Un «largo fiume di pianto»: lacrime ed eroi nelle tragedie alfieriane
p. 37-51
Texte intégral
1«Per natura […] tanto più inclinato al pianto che al riso»: così si definisce Alfieri nella Vita trovandosi a «riflettere» sulle ragioni che lo rendono «indifferente per la tragedia», nello specifico per quella francese affollata di personaggi secondari che gli «raffreddano la mente ed il cuore assaissimo, allungando senza bisogno l’azione, o per meglio dire interrompendola»1. Alfieri piange spesso nella sua autobiografia: piange quando giovinetto viene separato dalla sorella e subito cava da questo episodio una lezione più generale sulla natura del sentimento amoroso sempre mosso dallo «stesso motore»2 («il binomio tematico pianto-amore» che, a detta di Mineo, si «impone con una non ordinaria fissità» nelle Rime alfieriane)3; piange parecchi anni dopo per un’altra «separazione dolorosissima», questa volta dalla sua donna, separazione che lo porta a Siena dove «lagrimare almeno liberamente per qualche giorni in compagnia dell’amico» Francesco Gori Gandellini, di cui poi piangerà la morte proprio con la d’Albany, commentando che «l’aver con chi piangere menoma il pianto d’assai»4 (piangere insieme – lo ha osservato Anne Vincent-Buffault nella sua Histoire des larmes – è metafora di una unione che avviene, grazie all’elemento liquido, malgrado la separazione dei corpi)5. Le lacrime che Alfieri versa sono dunque innanzitutto lacrime di dolore per essere stato costretto a separarsi da chi ama, ma non solo: «lagrime di dolore» e «di rabbia» sgorgano mentre compulsa il «libro dei libri», ovvero Plutarco, dolore e rabbia per essere nato in un luogo (il Piemonte) e in un tempo «ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare»6, perché in Plutarco Alfieri scorge non soltanto «l’eroismo dell’uomo ma più ancora la smisurata grandezza del cittadino, il mito di una società libera» (sono parole di Raimondi)7; e ancora «lagrime […] di cuore e caldissime», non «simulate e imitative» Alfieri versa durante il viaggio nella «magica solitudine di Valchiusa» e «visitando la celebre Certosa di Grenoble»8. In Alfieri il pianto è spesso in rapporto con il teatro: si pensi alle lacrime da cui siamo partiti, che diventano occasione per polemizzare con i tragediografi francesi, oppure a quelle che sgorgano nel leggere le vite esemplari di eroi che saranno protagonisti delle sue tragedie (Timoleone, Cesare, Bruto), o ancora a quelle versate in compagnia della d’Albany, episodio che Alfieri colloca subito dopo essersi ritratto «prorompere in lagrime» alla lettura della «caldissima e veramente divina allocuzione di Mirra alla di lei nutrice»9 – di una «consonanza nel pianto» fra Alfieri e Mirra parla ancora Mineo10 – lagrime a cui fa seguito, come in «un subitaneo lampo», «l’idea di porre in tragedia» la vicenda di questa fanciulla, una tragedia che sarà «toccantissima ed originalissima», perché la protagonista, a differenza di quella ovidiana, avrebbe «operato quelle cose stesse», «ma […] tacendole»11; ed in ultimo si pensi all’Alceste scritta con «lagrime molte»12.
2Alfieri non prova vergogna nel ritrarsi nell’atto di piangere e mette in scena eroi capaci di fare altrettanto e di commuovere il pubblico: a tal riguardo celebre è la testimonianza di uno spettatore d’eccezione quale Lord Byron (sul cui alfierismo si è molto scritto) colto da «convulsioni», da «lacrime riluttanti» e da un «brivido soffocante» in un teatro bolognese durante la rappresentazione della Mirra, la sera del 12 agosto 1819, e non era neppure la prima volta, visto quanto era accaduto durante la recita del Filippo13. Tutto questo però non significa che Alfieri scelga per le sue tragedie la strategia delle lacrime che aveva portato all’affermarsi, nella prima metà del ‘700, del cosiddetto ‘larmoyant’, quando le lacrime versate a teatro avevano assunto l’aspetto di una sorta di rito collettivo14, come se il piangere in pubblico, e il farlo tutti insieme, fosse un modo per certificare la possibilità di un legame sociale fondato sulla nobiltà d’animo. Alfieri non vuole far ricorso solo alla effusività del pianto per coinvolgere gli spettatori15, né tanto meno vuole praticare l’«epopea delle rane» come definisce nella Vita il «dramma urbano»16, al quale teme di essersi fin troppo avvicinato (si pensi ai Pareri su Merope e Sofonisba). Alfieri non è neppure Racine, che nella prefazione alla Bérénice si compiace di aver scritto «une tragedie qui a été honorée de tant des larmes» al punto di fargli ritenere che la trentesima rappresentazione abbia avuto il medesimo impatto emotivo della prima17. Non posso qui approfondire il rapporto, per altro ben noto, fra Alfieri e Racine (mi limito a rimandare agli studi di Fubini, di Moioli, di Lugli e, più recentemente, di Beniscelli)18: Racine è un autore che il tragediografo astigiano mostra di non apprezzare fin dagli anni della giovinezza, quando dorme saporitamente al «suono dei dolcissimi versi – bellissimi nella prima redazione della Vita – di quel gran tragico», tanto dolci da diventare una «cantilena metodica muta e gelidissima»19, fino ad arrivare alla Risposta al Calzabigi20. Ma volendo circoscrivere il discorso al tema che ci interessa, si potrebbe partire proprio da una osservazione del Calzabigi laddove sottolinea come nelle tragedie francesi «tutto è del nostro tempo» e come, in particolare in quelle raciniane, s’incontrino in scena personaggi che parlano con «galanteria parigina», tutti «tenerezze, languidezze, vezzi, carezze amorose»21, lontani insomma dagli eroi alfieriani, perché, lo si legge nel Del Principe e delle Lettere, l’«impulso» di Racine è «artificiale» e nelle sue tragedie non parlava d’amore ma «traduceva in tratti sdolcinati […] i più focosi e sublimi tratti della greca energia»22. «Il senso» «della sintassi alfieriana» risiede nell’«essere il linguaggio della passione, della passione erompente, in atto (e non come in Racine, dominata dalla coscienza se non dalla volontà)», commenta Di Benedetto23.
