Una specie di performatività
p. 3-22
Note de l’éditeur
Parte di questo testo è stata letta in data 7 maggio 2021 in occasione del Convegno “Animal Performance Studies: la scena del non umano in una cornice antropologica e filosofica” organizzato dall’Università di Bologna.
Texte intégral
1Al fine di introdurre quanto stiamo per discutere, mi pare necessario cominciare con un “appunto” di Max Horkheimer, intitolato Il grattacielo:
Su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capoufficio fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati. Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo […]. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali […]. Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato. (Horkheimer 1977, 68-70).
2A un occhio attento non può sfuggire il ruolo giocato dalla specie in questa rappresentazione metaforica del nostro orizzonte sociale. Anche se, alla luce delle analisi di Michel Foucault, una disposizione così rigidamente verticale della distribuzione del potere è discutibile, quello che qui mi pare interessante sottolineare è che mentre nei piani alti gli inquilini del grattacielo di Horkheimer si suddividono per censo, in quelli inferiori ciò che conta sono le loro caratteristiche biologiche (l’età, l’etnia, la malattia). Nella cantina, infine, è il dato biologico per eccellenza, l’appartenenza di specie, a decidere chi vi debba essere relegato.
3A partire da questa considerazione, cercherò di sostenere che la nozione di specie, così come è stata elaborata dalla tradizione occidentale, è più un costrutto politico/performativo che una descrizione innocente, ingenua e neutrale di gruppi di viventi molto simili tra loro. Di conseguenza, se la metafora sociale di Horkheimer è almeno parzialmente valida, il secondo punto che proverò a sostenere è che la risposta all’antropocentrismo debba essere configurata nei termini di un movimento politico trasformativo interessato sia alla condizione animale sia a quella degli animali umani e delle loro relazioni sociali.
4Per iniziare a inquadrare il tema, vale la pena di convocare innanzitutto Charles Darwin, figura indiscutibilmente centrale nell’elaborazione della nozione di specie. Darwin enuncia chiaramente che le specie sono qualcosa di più di un mero concetto biologico:
Io considero il termine specie come applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza, a gruppi di individui molto somiglianti fra loro, e che esso non differisce sostanzialmente dal termine varietà, il quale è riferito a forme meno distinte e più variabili. Anche il termine di varietà, per quanto riguarda le semplici differenze individuali, è applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza (Darwin 2003, 123).
5L’arbitrarietà della nozione di specie diventa lampante e, in qualche modo, effettuata sia dallo sviluppo delle cosiddette “scienze della vita” che dal sistema sociale capitalistico. Circa 150 anni dopo Darwin, la produzione da parte dell’impresa tecno-scientifica contemporanea di organismi ibridi ingegnerizzati, il più tristemente famoso dei quali è l’oncotopo, mostra infatti con estrema chiarezza come la barriera di specie non sia naturale dal momento che viene oltrepassata, con grande disinvoltura, proprio da quella stessa impresa che si fonda sulla più intransigente accettazione ideologica della divisione Umano/Animale. Analogamente, il capitalismo non si arresta certo di fronte alla barriera di specie e anzi trova la sua più incandescente espressione nella messa al lavoro di qualsiasi corpo, non importa se umano o non umano, purché possa rivelarsi (ri)produttivo.
6Con queste brevi note non si intende certo sostenere che le specie non esistono. Tutt’altro, come suggerito da quanto discusso finora, la nozione di specie è oggi più operativa che mai in quanto costrutto politico/performativo. Detto altrimenti, parafrasando ciò che Jacques Derrida afferma a proposito della natura1, si potrebbe affermare: «Non c’è specie ma solo effetti di specie, specialità o speciazione» – il riconoscimento di alcune caratteristiche speciali che trasformano alcuni corpi in corpi che contano (generalmente umani) e la speciazione, ossia la produzione di corpi che non contano, produzione che comprende non solo corpi non umani ma anche, come la storia ci insegna, moltissimi, la stragrande maggioranza, dei corpi umani. In breve, il sistema attualmente egemonico è poco o per nulla interessato al concetto di specie nel momento stesso in cui ne è funzionalmente saturo. La nozione di specie è un altro dei dispositivi – se non il più efficace, certamente il più invisibile – atti a occultare dietro a uno sfondo naturale il lato osceno del potere e del dominio.
7È possibile cominciare a dare corpo a questa tesi, prendendo in esame due degli aspetti principali che caratterizzano la cosiddetta “questione animale”. L’espressione “questione animale” intende riassumere le condizioni materiali e istituzionalizzate di sfruttamento e messa a morte degli animali non umani. E i due aspetti che ci interessano maggiormente sono le dimensioni e la pervasività di questo sfruttamento e di questa «messa a morte non criminale» (Derrida 2011, 36): un numero incalcolabile di animali è utilizzato quotidianamente in pressoché ogni attività umana – dall’alimentazione all’abbigliamento, dal divertimento ai cosiddetti sport, dall’avanzamento della ricerca scientifica alla pubblicità, ecc.2. Tanto che se facessimo un esperimento mentale molto semplice e provassimo ad immaginarci che cosa accadrebbe se lo sfruttamento animale cessasse, vedremmo immediatamente che la nostra struttura sociale, il grattacielo horkheimeriano, crollerebbe su se stessa seduta stante.
