologia, visioni del mondo, ontologie indigene (Mimesis 2018). Attualmente sta scrivendo un volume sulle questioni epistemologiche ed etiche legate alla storia delle ricerche antropologiche sulla popolazione yanomami.
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