3È pur vero però che Alfieri guarda al tragediografo francese in più occasioni, a partire proprio dalla Mirra di cui si diceva in evidente rapporto con la Fedra che egli ammette di aver letto (epoca iii, cap. iv)24. Sono noti e studiati i rapporti fra le due tragedie, ma sulla differente natura delle due eroine credo possa essere sufficiente, in questa sede, rammentare le osservazioni contenute nel Parere, dove Alfieri oppone a una Mirra ricalcata sull’immagine di Fedra che avrebbe destato «nausea e raccapriccio», la sua, che possiede «modestia, […] innocenza di cuore, e […] forza di carattere», i cui «feroci martirj» lo avevano fatto «caldissimamente piangere» e tanto profondamente lo avevano commosso da fargli riprovare quella sensazione nel «concepire e distendere» la tragedia così come ogni volta che era tornato a leggerla25. «E pianto, / E rabbia, e pianto ancora» [iii.2.95-96]: questa è Mirra26. Del suo «pianto» discutono fin dalla prima scena Cecri ed Euriclea, anche se, come ha notato Roberto Alonge, Mirra in realtà sia incapace di piangere con la madre, mentre versa fiumi di lacrime con la nutrice27. Cecri, che «pel gran pianto, …appena … / Parlar può» [i.1.111-112] (come accadrà alla nutrice), si rivolge a Venere pensando che la punisca facendole versare «lagrime di sangue» [i.2.185], e infine vorrebbe piangere con Mirra «eternamente» [iv.7.262]; e il «misero padre» (che a Di Benedetto ha ricordato il «buon “padre di famiglia” della commedia di Diderot»)28, che piange «non visto» [iv.4.204] e di fronte alla figlia morente, di cui ora conosce il segreto, smarrito si chiede: «A chi il mio pianto?..» [v.2.198] (battuta assente nella versificazione che precede quella definitiva)29. Il dramma familial della Fedra raciniana acquista in Alfieri una più profonda valenza, perché, lo ha insegnato Debenedetti, i personaggi che si muovono attorno alla fanciulla «sono maschere dolci e invitanti» che tuttavia assumono ai suoi occhi l’aspetto di «travestimenti insidiosi» intenti a strapparle il segreto che custodisce30: una «umanità ‘normale’ […] circonda» Mirra chiusa nel claustrofobico perimetro della reggia-prigione, sono ancora osservazioni Di Benedetto31, una umanità con la quale non esiste alcuna comunicazione, perché ciò che si propone di fare Alfieri, per dirla ora con Beniscelli, è rifondare il «tragico sulla misura della quotidianità», guardando ai «legami archetipici per eccellenza, quelli familiari»32.
