Il 1956. Memorie di uno studente socialista
p. 261-280
Texte intégral
11. Il 1956 – è stato ribadito in più occasioni – fu un «anno spartiacque»1. Il 27 maggio 1956 ci furono le elezioni amministrative in Italia. Avevo da poco compiuto ventun anni, e votai a Torino per la prima volta con emozione, essendo molto vicino – specie per amicizie – ai circoli dei della sinistra socialista, legati all’azione e all’insegnamento di Rodolfo Morandi, da poco scomparso, leninista, già segretario e alto dirigente del Psi, ministro dell’Industria nel 1946. Insomma, erano i «social-comunisti» presenti con spirito dirompente nel movimento di classe, variamente oppositori dell’icona e simbolo del Partito, e per lunghi periodi del suo segretario, Pietro Nenni. Disprezzavo invece nel modo più radicale i socialdemocratici del Psdi, il partito «di Saragat», per cui, fra i militanti, le parole «socialdemocratico» e «saragattiano» erano considerate offensive e autentici insulti. E ciò con una qualche contraddizione linguistica, perché ero ed eravamo ammiratori delle socialdemocrazie nordiche e di quanto si diceva e si leggeva sui risultati ottenuti nei Paesi scandinavi dal Welfare State (il termine, utilizzato in Inghilterra negli anni della guerra, entrò in uso comune in Italia, come «Stato del benessere» o «Stato sociale», a partire dagli anni Cinquanta). Mi iscrissi al Psi l’anno seguente, più precisamente, alla corrente della sinistra, guidata da Vittorio Foa, dal modesto Tullio Vecchietti, da Lelio Basso (con un suo mini-gruppo autonomo) e da un nucleo di anziani massimalisti, ma che anche vedeva presenti – provenienti da esperienze politiche eterogenee – numerosi intellettuali eterodossi, fra i quali l’acuto e penetrante Raniero Panzieri (direttore della rivista «Mondo Operaio») e l’estroso Lucio Libertini. Mentre a Torino operavano giovani e attivissimi funzionari, sindacalisti, giornalisti e operai nelle grandi industrie, intelligenti e interamente dediti «alla causa» e molto poco «a Nenni».
2La mia emozione di giovane socialista, nella tornata elettorale, si tradusse nel mio voto al Partito Comunista, che alle comunali torinesi ottenne il 22,89%, con i socialisti – nenniani e sinistra – al 12,18%. Aveva esercitato un’influenza decisiva nella scelta il fatto che i lassisti e inetti colonialisti «socialisti» francesi, nelle elezioni politiche della République del 2 gennaio 1956, avevano subìto una gran botta, mentre l’ostinato e stalinista Pcf aveva conquistato il 25% dell’elettorato ed era entrato a far parte, con due ministri – caso pressoché unico nell’Occidente – del governo repubblicano.
3A Torino, il potere nella città fu conservato dalla Democrazia Cristiana, accompagnata dal Partito Liberale e dagli irrisi socialdemocratici nostrani. Sindaco fu rieletto Amedeo Peyron, che – con calma – cercò di applicare il piano regolatore civico, che gli aveva lasciato in eredità il sindaco comunista che l’aveva preceduto sei o sette anni avanti: ma ebbe manica larga nel favorire lo scempio urbanistico e nell’imporre una visione angusta e provinciale, che avrebbe degradato la città per quattro lustri, almeno fino a quando, nel ’75, con l’avvento del sindaco comunista Diego Novelli, si cercò di cambiare via. Ma questa è tutta un’altra vicenda.
