Le farfalle bruciano? Un prologo e due atti
p. 127-148
Texte intégral
Prologo. Peter Brook e la farfalla
1In US (1966), Peter Brook e il team della Royal Shakespeare Company si interrogano sull’atteggiamento dei britannici nei confronti della guerra del Vietnam. Nella scena finale, provocatoria e insieme poetica, emergono molte delle contraddizioni e delle ambiguità che caratterizzano l’atteggiamento di molti artisti contemporanei nei confronti degli animali.
A partire da un suggerimento emerso in un recente lavoro del gruppo su American Happenings, la performance in stile Zen di John Cage nella cui partitura compare il suono delle ali di una farfalla, Brook chiese a Robert Lloyd, una figura scarna in abito bianco e guanti neri, di attraversare la scena, affollata di attori immobili, portando con sé una piccola scatola nera. Dopo essersi fermato dietro la figura pietrificata di Marc Jones, Lloyd aprì la scatola, vi infilò la mano e liberò una farfalla, che iniziò il suo volo per salire verso il soffitto dell’Aldwych Theatre, attratta dal calore dei riflettori. A quel punto Lloyd liberò una seconda farfalla. Poi iniziò a frugare nella tasca ed estrasse un accendino, prese una terza farfalla e le diede fuoco. A quel punto tutti gli attori restavano immobili, finché il pubblico non decideva di abbandonare la sala. [...] Una sera, una coraggiosa donna di mezza età salì in scena e strappò l’accendino dalla mano dell’attore. Restò sorpresa quando si accorse che la farfalla era di carta, tuttavia si girò vero il pubblico con aria sbalordita e gridò: “Avete visto, possiamo fare qualcosa!” Brook restò ammirato dal gesto, ma avvertì gli attori che se qualcuno di loro avesse svelato il trucco, li avrebbe obbligati a bruciare una vera farfalla (Kustow 2005, 167).
2I nodi problematici di un rapporto ambiguo ci sono (quasi) tutti: il potere dell’uomo sull’animale; la vita e la morte; la cosa e il simbolo; la realtà e la finzione; l’immaginario, il reale e l’effetto di realtà. Ci sono il dubbio e la provocazione, la reazione del pubblico e lo scandalo che hanno animato in questi decenni un curioso paradosso.
3Salvo casi eccezionali, gli animali vivi erano tradizionalmente esclusi dalle scene teatrali. L’esibizione di “animali non umani” era appannaggio di forme di spettacolo minori, un tempo assai popolari e a volte cruente: il circo, ma anche il varietà e il music hall, per non parlare dei seguitissimi combattimenti tra orsi, galli o cani, e della corrida, ultimo riverbero delle antiche tauromachie.
4In molti paesi la presenza degli animali nei circhi, così come nei delfinari e negli zoo, è stata progressivamente limitata, con provvedimenti legislativi e amministrativi via via più restrittivi (Campo, Serena 2020, 187-193). La stessa cosa è avvenuta anche nel cinema: se in una pellicola compaiono animali, un disclaimer attesta che nel corso delle riprese non vi sono state violenze o maltrattamenti. Il motivo delle prime proteste contro le corride era la loro pericolosità per gli esseri umani, ovvero i toreri che rischiavano di finire incornati. Negli ultimi anni a destare ripugnanza sono le sofferenze imposte ai tori e lo spettacolo della loro morte. Una profonda mutazione della sensibilità collettiva ha generato proteste che hanno investito e investono anche la ricerca scientifica e gli allevamenti intensivi.
5Il nouveau cirque, nato negli anni Settanta, è per certi aspetti più vicino al teatro che al circo. Fin dall’inizio ha bandito gli animali, anche se non è mancata qualche provocazione per mettere in crisi il nuovo tabù:
Nicolai Goni, detto Brantolin de la Désésperance, surreale domatore del Cirque Aligre, faceva eseguire i tradizionali esercizi degli animali da circo a enormi ratti, che roteava per la coda a distanza ravvicinata dagli spettatori. Cirque Plume fa dello spettacolo No animo mas anima (Niente animali più anima, 1990), un vero e proprio manifesto contro l’utilizzo degli animali nel circo, facendo irrompere in pista, al posto di leoni e tigri, degli artisti animali, tra cui il dirompente ‘uomo-cane’ del performer Cyril Casamèze (Campo, Serena 2020, 50).
6In Morsure (premio Arts du Cirque SACD nel 2014) Marie Molliens, acrobata e direttrice artistica della compagnia francese Rasposo, mette in scena la ferocia dei rapporti umani e spiazza d’un sol colpo critica, pubblico e animalisti facendo irrompere sul palco una tigre in libertà (Campo, Serena 2020).
7Nel mondo del circo tradizionale, di questa mutata sensibilità si è fatto carico André-Joseph Bouglione, ex addestratore nonché erede di una delle grandi famiglie circensi: «Il circo, spettacolo popolare per eccellenza, non può permettersi di voltare le spalle alla maggioranza della popolazione, che oggi è assai sensibile alla causa ambientalista. Altrimenti questa tradizione scomparirà» (Roussange 2021).