4Sempre nel perimetro degli affetti familiari, e sempre in qualche misura debitore di Racine, è anche il Polinice che Alfieri, nella Vita, ricorda essere stato «tratto dai Fratelli nemici»33: Paola Trivero, guardando alle due tragedie, ha notato come il rapporto fra Giocasta e Antigone consenta ad Alfieri di introdurre a sua volta una confidente, ma, ed è questo il punto, «una confidente alta»34, ovvero la stessa Antigone legata a Giocasta da un «crudelissimo vincolo di sangue»35, personaggio che ha poco a che spartire col larmoyante, ma è al contrario calata in una dimensione eroica che le apparterrà pienamente nella successiva tragedia a lei intitolata. È sufficiente guardare alla prima scena del primo atto del Polinice per capirlo, quando una volitiva Antigone apostrofa Giocasta con queste parole: «Che piangi or, madre?» [i.1.18] (meno dura era stata nella Prima versificazione – «Madre tu speri invan che il Ciel t’ascolti» [i.1.13] – così come nella seconda: «Madre per noi non è pietade in Cielo» [i.1.13], dove addirittura la fanciulla si poneva sullo stesso piano di Giocasta). Antigone è consapevole che per lei e per i suoi fratelli nati nel «dì» del «pianto» a nulla potranno le lacrime della madre, che, all’opposto, col pianto spera di «ammorzar» la «funesta / Discorde fiamma» [i.1.51-53] che divora i due fratelli nemici. Antigone non crede nella «forza» delle lacrime (di «potere taumaturgico delle lacrime» parla Trivero)36 e nemmeno a quella dello «sdegno» in cui confida invece Giocasta («Deh non mi dir così, – chiede la madre nella Prima versificazione – mentr’io non vivo / Fuor che di speme» [i.1.72-73]), la stessa Giocasta che finirà poi con l’ammettere di essere «dannata» a «eterno pianto» dal cielo e dai suoi figli [iii.3.105-106]. «L’eroina alfieriana non è abilitata ad amare» ha scritto ancora Beniscelli e neppure, aggiungerei, a cedere alle lacrime: così, nella tragedia omonima, Antigone implora Emone di non «stemperarle il cor» «in molli lagrime di amore» (parole queste che non appaiono né nella Stesura, né nelle Versificazioni), come se, è stata Paola Luciani a suggerirlo, Alfieri scegliesse qui di «recuperare, sia pure in forma sintetica, la componente amorosa che nella tragedia settecentesca ha larga parte e che nel Racine della Thébaïde […] è parte essenziale della favola»37. Tocca piuttosto al figlio del tiranno Creonte – che descrive Antigone come «compagna nel piangere» di Giocasta, «in pianto / Cresciuta sempre» e che «or più di pria nel pianto / Suoi giorni mena» [iii.1.107, 128-130] – abbandonarsi a un «amaro pianto» e «prostarsi» ai piedi della giovane [iii.3.295]38. Ma ormai è passato il tempo del pianto per la stessa Giocasta («non piange, / Nè rimbombar fa di lamenti l’aure: / Dolore immenso le tronca ogni voce; / Immote, asciutte, le pupille figge / Nel duro suol» [i.3.134-138]), la cui «gota» non è più rigata da «imbelle pianto», ma che appare adesso «fieramente dal dolore oppressa», con gli occhi «Immoti, asciutti, rosseggianti» [Prima versificazione, i.3.141-145]. Passato è il tempo del pianto anche per Antigone, che fin dal i atto sa di essere «fatta maggiore» del suo sesso e quindi, a differenza delle molte «eroine solitarie e donne sensibili», ho preso in prestito il titolo di Paola Trivero, che popoleranno le tragedie di lì a poco (penso alla Virginia di Salfi – 1797 – o all’Eufrasia di Giovanni Pindemonte – 1797 – quali esempi di una «diversa “fragilità” femminile» di cui si legge nel saggio testé citato)39, Antigone può dire fra sé e sé: «Passò stagion del pianto; / Tempo è d’oprar» [i.2.41-42] (nella Prima versificazione si era limitata a menzionare il pianto versato «invan» per la morte del fratello [i.2.56]). Solo al termine della tragedia, alla «forte, e fiera» Antigone (sono parole di Alfieri)40 è concesso il pianto, ma non per amore (nulla a che vedere con l’Antigone ritratta da Ballanche nel 1814, il cui cuore «était en proie à mille douceurs et à mille amertumes» di fronte al «fils de Créon»41: sono semmai lacrime di pietà quelle che Antigone versa quando Argia le chiede di morire con lei per condividere, «morendo insieme», proprio le lacrime (Mattioda ha sottolineato come sia la pietà la «passione predominante» in Antigone42, e che «la compassione come passione comunicativa che permette di alleviare le sofferenze […] sembra […] essere» per Alfieri «la vera essenza della pietà»)43: «Il pianto / Più omai non freno…», esclama Antigone [v.2.59-60], ed è importante che il tragediografo lasci cadere le battute che ancora si leggono nella Prima versificazione, quando, dopo aver supplicato la cognata di non «intenerirla», avvertendo il pianto salirle agli occhi, Antigone aggiungeva: «Ah se il Tiranno / Il risapesse, qual n’avrebbe gioja! / Che di timore in me, non di pietade / L’estimerebbe segno» [v.1.45-50].
5Non a tutte le eroine alfieriane però è concesso il pianto: si pensi a Sofonisba che non dimentica mai di essere regina nemmeno di fronte agli occhi «pregni» di «pianto pietoso» di Massinissa (richiamati per ben due volte, al iii a. sc. 1 e al v atto sc. 5), né tanto meno davanti al romano Scipione («Il pianto a forza / Finor rattenni, io donna: al tuo cospetto / No, non si piange, o Scipio» [iii.3.208-210]) come invece aveva fatto proprio Massinissa. «Pianger mi vedi; e il pianto / Ratterner puoi? – Che dico? Ahi vil! che ardisco / Dire al cospetto io di Scipione?» [ii.2.262-264]: queste le parole di Massinissa che chiedeva al romano di essergli o «nemico intero» oppure «pietoso amico». All’opposto è Scipione – che Alfieri ha voluto «campione di un’umanità mite e pietosa, aperto alla sofferenza altrui, capace di intendere le umane debolezze, pur essendone immune», lo ha scritto Masiello44 – che di fronte all’eroismo di Sofonisba è messo a dura prova («Io ‘l pianto a stento affreno» [iii.4.216]).
