Zoomimesis: imparare dalle altre specie
p. 41-52
Texte intégral
Premessa
1Il rapporto con le altre specie è usualmente interpretato dall’antropologia nei termini di semplice utilizzazione, né più né meno che materiale inerte, come selce e argilla da modellare per confezionare un processo ideativo che viene ritenuto prerogativa esclusiva e autarchica dell’essere umano. Le altre specie sono state viste come strumenti per ottenere differenti prestazioni, dal semplice uso alimentare – per esempio in Bronislaw Malinowski (1976) – a quelli più articolati della zootecnia performativa. Anche il concetto di «buono da pensare» di Claude Lévi-Strauss (1991), come entità utile per dar forma alla creatività dell’essere umano, in fondo non si discosta da questo paradigma. La metamorfosi, proposta dalla zooantropologia, è basata sul considerare l’eterospecifico non uno strumento bensì un partner di relazione, capace cioè di suggerire delle nuove idee e di ispirare-rivelare nuove dimensioni esistenziali possibili. L’incontro con l’alterità animale è molto spesso un’epifania: uno sconvolgimento per l’essere umano, capace di dare avvio al processo ideativo attraverso un processo di decentramento.
2L’essere umano ha dimostrato fin dai suoi primi esordi culturali un interessamento elettivo nei confronti delle altre specie animali, ne sono testimonianze esplicite i dipinti rupestri, l’adozione di cuccioli, la forma dei primi manufatti, i reperti paleoantropologici da cui si possono ricavare le prime espressioni rituali. Del resto ancor oggi le varie culture sono intrise di prestiti teriomorfi che, sebbene interpretati dalla creatività umana, spesso sono in grado di rivelare persino la specie da cui sono stati tratti. Anche la ricerca in psicologia ha dimostrato che l’essere umano è particolarmente attratto dalla forma animale al punto di cogliere con maggiore prontezza la zoomorfia rispetto ad altri target, di possedere una sorta di pareidolia teriomorfa (ossia vediamo animali anche dove non ci sono), di mantenere più a lungo l’attenzione di fronte a un animale rispetto ad altri enti. Non è un caso, allora, se i bambini mostrano fin da piccoli un’elettività di orientamento verso gli animali e se, di conseguenza, tutto ciò che è a loro rivolto, come giocattoli o fiabe, presenta dei tratteggi zoomorfi.
3D’altro canto, ritenere le altre specie come partner dalla cui relazione sorge il processo ideativo richiede uno slittamento paradigmatico nel modo di considerare la cultura che, di fatto, diverrebbe il portato di un processo ibridativo, sconfessando la cornice interpretativa tradizionale che, viceversa, la vede come esito emanativo dell’essere umano. Siamo d’accordo che il processo antropopoietico vada visto come un oltrepassare, senza peraltro sconfessare, il perimetro filogenetico di Homo sapiens, occorre tuttavia comprendere come tale dimensionamento culturale si realizzi. La tradizione ce lo presenta come un processo autarchico, che al più utilizza il materiale zoomorfo per confezionare un’ideazione sgorgata direttamente dalla mente umana, vuoi come evento compensativo e risarcitorio di un equipaggiamento naturale incompleto o larvale, quale si riscontra in alcune declinazioni dell’antropologia filosofica, vuoi nei termini di fenotipo esteso, cioè di diretta discendenza dal retaggio filogenetico, come ritroviamo nella sociobiologia.
4L’approccio zooantropologico si discosta da entrambe queste due visioni, sostanzialmente antropocentriche e basate sull’autarchia ideativa, considerando la natura umana non come il fattore produttivo di cultura in modo diretto – per compensazione o per emanazione – ma come il volano ibridativo da cui sorge per contaminazione la cultura stessa. In altri termini sarebbe proprio la nostra naturale inclinazione a ibridarci con referenti esterni a creare quelle condizioni emergenziali da cui originano le diverse espressioni culturali. La cultura, infatti, non accresce la centratura dell’uomo su se stesso, per cui non stabilizza, come si potrebbe pensare seguendo la concezione esonerativa, né produce un’antropoplastica, quale dovrebbe essere la conseguenza di un fenotipo che si estende per cerchi concentrici sul reale, ma al contrario rende la dimensione antropopoietica sempre più decentrata rispetto al retaggio filogenetico. Questo può essere l’effetto solo di ibridatori esterni.