8L’ex domatore Buglione ha investito 2,6 milioni di euro per realizzare un “Ecocirque” sostenibile, dove gli animali in carne e ossa sono sostituiti dagli ologrammi animati da Adrénaline Studio con tecniche riprese dai videogiochi.
9Se nelle piste dei circhi la presenza degli animali rischia di essere azzerata, negli stessi decenni è diventato più frequente l’uso di animali vivi sulla scena, con esiti che hanno spesso creato discussione e a volte scandalo, grazie all’attenzione dei media, solitamente poco attenti al teatro.
10È un chiasmo curioso, quello che caratterizza le arti performative: sempre meno animali là dove ci sono sempre stati, sempre più animali là dove non erano ammessi. L’assenza degli animali dalle nostre scene e dalle nostre vite ha generato una nostalgia che crea paradossi, investendo questioni filosofiche, estetiche, etiche, giuridiche...
Primo atto. Quando le farfalle non bruciavano
11Sui palcoscenici teatrali gli animali erano banditi. Il teatro si fonda sull’esclusione dal palcoscenico dell’animale, che anticamente veniva immolato sull’altare del sacrificio rituale. La scena era il luogo dell’umano, da cui l’animale, protagonista del sacrificio rituale, era stato escluso. Veniva oggettivata la distanza incolmabile tra la nostra e tutte le altre specie, condivisa dai filosofi, da Aristotele ad Agostino e a Cartesio, solo per citare tre epoche e tre culture diverse.
12Restava la nostalgia dell’animale. Attori e attrici li evocavano attraverso la maschera e il trucco, ne mimavano movenze e posture, ne imitavano i versi. I drammaturghi li sfruttavano come simbolo e metafora, e a quel punto magari li facevano anche parlare...
13Dai tempi di Esopo, diamo la parola agli animali perché raccontino quello che siamo, come fa Lev Tolstoj con Cholstomér, il cavallo morente magistralmente impersonato sulla scena da Giorgy Tovstogonov in Storia di un cavallo (1975). E dai tempi degli Uccelli di Aristofane, chiediamo agli animali di raccontarci come vorremmo essere...
14Nel frattempo ci siamo divertiti e commossi con la tenera gattina innamorata del micione bullo nel delizioso Peines de Coeur d’une Chatte Anglaise (1977) di Alfredo Arias, ci siamo divertiti (e basta) con i felini che cantavano e ballavano sui pattini a rotelle in Cats (1981) di Andrew Lloyd Webber (su testi di Thomas Stearns Eliot), ci siamo appassionati e commossi per il remake di Amleto con The Lion King (1994), cartone Disney diventato musical di successo grazie alle note di Elton John e Tim Rice e alla regia di Julie Taymor.
15Poi ci sono alcuni “animali da palcoscenico” che in qualche modo portano in scena in termini problematici la questione del rapporto tra l’uomo e l’animale.
La scimmia
16A partire dall’Ottocento, la netta separazione tra uomo e animale è stata messa in crisi da Darwin e da Freud: discendiamo dalle scimmie e siamo governati (a nostra insaputa) da istinti atavici che nutrono il nostro inconscio. In anni più recenti, abbiamo scoperto che condividiamo con gli animali diverse funzioni che erano ritenute esclusivamente umane, a partire dal linguaggio: anche le api utilizzano un codice simbolico di straordinaria complessità (von Frisch 1927, 2012). Un etologo come Frans de Waal ci suggerisce che condividiamo con i nostri cugini primati la politica, l’etica e persino la cultura (de Waal 1984, 2001, 2002). Il classico esperimento della macchia sul volto dimostra che alcuni animali si riconoscono davanti a uno specchio e dunque hanno coscienza di sé: oltre ai primati e ai bambini (dopo i 18-24 mesi di età), anche i delfini e gli elefanti, per esempio, hanno questa facoltà. E per quanto riguarda la vocazione teatrale, agli animali sono sempre stati riconosciuti la capacità mimetica (per ingannare prede e predatori) e il piacere di esibirsi (per attrarre i/le partner).
17Dunque ha ancora senso una separazione così netta tra l’homo sapiens e gli altri animali? Tra cultura e natura? E dunque anche tra arte e vita?
18A tirare le conseguenze più radicali dalle scoperte di Charles Darwin è stato Franz Kafka, che nei suoi racconti riflette filosoficamente, teologicamente, psicologicamente e poeticamente sul limite tra uomo e animale, e sul suo possibile superamento. Nei racconti di Kafka
l’animalità e l’umanità divengono reciprocamente permeabili. Si passa liberamente e senza ostacoli da una sfera all’altra… queste due sfere si mescolano a tal punto che ogni termine dell’una evoca immediatamente un termine correlativo nell’altra, in quanto essi sono in grado di significarsi reciprocamente (Lévi-Strauss 2008, 357).