6Gli eroi romani piangono, sebbene raramente: nella Virginia che si basa su un «lagrimevol fatto»45, Virginio, dopo aver implorato la figlia di «frenare» il pianto e di «non sforzarlo a lagrimar», ammette che non è «indegno» il «lagrimar» di «roman soldato» [iii.3.187-188] («Roman guerriero» nella Prima versificazione [iii.3.183]) quando «il macchiato onore, / Le leggi infrante, la rapita figlia, / Strappan dal suo non molle core il pianto;…», ma conclude che «col pianger non s’opra» [iii.3.187-192] («perchè piangendo / Mal si vendica un torto, e nulla s’opra» si legge nella Prima versificazione [iii.3.186-187]). Quanto a Virginia, dopo aver versato «rivi di pianto», si rammarica di non esser nata «del miglior sesso» e del «pianto imbelle» che le riga il viso («Nata d’un altro sesso, anch’io sapria / Risponder a chi schiava osa nomarmi / Non col pianto, col ferro», si legge nella Prima versificazione [iii.3.191-193]). L’essere romano non significa però non comprendere la forza delle lacrime e la loro legittimità: legittimo è il pianto di Collatino che, per usare le parole di Bruto (siamo ora nel Bruto primo) «piange […], / E tace, / E freme» [i.2.89], al punto di non riuscire nemmeno più a proferir verbo («Io, nulla dirvi / Posso,… che il pianto… la voce… mi toglie…» [i.2.155]), ma col suo silenzio chiede vendetta («il mio squallore, e dolore, e non meno feroce sdegno per esser muto, vi parla di me», si legge nella Stesura)46. Analogamente Bruto, nel decretare la condanna a morte dei suoi figli, confessa: «Il pianto… / Dir più omai…non mi lascia» [iv.3.288-289]47. Ma Bruto non è Virginio e sa che nel «foro» non possono essere versate lacrime, diciamo così, ‘private’, ma solo per Roma: e quindi «racchiusi or nel profondo / Del cor […] i molli affetti, e il pianto» [v.1.159-160], al console romano non resta che «Farsi del manto […] / Agli occhi un velo» [v.2.255-256]48. Insomma nessuna «tendresse» nel Bruto di Alfieri a differenza di quello di Voltaire (si vedano al riguardo le osservazioni di Santato e di Camerino)49, sebbene Alfieri scriva di essere certo che «anche il gran Bruto avrà pianto amarissimamente colla madre e coll’amico quegli stessi suoi figli, per cui in pubblico dicesi che né una lagrima pure versasse»50. Legittimo e soprattutto «romano», nel Bruto secondo, è il pianto che inumidisce il ciglio di Marco Bruto mentre prova a convincere Cesare a non farsi tiranno, perché a parlare ora non è il figlio ma per l’appunto il romano e un altrettanto «nobil pianto» gli pare scorgere sul «ciglio» di Cesare perché, anche in questo caso, sono lagrime versate per Roma [iii.2.303-304].
7Piangono dunque i campioni di Roma e piangono pure molti degli eroi che si alternano sul palcoscenico delle tragedie alfieriane: piange Agamennone nella tragedia omonima (una tragedia, lo ha notato Branca, «di lagrime fluenti […] e non rattenute»)51 «chiuso nell’elmo in silenzio» (come si legge a partire dalla Seconda versificazione)52 perché in quel momento è «il padre» a versare lacrime e non il guerriero [ii.4.243], battute queste, come ha sottolineato sempre Branca, presenti a partire dalla Seconda versificazione che accentuano la trasformazione del personaggio da re a padre53. Padre e, aggiungerei, marito: Agamennone infatti vorrebbe condividere il pianto con Clitennestra e non comprende perché questo non accada. «Perchè non piangi? il mio pianto disdegni?», [iv.5.259] chiede il re che non sa quali lacrime sia destinata a versare la moglie: «intempestive», le definisce Egisto, quando la coglie vacillare nel proposito di togliere la vita ad Agamennone («Che veggo? o donna, or qui, ti struggi in pianto? / Intempestivo è il pianto; è tardo; è vano: / Caro costar ne può» [v.2.37-39]). Anche con la figlia Elettra Agamennone non piange, sebbene proprio a lei toccherà il compito di aprire la successiva tragedia, l’Oreste, con un monologo in cui il «pianto» versato come «tributo» sul «cenere paterno» viene sostituito dal «sangue nemico» che il fratello, Oreste per l’appunto, farà «scorrer […] sulla paterna tomba», dando ben altro risalto al di lei «lamentarsi della sua durissima sorte» che si legge nell’Idea54: una mise en abyme della «parabola» indicata da Mineo che Alfieri traccia in questa tragedia, parabola giocata sul legame pianto-sangue, («dal pianto alla luce e poi nuovamente al pianto per effetto della nuova violenza»)55, e che si compie nella «reggia […] di pianto» [i.3.144], dove in «eterno pianto» trascina i suoi giorni la colpevole Clitennestra [iii.5.127], della quale Elettra è ancora una volta confidente (è un suggerimento di Paola Trivero)56.
