Dell’attore e di altri animali
p. 117-126
Texte intégral
Introduzione
1Si potrebbe dire (correggendo addirittura Genesi e Goethe ma concordando con Darwin) che in principio non era il verbo e neppure l’azione: in principio era l’animale. Almeno dal punto di vista delle pratiche performative, nelle quali la presenza animale risulta originaria e costitutiva.
2Per quanto riguarda il teatro, è difficile resistere alla tentazione di ricorrere all’etimologia suggestiva, anche se tutt’altro che sicura, della parola tragedia, che la riporterebbe a un originario “canto del capro” (e comunque di uomini capri, centauri e altri animali la tragedia e la commedia greca sono piene). Ma i rapporti tra il performer umano e l’animale erano ancora più stretti, per quanto ne sappiamo, nel rituale primitivo e nelle sue preistoriche rappresentazioni, come documentano inconfutabilmente le pitture rupestri di decine di migliaia di anni fa.
3In realtà, non soltanto le pratiche performative ma ogni forma di rappresentazione ed espressione dell’uomo risulta da sempre dall’incontro e dall’osmosi antispecista tra umano e non umano, oscillando continuamente fra i due poli della metamorfizzazione non umana dell’umano e dell’antropomorfizzazione del non umano, non soltanto animale (come dimostrano magnificamente le Metamorfosi ovidiane e cento altre opere antiche).
4Ciò premesso, va aggiunto subito che una visione indebitamente ristretta del teatro come teatro drammatico, testocentrico, ha spesso impedito di cogliere in tutto il suo rilievo l’apporto che il performer non umano ha dato alla storia dello spettacolo dal vivo, relegandolo ingiustamente alle forme minori e marginali.
5Prendiamo il cavallo ad esempio: la sua presenza è costante in venticinque secoli e più. Dalle corse dei carri nel Circo Massimo (VI secolo a.C.) alle giostre medievali, dalle opere-torneo che vedono i cavalli irrompere talvolta nelle orchestre dei primi teatri moderni, fra ‘500 e ‘600 (pensiamo al Teatro Farnese di Parma), al moderno circo (inizi del XIX secolo), fino all’ attuale horse-renaissance, da “Zingaro” in poi.
6Difficile dimenticare che una delle epifanie assolute dell’arte attorica novecentesca è rappresentata da un cavallo e dal suo domatore, resi entrambi magnificamente con i mezzi del mimo corporeo da un giovane Jean-Louis Barrault, che replicherà per tutta la vita questo suo pezzo memorabile, un vero e proprio cavallo di battaglia è il caso di dire, molto elogiato persino da Artaud (1972, 252-254)1.
7E molti di noi, almeno quelli più in età, ricorderanno lo scandalo del cavallo al Festival di Santarcangelo 1985, cioè la famosa performance dei Magazzini Criminali (Genet a Tangeri), che si svolse nel mattatoio di Riccione mentre il ciclo della macellazione procedeva come ogni giorno2.
8Insomma: animali vivi, finti, morti, come recita il titolo del contributo di Silvia Mei. O morenti: come gli astici di una contestatissima performance di Rodrigo Garcia di parecchi anni fa, durante la quale i poveri crostacei sfrigolavano rumorosamente sulla graticola (grazie a un’apposita amplificazione). Ma quello di Garcia non è certo l’unico caso di animali seviziati in scena. Forse non tutti sanno che il vero debutto di Tatzumi Hijikata, l’altro padre (assieme a Kazuo Onu) della danza Butoh, avvenne nel 1959 con una performance su testo di Yuko Mishima (Colori proibiti), nella quale si proponeva la sodomizzazione di un pollo vivo. Non contento, nel 1968 Hijikata replicherà con Ribellione della carne, nel corso della quale un pollo veniva addirittura ucciso in scena. Per non parlare delle mattanze rituali dell’Orgien und Mysterien Theater di Hermann Nitch, negli anni Settanta, esercitate però su animali (agnelli soprattutto) già macellati.
9Oggi performance del genere non sarebbero più possibili, e non è detto che ciò sia un bene, perché l’ipocrisia che continua a regnare sovrana a proposito del nostro rapporto violentemente utilitaristico con gli animali avrebbe forse ancora bisogno di provocazioni come quelle.