19Protagonista di Una relazione per un’Accademia (Kafka 1917) è una scimmia che condensa l’intera parabola dell’evoluzione da primate a uomo in un’ironica e agghiacciante autobiografia. Il monologo è una straordinaria palestra per attori (e attrici), che devono trovare il punto d’equilibrio tra le due nature della protagonista: quanto dev’essere umano e quanto restare animale? Per valutare le diverse gradazioni, basta confrontare il trucco di tre interpreti che di recente si sono misurati con il testo come Paolo Oricco, Marina Confalone e Giuliana Musso.
Lo scarafaggio
20Ma Kafka immagina anche il percorso inverso, da animale a uomo. Nella Metamorfosi (1915) Gregor Samsa si risveglia una mattina come “Ungeziefer”, ovvero un “parassita” o un “insetto infestante”, che in italiano può diventare uno scarafaggio, una blatta, una cimice... Leggendo Kafka, interpretando i suoi testi, l’uomo impara a (ri)diventare animale.
La metamorfosi è la congiunzione di due deterritorializzazioni, quella che l’uomo impone all’animale costringendolo a fuggire o sottomettendolo da una parte ma anche, dall’altra, quella che l’animale impone all’uomo, indicandogli delle vie d’uscita o dei mezzi di fuga ai quali l’uomo non avrebbe mai pensato da solo (la fuga schizo); di queste due deterritorializzazioni l’una è immanente all’altra, la precipita e la spinge a varcare una soglia (Deleuze, Guattari 2010, 64).
21Grazie a Steven Berkoff, adattatore e regista di una fortunata versione teatrale di Metamorphosis, molti divi hanno voluto diventare insetti: dopo lo stesso Berkoff (Londra, 1969), è toccato a Brad Davis (Los Angeles, 1982), Tim Roth (Londra, 1986), Roman Polanski (Parigi, 1988) e Mikhail Baryshnikov (New York, 1989).
La chimera
22C’è un’altra opzione per superare la barriera tra uomo e animale. Per gli zoologi, la chimera è una creatura che ha due o più popolazioni differenti di cellule geneticamente distinte.
23In Cuore di cane Michail Bulgakov (1925) esplora l’ibrido tra l’uomo e il cane, per portare in primo piano l’animale che siamo, refrattario alle utopie anche nel “paradiso in terra” dell’URSS post-rivoluzionaria. Nella terra di Pavlov e di Stalin, al cane Pallino vengono trapiantati l’ipofisi e i testicoli di un vagabondo accoltellato in una bettola di Mosca. Da animale diventa prima “individuo” e poi homunculus. Inizia a camminare sulle zampe posteriori, perde la coda, poi i peli e gli artigli, inizia a parlare, si iscrive all’anagrafe come Poligraf Poligrafovič Pallinov, ma conserva gli istinti animali, tanto che continua a inseguire i gatti nell’appartamento in cui abita.
24Di recente due attori-chimera hanno incarnato questo ibrido letterario, accompagnando la sua parziale umanizzazione: Licia Lanera, che ha adattato il romanzo in forma di monologo (2018); e Paolo Pierobon (2019), nella riduzione teatrale di Stefano Massini con la regia di Giorgio Sangati al Piccolo Teatro.
Gli Earthbound
25Frutto di ibridazioni con l’umano sono anche i protagonisti di Earthbound (2021), spettacolo ispirato a Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto, il manifesto filosofico-fantascientifico di Donna Haraway (2019). Gli Earthbound che popolano lo Chthulucene sono «umani a cui sono stati impiantati i geni di creature in via d’estinzione con il duplice scopo di conservarne la specie e favorire una nuova prospettiva per l’adattamento dell’uomo con l’ambiente naturale grazie alla simbiosi con il suo doppio animale”(Cuscunà 2021).
26Marta Cuscunà anima i pupazzi degli Earthbound usando tecniche ereditate dalla tradizione del teatro di figura e innovative modalità di animazione riprese dal cinema, creando un ibrido virtuosistico tra la performer e la macchina scenica.
27Va sottolineato che il DNA di moltissime specie (compresi gli umani) ha inglobato sequenze di codice genetico che non arrivano da una trasmissione verticale (ovvero dai nostri “antenati”, dai genitori ai figli) ma da innesti orizzontali, anche se non è ancora chiaro il meccanismo che ha portato a questa “contaminazione genetica” da virus e batteri (Quammen 2020).
Il cane (di Hitler)
28Nell’aprile 1945 il dittatore nazista, asserragliato nel bunker di Berlino mentre l’Armata Rossa avanzava inesorabile, fece provare al suo cane lupo Blondi il cianuro che avrebbe usato pochi minuti dopo per suicidarsi. Nel 2014 il monologo che prende nome dall’animale, Blondi di Massimo Sgorbani (2013), viene portato in scena dal regista Renzo Martinelli, protagonista un’intensa Federica Fracassi, impegnata nel compito (paradossale) di amare incondizionatamente, come solo i cani sanno fare, un feroce dittatore, e di accettare come un dono l’inganno della morte.