5La zoomimesis rappresenta uno dei modi attraverso cui l’essere umano si è ibridato con fattori esogeni e forse potremmo addirittura considerarla come il volano di ogni ibridazione successiva. Per comprenderne il portato occorre, d’altra parte, mettere da parte l’arroganza antropocentrica, che non ci permette di accettare il contributo delle alterità nella costruzione della cultura umana. L’essere umano è particolarmente geloso delle sue espressioni culturali, ritenendole frutto esclusivamente del proprio ingegno, per questo ritengo che questa metamorfosi culturale non sia affatto scontata, nonostante la quantità incredibile di testimonianze ed evidenze a suo favore. È più facile che l’essere umano accetti il ruolo ibridativo della tecnologia, perché questa, in fondo, la ritiene una propria creatura. Inoltre, è evidente che per accettare il ruolo delle altre specie nel processo antropopoietico è indispensabile modificare quella lettura dell’animalità che ancora la relega al ruolo di controtermine dell’essere umano, una cornice ideologica non facile da decostruire.
1. La dimensione comune dell’animalità
6Per comprendere il ruolo co-fattoriale dell’eterospecifico nei processi ideativi è necessario, prima di tutto, superare alcuni pregiudizi della nostra cultura. Fondamentale è vedere in lui un soggetto, per quanto portatore di caratteristiche peculiari che lo differenziano dall’essere umano, dotato cioè di protagonismo. Il fatto che ogni specie sia stata modellata in modo singolare è un fatto. Pensiamo, per esempio, alla comunicazione, all’immersione percettiva e all’orientamento motivazionale; in pratica, ogni specie interagisce con la realtà esterna in modo proprio e così sono i suoi orientamenti d’interesse. D’altro canto, questa diversità non deve fuorviarci, portandoci a credere che l’eterospecifico sia a noi totalmente alieno. Ciò che ci accomuna è la dimensione animale, che definisce una metacondizione di appartenenza condivisa, rendendo l’alterità animale per certi versi simile a noi e per altri diversa. Occorre però ammettere una co-appartenenza dimensionale: l’animalità, che ci mostra bisogni comuni – come mangiare, difendersi e riprodursi – anche se espressi in modo differente.
7Dovendo declinare esigenze comuni in habitat e stili adattativi differenti, tale diversità predicativa è il miglior rivelatore di un’uguaglianza di base. Insomma siamo simili proprio perché diversamente modellati da un punto di vista adattativo. Ritenere l’alterità animale inconoscibile sotto il profilo esistenziale, solo apparentemente è una saggia sospensione di giudizio, perché in pratica avvalla l’ipotesi antropocentrica di una distanza ontologica incolmabile. Quando Thomas Nagel nel saggio Cosa si prova a essere un pipistrello (2013) sostiene che un pipistrello avendo una diversa esperienza sensoriale deve necessariamente avere una vita interiore totalmente differente dalla nostra, dimostra di avere poca confidenza con le condizioni emozionali e motivazionali dei mammiferi, da cui viceversa dovrebbe partire. Gli organi sensoriali disegnano un’interfaccia non propriamente un vissuto.