4Fra i giovani dominavano soprattutto l’anticolonialismo, l’internazionalismo e la denuncia della politica repressiva e antioperaia della Fiat guidata da Vittorio Valletta. L’anno precedente, il sindacato «di classe», la Cgil, aveva subito una grave sconfitta alle elezioni per le commissioni interne, a opera soprattutto di un sindacato «giallo» (filo-padronale, e dal «padrone» lautamente finanziato), con la temporanea connivenza di Uil e di Cisl che, dopo qualche tempo, avrebbero compiuto una severa autocritica. Nell’occasione, noi – non molti universitari di sinistra – eravamo stati dileggiati e osteggiati da fascisti, da pseudo-democratici, da goliardi e compagnia.
5L’anticolonialismo era tema di grandi aspettative e fascino. Ero ed eravamo conquistati dai fasti della Cina, dell’Indonesia, della stessa guerra di Corea (mistificata dalla massiccia propaganda filo-americana), dell’Egitto, che da pochi anni – con i suoi “istruiti” e formati «colonnelli» e grazie a el-Nasser – rappresentava la via della liberazione nazionale e sociale dall’imperialismo del passato, ed era uno dei fari di riferimento dei sommovimenti in Africa e in Asia. Elettrizzati per quel poco che si sapeva della sconfitta del munitissimo esercito francese, a opera di contadini con le ciabatte ai piedi fatte con pezzi di gomme d’automobile, nella battaglia di Dien Bien Phu (primavera 1954), con la conseguente fine della “colonia” Indocina e l’inizio nell’Estremo Oriente dell’egemonia americana (ma questo non veniva percepito). Per avere notizie più precise, molti di noi, e io fra loro, avvicinavamo il giornalista dell’«Avanti!» e funzionario del Psi, Mario Giovana (già azionista nella Resistenza e medaglia d’argento, e più avanti storico insigne), che era stato più volte in Africa e soprattutto in Algeria, e raccontava e scriveva delle sue esperienze fra i primi artefici della rivoluzione antifrancese: quella rivoluzione algerina che servì da modello (insuperato fino a oggi) della volontà di cambiamento dei popoli assoggettati contro il capitale e le “capitali” della “civiltà occidentale”. Solo qualche anno dopo avrei e avremmo percepito la consapevolezza del processo rivoluzionario, al quale assistevo e che appoggiavamo pieni di entusiasmo ma anche angosciati: quando, nel 1961, Einaudi pubblicò la versione italiana dei Dannati della terra, il libro-manifesto che proprio dalla rivoluzione algerina, cominciata nel ’54 ma avviata nei fatti da decenni, prendeva le mosse e che il suo autore, lo psichiatra nero (all’epoca, ahinoi, si diceva «negro»), Franz Fanon, avrebbe elaborato, nell’anno stesso della sua morte, per motivare e consacrare le «rivoluzioni del Terzo mondo». Parlando del ’56, raramente si rammenta che fu l’anno dell’esplosione violenta di quella battaglia di Algeri che, nella tarda estate, infiammò le masse arabe democratiche, ma fu anche l’avvio della sopraffazione barbara dei detestati paracadutisti del generale Jacques Massu, teorico della tortura contro i locali e sostenuto dai pieds-noirs, i francesi d’Algeria, e che nel ’62, al momento della pace e dell’indipendenza dell’Algeria, contò i morti (ovviamente, indigeni) in circa due milioni. Fu la rivoluzione che, un decennio più tardi, il regista Gillo Pontecorvo cantò cinematograficamente in quel film, La battaglia di Algeri, che noi, i ragazzini ormai adulti, ammirammo e ammiriamo, e che nella Francia repubblicana della libertà e dell’eguaglianza restò interdetto, mentre furono sempre perseguitati penalmente coloro che lo presentarono in pubblico.