Secondo atto. Quando le farfalle bruciano
L’agnello
29Alcuni artisti hanno inseguito la condivisione originaria tra l’uomo e gli altri animali attraverso l’ebbrezza dionisiaca. Per Hermann Nitsch e il suo Das Orgien Mysterien Theater (inaugurato nel 1957), la strada passa per il recupero del sacrificio orgiastico. L’evento ideato dall’artista austriaco, un’opera d’arte totale che è anche sanguinolento grand guignol, fonde senza soluzione di continuità erotismo e violenza, sesso e morte, piacere e disgusto. Nello spazio del rito, si staglia la carcassa di un agnello squartato e crocifisso, che gronda sangue. In un’inebriante immersione sensoriale, dell’animale si sente l’odore, si toccano il vello e le carni, ci si imbratta con i suoi liquidi...
Il pitone
30Sul passaggio dal mito alla tragedia – o meglio sul passaggio inverso, dalla tragedia al rito, per recuperarne la potenza originaria – ha lavorato molto Romeo Castellucci:
Nel momento in cui l’animale sparisce dalla scena, nasce la tragedia. Il gesto polemico che facciamo rispetto alla tragedia attica è quello di riportare sulla scena l’animale facendo un passo all’indietro. […] La tragedia pone fine al rituale, pone fine al mito: essa, che è il perno della cultura occidentale, rappresenta un momento di crisi e contemporaneamente la nascita di qualcosa di nuovo (Castellucci 2001, 271).
31Nei suoi spettacoli e nelle sue performance, la finzione scenica è spesso turbata (e messa in crisi) da mute e numinose presenze animali, figure di un immaginario che evoca un mondo ancora integro, organico, che dovrebbe precedere il “Terzo Reich” del linguaggio, ovvero la dittatura del logos. Pitoni, orsi, cani, cavalli, scimmie risucchiano l’attenzione dello spettatore con la loro presenza ineffabile e perturbante. A noi umani, creature tragiche perché consapevoli del Male, l’innocenza edenica è preclusa per sempre. Quella presenza – che è anche distanza incolmabile – ci riempie di nostalgia e insieme di terrore.
Il babbuino
32Il teatro è l’arte della prevedibilità. È ripetizione. Nel “qui e ora” dell’evento, viene attualizzato un copione, uno script predisposto in anticipo. In questo modo il teatro tenta (e si illude) di governare il presente e dunque di padroneggiare il futuro, almeno nello spaziotempo limitato della performance. Certo, ogni evento – anche teatrale – contempla un margine di imprevisto e di rischio, più o meno ampio. Con l’avvento dei media che consentono la riproduzione tecnica del reale (cinema e video), e che dunque procedono meccanicamente e implacabilmente secondo un flusso predeterminato, lo spettacolo dal vivo ha trovato un segno distintivo, proprio nell’imprevedibilità dell’evento: quello che appariva come un limite, una imperfezione, è diventato un asset prezioso.
33Il comportamento degli animali e dei bambini molto piccoli è sostanzialmente imprevedibile. Per questo motivo, la loro semplice presenza crea un “effetto di realtà” che mette in crisi la netta distinzione tra finzione e realtà. «Probabilmente è più di un contrappeso. È una presenza che spinge l’attore come una minaccia. L’animale è senz’altro più efficace, ha una portata più distruttiva. Rappresenta il disordine necessario alla scena, rappresenta l’ombra dell’attore» (Castellucci in Ponte di Pino 1995, 154).
34Per altri aspetti, l’imprevedibilità del comportamento implica anche la libertà di animali e bambini rispetto al copione/script, quella libertà che viene invece totalmente negata dalla attività sulla scena di macchine dal comportamento deterministicamente coatto.
35La presenza sulla scena di questi “attori non umani” (o quasi umani) – come i babbuini presenti con tutta la loro feroce, e forse sacra, inconsapevolezza sia in La discesa di Inanna (1989), oggetto a Milano di una dura contestazione da parte di un gruppo di animalisti che, con lancio di immondizie sul pubblico e scritte con vernice spray “Ah il buco di ozono!” sulla facciata di San Carpoforo, dove si svolgeva lo spettacolo, accusano gli artefici del lavoro di maltrattare anche altri gli animali presenti in scena (una pecora e tre capretti) sia nell’Orestea (1995) – allude dunque per negazione al libero arbitrio, come spiega Castellucci.