8Il vissuto è ovviamente anche il frutto del rapporto con il mondo, ma è scorretto affermare che sia sovrapponibile all’esperienza sensoriale. Un animale presenta delle condizioni pre-esperienziali e soprattutto disgiunte dal resoconto esperienziale. Pensiamo, per esempio, alla paura, un’emozione copulativa che non necessariamente richiede un’esperienza per determinare un vissuto. Ma la stessa cosa può dirsi per le altre emozioni, per le motivazioni e per gli a-priori rappresentazionali. Se ci inoltriamo all’interno della neurofisiologia dei mammiferi, ci accorgiamo subito che al di là delle specifiche sensoriali, esistono strade di attivazione di neuromodulazione del tutto sovrapponibili tra specie anche molto differenti tra loro, come la via dopaminergica che attiva la ricerca o la colinergica rispetto ai meccanismi attentivi. Certo, i vari mammiferi presentano anche notevoli differenze in fatto di sensorialità, e i pipistrelli e i delfini sono lì a dimostrarlo, ma l’azione dell’ossitocina o della serotonina produce in loro gli stessi meccanismi motivazionali. Il perché è presto detto. Come sappiamo, l’evoluzionismo si basa sul concetto di progenitore comune, per cui le diverse umwelten non sono monadi, ma hanno ampie porzioni sovrapposte – le omologie – che ci consentono di capire, perlomeno parzialmente, l’esperienza di un’alterità.
9L’errore più grande tuttavia è quello di credere che gli animali non umani manchino di esperienze soggettive, errore che a dir il vero
10Nagel non fa. La tradizione umanistica ci ha lasciato un’immagine de-soggettivizzata dell’alterità animale, soprattutto a partire dal concetto di res extensa di Descartes. Questa lettura ha conosciuto diversi rivolgimenti nella storia del pensiero occidentale e i diversi autori l’hanno declinata in modo differente, ma sempre marcando una distanza ontologica tra umano e non umano e dando vita a una dialettica dicotomica di qualità oppositive, come ragione vs istinto, conoscenza vs condizionamento, disposizione vs pulsione e via dicendo. L’idea che l’animale fosse un’entità mossa da automatismi, in pratica il dettato cartesiano, trova poi affermazione all’inizio del Novecento tanto nella scuola behaviorista nordamericana quanto in quella psicoenergetica centroeuropea. Per Martin Heidegger (1969) l’animale è un’entità stordita nella funzione e quindi incapace di presenziare il suo qui-e-ora, in una parola di «Esserci». Nonostante Darwin, e per certi versi come controriforma all’evoluzionismo stesso, si rimarca la differenza ontologica, trasformando l’animalità non in una condizione metapredicativa di comune appartenenza, includente cioè anche l’essere umano, ma in una controlateralità all’umano.
11La parola «animale», in questo senso oppositivo, è pertanto fuorviante. La si usa per definire in modo generico un controtermine dell’umano, come se noi non fossimo animali. Tra l’altro questo utilizzo categoriale antinomico produce dei paradossi, come l’inserimento dello scimpanzé nella medesima casella ontologica della medusa, in opposizione all’essere umano. Ma, a ben vedere, è possibile comparare una specie, la nostra, a un insieme composito e incredibilmente multiforme, quale può risultare dall’accozzaglia di tutte le altre specie? In realtà l’animalità è una dimensione metapredicativa, che comprende anche l’essere umano. Siamo a tutti gli effetti una declinazione particolare dell’animalità e questo vale per tutte le specie che non possono essere definite semplicemente animali, in senso onnicomprensivo, ma espressioni dell’animalità. Quando abbiamo capito questo, e non è facile perché si tende a generalizzare l’alterità – come il concetto di «barbari» – dobbiamo fare un altro passo per capire che nell’interazione non abbiamo solo due specie in rapporto, bensì due personalità che pongono in dialogo anche aspetti biografici: ci confrontiamo sempre con un individuo.
2. L’interesse umano verso le altre specie
12Se è vero che un rapporto va sempre considerato in modo reciprocativo e mai a senso unico, allora è necessario capire come mai l’essere umano sia così interessato alle altre specie e parimenti tanto influenzato da loro al punto di lasciarsi contaminare. Come ho detto, i riscontri che testimoniano in favore di un interesse peculiare verso la zoomorfia – da un punto di vista estetico, di curiosità o di semplice orientamento – e verso il comportamento animale nei suoi aspetti adattativi, comunicativi e coreografici sono innumerevoli, quasi un leitmotiv dell’espressione culturale delle diverse tradizioni, per cui ignorarne il portato significa voler negare l’evidenza. La zooantropologia cerca di guardare questa relazione al riparo, per quanto possibile, dal pregiudizio antropocentrico, avendo come obiettivo il mettere in luce e valorizzarne l’aspetto, evitando quella negligenza e banalizzazione che, viceversa, ha caratterizzato la cultura umanistica.