6Il colonialismo in decadenza ma feroce – francese, soprattutto inglese, spagnolo, portoghese, olandese, americano – era continuamente al centro della nostra attenzione. La civilisation occidentale era dovunque fallita, aveva arricchito i potenti e strangolato gli emarginati, i «dannati della terra». Ammiravamo il «col.» Nasser, al potere in Egitto con un colpo di Stato militare: ma i militari, nei Paesi assoggettati, anche se di antichissima cultura e civiltà, erano fra i pochi ad avere una formazione tecnica evoluta, e la modernizzazione restava il loro obiettivo. E così si discuteva delle sorti di un rivoluzionario d’eccezione, Jomo Kenyatta – domiciliato nelle carceri inglesi – e dei fronti di liberazione nazionale in Kenya, nella Rhodesia, colonie d’insediamento, dove al feroce atteggiamento dei coloni bianchi si contrapponeva l’aggressività tribale, ma difensiva, dei kikuyu, i Mau Mau, esecrati dalla stampa d’informazione. Circolava la citazione, attribuita allo stesso Kenyatta, di straordinario valore anticolonialista: «Quando i missionari giunsero, gli africani avevano la terra e i missionari la Bibbia. Essi ci dissero di pregare a occhi chiusi. Quando li aprimmo, loro avevano la terra, noi la Bibbia». E altrettanto accadeva per tutti gli altri stanziamenti coloniali degli antichi imperi europei e per le prime avvisaglie della lotta contro l’apartheid in Sudafrica, dove molti nazisti, scappati dall’Europa, avevano trovato rifugio, non presso gli anglosassoni (in loco, all’opposizione) ma presso i boeri, anch’essi feroci nel loro razzismo, assimilabile a quello germanico prima del ’45.
7Il mio discorso è necessariamente generico: altrettanto lo erano le nostre discussioni e i nostri interventi, animati da buona volontà e dal tentativo di difendere la politica estera – ad esempio, in Africa – dell’Unione Sovietica. Benché l’atteggiamento della Jugoslavia «di Tito» e dei pochi Stati «liberi» e «non allineati» del Terzo mondo ci sembrasse più aperto a un socialismo militante e “liberatorio”. Propongo un particolare umiliante. Nello stesso ’56, nell’Italia che si avviava al miracolo economico e all’evoluzione dei costumi, io, studente di Scienze Politiche, dovevo viceversa seguire il corso e sostenere l’esame di Diritto e politica coloniale, dove si studiavano le strutture istituzionali (e tribali) di quell’unica “colonia” – residuo dell’impero nazional-fascista – che gli alleati vincitori della guerra avevano lasciato all’«Italietta» del 1947 con il Trattato di Pace di Parigi. Sicuramente più formativo – con un ricordo che mai dimenticherò – fu il vedere al cinematografo (non nei circuiti normali, ma nei molto frequentati cineclub) il migliore e più drammatico lungo documentario, uscito nell’anno, sui lager nazisti e sulla Shoah, del “non” ancora celebre regista francese Alain Resnais, Nuits et brouillards (Notte e nebbia). Come altrettanto formativi furono i corsi che seguii all’Università, in ridottissima compagnia, tenuti da Alessandro Galante Garrone sulla «Rivoluzione francese» e da Luigi Firpo sulla «teoria della ragion di Stato».
2. Non ricostruisco la storia dei grandi e piccoli eventi del ’56, cerco soltanto di ricordare cosa pensai e cosa feci in quell’anno, che fu poi indicato come un «tornante», un’epoca decisiva nel dopoguerra.
8Come molti giovani politicizzati, svolgevo attività soprattutto negli organismi rappresentativi universitari, e verso la fine dell’anno fui votato per la prima volta nel consiglio dell’Interfacoltà (un senato studentesco, con più ampi poteri e finanziamenti rispetto a quelli previsti dalla normativa odierna). Ero stato eletto nella lista social-comunista, “frontista” e di opposizione, del Cudi (Centro Universitario Democratico Italiano)2, a fianco degli altri gruppi, i laici dell’Ugi (Unione Goliardica Italiana) e i “monarchici”, assai forti a Torino, di «Viva Verdi» (Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia), mentre “al governo” stavano gli universitari dell’Intesa, il cui “capo” (segretario generale dell’Interfacoltà) era il futuro ministro Dc, aperto a sinistra, Guido Bodrato, che più avanti sempre stimai.