10Se la scena contemporanea brulica di animali di ogni tipo (Ponte di Pino nel suo intervento ne tenta una parziale e però già significativa catalogazione), non meno presenti sono gli animali negli scritti teorici del secolo scorso, quelli prodotti dai maestri della regia in particolare; e ancor di più vi compaiono l’animale e l’animalità come questione chiave per l’attore. È su questo che vorrei soffermarmi nel resto del mio intervento.
1. Come «un leone nella tana»: l’animalità del Grande Attore
11Partiamo da un antefatto. Nelle testimonianze di spettatori, professionali e non, sul Grande Attore ottocentesco, il riferimento a un certo tipo di animali, soprattutto le belve, leoni, tigri, pantere, serve a tradurre in immagine non umana l’effetto della potenza e addirittura della violenza che promanavano da certi momenti apicali delle loro interpretazioni. Un esempio classico: l’Otello di Tommaso Salvini, che viene descritto come una graduale, progressiva metamorfosi da uomo nobile e maestoso in un individuo che la gelosia stravolge e trasforma in un essere inumano, una belva feroce, una tigre infuriata e assetata di sangue: metamorfosi culminante ovviamente nel V atto con lo strangolamento di Desdemona (non mostrato per altro, nel suo caso) e il balzo non meno selvaggio contro Jago, dopo la morte della giovane sposa. Scrive Mirella Schino:
Il nobile e valoroso, innamorato e sofferente Otello-Salvini entra in scena nell’ultimo atto – è ovviamente roso dal dolore, dalla gelosia. Mormora il suo monologo con voce tanto bassa da essere, all’inizio, financo inintelligibile. Passeggia per il palcoscenico, si avvicina al letto, alle cortine dietro le quali dorme Desdemona, lascia cadere il mantello su una sedia. Desdemona lo chiama, si alza, si affaccia all’alcova, gli si accosta e gli chiede «Al riposo venite, Signor mio?».
All’invito Otello sussulta disgustato, l’intera faccia gli si contrae, si trasforma in un pazzo, «un leone nella tana», una pantera, una belva selvaggia, che infine afferra Desdemona per i capelli, le piega indietro la testa come se volesse spezzarle il collo, la solleva di peso come una furia e la butta sul letto, chiudendosi dietro le cortine (Schino 2004, 132-133).
12L’espressione «un leone nella tana» appartiene ad Henry James, che la usa in una lunga recensione del 1883:
Alcuni suoi toni, gesti, atteggiamenti sono indimenticabili. Per esempio quel suo incedere felino sul fondo della stanza quando, trascinata Desdemona fuori dal letto, cammina avanti e indietro a grandi passi, lo sguardo fisso su di lei, e in quello sguardo si annuncia la sorte che attende la sventurata. Poi quel balzo ancora più felino con cui Otello, sconvolto dalla verità, e reso delirante, allontanandosi dal corpo senza vita della sua vittima, attraversa la stanza per raggiungere Jago e scaricare il suo folle impulso di distruzione in quell’unico colpo mortale (James 2001, 173-191).
13In termini simili, due spettatori d’eccezione parlano agli inizi del Novecento dell’attore siciliano Giovanni Grasso e dei suoi acrobatici balzi al petto dell’avversario che deve eliminare (anche qui ci sono di mezzo il tradimento e la gelosia, anche se l’opera in questione è decisamente più modesta). Il primo è Gordon Craig, che ritiene del tutto inadatta e riduttiva, nel caso di Grasso, la categoria di «attore» e anche quella di «artista»: egli è ben altro secondo lui. Appartiene al genere di «quegli esseri straordinari [che] sono figli della natura alla stregua di cascate, fiumi, grandi uccelli, grandi animali». Si tratta di veri e propri «nature’s offspring», che nella loro straordinarietà meriterebbero di essere liberati dalla «gabbia» dello spazio scenico (citato in Sofia 2019, 136).
14Il secondo è Vsevolod Mejerchol’d, al quale dovremo tornare, il quale descrive in maniera minuziosa il balzo che aveva reso celebre Grasso, e da cui il grande regista russo trarrà un esercizio per la sua Biomeccanica:
Qualche mascalzone ha sedotto la sua promessa sposa. Grasso cerca il furfante, alla fine lo trova e si azzuffano. Con la voluttà felina di una pantera predatrice, punta di soppiatto il nemico e di colpo gli salta al petto acciambellandosi come un gatto. Quello butta indietro la testa con un grido, e Grasso gli taglia la gola. Il sangue scorre (ivi, 167).