13Ma per passare dal concetto di semplice utilizzo per confezionare un’idea o per prospettarsi in un fine ̶ ove tanto l’ideazione quanto la proiezione si ritengono proprie dell’essere umano e non emergenti dalla relazione ̶ a una lettura co-fattoriale e relazionale dell’ideazione e della prospezione, cioè per passare da un concetto di animale strumento (buono-da) a uno di eterospecifico referente (partner-di) è indispensabile ritornare su questo rapporto. Occorre ammettere un momento dialogico d’incontro-confronto, attraverso cui l’alterità sia in grado di mostrarci qualcosa – potremmo dire: una dimensione esistenziale – che non può essere considerata implicita, anche solo potenzialmente, all’essere umano. Non è sufficiente affermare che l’alterità animale svolga una semplice azione di fascinazione e richiamo, ma che venga riconosciuta nei termini di «prossimo relazionale» e quindi non di alieno. Abbiamo realizzato un costrutto di animale controtermine, estraneo o specchio oscuro, che è smentito non solo dalla ricerca psicopedagogica ma anche in tutte le culture, al di là dei meccanismi vigenti in ognuna per l’emergenza identitaria o del bisogno di diversificazione.
14Anche nella cultura occidentale, che appare a prima vista quella che ha maggiormente cercato di costruire un limes invalicabile tra il noi umano e il loro animale, questa riconoscibilità di animale come prossimo è facilmente disvelabile: la ritroviamo nella stessa figura di pet come membro della famiglia o nei meccanismi di rimozione-criptazione che vengono utilizzati per sostenere l’attività di macellazione. Nei resoconti antropologici, peraltro, sono innumerevoli queste testimonianze, come per esempio le commedie d’innocenza nelle attività venatorie o i rituali di passaggio, pensiamo ai lupercali latini. L’essere umano riconosce nell’eterospecifico un prossimo: dobbiamo partire da questo punto, se vogliamo comprendere il fondamento di questa relazione. Solo attraverso processi di rimozione l’essere umano può negare il carattere di prossimità dell’eterospecifico, anche quando si tratti di animali molto lontani sotto il profilo filogenetico, quale può essere un ragno, un’ape o una chiocciola.
15Nei bambini questa percezione di comunanza è particolarmente evidente, molto probabilmente perché sono ancora liberi da sovrastrutture educative e sociali. Gli eterospecifici, quali «companion species», per citare Donna Haraway (2003), entrano in relazione dialogica con l’essere umano perché riconosciuti come partner dialogici. Inoltre, benché riconoscibili come interlocutori, essi sono in grado di mostrare un diverso modo di vivere e questo sollecita un’attenzione e un ascolto ancor più rilevante. Dobbiamo senz’altro concludere che esiste un animal appeal e forse tale fascinazione è riconducibile al magico connubio di somiglianza e diversità. Ci sono diversi aspetti che hanno reso gli altri animali come interlocutori ibridativi. La ricerca ha dimostrato che la forma animale è: 1) interessante per l’essere umano Paul Shepard (1997); 2) esteticamente appagante Edward Wilson (1985); 3) richiama in modo prioritario l’attenzione del bambino Hubert Montagner (1995); 4) agisce come evocatore motivazionale Roberto Marchesini (2000). Questo mi ha portato a formulare la teoria della zootropia: l’uomo è affascinato dagli altri animali.