8Anche prendendo in esame gli aspetti ideologici dello sfruttamento animale – la cosiddetta “questione dell’Animale” – giungiamo a una conclusione del tutto analoga. L’Uomo si è sempre compreso come differenza dall’Animale. L’Uomo è un animale con qualcosa in più (linguaggio, ragione, capacità di compiere azioni morali o politiche, ecc.) oppure un animale con qualcosa in meno (“senza zanne e senza artigli”). Indipendentemente però dalle modalità con cui questa differenza si è storicamente declinata, l’Uomo si è costituito e si costituisce, sempre e comunque, come un’entità superiore ed esterna al resto del mondo, entità così speciale da ritenere che tutte le altre creature siano a sua completa disposizione. Questa differenza è descritta come ontologica, naturale e, come tale – poiché per l’Occidente la natura non ha storia – immodificabile. Tuttavia, come dovrebbe essere chiaro dagli esempi da cui siamo partiti, la barriera Umano/Animale è estremamente permeabile, almeno nella direzione che va dall’Uomo all’Animale, nel momento in cui interessi per lo più economici la rendono tale. In breve, anche la barriera Umano/animale è politica e performativa più che biologica e naturale3. Non forse è questo il senso di ciò che Max Horkheimer e Theodor Adorno affermano nella Dialettica dell’illuminismo?
L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo. Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità da tutti gli antenati del pensiero borghese [...], e poi attraverso il Medioevo e l’età moderna, che appartiene ormai, come altre poche idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale (Horkheimer, Adorno 1980, 263).
9A partire da questa prospettiva, possiamo ora provare a definire che cosa si debba intendere per specismo. A mio parere, lo specismo è sinonimo di norma sacrificale4, ossia quella norma in cui si realizza l’intersezione letale tra l’ideologia che legittima lo smembramento istituzionalizzato dei corpi e l’insieme dei dispositivi che rendono possibile ed effettuano tale smembramento. La prestazione principale di tale intersezione sacrificale è quella di separare, come detto in precedenza, in maniera presuntamente naturale i corpi da tutelare, proteggere e sacralizzare dai corpi che possono essere sfruttati e uccisi impunemente.
10Per quanto riguarda l’ideologia lo specismo può essere pensato come una macchina. Una macchina simile, in termini di funzionamento, a quella che Giorgio Agamben, riprendendo alcune intuizioni di Furio Jesi, ha chiamato «macchina antropologica» (Agamben 2002, 38-43). Entrambe queste macchine, infatti, lavorano per produrre l’Uomo – ciò che si intende per umano –, separandolo dalla nuda vita attraverso un’operazione complessa che, ruotando attorno a un centro vuoto, si avvale di meccanismi che sono, simultaneamente, escludenti e includenti5.
11A prima vista, questa definizione potrebbe apparire esoterica. Proverò allora a chiarirla nel contesto della nostra discussione. Il concetto di centro vuoto sta a indicare che, al di là delle differenze storiche che ne hanno caratterizzato il funzionamento e i “prodotti”, la macchina specista è messa in moto da definizioni stabilite a priori di che cosa sia l’Uomo. In altre parole, la materializzazione dell’umano non è il risultato della scoperta empirica di tratti biologici identificativi, ma la certificazione burocratica dell’origine surrettiziamente naturale dei rapporti sociali vigenti e la trasformazione della corrente continua del vivente animale in corrente alternata (o si è riconosciuti o non lo si è). In breve: ciò che sembra essere il prodotto del lavorio della macchina specista è in realtà ciò che essa è chiamata a giustificare. Ciò che conferisce a questa macchina tutta la sua efficacia operativa è il centro vuoto, dove si realizza il cortocircuito tra produzione e giustificazione dell’Uomo.
12Per quanto riguarda invece il sincronismo dei meccanismi di esclusione/inclusione, si può dire che, come tutte le macchine, anche quella specista produce (include) dissipando energia e accumulando scarti (escludendo) – e viceversa. Questi fenomeni sono indissociabili: il dentro e il fuori si formano insieme e si “piegano” l’uno sull’altro; l’inclusione (il riconoscimento, l’intelligibilità sociale) si realizza tramite il rigetto (la rimozione, l’invisibilizzazione, la smaterializzazione) di determinati tratti e di determinati gruppi e l’esclusione tramite l’appropriazione e la cattura di chi e di ciò che viene escluso. E viceversa.
13Un esempio può aiutarci a chiarire questo punto. Spostiamoci nell’Atene antica: Uomo è chi ha accesso all’agorà, ossia chi non deve dedicarsi a lavori materiali, chi sa argomentare senza farsi travolgere dalle passioni, chi parla correttamente il greco. È evidente che l’appartenenza a questo club non richiede alcun apprendistato e che la tessera di riconoscimento è consegnata a chi di fatto ne fa già parte in quanto, appunto, ateniese, proprietario e maschio (questo è il centro vuoto). Altrettanto evidente è che l’inclusione degli ateniesi si realizza nel momento stesso in cui si escludono, esplicitamente, i barbari (chi non parla greco), le donne (che sarebbero facili prede della passione) e gli schiavi (che non posseggono neppure il proprio corpo) e, implicitamente, la corporeità animale che “infesta” chiunque, anche il più ateniese tra gli ateniesi. Simultaneamente, però, l’Ateniese non esisterebbe se non si fosse appropriato del Barbaro, della Donna e dello Schiavo; se non avesse esternalizzato le proprie funzioni corporee alle donne e agli schiavi e se non li utilizzasse, assieme ai barbari, per tracciare i margini che ne delimitano l’identità. Questo meccanismo incrociato fa sì che l’Ateniese sia contemporaneamente dentro (come “spirito”) e fuori (come “corpo”) la sfera del privilegio e che il Barbaro, la Donna e lo Schiavo siano contemporaneamente fuori (come corpi che non contano) e dentro (come forza lavoro o beni di consumo) la polis. Ora, non dovrebbe essere difficile ripetere un ragionamento analogo per quanto riguarda la creazione dell’Uomo.