L’animalità è sempre presente, l’animale è quello che è, non può che essere quello che è sempre stato. È un dono chiuso nella perfezione della forma (un cavallo, un cane, un caprone) ma aperto sul cancello che apre un passaggio sull’Olimpo degli dei. Il corpo muto dell’animale rappresenta il sacrificio, nel contesto della tragedia greca. Ma è un sacrificio che la tragedia ha sostituito in tronco con il dramma mutacico dell’eroe. Gli dei sono tutti morti. Questa è la novità e, direi, la buona notizia. L’animale è l’ombra, il sogno e la minaccia per l’attore. Gli dei sono morti, gli animali da sacrificare sono scomparsi. Rimane la presenza dell’attore-eroe, davanti al nulla. […]. L’attore è un animale, ma allo stesso tempo è anche una macchina. È quello che è, con il suo corpo fisico, ma è anche chiamato a una funzione come una macchina. In qualche modo fuoriesce sia dal basso che dall’alto dalla rappresentazione dell’uomo. Questa tensione mi interessa perché è presa tra la polarità di forme disumanizzate: si esce dall’umano dal basso, verso il corpo esteso dell’animale, e dall’alto, verso la macchina in quanto pura funzione. Soltanto facendo un passo fuori dall’umano si può richiamarlo, o addirittura vederlo. Vederlo negli occhi, intendo. L’animale non pensa ma è, la macchina non pensa ma fa (Pirillo 2010).
I cani
36Se nei lavori di Castellucci i cavalli compaiono in genere sullo sfondo, emblemi di maestosa e scultorea bellezza, i cani (in genere neri e di grossa taglia) hanno una funzione più inquietante. Nel tenebroso rito di Gilgamesh (1990), due alani dall’aspetto feroce percorrono incessantemente lo spazio scenico, separati dal pubblico solo da tre sottili fili di acciaio. In Ethica. Natura e origine della mente (2013), un grosso cane nero – simbolo dell’istintualità, contrapposta alla razionalità incarnata da una figura appesa per un dito a quattro metri d’altezza – vaga tra gli inquieti spettatori, in una variazione su temi ispirati a Spinoza.
37Nell’Inferno allestito per il Festival d’Avignon nella Cour d’Honneur del Palazzo dei Papi (2008), è lo stesso Castellucci a mettersi in una situazione di pericolo. All’inizio dello spettacolo, dopo aver indossato una tuta protettiva imbottita, viene aggredito, gettato a terra e preso a morsi da alcuni dei sette cani lupo che occupano la scena. Una morte simbolica che è anche “diventare animale”. Dopo qualche minuto, un fischio richiama i cani. Un servo di scena sistema sul dorso di Romeo una pelle di lupo. Entra un attore seminudo, che la prende e la indossa, come un antico sciamano, mentre Romeo esce di scena: forse è la sua anima, l’acrobata con la pelle di lupo sul dorso, che inizia ad arrampicarsi – a mani nude – sulla facciata del palazzo, fino a un’altezza vertiginosa, pericolosamente.
Il coyote
38Nel maggio 1974 l’artista Joseph Beuys, malato, atterra all’aeroporto JFK e viene caricato su un’ambulanza con le sirene accese. Si fa trasportare bendato su una barella alla René Block Gallery, 409 West Broadway, a SoHo, e si fa chiudere in una stanza insieme a un coyote. In quella gabbia restano insieme per tre giorni: «Volevo isolarmi, non vedere nient’altro oltre al coyote».
39Di New York Beuys non vedrà nulla. Ha un cappello, un gilet, una coperta di feltro e un bastone. All’inizio l’animale diffida di lui. Morde il bastone e la coperta, ma non morde l’uomo. Si osservano, si girano attorno. L’uomo mette ciotole di acqua e di cibo a disposizione del coyote. Mangiano. Dormono.
40Il coyote non lo attacca. Il coyote è un animale indigeno del Nord America, antico e selvaggio. Vive in branco e non aggredisce l’uomo. Ricorre spesso nei miti dei nativi americani: è il simbolo delle origini dell’America, di quell’America che è stata distrutta ed emarginata dall’uomo bianco.
41In I Like America and America Likes Me (Wietz, 1974), Joseph Beuys “diventa animale”. Al tempo stesso il coyote, strappato al suo ambiente naturale e chiuso in un ambiente limitato, perde la sua natura selvaggia. Che rapporto si crea tra i due? Esiste un punto di contatto?
42Alla fine della convivenza forzata, Beuys può affermare, in accordo con il titolo della performance, Mi piace l’America e io piaccio all’America. Ma che può dire il coyote? E che cosa sarebbe accaduto a Beuys tra i coyote nei deserti dell’Arizona?
Il gallo, la mucca, i pesci...
43Nelle teche di Damien Hirst, la distanza tra l’uomo e l’animale viene al contrario oggettivata in icone di raggelata perfezione geometrica. Gli spettatori dei suoi teatrini anatomici ammirano cadaveri di animali, spesso molto grandi, esibiti in grandi teche piene di formalina: solo per citarne alcuni, lo squalo tigre in The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991), (il primo di una serie di pesci trasformati in opere d’arte), la mucca e il vitellino sezionati a metà e sistemati in quattro teche per Mother and Child (Divided) (1993), la pecora sfuggita al gregge in Away from the Flock (1994), i due maiali – entrambi cadaveri – in This Little Piggy Went to Market, This Little Piggy Stayed at Home (1994), le tre anatre di Up, Up and Away (1997), la zebra in The Incredible Journey (2008), l’unicorno in The Child’s Dream (2008) e in The Dream (2008), la pecora nera ancora una volta sezionata longitudinalmente in The Black Sheep with Golden Horns (Divided) (2009), il toro sormontato dal gallo in Cock and Bull (2012)...