9Come un gran numero di altri compagni, partecipavo assiduamente ai dibattiti culturali. I “miti” erano Norberto Bobbio e Galante Garrone, Italo Calvino, Ferruccio Parri, il giovane giornalista comunista Paolo Spriano, il giornalista ex-partigiano e attore cinematografico Raf Vallone (frequentemente a Torino, compagno di scuola e amico del mio professore prediletto, Firpo, che me lo presentò), Carlo Levi – quando era in città –, Primo Levi, di cui lessi tardivamente, solo nel ’56, Se questo è un uomo, andando a visitare in contemporanea la “sua” mostra sulla deportazione, la psicologa Angiola Massucco Costa (poi deputata comunista), la psichiatra Luisa Levi (sorella di Carlo). E soprattutto la figura splendida di un’insegnante liceale, di straordinaria cultura e di altrettanto stringente umanità, Lia Corinaldi, ferrea comunista e già partigiana. Leggevo freneticamente e di tutto, ma ero attratto sia dalla grande letteratura americana degli anni Venti-Quaranta sia dalla letteratura sociale russa. Che, a partire dalla fine dello stesso ’56, sarebbe diventata la letteratura del «disgelo»: il romanzo omonimo di Il’ja Erenburg, del ’54, con irruenti discussioni sul processo di democratizzazione in atto nell’Unione Sovietica chruščëviana, era uscito in Italia da Einaudi nel tardo ’553.
10Il modello italiano che più sollecitò la mia e la nostra attenzione fu sicuramente quello di Danilo Dolci, oggi troppo dimenticato malgrado la sua massiccia eredità culturale, etica e politica. Dalla lontana Partinico smuoveva animi e intelletti dell’intera sinistra critica, con la sua lotta non violenta contro la mafia e il sottosviluppo meridionale, con i suoi “digiuni” individuali e con lo sciopero della fame collettivo (che i radicali alla Pannella avrebbero in futuro cercato di imitare), con lo «sciopero alla rovescia» e la costruzione di una strada a opera dei disoccupati siciliani, con tante altre attività, che ne provocarono l’arresto (nel processo che ne seguì fu difeso da Piero Calamandrei). Colpivano come fendenti i suoi libri di denuncia e di rottura sociale, che leggevamo e discutevamo con ammirazione, Inchiesta a Palermo (Einaudi, 1956) e Banditi a Partinico (Laterza, 1956), con un’originale visione dell’Italia «nuova», diversa dalla nostra, che non conoscevamo ma con la quale era agevole identificarsi.
11Le manifestazioni in piazza, represse sovente con la violenza dalla polizia, dagli «scelberi», o «celerini»4, erano frequenti, più quelle politiche che non quelle di matrice sindacale. Si potevano grosso modo dividere in due categorie. Quelle organizzate dai «partiti di classe», il Pci e, a Torino, il Psi, accompagnati a seconda delle occasioni da intellettuali di matrice azionista e da molti «utili idioti»: come li qualificava la stampa di destra, che, seguendo le orme di Giovannino Guareschi e dell’ultra-reazionario «Candido», divideva le sinistre fra «trinaricciuti»5 e «utili idioti»6. Proponevano temi gravi, il fascismo, la Nato, i riflessi sul triangolo industriale dell’arretratezza del Sud, del latifondismo e delle lotte cruenti nel Meridione, lo «spadroneggiamento» clericale, l’antiamericanismo politico (non mai culturale) e il maccarthismo7 con la sua caccia alle streghe (di cui, ad esempio, nel 1953 fu vittima anche Charlie Chaplin). Noi giovani aderivamo, ma aggiungevamo altre manifestazioni e altri temi. Ho già accennato alla polemica anticolonialista e antiimperialista, che ci univa agli studenti europei degli altri Paesi. Si aggiungevano gli attacchi contro il franchismo spagnolo e il salazarismo portoghese, la lotta contro la «garrota» e la sua terribile applicazione come strumento di morte di Stato, sollecitata dai numerosi esuli spagnoli che stavano fra noi. E i problemi della scuola, della riforma dell’Università, imbolsita in strutture vecchie e antiquate, alle quali la Liberazione e il 1945 avevano apportato solo minime innovazioni, e un argomento caldissimo: l’abolizione delle «scuole di avviamento» – destinate alle classi umili e marginali – e l’unificazione della scuola media, che sarà creata solo parecchi anni più tardi, nel ’62. E le polemiche serrate e “manesche” contro le destre estreme e i fascisti.