14Prima, però, di procedere in questa direzione, vale la pena di aprire una parentesi e provare a tratteggiare, seppur brevemente, quella storia di lungo corso che ha esitato in quella che abbiamo chiamato la “creazione dell’Uomo”. Anche se non abbiamo il tempo per passarne in rassegna tutte le articolazioni, una delle più importanti è certamente il passaggio dal Paleolitico al Neolitico. Con l’abbandono del nomadismo e la costituzione dei primi insediamenti umani di una certa dimensione, insediamenti caratterizzati da complessità e gerarchia, l’organizzazione sociale si è profondamente modificata e ha comportato, tra le altre cose, la divisione/specializzazione del lavoro e la nascita di classi improduttive (governanti, funzionari, guerrieri e sacerdoti). L’accresciuta complessità sociale, altamente dispendiosa da un punto di vista energetico, ha necessariamente richiesto, per poter reggere il suo stesso peso in continuo aumento, un supplemento di risorse che è stato “estratto” dal lavoro degli schiavi e delle classi subalterne, dallo sfruttamento intensivo dell’ambiente, grazie allo sviluppo dell’agricoltura, e dalla domesticazione degli animali. Lo sfruttamento e la messa a morte di esseri così simili all’Uomo – schiavi umani e animali – ha comportato, a sua volta, la necessità di elaborare ideologie che giustificassero l’ingiustificabile, che trasformassero decisioni politiche in presunti fatti di natura, assegnando a ogni gruppo e a ogni individuo un posto ben preciso e indiscutibile lungo la cosiddetta “scala degli esseri”.
15Chiaramente, la storia non si è fermata al Neolitico e altri eventi hanno contribuito alla genesi del fenomeno che stiamo analizzando. Almeno alcuni di questi vanno ricordati per la loro importanza: 1) la diffusione a livello globale delle religioni monoteiste (il cui Dio, creato a immagine e somiglianza dell’Uomo, consegna all’Uomo la signoria sull’intero vivente); 2) l’Umanesimo e il Rinascimento (con la loro enfasi sull’Uomo fatto ascendere alla posizione di osservatore divino completamente sganciato dal resto del mondo naturale); e 3) le rivoluzioni industriale e tecno-scientifica (che hanno messo a disposizione gli strumenti – dalle catene di (s)montaggio alle celle frigorifere, dal produttivismo fordista ai sistemi di trasporto – che hanno reso possibile la crescita esponenziale del consumo di corpi animali).
16Forse, però, è più utile lasciare questa lista incompleta e ribadire, al di là delle articolazioni storiche, che i tratti che sostengono l’antitesi umano/animale diventano eloquenti solo all’interno di una cornice normativa – simbolica e materiale – già stabilita. Una cornice caratterizzata dalla strabiliante capacità di sapersi rendere invisibile, trasformandosi in legge di natura («È così e non può che essere così»), nel momento stesso in cui sancisce le modalità “normali” di pensare, vivere e relazionarsi. In effetti, almeno tre aspetti dovrebbero colpirci nella costruzione della barriera umano/animale: 1) l’idea secondo cui esisterebbe un tratto presente, senza eccezioni, in tutti gli umani e assente, senza eccezioni, in tutti gli altri animali – divisione alquanto improbabile, soprattutto alla luce delle acquisizioni della biologia darwiniana e post-darwiniana che mostrano come le specie si differenzino per grado (distribuzione differenziale di capacità e caratteristiche condivise) e non per genere (la capacità o la caratteristica è presente o è assente); 2) la qualità psicocentrica dei tratti scelti per tracciare la linea di confine; e 3) l’ostinazione con cui non si è mai smesso di cercare, con poche prove e molti errori, la differenza definitiva e incontrovertibile.
17Questi aspetti dovrebbero colpirci perché denunciano in maniera lampante la malafede e l’artificiosità di questa barriera, barriera che si consolida proporzionalmente alla sua capacità di dileguarsi in una presunta naturalità, di spacciarsi per la mera presa d’atto, neutra e asettica, di una “realtà esterna” tanto naturale quanto immodificabile. Zoomando sulle narrazioni intorno all’unicità dell’Uomo, all’eccezionalismo umano, non sarà difficile vedere delinearsi nella loro trama una falla di proporzioni gigantesche: chi classifica è così interessato al “risultato” della sua classificazione da averlo già in mente prima di “scoprirlo”. Ecco allora spiegata la scelta apparentemente innocente del metro di misura: tratti psichici o cognitivi già fortemente caratterizzati in senso umano. Ecco la ragione della pervicacia con cui viene tracciata, ritracciata e pattugliata la linea di confine quando nuove osservazioni empiriche la mettono in discussione e la fanno vacillare.