16Credo, infatti, che molti siano gli elementi che entrano in gioco nella fascinazione indotta dalle altre specie. La domesticazione degli animali è stata indotta da processi parentali e il nostro rapporto con gli animali ha nella cura la componente più importante James Serpell (1988). Konrad Lorenz (1983) aveva mostrato che l’essere umano è sensibile alle pedomorfie, anche di cuccioli di altre specie. Una ricerca analoga fu condotta da Irenäus Eibl-Eibesfeldt (1993). Indubbiamente ciò ha favorito processi adottivi. Ritengo, peraltro, che il fattore che ha favorito la zoomimesis sia la convergenza di somiglianza (immedesimazione) e diversità (prospezione), un magico connubio che si è rivelato capace di suscitare il fenomeno dell’epifania: apertura di altre dimensioni esistenziali possibili. Sono convinto, perciò, che alla base della cultura vi sia stata questa tendenza al dialogo con le alterità animali, un incontro-confronto sviluppato su molteplici piani che ha permesso all’essere umano di sognare proiettandosi nel loro corpo, vivendo per un attimo l’ebbrezza di altre prospettive di vita.
3. L’influenza delle altre specie nell’antropopoiesi
17D’altro canto, non vi è dubbio che si debba indagare altresì il motivo per cui tale proiezione abbia avuto ricadute così consistenti nella nostra specie, a differenza di ciò che è avvenuto nei non-umani. Per comprendere perché l’essere umano sia così sensibile all’influenza delle altre specie, possiamo analizzare tre aspetti: 1) le potenzialità imitative e di apprendimento dell’essere umano; 2) le tendenze che portano l’essere umano a imitare o a essere influenzato dalle alterità animali; 3) le qualità che rendono le altre specie interessanti per l’essere umano. Solo la convergenza di questi tre aspetti può spiegare la zoomimesis.
18Per quanto riguarda le potenzialità cognitive e imitative dell’essere umano, è indubbio che la nostra specie mostri grandi capacità di apprendimento. Questa qualità è innanzitutto da attribuire al grande sviluppo della neocorteccia e in particolare delle aree associative e del lobo prefrontale. Inoltre è evidente che avere quasi 90 miliardi di neuroni nel cervello, ciascuno dotato di migliaia di possibili connessioni, rende possibile un numero astronomico di cablature. Le identità assumibili sono pressoché infinite! L’essere umano non è una specie carente o incompleta, bensì ridondante e questo gli ha consentito uno spazio di virtualità declinativa molto ampio. La natura umana, vale a dire il retaggio filogenetico, presenta uno spazio ibridativo proprio in ragione delle caratteristiche di partenza: la plasticità neurobiologica, la lunghezza dell’età evolutiva, il ridondante database mnestico. Se la cultura è frutto dell’ibridazione, quest’ultima è resa possibile dalle qualità specie specifiche del genere Homo, che fin dalle sue prime espressioni mostra la tendenza a ibridarsi.
19Si tratta di connotati già presenti in nuce nei primati antropomorfi, portati all’esternalizzazione delle funzioni, all’utilizzo di strumenti, ad avvalersi di forti dotazioni empatiche nella relazione sociale, alla realizzazione di prime forme di cultura. Di certo, alcune di queste caratteristiche si sono andate enfatizzando nel corso della filogenesi delle Hominine. Alla nascita il cucciolo umano è molto immaturo – nella saldatura delle ossa craniche e nei processi di mielinizzazione – questo aumenta la plasticità del connettoma neurale. Altri aspetti della morfologia umana che potenziano la flessibilità sono: i) il rapporto con la madre molto intenso per l’immaturità neonatale e per la lunghezza dell’età evolutiva; ii) l’utilizzo delle mani come organi esplorativi; iii) la capacità di un gran numero di vocalizzazioni legata alla costituzione del laringe. La nostra specie sembra proprio predisposta a imparare da tutto ciò che la circonda, molto probabilmente come effetto collaterale della dimensione parentale e sociale che ha imboccato nella sua storia evoluzionistica. Stiamo parlando di capacità.