2. Animale e animalità nell’attore dei maestri della regia
15Il salto di qualità compiuto dai maestri della regia in riferimento al nostro tema può essere così riassunto: con loro a) l’animalità assurge a dimensione costitutiva ancorché quasi sempre dimenticata della performance attoriale, dimensione che ha a che fare con l’istintività, la reattività, l’organicità, l’interezza psicofisica b) l’animale viene proposto come una sorta di modello ideale per l’attore umano, spesso accanto e in complementarietà con la marionetta, in quanto esempi entrambi di una grazia, e quindi di un’efficacia, tanto più compiute in quanto non volute, non calcolate, non inquinate dalla consapevolezza, che rischia sempre di rendere la performance umana divisa, prevista e dunque prevedibile, forzata, oltre che priva di misura e di precisione, talvolta fino alla goffaggine.
16In realtà tutto questo – com’è noto – si trova già nel celebre saggio di Kleist Sul teatro delle marionette, dunque un secolo prima dei maestri della regia. Già in Kleist l’animale, nella fattispecie l’orso schermitore, e la marionetta convivono come preziosi esempi non umani di grazia scenica. E – volendo – da Kleist si potrebbe tracciare una linea che ci porterebbe giù giù fino, ad esempio, al modo in cui Romeo Castellucci accosta in scena animali e infanti, accomunandoli nello statuto eccezionale di performer inconsapevoli, che non conoscono il palco, ignorando la differenza fra la finzione e la realtà, e perciò sono capaci di metterla in questione.
17Negli scritti dei maestri della regia si nota una particolarità a proposito dell’attore nuovo che essi vagheggiano e, per quanto possibile, cercano anche di realizzare: gli esempi che essi additano agli aspiranti attori non sono mai alti, colti, artistici (come accadeva in passato: pensiamo a Diderot); si tratta quasi sempre di esempi extra-artistici, spesso addirittura modesti, quotidiani, quanto di più lontano insomma dalla bellezza artistica: artigiani, operai esperti, donne delle pulizie, pugili e altri sportivi. L’animale fa parte di essi.
18Che cos’è che li accomuna? Essi sono tutti esperti dell’azione fisica: non fingono di agire (come purtroppo capita quasi sempre gli attori), essi agiscono realmente e in maniera efficace, senza inutili fronzoli estetici.
19Andando ancora più in profondità appare la questione del corpo e del suo controllo. Ecco perché l’animale entra nel novero ristretto dei riferimenti utili all’attore. Perché, come ebbe a dire una volta Grotowski, parlando dell’organicità: «Il nostro corpo è un animale – non bisogna dimenticarlo. Non sto dicendo che siamo animali, dico: il nostro corpo è un animale» (Grotowski 2016a, 113).
20Nella stessa occasione, egli prosegue osservando significativamente che «l’organicità è legata a un aspetto proprio del bambino. Il bambino è quasi sempre organico» (ibid). Ancora una volta, l’animale e il bambino insieme.
3. Mejerchol’d: il ritmo e la «parte animale» dell’attore
21Ma cosa c’è di unico e prezioso nell’animale, in specie in certi animali (leoni, tigri e felini in genere, soprattutto), che i modelli umani non hanno, o almeno non nella stessa misura, secondo i maestri della regia?
22È ancora Mejerchol’d a spiegarcelo.
Se dico all’attore che interpreta Otello: «nel momento in cui si scaglia contro Jago per strangolarlo, la prego, dimentichi di essere un uomo e agisca come una tigre», l’attore, proprio grazie al fatto che dimentica per un attimo di essere un uomo, esegue un magnifico balzo. In quel momento egli ricorda il mondo animale, ricorda che, in sostanza, i nostri comportamenti - nonostante le giacche, le scarpe e i cappelli che in qualche modo ci differenziano dagli animali - tutti i movimenti nostri, in realtà sono assolutamente identici a quelli degli animali, e non dico questo in senso negativo, ma in senso assolutamente positivo. Se siamo ora tornati alla ginnastica ritmica – giacché tale era nell’antichità – se abbiamo cominciato a parlare di ritmo come del fulcro di ogni azione scenica, l’abbiamo fatto proprio perché noi uomini abbiamo dimenticato ciò che gli animali non hanno dimenticato […] tutti i loro movimenti sono costruiti in base alle leggi del ritmo (Mejerchol’d 1993, 53).