8In una «reggia del dolore» [iii.3.104], in una «magion del pianto» [i.2.84]57 si muove pure l’incolpevole Micol, la «Figlia del pianto» come la definisce Saul, che le rimprovera di «non cessare» «mai dal pianto» [ii.2.144, 140-141]: «Il pianto (oimè!) su gli occhi stammi?» si chiede il re «Inusitato, or chi mi sforza?… Asciutto / Lasciate il ciglio mio» [ii.2.205-207]. Queste sono le parole di Saul, nel momento in cui la «quercia antica» sta per «innalzare sue squallide radici», quando intorno a lui «Tutto è pianto, e tempesta, e sangue, e morte» [ii.2.157-159] e anche il pianto sarebbe legittimo. Micol, che ha «l’alma in lagrime sepolta» [ii.2.147], non sembra possedere un secondo registro (nel iv atto, Saul la implora nuovamente di «non far ch’egli pianga», perché «Vinto re non piange», [iv.4.204-205]), e Micol versa «lagrime amare» anche per David [i.4.293] che, al solito, così l’apostrofa: «Mi strappi il cor: deh! cessa… Al sangue, / E non al pianto, questo giorno è sacro» [iii.3.122-123].
9Analogamente Agide rimprovera Agiziade rammentandole d’essere «Spartana» e declinando a sua volta il binomio pianto-sangue: «Il sangue mio giovar può a Sparta; / Non il mio pianto a te. Rasciuga il ciglio; / Non mi sforzare a lagrimar…» [ii.2.104-105]. Sono queste le parole di Agide, al quale Alfieri regala, nella versione definitiva, una dimensione eroica più potente sottoponendolo, lo ha notato Di Benedetto, a un «ulteriore processo di nobilitazione “sublime”»58: basti pensare che nella Stesura anziché pianto e sangue, Agide evocava «i teneri moti» «interdetti» a lui «dai tempi, dal luogo, e dallo stato torbido, e violento del cuor suo»59. Nell’ultimo atto tocca ancora ad Agiziade l’«arme» del «pianto» [v.2.33-34] e ad Agide la preghiera di non privarlo dei suoi «maschi lamenti»: «Or, deh! vorresti / Ch’io morissi piangendo?» [v.2.76-77] le chiede, perché anche per lui, come per Bruto, «Ai figli innanzi / La patria va» [v.2.81-82]. Ma in questa tragedia a un’altra donna, Agesistrata, la madre di Agide, spetta il compito di frenare, con il suo esempio, il pianto che sale agli occhi del figlio: «Io lagrimar non oso / Nell’abbracciarti» le sussurra Agide «che il tuo pianto io veggo / Da viril forza raffrenato starsi /Sopra il tuo ciglio» [v.4.179-182], perché Agesistrata «di gran lunga in altezza di sensi soverchia» Agide (così si legge nella Stesura)60.
10A fianco di eroine che si impediscono il pianto, o che devono trattenerlo, ve ne sono però altre, quali la «docile, buona» Ottavia (così Alfieri nella Idea)61, protagonista di una tragedia che rimanda alla Bérénice di Racine62, che rivendica la propria «libertà del pianto» [ii.6.240] come unico modo per rispondere alla crudeltà di Nerone («Nerone raccapricciare farà gli uditori, tanto più li farà piangere Ottavia», sintetizza Alfieri nel Parere)63, o Merope che nella «reggia di dolor» ha trascorso «tre lustri in pianto» [i.1.2] e che «pianto di sangue» sa essere quello che una madre «sparge» «sul morto figlio» [iii.3.243], o ancora Isabella che nella 1 scena del i atto del Filippo invoca il pianto quale unico «sollievo» sebbene sia un «delitto» perché «del rimorso Figlie men che d’amor le sue lagrime sono» (Seconda versificazione)64.
11Ma c’è un’eroina che non solo si concede il pianto, ma indaga quello altrui, Bianca de’ Medici – le cui parole hanno dato il titolo a questo intervento e con la quale mi piace concludere – il personaggio che forse più di ogni altro avvicina pericolosamente Alfieri al dramma borghese. Siamo alla prima scena dell’ultimo atto della Congiura de’ Pazzi, quando il sipario si apre e appaiono Raimondo de’ Pazzi e Bianca de’ Medici, il primo intento a sottrarsi alle incalzanti domande di lei, la seconda persuasa che Raimondo stia tramando qualcosa65. Bianca parla la lingua del pianto ed evoca, ancora una volta, il pianger insieme come modo per alleviare la sofferenza; Raimondo, all’opposto, la accusa di «addoppiare» il suo dolore «vedendole in pianto – «pianto vano» – consumar sua vita» [v.1.20-22]. Ma Raimondo, a differenza degli eroi che abbiamo incontrato fino a ora, non può rimproverare Bianca di indurlo al pianto, perché egli ha già versato «un largo fiume di pianto paterno» e ora il suo «ciglio asciutto» tradisce, agli occhi della consorte, la di lui «feroce» determinazione. «…Io piansi?…», chiede Raimondo quasi parlando fra sé e sé, come se quel momento di umana fragilità non gli fosse mai appartenuto; «E il neghi?», incalza Bianca che interpreta queste parole come il tentativo di smentire quanto è accaduto, mentre in realtà, a mio avviso, rivelano più lo stupore, l’incredulità di Raimondo intento a calarsi nei panni del congiurato. «… Io piansi?…» ripete Raimondo «E pregne ancora / Di pianto hai le pupille» continua Bianca. Così, improvvisamente, Raimondo si riscuote e risponde: «Sul ciglio mio / Lagrima no, non siede», quindi, quasi a giustificare di aver versato quelle lacrime di cui solo ora sembra aver preso coscienza, aggiunge «e, s’io pur piansi,… / Piansi il destin degli infelici figli / Di un oltraggiato padre» [v.1.62-70], perché solo questo si può concedere, lacrime legittime di padre, e non «il vergognoso inefficace pianto» di chi, in tempo di tirannide, deve desiderare piuttosto che «il sangue si spanda» [i.1.18-19], perché egli sa, e lo sa anche Bianca, che il pianto non muterà mai la natura dei tiranni («presso a costor – ovvero presso Lorenzo e Giuliano – vano è il […] pianto» [ii.6.293]).