3. Direttamente, praticavo e seguivo diversi sport: non il calcio, che non ho mai “frequentato” e mi ha sempre lasciato indifferente, ma soprattutto l’atletica, con il mito del colonnello cecoslovacco Zatopek: due medaglie d’oro nelle Olimpiadi di Londra del ’48, tre medaglie d’oro, compresa la maratona, a Helsinki nel ’52, non presente a Melbourne per malattia nel’56, vincerà ancora una medaglia d’oro a Roma nel ’60. E poi, lo sci e altre discipline, al tempo definiti «sport minori»: lo sport occupa una porzione non indifferente nei miei ricordi del ’56.
12A Cortina d’Ampezzo, il 26 gennaio, cominciarono le Olimpiadi invernali: le prime in Italia. L’Unione Sovietica ebbe il medagliere più ricco, l’Italia fu ottava per numero di trofei conseguiti. In casa, i miei non avevano la televisione: da sportivo attivo andai più volte al bar, e frequentai un circolo socialista (la sezione socialista era a fianco di quella comunista), aderente all’Enal, ente statale disprezzato e di sottogoverno, di origine fascista, ma necessario per restare nella legalità, e destinato a estinguersi, mentre la sinistra antifascista unita stava impiantando l’Arci, che sarebbe stato riconosciuto legalmente solo anni più tardi. Le Olimpiadi di Cortina furono uno dei primi eventi seguiti mondialmente dalla televisione.
13Lo sport era importante, ma naturalmente più alto rilievo ebbero altri avvenimenti, e le discussioni che mi e ci trascinavano.
4. L’atteggiamento nei confronti dell’Unione Sovietica era, in me e in quasi tutti gli amici e compagni, piuttosto contraddittorio. Per noi, era concretamente l’espressione dell’epopea rivoluzionaria e della guerra antifascista, con l’aspettativa del cambiamento anche in Italia. Ho ancora oggi ben presente la scritta che lessi, bambino, nell’estate del 1945 sui muri di una caserma degli alpini abbandonata, in un linguaggio napoletano/italianizzato, «adda venì Baffone». Grande novità e fascino per me: anche se poi m’accorsi che scritte del genere riapparivano nella Città innumerevoli volte.
14Stalin era morto nel ’53: il dolore era stato unanime e generalizzato. Io ero andato in bicicletta fino alla federazione torinese del Pci (allora nel centro storico), dove era esposto all’esterno, con il nero del lutto, un grande ritratto di Stalin, per associarmi con la mia piccola firma al cordoglio generale. Nenni, al quale nel ’51 era stato conferito il Premio Stalin per la Pace (che aveva ricevuto dalle mani stesse di Stalin un anno più tardi), era stato fra i primi a manifestare la propria angoscia.
15Poi, poco per volta, l’afflizione si era mutata in critica: forte negli anti-comunisti, sommessa nella sinistra.