20Dal mio punto di vista, tuttavia, questa potenzialità, se necessaria come prerequisito, non è però sufficiente a spiegare il fenomeno dell’ibridazione zoomimetica. Non basta aver la capacità di imitare, occorre essere portati a farlo: è indispensabile, cioè, desiderarlo. L’essere umano è dotato di motivazioni innate – intese come propensioni a compiere certi comportamenti per induzione interna – che lo rendono particolarmente connesso con tutto ciò che lo circonda. La componente motivazionale implicita, cioè la tendenza innata a compiere particolari attività e a essere orientati verso particolari target, è la fonte della condizione desiderante – la voglia e il piacere di fare una certa azione – da cui sortiscono i desideri umani. Il desiderio è sempre una proiezione verso un ente o un risultato, è perciò produzione di desiderata, ma questi sono la conseguenza della spinta desiderante, non la causa. L’immaginazione o l’esperienza tratteggia il desiderato, ma l’azione da cui emerge ha tutt’altra origine e sorge dal fatto di avere disposizioni psicologiche proattive.
21Come ho rimarcato nel saggio Le radici del desiderio (2021), il gatto non vuole la pallina ma desidera rincorrere: è la motivazione predatoria a rendere la pallina in movimento qualcosa di desiderabile. Allo stesso modo, molte attività dell’essere umano assegnabili a prima vista a una carenza – come raccogliere funghi, fare incetta di fiori, collezionare figurine, ordinare un catalogo – nascono dalla motivazione sillegica della nostra specie, portata a trovare soddisfazione proprio nell’atto di raccolta. Le motivazioni sono perciò disposizioni copulative, esattamente come le emozioni, in grado cioè di spingerci all’azione verso l’esterno, di creare inquietudini e languori prima dell’azione e gratificazione e appagamento in seguito allo svolgimento. Le motivazioni, in particolare, ricordano i predicati verbali dell’ente: come l’acqua scorre, il gatto rincorre e l’uomo raccoglie. Rincorrere è il principale predicato verbale del gatto, così come raccogliere lo è per l’essere umano. Il desiderio non è figlio della carenza, bensì dell’esuberanza, quella prospezione che spinge all’azione e così facendo fa emergere nell’immaginario dell’individuo una moltitudine di effetti desiderabili.
22Le motivazioni sono stati affettivi, retti dal sistema limbico e da alcuni particolari neuromodulatori come la dopamina, la serotonina, l’ossitocina e l’acetilcolina. Esse sovrintendono la condizione desiderante, la quale a sua volta stimola sia l’immaginario che la proattività. Le attività cognitive hanno nell’affettività motivazionale il loro volano: queste disposizioni sostengono i nostri desideri e ci spingono a compiere delle azioni. Una copula, pertanto, è una tendenza a coniugarsi a ciò che è esterno proiettandosi in un risultato. Nell’essere umano le motivazioni che facilitano il processo di apertura all’influenza delle alterità sono: i) la mimetica, il piacere d’imitare; ii) l’epimeletica, il piacere di adottare e di prendersi cura; iii) la sillegica, il piacere di raccogliere e catalogare; iv) la poietica, il piacere di riprodurre e rappresentare; v) la perlustrativa, il piacere di allargare il proprio spazio; vi) la competitiva, la tendenza a confrontarsi e a emulare. Nella zoomimesis queste motivazioni sono «coordinate zootropiche»: propensioni a entrare a coniugarsi con le alterità.
23A questo punto dobbiamo chiederci perché proprio gli altri animali. In parte abbiamo già risposto parlando della fascinazione che le altre specie esercitano sull’essere umano e sulla capacità di essere riconosciute come prossimo dialogico. Di certo, le altre specie sono in grado di mostrarci stili di vita molto differenti, lo sanno fare squadernando la competenza che deriva loro dal lungo processo di finitura performativa data dalla selezione naturale. L’essere umano si è confrontato con la forza degli animali, spesso vivendo questo confronto come qualcosa di grandioso, oserei dire di epico. L’ha tradotto nei suoi miti, nel teriomorfismo delle divinità, nelle pratiche sciamaniche: tutte soglie di apertura verso nuove dimensioni esistenziali o di trascendenza della propria condizione.