44Queste opere sono “nature morte”, nel senso letterale del termine: gli animali sembrano vivi eppure restituiscono solo l’immagine della loro fine, debitamente (an)estetizzata. L’alterità dell’animale incontra l’alterità totale della morte, ma confinata e resa inoffensiva, quasi gradevole, iconica e rigorosamente impaginata, immersa in un liquido azzurrato. La perfezione diventa provocazione, fare arte significa mettere fine alla vita.
La mucca
45Allude alla morte degli esseri umani, alle vittime della guerra fratricida nella ex Jugoslavia, Balkan Baroque (1997), la performance di Marina Abramović. In uno scantinato buio, seduta su uno sgabello sopra un mucchio di 1500 ossa di bovino, l’artista le pulisce per 6 ore al giorno per 4 giorni, cantando le canzoni della sua infanzia, in un rito di purificazione dei massacri che hanno insanguinato i Balcani
Il cavallo
46A infrangere il tabù dell’irreversibilità del teatro – e dunque della morte in scena – sono stati in questi anni diversi artisti: ma per infrangere il tabù è stato necessario immolare gli animali. In una celebre e assai discussa replica di Genet a Tangeri nel mattatoio di Rimini, gli spettatori poterono assistere alla macellazione di un cavallo, una attività peraltro praticata quotidianamente in quella fabbrica di morte (Taviani 1986). La vicenda finì sulle prime pagine dei quotidiani, spesso a partire da ricostruzioni distorte dell’evento (non erano certo stati gli attori a sopprimere e squartare l’animale, ma gli addetti alla macellazione), con la compagnia teatrale dei Magazzini Criminali e il regista Federico Tiezzi sul banco degli imputati.
Il cavallo
47Al centro del lavoro di compagnie come Zingaro o il Théâtre du Centaure, che per i suoi spettacoli si ispira a Les Bonnes di Genet (1998) o al Macbeth di Shakespeare (2002), è l’attore-centauro, frutto di una fusione intima che mette il cavallo al centro della proposta artistica, con le sue caratteristiche e la sua personalità, e persino il piacere di esibirsi. A questa simbiosi allude Chimère (1994), il titolo di uno dei più toccanti spettacoli del Théâtre Equestre Zingaro e del suo carismatico capocarovana, Bartabas. La chimera evocata dal titolo è la simbiosi tra cavallo e cavaliere, affinata in secoli di vicinanza e complicità.
48Secondo Bartabas
Per cominciare, c’è la scelta del cavallo. È sempre un colpo di fulmine. Non scelgo mai un cavallo in vista della figura precisa che voglio realizzare, di un progetto di coreografia. I nostri lavori non sono mai frutto di un calcolo, ma una serie di evoluzioni. Lavoro d’istinto. A ispirarmi è il cavallo, con la sua espressione, il suo atteggiamento, i suoi difetti. Non c’è un metodo, piuttosto una serie di azzardi controllati. (…) Sono stati loro, i miei cavalli, a insegnarmi tutto. E se c’è del talento, è frutto del desiderio e della passione. Non mi piace montare i cavalli degli altri cavalieri perché è il loro rapporto che ne fa una coppia armoniosa oppure no. A interessarmi è proprio il rapporto tra cavallo e uomo, il lavoro, lo scambio tra istinto e intelletto. È per questo che ho consacrato la mia vita ai cavalli. L’addestramento potrebbe riassumersi così: quando chiedere, quando ricompensare? Quando restituire, quando prendere? (Homeric 1997).
49Ogni animale porta su quella pista di sabbia la propria individualità, che il pubblico impara rapidamente a riconoscere ed apprezzare. Bartabas racconta così il numero che eseguiva con il frisone nero Zingaro, la prima star del suo circo equestre, soprannominato “il Minotauro equino”, suo partner in più di 3000 repliche:
Mi sono immerso nel più profondo di te, ho recuperato la tua animalità e l’ho fatta mia. Da questo abbiamo tratto un senso ed eravamo pronti ad affrontare il mondo.
Cavallo toro che affronta un belluario, dominante dominato, la mia frustrazione per non essere riuscito a diventare un matador mi ha trasformato in matamoro, mentre il minotauro mangiatore di uomini forse era solo un ragazzino burlone con gli zoccoli alati.
Ogni sera, invece di presentare un numero da circo, occupavamo la scena come due attori che recitano il ruolo dei gladiatori. Io, pieno di arroganza, lo chiamavo eruttando. Lui, subito, si lanciava al mio inseguimento con tutti i denti all’infuori. Io, terrorizzato, finivo la mia corsa abbattendomi su un tavolino oppure sulle ginocchia di un emozionato spettatore. Lui, trionfante, metteva le due zampe anteriori sulla panca. Io riprendevo la lotta, urlando, ma solo dopo aver appoggiato il bacio della morte sulle labbra di una spettatrice terrorizzata. In un’atmosfera da bettola, si sentivano battere i denti. Giocavamo a farci paura, giocavamo con la paura degli altri, giocavamo a sfidarci con violenza. Alla fine mi acciambellavo sul suo corpo seduto come segno di sottomissione, affinché il pubblico potesse intuire quanto amore era stato necessario per arrivare fino a quel punto. Una provocazione amorosa, una complicità che se ne frega di codici e regole, che si fonda solo sull’istinto. L’istinto del gioco e del teatro1 (Bartabas 2020, 61-63).