16Non avevo ancora conoscenze dirette (cioè, letture organiche) e avevo a disposizione una letteratura di seconda mano, sia trionfalistica sia di ripudio integrale. Davanti a me e davanti a tutti, da un lato c’era la politica estera dinamica dell’Urss nel Terzo mondo e, specie nelle regioni coloniali o già ex-coloniali, stavano i successi decantati delle «scienze», stava – per me, appassionato cinefilo – una cinematografia di gran pregio e, come sempre, la speranza per il futuro. Da un altro lato c’era la palese arretratezza di un vasto pezzo del Paese, l’indigenza visibile, anche se nascosta dal fulgore di Mosca e di Leningrado in ricostruzione, che cercavamo di spiegare con le distruzioni della guerra e i più di venti milioni di vittime del conflitto. Nel suo complesso il risultato era positivo, ma io non potevo accettare quel che era successo in un Paese dell’Est, la Repubblica Democratica Tedesca (per la quale ebbi perennemente una simpatia quasi fisica), con la repressione dei carri armati sovietici degli operai berlinesi e delle altre zone industriali in sciopero, nel ’53, per motivi essenzialmente sindacali. Il problema della democrazia in Urss non me lo ponevo (non ce lo ponevamo). Eravamo abituati alle accese discussioni nel Psi, nel Pci, nelle varie associazioni di base, nei sindacati, nei circoli e sezioni, negli stessi organismi rappresentativi dell’Università: con la democrazia facevamo i conti quotidianamente; per quanto riguardava la «democrazia in Unione Sovietica», pensavo e pensavamo che si trattasse di forme diverse del nostro modo di essere. Ingenuità, malafede? No, era soltanto un’aspirazione convinta al rinnovamento della nostra arretratezza sociale e civile.
17L’Unione Sovietica era, per me come per tutti, un mito, ma anche soltanto un elemento e un ambito non fondante nella mia e nostra visione della lotta politica, che si riconosceva nel social-comunismo italiano e nelle sue lotte e nell’analisi del soffocamento di esse, durante il fascismo e nel decennio postbellico. Comunque, la scelta di campo era netta, anche se talora a volte acritica. E anche ciò che non capivo compiutamente – come le radici del contrasto fra Unione Sovietica e Jugoslavia, quest’ultima con le sue seducenti politiche dell’«autogestione» – era ora attenuato dalla riconciliazione con Tito voluta da Chruščëv8 e dal ravvicinamento di Togliatti, nello stesso ’56, al presidente jugoslavo.
18Il XX Congresso del Pcus – il primo del dopoguerra – si svolse a Mosca dal 14 al 26 febbraio 1956: ammetto che non lo seguii con molta attenzione, né sulle conformiste (e assai noiose alla lettura) verbalizzazioni dell’«Unità» o dell’«Avanti!», né attraverso le parallele ricostruzioni “borghesi” dell’informazione in generale. In un’epoca in cui le rivoluzioni anticoloniali erano all’ordine del giorno, sostenute dall’Unione Sovietica e dai Paesi «non allineati», il vedere le fotografie dei grigi burocrati dirigenti il Partito russo non era esaltante, mentre ci entusiasmavano per i “colori” del jazz americano e delle orecchiabili musiche brasiliane e delle luminose ballerine nei loro coloratissimi costumi (che vedevamo al cinema).
19Per altro verso, la chiusura dell’Università a ogni riflessione sulla politica e sulle ideologie «del presente» e le radicate lotte operaie (quelle alla Fiat nell’età della gestione dispotica di Vittorio Valletta) ci preoccupavano maggiormente. Le cose cambiarono presto, e la discussione fra noi, giovani della sinistra, divenne ardente. In ogni caso era già apparsa nei nostri dibattiti una prima e ancor fumosa critica non tanto dello stalinismo – lemma e concetto non erano chiari – quanto del gruppo dirigente dell’Unione Sovietica nel lungo periodo dell’egemonia di Stalin, escludendo però quanto si riferiva alla conduzione del partito e del Paese negli anni tragici della guerra, dal ’39 – si spiegava con argomentazioni storiche il patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 – e soprattutto dal ’41 fino al ’48 e alla «crisi di Berlino». Insomma, sulle orme del «disgelo», il Partito e il Paese ne uscivano indenni, ed era lo statista, il dittatore, a dissolversi con le sue obsolete sembianze mitiche e ad assumere i connotati di «chi ha sbagliato».