12In tempo di tirannide insomma è necessario agire piuttosto che piangere e questo il «nobile letterato» lo fa «impugnando […] la penna» per «incendere le intere nazioni» (sto citando dal Principe e delle Lettere)66, perché gli uomini, Alfieri lo scrive ancora a Calzabigi, «debbono imparare in teatro ad esser liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d’ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei proprj diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti, e magnanimi»67. Tuttavia, nel momento in cui dalla «identificazione ammirativa» basata sul timore, si passa a quella «simpatetica» fondata sulla compassione68, anche le lacrime possono servire, quel tipo di lacrime che agli eroi alfieriani è concesso versare, perlomeno fino a quando, nel 1786, Alfieri decide che di lì a due anni «deporrà il coturno, e con lui le lagrime e la maschera seria», per «consecrare altri 6 anni, […] al ridere d’ogni cosa del mondo, che forse altro non merita»69. Ma qui, alle soglie del riso, io mi arresto.
Notes de bas de page
1 V. Alfieri, Vita, a cura di G. Dossena, Torino, Einaudi, 1967, p. 78.
2 Ivi, p. 13.
3 V. Mineo, Alfieri e la crisi europea, Milano, Franco Angeli, 2012, p. 140 (c.vo d.a.).
4 V. Alfieri, Vita cit., pp. 200, 206, 229.
5 «Au plus fort de l’émotion on pleure ensemble, on partage des larmes, et plus encore, on mêle ses larme avec celles d’autrui. Ces expressions participent d’un idéal de rencontre grâce à l’élément liquide, malgré l’irrémédiable séparation des corps. Le nécessaire partage des signes de l’émotion et, dans un certain type de relation, le mélange des larmes, renvoient à un modèle d’art de vivre entre intimes où la transparence est requise», A. Vincent-Buffault, Histoire des larmes, xviiie-xixe siècles, Paris, Editions Rivages, 1986, p. 26.
6 V. Alfieri, Vita cit., p. 90.
7 E. Raimondi, Giovinezza letteraria di Alfieri, in Id., Il concerto interrotto, Pisa, Pacini, 1979, p. 88.
8 V. Alfieri, Vita cit., p. 215.
9 Ivi, p. 228.
10 V. Mineo, Alfieri e la crisi europea cit., p. 136 (c.vo d.a.).
11 V. Alfieri, Vita cit., p. 228.
12 Ivi, p. 273. Alfieri si riferisce al momento in cui sceglie di «rimpelagarsi» nell’Alceste prima.
13 «Venne un punto poi della tragedia in cui non potè frenare la sua emozione, diede in un dirotto pianto e i singhiozzi gli impedirono di più restare nel palco»: a raccontarlo è la contessa Guiccioli, alla quale Byron era legato in quegli anni. E conclude: «in uno stato simile lo vidi un’altra volta, a Ravenna, ad una rappresentazione del Filippo d’Alfieri». Così si legge in Life, Letters, and Journals of Lord Byron by Thomas More, London, J. Murray, 1838 p. 115. Sull’«alfierismo» byroniano si veda G. Ferreccio, Alfieri e Byron, in Alfieri fra Italia ed Europa. Letteratura Teatro, a cura di C. Forno e C. Cedrati, Modena, Mucchi, 2011, pp. 123-166.
14 Cfr. A. Vincent-Buffault, Histoire des larmes, xviiie-xixe siècles cit., p. 74.
15 «Per far nascere teatro in Italia vorrebbero esser prima autori tragici e comici, poi attori, poi spettatori» sostiene Alfieri, in particolare «gli spettatori […] si formeranno a poco a poco il gusto, e la loro critica diventerà acuta in proporzione che l’arte degli attori diventerà sottile ed esatta», anche se, come ha scritto Mineo, «condizione dominante» delle sue tragedie resta pur sempre la «cupa sofferenza […] e ne è simbolo il pianto», N. Mineo, Alfieri e la crisi europea cit., p. 25. La citazione alfieriana è cavata dal Parere dell’autore sull’arte comica in Italia, da leggersi in V. Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 241.
16 V. Alfieri, Vita cit., p. 289.
17 «Les succès de Racine sont des succès des larmes» osserva Vincent-Buffault, Histoire des larmes cit., p. 64.
18 A. Moioli, Jean Racine e Vittorio Alfieri, con pref. di F. Neri, Clusone, Ferrari, 1922; V. Lugli, “La Thebaide” de Racine et “Polinice” de Vittorio Alfieri, negli Atti del primo congresso internazionale raciniano, Uzés, Péladan, 1962, pp. 109-115; A. Beniscelli, Alfieri e Racine, in Alfieri fra Italia ed Europa. Letteratura Teatro cit., pp. 23-46.