23E così prosegue:
Un leone in gabbia si muove esattamente al ritmo di un metronomo e rimette la zampa esattamente nello stesso punto di prima. Questa ripetitività non è segno di ottusità, non è mera ripetitività dell’organismo, no, essa è segno della costante tensione a vivere secondo un ritmo. […]
Definiremo l’attore del quale intendiamo parlare, l’attore per il quale vogliamo costruire questo palcoscenico, un “magnifico animale” che vuole mostrare la propria arte, la propria ferinità, mostrare le movenze stupende, l’abilità, la bellezza, la magnificenza con cui volge il capo, il bel gesto o il magnifico salto o l’entusiasmo che sa esprimere in un sublime movimento. Questo è il compito, questa è l’arte dell’attore. […] Il nuovo teatro, dunque, nascerà dall’interrelazione fra natura e corpo umano, vale a dire dalla fusione tra l’uomo e la parte animale che è in lui (ivi, 54).
24Mejerchol’d tocca sicuramente un punto chiave quando parla nella necessità di una «fusione tra l’uomo e la parte animale che è in lui». Perché è chiaro che il libero sfogo incontrollato della dimensione animale riscoperta non è certamente la soluzione, e tanti esiti disastrosi, sia sul piano pedagogico che su quello artistico, delle improvvisazioni selvagge, fatte di caotico, sfrenato scatenamento, lo dimostrano ad abundantiam.
25E tuttavia nelle più serie ricerche del secolo scorso, la riscoperta dell’animalità da parte dell’attore resta un passaggio fondamentale.
4. Grotowski: «stare in piedi nel principio»
26Prendiamo Grotowski, che già negli anni Sessanta aveva parlato di «trance dell’attore», ingenerando fastidiosi equivoci. È a partire dalla metà degli anni Settanta che il suo lavoro sull’animalità diventa un tutt’uno con la ricerca del «corpo arcaico» o «corpo rettile», ritenuto la fonte più profonda dell’organicità, qualcosa da ritrovare, risvegliare in noi stessi.
27Tuttavia egli mette continuamente in guardia dal «rischio […] di perdersi in una sorta di primitivismo», quando «si lavora sugli elementi istintuali del corpo, perdendo il controllo di sé» (Grotowski 2016b, 47). Allora, per evitare «una sorta di naufragio» c’è un solo modo, osserva Grotowski:
Bisogna mantenere la nostra qualità di uomo […], che in numerosi linguaggi tradizionali è connessa con l’asse verticale, to stand. […] Cervello rettile o corpo rettile, è il tuo animale. Ti appartiene ma è la questione dell’uomo che deve essere risolta. […]
Allora c’è qualcosa come la presenza, alle due estremità dello stesso registro, di due poli diversi: quello dell’istinto e quello della coscienza. Normalmente la nostra tepidezza quotidiana fa sì che siamo fra questi due poli e non siamo né pienamente animali né pienamente umani, siamo spinti in maniera confusa tra i due. Ma nelle vere tecniche tradizionali e nelle vere performing arts, bisogna tenere i due poli estremi nello stesso tempo. Vuol dire “essere nel principio”, “stare in piedi nel principio”. Il principio è tutta la vostra natura originaria, presente ora, qui. La vostra natura originaria in tutti i suoi aspetti: divini o animali, istintuali, passionali. E più siete “nel principio” più dovete “stare in piedi”. È la consapevolezza vigile che fa l’uomo. È questa tensione tra i due poli a dare una contraddittoria e misteriosa pienezza (ivi, 48).
28In modo analogo, anche se in riferimento allo spettatore, Barba (2006, 17-26) ha parlato di «Angelanimal» e Alessandro Garzella di «animali celesti».
29Alla fine della sua vita, questa ricerca dell’interezza umana, cioè di una «contraddittoria e misteriosa pienezza», porta Grotowski ha elaborare le nozioni di Awareness e di Verticalità.
30Nella Verticalità i fenomeni sono di ordine energetico: si fa esperienza di una circolazione di energie di qualità diverse, ascendendo e discendendo continuamente. Egli non parla più di corpo rettile o di animale ma l’idea è sempre quella di un recupero e di una reintegrazione che non lascino fuori niente:
Con la verticalità non si tratta di rinunciare a una parte della nostra natura; tutto deve tenere il suo posto naturale: il corpo, il cuore, la testa, qualcosa che è “sotto i nostri piedi” e qualcosa che è “sopra la testa”. Il tutto come una linea verticale, e questa verticalità deve essere tesa tra l’organicità e the awareness. Awareness vuol dire la coscienza che non è legata al linguaggio (alla macchina per pensare), ma alla Presenza (Grotowski 2016c, 159).