18Una volta riconosciuta l’artificiosità strumentale della divisione Umano/Animale, la questione animale, da cui siamo partiti, si allarga, si approfondisce e assume, se possibile, tinte ancora più fosche. L’Uomo di cui stiamo parlando – e che fino a qui è apparso in maniera poco definita – è, infatti, un’entità spettrale che possiede però delle caratteristiche ben precise: è maschio, bianco, eterosessuale, cristiano, adulto, abile, sano, proprietario e carnivoro. L’Uomo che si distingue dall’Animale non è l’insieme di tutti i membri della specie Homo sapiens; al contrario, è un ventre molto selettivo ed elitario che si alimenta di ciò che esclude; è l’espressione, tanto invisibile quanto categorica, di un sistema di classificazione gerarchizzante che opera, rimuovendo l’Animale, non solo fuori ma anche dentro la nostra stessa specie. L’Uomo è, insomma, per “parassitare” il lessico di Alfred Sohn-Rethel una delle più potenti astrazioni reali – se non addirittura la più radicata e la più operativa. Del pari, l’Animale (ciò che viene rimosso) è a sua volta un altro mostruoso singolare collettivo composto non solo dall’insieme dei non umani (dalle pulci agli scimpanzé), ma anche dei resti sezionati di uteri e vagine, di ani e movenze sinuose, di “stupidità” e “arretratezza”, di deliri e follie, di balbettamenti e vulnerabilità, di emozioni e corporeità.
19Per completare la descrizione di che cosa sia lo specismo vanno infine presi in esame i dispositivi di smembramento dei corpi animali. Questi dispositivi sono di due ordini principali: materiali e performativi6. Purtroppo, i dispositivi materiali – l’allevamento, il mattatoio, il laboratorio e tutti gli altri nonluoghi di reclusione e reificazione – sono tristemente ben noti, tanto noti che non è necessario parlarne in dettaglio. A fianco di questi nonluoghi vanno poi considerate le loro strutture disegnate fin nei minimi dettagli: dalla scelta del posto dove costruirli (generalmente lontani dai centri abitati per ragioni “igieniche” o in modo da sottrarli alla vista) all’architettura il più funzionale possibile agli scopi dello specifico settore di sfruttamento, dall’“ottimizzazione” dell’interior design (disposizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori e delle catene di smontaggio) alla precisione burocratica con cui ogni aspetto dell’attività industriale è standardizzato, dai tempi di lavoro alle mansioni degli operai o dei tecnici, dalle piastrelle per facilitare le operazioni di pulizia ai sistemi di smaltimento dei rifiuti non commercializzabili, ecc.
20Per quanto riguarda i dispositivi performativi, come evidenziato dalla Speech Act Theory, si intende invece una serie di “produzioni verbali” in grado di esercitare un effetto materiale sul mondo. Ad esempio, espressioni del tipo «Vi dichiaro marito e moglie» non sono descrittive; hanno anzi un impatto immediato e significativo sulla realtà, modificando i rapporti in essere, distribuendo diritti e doveri, assegnando il posto che compete a ciascuno, decidendo il futuro degli attori coinvolti, ecc.. In ambito animale i dispositivi performativi sono molteplici. Ecco una lista tutt’altro che completa di parole che uccidono: 1) le leggi nazionali e sovranazionali che regolano sia le pratiche di smembramento – la “macellazione umanitaria”, la “buona sperimentazione” e il “benessere animale” – sia le sovvenzioni pubbliche a loro sostegno; 2) le delibere delle associazioni degli industriali di settore o dei sindacati di categoria; 3) le disposizioni regolamentari su come e dove cacciare, su come e dove si possono attendare i circhi, su come fare ristorazione, su come gestire i canili, ecc.; 4) le misure amministrative volte, ad esempio, a definire gli spazi in cui gli animali “da compagnia” possono entrare o dai quali sono tassativamente banditi, oppure le condizioni che comportano la “soppressione” dei cani mordaci.
21Quanto detto fin qui ci dovrebbe consente di cominciare a delineare il compito politico dell’antispecismo. Se altre elaborazioni teoriche e altri movimenti hanno decostruito e continuano a decostruire gli attributi dell’Uomo (il femminismo la presunta supremazia naturale dell’essere maschio, il queer quella dell’eterosessualità e del binarismo di genere, il postcolonialismo quella della bianchezza, ecc.), l’antispecismo, per realizzare le proprie potenzialità dirompenti e ancora per gran parte inespresse, dovrebbe intraprendere un analogo corpo a corpo con il sostantivo, l’Uomo, che regge la serie di aggettivi di cui si è detto. Il che non può che comportare una duplice mossa: la decostruzione dei sistemi specisti di sapere (ideologia e narrazioni) e lo smantellamento delle strutture speciste sezionanti (i dispositivi di potere materiali e performativi).