Il coniglio
50Chimera è anche il coniglio transgenico creato da Eduardo Kac, GFP Bunny (2000): dopo l’innesto dei geni della medusa Aequoria victoria, che al buio diventa fosforescente, anche le chimere di Kac nell’oscurità emanano un inquietante bagliore verdastro.
Il coniglio
51Rodrigo García, con After Sun (2001), esibisce due conigli (vivi), con i quali il performer (Juan Loriente) mima alcuni atti sessuali, spingendo una parte del pubblico ad abbandonare la sala. Nella seconda parte dello spettacolo, lo stesso Loriente mangia placido un hamburger, senza suscitare particolari reazioni negli spettatori. Ma, come chiede il regista, “Per l’animale, è meglio se fai sesso con lui o se te lo mangi?”
52Per denunciare la violenza praticata ogni giorno nei macelli con tecnologica perfezione, gli Anagoor punteggiano da anni i loro spettacoli con immagini che seguono il destino delle carcasse degli animali, divorati dalla catena di montaggio della morte. Sono filmati di raggelata perfezione, silenziosi, spesso al rallentatore, con forme immerse in una luce morbida e fredda, dove l’atrocità e la bellezza, la ripugnanza e la fascinazione coincidono, come in una Deposizione. Ma forse il fulcro dell’esperienza non è l’effetto estetico immediato, all’atto della visione, piuttosto la consapevolezza che si sedimenta nella coscienza dello spettatore.
L’astice
53In Accidens. Matar para comer (ovvero Uccidere per mangiare, 2005), Rodrigo García spettacolarizzava la cottura di un astice, che alla fine veniva degustato dal performer Juan Loriente (ma non dal pubblico): «Normalmente, le cose le si trovano già morte. Vai al supermercato e te le danno già tutte morte. Noi tutti facciamo cose per procurarci denaro e barattarlo con cadaveri. E ci perdiamo il piacere di uccidere» (García 2005).
L’anguilla
54In Head over Eels2 (1997) l’australiana Katherine Bell, dopo aver indossato una muta nera aderente di latex e neoprene, si immerge in una vasca piena di anguille, fino a confondersi con quel groviglio di animali umidi e viscidi, mettendo iconicamente in discussione il limite tra essere umano e animale (Orozco 2014, 29-30).
L’oca
55Se ha senso vietare l’uso spettacolare di animali selvatici, l’esibizione di animali da casa o da cortile può forse avere un senso diverso. Per raccontare Padre nostro (una preghiera da circo) (2009) del Teatro delle Ariette, Stefano Pasquini spiega:
In scena ci siamo io, Paola, un burattino di legno a grandezza uomo, il cane Tom, la pony Luna, le oche e come sempre le canzoni di Tom Waits. Prima pensavamo di raccontare storie di uomini e di animali, ma ci sembra che lo spettacolo che è venuto fuori assomigli piuttosto a una preghiera da circo (Pasquini 2009).
Il capitone
56Anche se la nozione di animale domestico è meno intuitiva di quel che sembra. Tutto d’accordo su cani, gatti, pappagalli. Ma dove finisce la lista?
57La protagonista dello spettacolo di Fibre Parallele Furia de sangue. Emorragia cerebrale (2010) ha per animale da compagnia un capitone: in scena c’è l’ampia vasca in cui soggiorna quando la padrona non la coccola. Nella finzione scenica, il capitone viene alla fine ucciso e divorato dagli altri membri di questa famiglia di “brutti, sporchi e cattivi”, con grande disperazione della protagonista, interpretata da Licia Lanera, che in quell’animale aveva trovato l’unico conforto. Fuori dalla finzione scenica, il capitone è con la compagnia in una lunga tournée, debitamente accudito.
Pappagalli, dromedari, pecore, lama, avvoltoi, asini, capre, cavalli, maiali...
58Il rapporto con gli animali non solo contribuisce al nostro benessere, ma ha una riconosciuta funzione terapeutica. Anche questo racconta Canto animale (2016), realizzato da Alessandro Garzella con la compagnia Animali Celesti:
quale potere evocativo esprimono gli animali? con quale linguaggio parlano agli umani? la performance indaga sulle possibilità di contatto tra diverse forme d’intelligenza, accostando un testo poetico ad emozioni umane ai comportamenti di pappagalli, dromedari, pecore, lama, avvoltoi, asini, capre, cavalli, maiali… lasciando agli spettatori la libertà d’immaginare associazioni, analogie, ipotesi interpretative (Garzella 2016).