24L’incontro con l’eterospecifico assume l’aspetto di visione, allucinazione, rivelazione e parimenti ispirazione. È proiezione nel corpo dell’alterità e nello stesso tempo stato di possessione, è estasi e percorso di sublimazione, da cui non si può più tornare indietro, un disvelamento irreversibile di metamorfosi in atto. Per tale motivo la zoomimesis non è una semplice imitazione dell’espressione animale, ma diviene volano d’ideazione. Gli uccelli ci hanno insegnato «che si può volare» e solo successivamente hanno potuto svolgere un ruolo magistrale, metaforico e simbolico nel definire le coordinate di volo. L’incontro con l’eterospecifico, inteso a tutti gli effetti come entità para-dialogica, non produce un semplice confezionamento d’idee, perciò è scorretto pensare che l’essere umano abbia sognato-ideato per sé il volo e poi abbia guardato gli uccelli per capire come farlo. Questo pensiero presuppone l’autarchia ideativa; al contrario, possiamo dire che è l’incontro stesso generatore d’idee, ove l’eterospecifico si pone come elemento epifanico, cioè come rivelatore di «dimensioni esistenziali» possibili e non solo come elemento esemplificatore di strade modali-performative utili per una prestazione vagheggiata in modo autonomo.
25Il rapporto con le altre specie e gli effetti dell’epifania e della zoomimesis sono così forti e pervasivi nella storia dell’umanità da non poter essere ulteriormente messi in secondo piano e questo richiede una revisione profonda dell’antropopoiesi nella ricerca antropologica. La gran parte della cultura umana – la danza, la musica, la cosmesi, la moda, i rituali, la tecnologia, la divinazione, solo per fare qualche esempio – riflette questo incontro che inizia come una rivelazione esistenziale (epifania) e segue con un percorso di proiezione nell’eterospecifico. Credo, pertanto, che non sia possibile capire l’umano, come condizione, basandosi solo sull’uomo e sulle sue qualità, perché la cultura esorbita la sfera biologica dell’essere umano, pur essendo sostenuta dall’incredibile esuberanza della nostra natura.
Bibliographie
Eibl-Eibesfeldt I. 1993, Etologia umana, a cura di R. Brizzi, F. Scapini, Bollati Boringhieri, Torino
Haraway D. 2003, The Companion Species Manifesto. Dogs, People, and Significant Otherness, Prickly Paradigm Press, Chicago
Heidegger M. 1969, Essere e tempo, Utet, Torino
Lévi-Strauss C. 1991, Il totemismo oggi, Feltrinelli, Milano
Lorenz K. 1983, L’anello di re Salomone, Adelphi, Milano
Malinowski B. 1976, Magia, Scienza e Religione, Newton Compton, Roma
Marchesini R. 2000, Lineamenti di Zooantropologia, Calderini Edagricole, Bologna
2021, Le radici del desiderio, Apeiron Editoria e Comunicazione, Bologna
Montagner H. (ed.) 1995, L’enfant, l’animal et l’école, Bayard Editions, Paris
Nagel T. 2013, Cosa si prova ad essere un pipistrello?, Castelvecchi, Roma
Serpell J.A. 1988, In the Company of Animals, Basil Blackwell, New York
Shepard P. 1997, The Others: How Animals Made Us Human, Island Press, Washington DC.
Wilson E.O. 1985, Biofilia, Arnoldo, Mondadori, Milano
Auteur
(1959) È Direttore della Scuola d’Interazione Uomo-Animale e del Centro Studi di Filosofia Postumanista, entrambi situati a Bologna. Tra le sue principali pubblicazioni: Over the human. Post-humanism and the Concept of Animal Epiphany (Springer 2017), The Philosophical Ethology of Roberto Marchesini (Routledge 2017), Dialogo Ergo Sum (University of Virginia Press, 2018), Beyond Anthropocentrism (Mimesis International 2018), The Virus Paradigm (Cambridge University Press 2021), Critical Ethology and Post-Anthropocentric Ethics (Springer 2021), The Creative Animal: How Every Animal Builds its Own Existence (Palgrave Macmillan 2022).
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