22Prima però di spendere qualche parola su ciò che dovrebbe costituire il bersaglio di questo corpo a corpo, vale però la pena di tornare su quanto abbiamo lasciato in sospeso e provare a definire con maggior precisione i meccanismi attraverso cui opera la macchina specista: 1) la definizione del “proprio della specie dell’Uomo” (definizione stabilita a priori che la macchina deve restituire invariata ma con la “certificazione di naturalità”); 2) la misurazione della distanza che corre tra la specie standard di riferimento e tutte le altre specie animali; 3) la distribuzione gerarchica delle specie secondo un ordine inversamente proporzionale alla suddetta distanza (maggiore è la distanza dal proprio dell’Uomo, più bassa è la posizione che si andrà a occupare lungo la “scala degli esseri”). Facendo ricorso alla terminologia utilizzata da Derrida (2011, 18, 28), potremmo riassumere quanto detto nel modo seguente: la prima operazione della macchina specista (la definizione del proprio dell’Uomo) è la favola che, di volta in volta, ci raccontiamo per differenziarci dal resto dei viventi animali e le altre due (la misura delle distanze e la costruzione della scala gerarchica) sono il calcolo attraverso cui istituiamo e istituzionalizziamo differenziali di potere. Ovviamente, la favola e il calcolo, qui come altrove, non sono indipendenti l’una dall’altro, ma si rincorrono in un circolo in cui la favola naturalizza il calcolo – lo legittima e lo fa scomparire – e in cui il calcolo normalizza la favola – la inscrive a lettere di fuoco nella nostra carne e la trasforma in verità indubitabile. Una volta che questo sistema funziona a pieno regime, favola e calcolo si rafforzano a vicenda: modifiche o innovazioni ideologiche sono al contempo causa ed effetto dell’introduzione di nuovi sistemi di misura del “valore” e di distribuzione gerarchica. E viceversa.
23Tutto questo ribadisce, se fosse ancora necessario, la natura politica della categoria di specie. È la categoria di specie il centro vuoto attorno al quale lavora la macchina specista; la specie è il “carburante” che consente di riprodurre da una parte l’Uomo e dall’altra l’Animale. La distribuzione/classificazione di specie non è tanto la mera descrizione di un ordine naturale immutabile, o di un processo evolutivo altrettanto naturale, quanto piuttosto un costrutto performativo o, quantomeno, anche e soprattutto uno dei più potenti costrutti performativi utile a disciplinare a scopi produttivi e riproduttivi l’infinita variabilità dei viventi. Permettetemi, però, di elaborare ulteriormente queste affermazioni in modo da evitare fraintendimenti. Ciò che sto cercando di sostenere non è l’inesistenza di tratti biologici maggiormente o più frequentemente presenti in questa o quella specie o, con altre parole, che non esistano differenze, ad esempio, tra umani, cani, gazzelle e coleotteri. Quello che sto affermando è che l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’Uomo e l’Animale non è un’operazione neutra e naturale, ma una decisione normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che ci permette di distinguere Homo sapiens non è tanto la semplice osservazione di una serie “muta” di caratteristiche più o meno esclusive quanto piuttosto che queste si mettono a parlare grazie all’indiscutibilità della norma sacrificale (la somma di ideologia e dispositivi) che, nell’ombra, ha già deciso chi è degno di vivere e chi può invece essere macellato in tutta tranquillità.
24Quanto detto può essere ulteriormente precisato ricordando come meccanismi analoghi operino nella produzione dei generi. Il pene o la vagina, di per sé, non parlano. Questa innegabile differenza biologica tra umani (chi ha il pene e chi la vagina) assume la sua piena valenza socio-politica solo grazie alla norma eterosessuale che, tra le miriadi di altre differenze biologiche, riconosce il pene come aspetto eloquente per la materializzazione del “corpo maschile” e la vagina come aspetto eloquente per la materializzazione del “corpo femminile”. In altri termini, non si danno i “maschi” e le “femmine” che, attratti per natura gli uni dalle altre – e viceversa –, rendono egemone l’eteronormatività, ma è la norma eterosessuale che produce soggettività maschili e femminili che poi restituisce sotto forma di entità naturali. Soggettività maschili e femminili che, a loro volta, naturalizzano la norma che le ha costituite, continuando a riprodurla a partire dai più “insignificanti” gesti quotidiani, ad esempio, nella scelta degli abiti con cui ci si veste e ci si mostra in pubblico. In estrema sintesi, i discorsi di sapere e i dispositivi di potere fanno parlare alcune caratteristiche della realtà e conferiscono alle loro narrazioni l’aspetto di verità. Alla luce di queste considerazioni, è lecito domandarsi, come sto cercando di fare, se il concetto di specie non operi facendo leva su meccanismi analoghi. I corpi che la norma sacrificale ha soggettivizzato come umani, da umani si comportano, in tal modo ribadendola e naturalizzandola ogni giorno e con ogni minimo gesto, ad esempio sedendosi a tavola in un determinato modo per nutrirsi di corpi che non contano. È, allora, davvero così bizzarro o insensato sostenere che la distinzione Umano/Animale (e con essa la nozione di specie) è una questione politica e non un tema di anatomo-fisiologia comparata? Non è certo un caso che Émile Benveniste abbia deciso di aprire Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee con un la voce «Maschio e riproduttore», affermando che «una distinzione immediata e necessaria, in una società di allevatori, è quella tra animali maschi e femmine» (2001, 13). Come a dire che siamo una società fondata sull’allevamento, una società che, per riprodursi, ha l’inderogabile necessità di naturalizzare e normalizzare i/le viventi come maschi o come femmine.