5. In conclusione: la lezione dell’albero
31In conclusione, vorrei ricordare che il lavoro sull’animalità dell’attore per il maestro polacco si svolge dentro un orizzonte più ampio, decisamente non antropocentrico, o post-human come si usa dire oggi, in cui esso è parte di un più ampio lavoro sulla relazione con l’altro da sé non umano, che oltre al mondo animale include anche quello vegetale e minerale, diciamo la natura intera o addirittura il cosmo. Esistono discorsi memorabili di Grotowski sulla lezione che può venire dagli alberi, per esempio riguardo ancora una volta alla presenza, cioè a quella condizione naturale per un animale o una pianta di essere interamente nel presente e che invece per noi, essere umani, è difficilissima da conquistare, presi come siamo sempre dal prima e dal dopo, da ieri e da domani; in modo che quasi mai riusciamo a stare interamente dove siamo e in ciò che facciamo in un dato momento, hic stans, nunc stans (Grotowski 2016d, 147-149).
32Non soltanto l’animale ma, appunto, anche l’albero può esserci maestro in questo:
L’albero ci insegna. Non si pone queste domande. È se stesso. Dà frutti quando è il tempo. Non fa calcoli. A noi risulta più difficile.
Forse è impossibile rispondere a parole alla domanda – come essere se stessi? – ma senza dubbio è possibile trovare la risposta nell’azione, se dimentichiamo noi stessi. Se dimentichiamo tutti questi pensieri. Come l’albero. Ma per dimenticare se stesso l’essere umano deve essere interamente in quello che fa, che desidera. Oppure deve essere interamente con qualcuno che è presente. In altre parole, deve smettere di pensare continuamente a se stesso (ivi, 147).
33Una delle tante lezioni preziose che vengono a noi animali umani dal non umano.
Bibliographie
Artaud A. 1972, Due note in Id., Il teatro e il suo doppio, con altri scritti teatrali (1968), ed. it. a cura di G.R. Morteo, G. Neri, Einaudi, Torino
Barba E. 2006, Angelanimal. Tecniche perdute per lo spettatore, «Teatro e Storia», Annale 27, pp. 17-26
Grotowski J. 2016a, Era come un vulcano (1992), in Id., Testi 1954-1998, vol. IV: L’arte come veicolo (1984-1998), La casa Usher, Firenze
Grotowski J. 2016b, Tu es le fils de quelqu’un (1986), in Id., Testi 1954-1998, vol. IV: L’arte come veicolo (1984-1998), La casa Usher, Firenze
Grotowski J. 2016c, Testo senza titolo (1998), in Id., Testi 1954-1998, vol. IV: L’arte come veicolo (1984-1998), La casa Usher, Firenze
Grotowski J. 2016d, L’azione è letterale (1978), in Id., Testi 1954-1998, vol. III: Oltre il teatro (1970-1984), La casa Usher, Firenze
James H. 2001, Tommaso Salvini (1883-1884), «Teatro e Storia», XVI, 23, pp. 173-191
Mejerchol’d V. 1993, L’attore biomeccanico, testi raccolti e presentati da N. Pesočinskij, a cura di F. Malcovati, Ubulibri, Milano (Ciclo di conferenze tenute da Mejerchol’d ai corsi di preparazione alla messinscena e alla regia, 6-27 marzo 1919)
Schino M. 2004, Racconti del Grande Attore. Tra Rachel e la Duse, Edimond, Città di Castello (PG)
Sofia G. 2019, L ‘arte di Giovanni Grasso e le rivoluzioni teatrali di Craig e Mejerchol’d, Bulzoni, Roma
Taviani F. 1997, Una storia semplice: la mossa del cavallo, in Id., Contro il mal occhio. Polemiche di teatro1977-1997, Textus, L’Aquila, pp. 105-127
Notes de bas de page
Auteur
È stato professore ordinario di Discipline teatrali nell’Università di Bologna, dove fra l’altro dal 2004 al 2017 ha diretto il Centro Teatrale “La Soffitta”. Nel 1999 ha fondato la rivista “Culture Teatrali” (La casa Usher, Firenze). Molti suoi libri e articoli sono tradotti nelle principali lingue. Fra gli ultimi lavori pubblicati: Etienne Decroux and His Theatre Laboratory, (Icarus/Routledge 2015); Ripensare il Novecento teatrale (Bulzoni 2018); Per una politica della performance (Editoria & Spettacolo 2020).
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