19 V. Alfieri, Vita cit., p. 154.
20 Id., Risposta dell’Alfieri, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., p. 217.
21 Id., Lettera di Ranieri de’ Calzabigi, ivi, pp. 182, 183.
22 Id., Sull’impulso artificiale, in Del principe e delle lettere, in Id., Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 230. «Nell’affascinante serie di riscritture del mito, vero e proprio labirinto di incessanti rielaborazioni […], Racine affianca al cupo filone cornelliano della saga maledetta l’intreccio secondario dell’amore di Antigone per Emone, che, con le dovute bienséances, gli consente indugi galanti e preziosi, e di cui peraltro quasi si scusa nella prefazione, adducendo la giovane età in cui aveva creato il componimento; Alfieri si disfa ovviamente di tutto questo, come anche dei canonici confidenti […] obbligatori sui palcoscenici francesi», M. Pieri, Alfieri e la famiglia di Edipo, in Antigone, volti di un enigma. Da Sofocle alle Brigate Rosse, a cura di R. Alonge, Bari, edizionipagina, 2008, p. 168.
23 A. Di Benedetto, Le passioni e il limite. Un’interpretazione di Vittorio Alfieri, Napoli, Liguori, 1987, p. 22.
24 V. Alfieri, Vita cit., p. 78.
25 Id., Mirra, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., pp. 130-131.
26 «Il pianto è in verità la condizione e il segno distintivo – assieme al silenzio – del personaggio di Mirra nella rappresentazione alfieriana», N. Mineo, Alfieri e la crisi europea cit., p. 136.
27 Cfr. R. Alonge, Mirra l’incestuosa. Ovidio Alfieri Ristori Ronconi, Roma, Carocci, 2005, p. 54.
28 A. Di Benedetto, L’«orrendo a un tempo ed innocente amore» di Mirra, in Alfieri tragico, a cura di E. Ghidetti e R. Turchi, «La Rassegna della Letteratura Italiana», luglio-dicembre 2003, p. 743.
29 Secondo Raimondi «se già per Racine si può fare un discorso psicoanalitico, sottolineando che è l’immagine del padre che domina di continuo il testo raciniano, arrivando fino ai più alti punti della gerarchia metafisica, lo stesso discorso, ma pensando al padre in altro modo, si può fare anche per l’Alfieri», E. Raimondi, Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime, Bologna, il Mulino, 1985, p. 85.
30 G. Debenedetti, Vocazione tragica di Vittorio Alfieri, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 83.
31 A. Di Benedetto, L’«orrendo a un tempo ed innocente amore» di Mirra cit., p. 742.
32 A. Beniscelli, Alfieri e Racine cit., p. 42.
33 V. Alfieri, Vita cit., p. 164. Non così nel Parere dove, lo ha fatto notare Di Benedetto, Alfieri citava solo Stazio, V. Alfieri, Opere, introd. di M. Fubini, a cura di A. Di Benedetto, Milano, Ricciardi, 1977, p. 184.
34 P. Trivero, Percorsi alfieriani, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2014, p. 37.
35 Ead., Tragiche donne, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2000, p. 48.
36 Ead., Percorsi alfieriani cit., p. 37.
37 P. Luciani, «Cose d’affetto e terribili»: L’Antigone, in Alfieri tragico cit., p. 475 (il saggio è stato poi ripreso nel volume L’autore temerario. Studi su Vittorio Alfieri, Firenze, SEF, 2005, pp. 27-47).
38 Anche in questo caso si tratta di battute che compaiono solo nella versificazione definitiva. Scrive Onians: «l’idea […] che il sudore, il liquido incolore proveniente dalla carne, e il liquido sinoviale, che si trova nelle articolazioni, siano tutt’uno, ponendosi quale sostanza costitutiva della forza e del vigore, si rivela presente (tuttavia con maggiore rilievo per l’articolazione del ginocchio), nella più antica fisiologia greca, che assimilava a questa sostanza anche il liquido cerebrospinale e il seme», R.B. Onians, Le origini del pensiero europeo intorno al corpo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo e il destino, a cura di L. Perilli, trad. di P. Zaninoni, Firenze, Adelphi, 1998, p. 223.
39 P. Trivero, Metamorfosi della tragedia: eroine solitarie e donne sensibili, in Metamorfosi dei Lumi. Esperienze dell’«io» e creazione letteraria fra Sette o Ottocento, a cura di S. Carpentari Messina, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2000, p. 153.
40 V. Alfieri, Note sui personaggi di alcune tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., p. 376.
41 Si veda su questo E. Aschieri, Gli eroi piangono. L’Antigone di Ballanche, in Per Antigone. Vittorio Alfieri nel 250° anniversario della nascita, a cura di P. Trivero, Torino, Università degli studi, 2002, pp. 85-104.
42 E. Mattioda, «Io spero in te». L’Antigone notturna di Alfieri, in Antigone i volti di un enigma cit., p. 189.
43 Id., Teoria della tragedia nel Settecento, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2016, p. 15.
44 V. Masiello, L’ideologia tragica di Vittorio Alfieri, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1964, p. 221.
45 V. Alfieri, Parere sulle tragedie. Virginia, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., p. 94.
46 Id., Stesura in Id., Bruto primo, a cura di A. Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1975, p. 114. Come si legge nell’Idea la vendetta per Bruto si coniuga con il «furore», mentre per Collatino si coniuga con il «dolore», ivi, p. 100.