25Tornando alla decostruzione dell’Uomo a cui abbiamo accennato in precedenza, possiamo affermare che è l’idea stessa dell’esistenza di un proprio dell’Uomo ciò che va definitivamente rifiutato. Per essere ancora più chiari, il “proprio” (con il suo corredo di proprietà, intese nella doppia accezione di caratteristiche e di possesso) è il prodotto del più cupo pensiero reazionario: il proprio dell’Uomo e, di conseguenza, anche quello delle altre “specie” non esistono se non nei discorsi e nelle pratiche delle élite egemoni. Al contrario, i viventi animali, senza eccezioni, sono ibridi e meticci, in una parola impropri. Gli animali, umani o non umani che siano, sono costitutivamente relazionali: non sono individui che entrano in relazione, ma relazioni che eventualmente, perdendo in ricchezza e in potenza, possono venire individualizzate. Tutti siamo intrecci di relazioni, tutti siamo parte di un’incessante creolizzazione con “chi” ci ha preceduto, con “chi” ci ha accompagnato e ci accompagna e con “chi” ci seguirà. In altri termini, non siamo tanto individui differenti, quanto piuttosto singolarità immerse in un continuo processo di differenziazione. Oppure, per usare le parole di Deleuze e Guattari, ci sono
animali ancor più demoniaci, che formano mute e provano affetti, che creano molteplicità, divenire, popolazione, racconto... [...] Branchi, bande, greggi, popolazioni non sono forme sociali inferiori, sono affetti e potenze, involuzioni che trascinano ogni animale in un divenire non meno potente di quello dell’uomo con l’animale (Deleuze, Guattari 2003, 344-345).
26A mio parere, un pensiero che intenda davvero lasciarsi alle spalle le ideologie e i dispositivi specisti dovrebbe pertanto muoversi oltre la dialettica delle identità e delle differenze per riconoscere la faglia di vita impersonale e transpersonale7 che percorre l’intero vivente sensuale; vivente che, desiderando e desiderando di essere riconosciuto, “ci” interpella fin dentro le viscere e le pieghe più intime della carne. Chiamerei antispecismo del comune questa potenziale modalità di opposizione – ancora embrionale e tutta da sviluppare – alla norma sacrificale antropocentrica. In questa prospettiva, il comune è lo spazio in perenne mutamento dove la vulnerabilità e la finitudine dei differenti corpi sensuali incontrano la capacità tutta “animale” di gioire, di giocare, di rendersi inoperosi8, ossia di muoversi e sentire senza un fine prestabilito, sottraendosi in tal modo agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione obbligatoria. Il comune, quindi, non è inteso come una forma di proprietà collettiva, cioè ancora una proprietà seppur “attenuata”, ma come la vita grazie a cui si vive resa(si) indisponibile ai processi di cattura del capitale, non la vita che si vive ma la vita per cui si vive liberata dall’economia dell’utile e degli utili9.
27Giunti a questo punto, visto che più o meno esplicitamente si è parlato di liberazione dei corpi che non contano e di liberazione dell’animalità che percorre, volente o nolente, anche l’umano più paradigmatico, vorrei spendere qualche parola sulla nozione di libertà, sottolineando come anch’essa risponda in qualche modo al concetto di comune che abbiamo provato a delineare. Come mostra Benveniste (2001, 247-256), le radici indoeuropee del termine libertà – leuth o leudh (da cui discendono, ad esempio, elèutheria in greco e libertas in latino) e frya (da cui discendono, ad esempio, freedom in inglese e Freiheit in tedesco) – derivano dall’idea di una crescita comune, di una fioritura intesa come potenza connettiva della vita. Non a caso, termini come amore, amicizia e affetto riconoscono in molte lingue le medesime radici etimologiche – si pensi a love e a friend in inglese, a libet e libido in latino, a Liebe e a Freund in tedesco, ecc. La libertà non è un fatto individuale, isolato e solitario, ma un processo collettivo di progressiva ibridazione accomunante. O con le parole di Benveniste: «È quindi chiaro che la nozione di ‘libertà’ si costituisce a partire dalla nozione socializzata di ‘crescita’, crescita di una categoria sociale, sviluppo di una comunità.» (ivi, 249).
28Prima di concludere e per articolare ulteriormente i compiti politici dell’antispecismo, vorrei sottolineare la differenza tra potere e dominio. Il potere, come insegna Foucault10, è un fenomeno complesso definito da un rapporto di forze, che si distribuiscono secondo gradienti (ad esempio, il patriarcato non esercita la stessa “pressione” sulle donne bianche eterosessuali, sulle donne bianche lesbiche, sulle donne nere e sulle donne nere lesbiche) e che si esercitano lungo vettori diversi (oltre al vettore più noto che corre verticalmente dall’alto al basso, ve ne sono altri che si dispongono orizzontalmente o trasversalmente: ad esempio, all’interno della stessa classe sociale gli uomini hanno più potere delle donne, gli eterosessuali più potere dei gay e delle lesbiche e questi/e ultimi/e più dei/delle trans). Inoltre, il potere non è solo repressivo e assoggettante, ma anche produttivo e soggettivizzante e, come tale, si costituisce contemporaneamente al sorgere di fenomeni di resistenza. Quando perde questa complessità, quando è senza gradienti e senza vettori, quando le vite precarie sono ridotte a nuda vita e, soprattutto, quando raggiunge un tale livello di forza da escludere a priori ogni forma di soggettivazione “anomala” e di resistenza, il potere si trasforma in dominio. Il dominio si realizza nell’assoggettamento annichilente, nel controllo sistematico, assoluto, totale, capillare e completo sulla vita di chi, più che oppresso, è già-morto. L’altra caratteristica peculiare del dominio è la sua capacità di fare questo rendendosi invisibile in maniera direttamente proporzionale alla sua estensione e pervasività, tanto da venire spesso considerato alla stregua di una calamità naturale.