20L’altro argomento dominante fu quello della «coesistenza pacifica», cui Chruščëv dedicò vigile attenzione: in noi, si associò all’alacre impegno per la pace e il pacifismo e per quello che veniva ingenuamente definito, anche da scienziati illustri, l’«uso pacifico dell’energia nucleare». Frase che oggi fa sorridere, o inorridire!, ma che in quel momento ci univa agli ambienti pacifisti internazionali: ad esempio, ai gruppi collegati al premio Nobel (1950) per la letteratura, il matematico pacifista Bertrand Russell e, in Italia, anche ad ambienti giovanili cattolici delle Acli e della sinistra cristiana.
21Il 24 febbraio, il segretario generale del partito Chruščëv tenne nel congresso, a porte chiuse (esclusi furono anche gli italiani), il cosiddetto «rapporto segreto» sull’età staliniana e sui crimini di Stalin, in cui s’imputavano al «piccolo padre» colpe politiche e soggettive terribili, e soprattutto il distacco, il «tradimento» dell’eredità di Lenin. Nessuno, fra noi giovani, seppe nulla. Soltanto nel giugno il Dipartimento di Stato americano ne pubblicò una versione (che, anni più tardi, risultò essere stata manipolata dalla Cia). Cominciò il putiferio dei giornali: a Torino si trattava della «Stampa», della più equanime «Gazzetta del Popolo» e delle pagine invero assai confuse dell’«Unità». Seguivo e seguivamo con molto interesse le discussioni, pur interloquendo poco per mancanza d’informazioni corrette, eravamo turbati dalla ridda di notizie; alla fine, giungemmo alla conclusione che, in Italia, il Partito Comunista e il Partito Socialista erano «altra cosa». Ed ero – eravamo – impressionati dall’atteggiamento di Nenni, che era sopravvissuto alle sconfitte del ’48 e degli anni seguenti grazie al supporto comunista, e ora si proponeva come uccello del malaugurio di un antistalinismo d’occasione, che non aveva nulla a che fare con la realtà. Un notevole sollievo lo procurò l’intervista di Togliatti ad Alberto Moravia sulla rivista «Nuovi Argomenti», che fu anticipata dall’«Unità» del 17 giugno, in cui si mettevano in luce le colpe di Stalin e gli errori del gruppo dirigente dell’Unione Sovietica, ma si salvava (o soltanto si scagionava?) l’azione del comunismo internazionale. Sono andato a rileggerla. È sempre lucida e attuale. C’era la «condanna del culto della personalità pronunciata dai comunisti dell’Unione Sovietica e le critiche all’opera di Stalin», l’ammissione che, «in conseguenza degli errori di Stalin e del culto della sua persona si erano accumulati elementi negativi, si erano create situazioni sfavorevoli e anche nettamente cattive in differenti settori della vita e della società sovietica» e infine era «incrinata» la nozione dello Stato e del «Partito guida»9.
22Fra noi, socialisti (di sinistra) e comunisti si trovavano conferme, anche nelle parole di Togliatti, sulla «via italiana al socialismo», sulla denuncia del «culto della personalità», sulla non «doppiezza» dei partiti di classe, che accettavano in pieno la Costituzione del ’48 e la democrazia, pur giudicando positivamente l’opera dei partiti comunisti al potere, nonostante la piena confutazione dello stalinismo.