47 Nella Stesura Alfieri aveva raffigurato la sola condizione concessa a Bruto per mostrarsi padre: «Ah basta, basta, miei Figli; son padre ancora; mi si squarcia il core parlandovi; ch’io forse per l’ultima volta vi abbracci, e perdoni, qui dove niuno ci osserva, e padre ancora ardisco mostrarmivi», ivi, p. 134.
48 Moretti ha osservato come il pianto sia un modo per far sì che «tra noi e il mondo cali un sipario», F. Moretti, Kindergarten, in Id., Segni e stili del moderno, Torino, Einaudi, 1987, p. 191.
49 G. Santato, Alfieri e Voltaire dall’imitazione alla contestazione, Firenze, Olschki, 1988; G.A. Camerino, L. Giunio Bruto da Voltaire ad Alfieri, in Id., Alfieri e il linguaggio della tragedia. Verso, stile, tópoi, Napoli, Liguori, 1999, pp. 207-225.
50 V. Alfieri, Note dell’Alfieri, che servono di risposta. Timoleone, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., p. 267.
51 V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile con cinque nuovi studi, Bologna, Zanichelli, 1981, p. 206.
52 Sul silenzio dell’eroe tragico si vd. W. Benjamin, Destino e carattere, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962, pp. 29-36.
53 Cfr. V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile con cinque nuovi studi cit., p. 198.
54 V. Alfieri, Idea, in Id., Oreste, a cura di R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1967, p. 101.
55 N. Mineo, Alfieri e la crisi europea cit., p. 180.
56 Cfr. P. Trivero, Tragiche donne cit., p. 89.
57 Sulla funzione dello spazio-reggia rimando ad A. Barsotti, Alfieri e la scena da fantasmi di personaggi a fantasmi di spettatori, Roma, Bulzoni, 2001.
58 A. Di Benedetto, Vittorio Alfieri, in Il Settecento, Roma, Salerno, 1990, p. 979.
59 V. Alfieri, Stesura, in Id., Agide, a cura di R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1975, p. 103.
60 Ivi, p. 127.
61 V. Alfieri, Idea, in Id., Ottavia, a cura di A. Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1973, p. 105.
62 «Mettendo in scena, nell’Ottavia, le vicende che segnano l’acquirsi delle crudeli tendenze autocratiche di Nerone, Alfieri riprende una materia che Racine aveva già trattato nel Britannicus. Per meglio dire […] Alfieri descrive il secondo tempo della degenerazione imperiale. Vi sono, tra i due testi che narrano quegli eventi, delle indubbie coincidenze. […] Ma il punto che, nella comune assunzione dell’argomento romano e di taluni esiti, mi pare divarichi le due tragedie, consiste nell’essere l’una la sceneggiatura di un processo d’educazione del sovrano ancora aperto, […] e la seconda una descrizione interamente risolta al negativo», A. Beniscelli, Alfieri e Racine cit., pp. 33-34.
63 V. Alfieri, Ottavia, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., p. 116.
64 «Con le lagrime posso almen sollievo / Dare all’empia passion: ancor sospetto / Il mio pianto non è; versarlo ancora / Io posso senza infamia», spiega Isabella nella Prima versificazione [i.1.20-23]. Non così per Carlo che «In pianto i giorni / Le lunghe notti in pianto […] trapassava» [i.2.86-87], perché incolpevoli sono le sue lacrime versate dopo che il padre aveva rotto i «Nodi solenni» [i.2.75] che lo legavano a Isabella e che infatti ha un «compagno» nel pianto, il fedele amico Perez. Per questo Carlo può chiedere a Isabella di «celare il pianto», di «premere i sospir nel petto» e «a ciglio asciutto, / Con intrepida fronte udir […] Del suo morire» [v.2.113-116].
65 Santato ha colto una somiglianza fra le parole di Bianca e «l’intervento inquisitorio» del padre di Mirra, G. Santato, Tra mito e palinodia. Itinerari alfieriani, Modena, Mucchi, 1999, p. 41.
66 V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere, in Id., Scritti politici e morali cit., p. 233.
67 Id., Risposta dell’Alfieri, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., p. 227.
68 «Il larmoyant – questa ondata lacrimale che prende a ingrossarsi sulle scene teatrali francesi grazie a Nivelle de La Chaussée, che inumidisce le ciglia dei lettori di Richardson, Rousseau e Goethe – è qualcosa di più di un riadattamento morfologico della sfera estetica: esso segna piuttosto, nei termini chiariti da Max Kommerell, il passaggio cruciale della Rezeptionsgeschichte europea dall’identificazione ammirativa (incentrata sul timore) all’identificazione simpatetica (incentrata sulla compassione)», S. Calabrese, Per una storia della lacrima letteraria in Sylvia. Studi in onore di Nino Borsellino, a cura di G. Patrizi, Roma, Bulzoni, 2002, p. 151 d.a.
69 V. Alfieri, Epistolario i, a cura di L. Caretti, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 339.
Auteur
Università degli Studi di Torino
Le texte seul est utilisable sous licence Creative Commons - Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0 International - CC BY-NC-ND 4.0. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
La malattia dell’anima e il romanzo antropologico
Medicina e pedagogia nella Unsichtbare Loge di Jean Paul e nelle sue fonti
Elisa Leonzio
2017