29È evidente che i non umani – a seconda delle specie di appartenenza e in gradi e per tempi variabili in durata e intensità – entrino in rapporti di potere con gli umani e siano sottoposti al dominio umano. Altrettanto evidente è che il potere sia costitutivo dei rapporti tra viventi animali, e che, come tale, possa essere “modulato”, ma non completamente cancellato. Al contrario, il dominio è il prodotto più terribile di un ben preciso ordine sociale storicamente e geograficamente definibile – quello che ha raggiunto il suo apice nell’Occidente moderno e contemporaneo – e come tale possa, e debba, essere superato da processi politici trasformativi degni di questo nome. Pertanto, un antispecismo che si riconosca come movimento politico di radicale contestazione dell’esistente dovrebbe elaborare e realizzare strategie e programmi atti a esprimere apertamente la propria solidarietà attiva nei confronti degli animali resistenti e, soprattutto, a smantellare le ideologie e i dispositivi di dominio.
30Chiaramente, in quanto soggetti massivamente coinvolti in strutture oppressive, non possiamo neppure immaginarci l’architettura sociale che risulterà da quel processo di liberazione che abbiamo descritto come materializzantesi tra e con gli/le altr*. Tuttavia, per passare dalla politica sulla vita a una politica della vita, ciò a cui fin da ora siamo chiamati è iniziare a farci carico delle grida di dolore e del desiderio di liberazione che salgono dal fondo delle cantine dei nostri grattacieli, a dissestare il mondo anticipando qui e ora il momento della redenzione (per dirla con Walter Benjamin), ad allargare crepe e fratture nelle architetture del potere per cominciare a intravvedere al di là di esse il pulsare della carne-del-mondo. Un bagliore di questo tipo è quello che filtra tra le pareti della stanza descritta da Derrida ne L’animale che dunque sono, stanza in cui il filosofo francese incrocia il proprio sguardo con quello di un gatto o, forse, di una gatta:
Questo gatto non si comporta come un caso della specie “gatto”, e ancor meno di un genere o di un regno “animale”. Sicuramente lo identifico come un gatto o una gatta, ma ancor prima di questa identificazione, il gatto mi viene incontro come questo essere vivente insostituibile che entra un giorno nel mio spazio, in questo luogo dove ha potuto incontrarmi, vedermi e vedermi nudo. Niente mi potrà mai togliere dalla testa la certezza che qui si tratta di un’esistenza che rifugge da ogni concettualizzazione e per giunta di un’esistenza mortale, perché dal momento che possiede un nome, quel nome già gli sopravvive e firma la sua possibile scomparsa. Anche la mia – e questa scomparsa […] si annuncia ogni volta che, nudo o no, uno di noi lascia la stanza. (Derrida 2006, 46).
31In questa stanza, un* gatt* e un uomo – degli esseri viventi insostituibili – si incontrano nella loro assoluta vulnerabilità, si sfiorano, intersecano i cammini delle loro vite per instaurare un dialogo muto sulla comune appartenenza all’orizzonte della mortalità. Vedendosi nudi e assolutamente esposti e vulnerabili, questo uomo e quest* gatt* scoprono il transindividuale che li precede, li attraversa, li traccia e li condivide, scoprono quel tra che è la mortalità, la quale, come possibilità dell’impossibile, mostra che la potenza è im-potenza, incontro in-finito e gioioso con gli/le altr*. In questa stanza porosa, in questa stanza aperta verso il fuori e dove mai è negata la possibilità di fuoriuscire, questo gatto e questo umano sono impegnati nel compito in-umano di progettare uno spazio a venire che renda possibile l’oltrepassamento del confine più radicato della nostra tradizione:
Come ogni sguardo senza fondo, come gli occhi dell’altro, questo sguardo cosiddetto “animale”, mi fa vedere il limite abissale dell’umano: l’inumano o l’anumano, le fini dell’uomo, cioè il passaggio delle frontiere oltre il quale l’uomo osa annunciarsi a se stesso. (ivi, 49).
32Non sappiamo se e come questa stanza e le innumerevoli altre eterotopie che saremo in grado di edificare rispondendo agli sguardi, alle movenze e ai sensi animali saranno in grado di sostituirsi ai grattacieli. Quello che sappiamo è che tale sostituzione, se mai accadrà, potrà avvenire solo in luoghi dove gli animali saranno di casa. In stanze con infiniti passaggi e vie di fuga, in stanze dove la vita non sarà acriticamente esaltata o violentemente annientata, in stanze dove non avranno più posto le astrazioni spiritualistiche rappresentate dalle specie e dalle figure esemplari della scienza e del diritto, ma dove abiteranno singolarità accomunate dalle loro irriducibili differenze. È questo movimento sensibile, questo movimento perenne che abolisce lo stato di cose presente, ciò che finalmente ci permetterà di rintracciarci in quell’impensato aldiqua dove viviamo e moriamo insieme agli altri animali. Dove coabitiamo con loro.