59L’effetto benessere suscitato dagli animali può riverberarsi ed essere amplificato quando diventa spettacolo, come accade al Teatro Stalla nella Cascina Germoglio di Verdello (BG), dove opera la compagnia (Porcheddu 2014). Si tratta di uno
spazio di ricerca e rappresentazione scenica dotato di apparecchiature teatrali, una piccola tribuna e un grande palcoscenico di sabbia dove attori e animali possono esprimere le proprie emozioni, cercarsi, esplorare paure e curiosità, addestrarsi al reciproco rispetto, mostrare destrezze, ritrosie, attitudini e disabilità personali”. (Animali Celesti- Teatro d’Arte Civile).
Il piccione
60Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso dei Kepler-452 (2018) racconta la vicenda dei coniugi Bianchi, sfrattati dalla loro abitazione per fare spazio a FICO (Fabbrica Italiana Contadina), il più grande parco a tema cibo nel mondo: si vedono i vitelli nella stalla e si mangia la loro carne, ma non si assiste alla macellazione. Nella casa-zoo dei Bianchi avevano trovato rifugio temporaneo decine di animali: 7 mucche, 1 vacca nera, 2 somari, 22 maiali, 10-15 tra capre e pecore, gatti, poiane, 1 falco pellegrino + falchi vari, 7-8 gheppi (all’anno), 1 cinghiale, 2 o 3 furetti, 200-300 rondini, 3 fenec, 1 camaleonte, 8-10 serpenti, 1 boa Constrictor, 1 pappagallo Ara, 1 vipera comune + 1 vipera del Gabon, 1 lumaca gigante, 1 lupo, 1 tarantola gigante spara aculei, 1 leopardo e 1 babbuino portato da un tizio di Firenze, “che nessun altro si sarebbe preso” e perché era “cattivissimo, ci poteva andare dietro solo lui”, e Bianchi ha addirittura “messo un termosifone per un babbuino”.
61In scena compare un piccione dentro una gabbia. Vive a casa dei coniugi Bianchi, ovvero Annalisa e Giuliano, che in scena si sovrappongono a Ljuba e Gaev. Giuliano, “invalido, disoccupato, catturatore di piccioni, tassidermista esperto” oltre che orgoglioso proprietario di una “pistola da mattazione”, spiega che “i piccioni devono essere catturati perché in soprannumero e privi di nemici naturali; i piccioni portano malattie come zoonosi e pseudopeste” e illustra la sua invenzione, una “camera di eutanasia per piccioni”.
62I Kepler-452, ovvero Paola Aiello e Nicola Borghesi, non capiscono.
«PAOLA Giuliano, tu vivi con un piccione ma poi li ammazzi. Capirai che è strano.
Giuliano risponde spiegando perché non è strano.
NICOLA E allora di te cosa pensa il piccione?
GIULIANO Chiedilo a lui.
NICOLA Al piccione?
Giuliano spiega che lui con piccione ci parla e viene a tavola con loro.
NICOLA Posso? Piccione, lei cosa ne pensa di Giuliano Bianchi? (Il piccione risponde)
Piccione, lei sa di essere un piccione? (Il piccione risponde)
Piccione, che cosa sognano, quando dormono, i piccioni? (Il piccione risponde)
Scusa Giuliano, ma è una sua fantasia o tu davvero li mangi, i piccioni?
GIULIANO Certo, faccio anche i tortellini col petto di piccione».
(Kepler-452 2018, 18-19)
Epilogo. Burning Butterfly
63Nella serie Burning Butterfly (2013), il fotografo Mat Collishaw coglie
la bellezza di una farfalla, tradita dalla vita, che volando si brucia le ali, è colta nell’attimo della fine. Una miscela sublime del suddetto piacere e di dolore. […] Anche qui la sovrastruttura culturale è tradita con lentezza, perché l’artista pensa, non senza ragione, che è dall’interno stesso della vita che proviene il male. Una sorta d’oscurità, che è dentro da sempre e in ogni cosa, ricorda il memento mori. […] Un progetto estetico di morte che mette in feconda contraddizione la ricerca della bellezza (Cucco 2013).
Bibliographie
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Filmografia
I Like America and America Likes Me (1974), regia di H. Wietz, produttore René Block Gallery Ltd., N.Y. [documentario senza dialoghi, 35’], Germania
Notes de bas de page
Auteur
(Torino, 1957) Ha lavorato per oltre trent’anni nell’editoria (Ubulibri, Rizzoli, Garzanti) e cura dal 2012 il programma di Bookcity Milano festival. Ha fondato i siti: ateatro.it (2001) e trovafestival.it (2016) con Giulia Alonzo ed è docente di Letteratura e Filosofia del Teatro all’Accademia di Belle Arti di Brera. Conduce su Radio3 il programma Piazza Verdi. I suoi ultimi libri: Un teatro per il XXI secolo. Lo spettacolo dal vivo ai tempi del digitale (FrancoAngeli, 2021) e In giro per festival (Altreconomia 2022) con Giulia Alonzo.
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