33Per concludere vorrei citare, per un’ultima volta, Derrida. Nel discorso tenuto in occasione della consegna del Premio Adorno, intitolato Il sogno di Benjamin (Derrida 2003, 40, 50-52), il filosofo francese, dopo essersi riconosciuto come «erede della scuola di Francoforte», suggerisce con estrema delicatezza, quasi sussurrasse parole appena udibili11, che se intendiamo davvero coabitare con quegli altri viventi che chiamiamo animali, dovremmo far interagire il pensiero critico con la decostruzione:
Arrivo infine al capitolo che scriverei con maggior piacere, perché imboccherebbe la via meno battuta ma, ai miei occhi, tra le più decisive nella lettura a venire di Adorno. Si tratta di quel che viene chiamato, con un singolare plurale che mi ha sempre colpito, l’Animale. Come se non ce ne fosse che uno. Facendo riferimento a diversi abbozzi o spunti che sono stati ben poco sottolineati, e che Adorno ci offre […], cercherei di mostrare [...] che lì ci sono delle premesse da sviluppare con grande prudenza, i barlumi quanto meno di una rivoluzione nel pensiero e nell’azione di cui abbiamo bisogno, e che riguarda la coabitazione con quegli altri viventi che chiamiamo animali (ivi, 50-52).
34Accoppiamento mostruoso quello tra pensiero critico e decostruzione, capace però di generare mostri belli e gioiosi, in grado di opporsi alle mostruosità tristi in cui si sono impigliate e infrante le nostre vite precarie. Certo, chi parla non ha né la pretesa né la capacità di affrontare tale compito in-umano, ma ha provato a indicare, per chi verrà, per la politica a venire, in quella direzione.
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Notes de bas de page
1 Si fa qui riferimento all’icastica affermazione derridiana: «Non c’è natura, ma solo effetti di natura: denaturazione o naturalizzazione» (Derrida 1996, 168).
2 Al proposito, mi permetto di rinviare al primo capitolo del mio Questioni di specie (2017, 23-37).
3 Ho discusso questi aspetti più approfonditamente ne L’invenzione della specie (2016, 9-31).
4 Mutuo questa espressione da Zappino 2015.
5 «In quanto in essa è in gioco la produzione dell’umano attraverso l’opposizione uomo/animale, […] [la macchina antropologica] funziona necessariamente attraverso un’esclusione (che è sempre già una cattura) e un’inclusione (che è sempre già un’esclusione). Proprio perché l’umano è, infatti, ogni volta già presupposto, la macchina produce in realtà una sorta di stato di eccezione, una zona di indeterminazione in cui il fuori non è che un’esclusione di un dentro e il dentro, a sua volta, soltanto l’inclusione di un fuori […]. Come ogni spazio di eccezione, questa zona è, in verità, perfettamente vuota, e il veramente umano che dovrebbe avvenirvi è soltanto il luogo di una decisione incessantemente aggiornata, in cui le cesure e la loro riarticolazione sono sempre di nuovo dis-locate e spostate» (Agamben 2002, 43).
6 Forse vale la pena, anche per spiegare la scelta del termine, ricordare che cosa Foucault (1994, 25) ha definito come “dispositivo”: «Un insieme decisamente eterogeneo, che implica discorsi, istituzioni, sistemazioni architettoniche, decisioni regolamentari, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, insomma un detto ma anche un non detto».
7 Pur attraversando l’intero pensiero di Roberto Esposito, la categoria di “impersonale” è centrale in Id. 2007, 2008.
8 Il concetto di inoperosità è centrale nel pensiero di Agamben. Tra gli altri, cfr. Id. 2005, 2017.
9 Mutuo la distinzione tra la vita che viviamo (bíos) e la vita per cui viviamo (zoé) da Agamben 2014, 10-11.
10 Cfr. tra gli altri, Foucault 1977, 2009; Deleuze 2009, 97-124.
11 Derrida 2003, 40: «Da decenni, sento in sogno quelle che chiamiamo “voci” [...]. Tutte sembrano dirmi: perché non riconoscere, chiaramente e pubblicamente, una volta per tutte, le affinità tra il tuo lavoro e quello di Adorno o, a dire il vero, il tuo debito verso Adorno? Non sei forse un erede della scuola di Francoforte?».
Auteur
Professore ordinario di neurologia, insegna Neuroscienze alla Facoltà di Medicina e Neurofenomenologia alla Facoltà di Filosofia dell’Università “Vita e Salute” di Milano. È coordinatore della redazione di Liberazioni. Rivista di critica antispecista e collaboratore di il manifesto e Dinamopress. È autore, tra gli altri, dei seguenti volumi: Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte (ombre corte 2010), Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio (Elèuthera 2013), L’invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri (ombre corte 2016), Questioni di specie (Elèuthera 2017), Il virus e la specie. Diffrazioni della vita informe (Mimesis 2020) e M49. Un orso in fuga dall’umanità (Ortica 2022). Tra gli altri ha curato: Jean-Luc Nancy, La sofferenza è animale (Mimesis 2019), Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido (ombre corte 2020) e Lev Nicolaevič Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne (VandA 2021) e due numeri monografici di aut aut intitolati Mostri e altri animali (n. 380, dicembre 2018) e Riflessioni sulla pandemia (n. 389, marzo 2021).
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