23In effetti – ne ho già accennato – anche a Torino i comunisti e i socialisti “tennero” alle elezioni del maggio. Come non fummo particolarmente impressionati dalle rivolte operaie in Polonia, specie a Poznań, interpretate il più delle volte (e, ammettemmo anni più tardi, erroneamente) soprattutto come agitazioni sindacali e risposte della base non al «sistema» ma ai metodi rozzi di dirigenti dal fulgido curriculum di oppositori ma incapaci di reggere il potere, le cui deficienze erano ora palesemente denunciate. Apprezzavo, e celebravamo, l’antistalinismo ormai dominante, imputando alle bolse burocrazie i morti della repressione. Così, accolsi e approvammo con soddisfazione la liberalizzazione interna, i cui simboli erano due individualità eminenti, che avrebbero rappresentato un ruolo primario non solo nella Polonia ma nell’Europa futura: il ritorno in libertà del cardinale di Varsavia Stefan Wyszyński, non “simpatico” ma pragmatico, e del massimo dirigente del partito comunista polacco, Wladiław Gomułka, in carcere dal ’49 perché accusato di «titoismo».
24Di sicuro, il livello della discussione non fu molto elevato, specie per la mancanza di spiegazioni puntuali, mentre per anni – perlomeno tre o quattro – si seppe ben poco dell’atteggiamento della nuova Cina maoista e delle accuse di «revisionismo» che da Pechino raggiungevano la Mosca chruščëviana e l’Occidente. O, piuttosto, noi giovani non ne eravamo a conoscenza.
5. Io e i compagni che frequentavo non eravamo solo dei fanatici, invasati dai dibattiti contingenti. Eravamo, lo ripeto, giovani intellettuali di matrice piccolo borghese, caparbiamente impegnati nell’azione politica. Ma, appunto, giovani, che vivevamo una vita normale, come tutti i ragazzi, facendo sport, andando al cinema, a teatro, a ballare (anche alle modeste, allora, feste dell’«Unità»), avendo sempre problemi sentimentali, talvolta perdendo tempo: proprio come descrisse – un anno più tardi – Luciano Bianciardi nel suo breve e memorabile romanzo (di formazione!) Il lavoro culturale10, che diventò il manuale del comportamento critico della sinistra, ed è oggi del tutto attuale. Mentre sprezzavamo con convinta indifferenza il festival di San Remo e, invece, amavamo le canzoni in voga nel ’56 del torinese Fred Buscaglione, Criminalmente bella o Kriminal Tango o altre simili. Nell’attesa – ma lo dico oggi – che arrivassero i «cantacronache» con il loro impegno sociale, nati a Torino l’anno seguente.
25Era proprio del mio ambiente di appartenenza (studente, piccolo borghese, aspirante a nuove esperienze e non alle spiagge nostrane) fare vacanze produttive, proficue, interessanti e a basso costo. Le feci anch’io, con un sacco da montagna grigio-verde in spalla e con amici (nell’anno seguente, “addirittura”, considerati i tempi!, con un’amica). La meta era il Centro-Nord Europa, possibilmente la Scandinavia. Il mezzo di locomozione era fornito esclusivamente dall’auto-stop, molto popolare (fra i giovani) nella Mitteleuropa e nel Settentrione, superata l’ostica Svizzera. I luoghi di tappa erano le camerate degli Ostelli della Gioventù, numerosi e accessibili per il prezzo, diffusi dappertutto e in alcuni casi splendidi: luogo di sosta e di conoscenze delle nuove generazioni internazionali, di solito di sinistra. I luoghi di soggiorno erano i “campi di lavoro” per giovani, quasi esclusivamente studenti, allestiti o da organizzazioni socialdemocratiche nordiche o da enti giovanili luterani (probabilmente li organizzavano anche i cattolici, ma non mi informai mai sull’argomento). Io ne sperimentai alcuni. Nel 1956, con un viaggio durato cinque o sei giorni all’andata, e altrettanti al ritorno, lavorai allo sterramento di una strada fra i boschi a circa trenta chilometri da Oslo, per un mese di fila, e una settimana (di cinque giorni) a pelar patate in cucina. L’esperienza fu avvincente. L’ambiente era ospitale, splendida la natura e generosi gli esseri umani, i tempi di scambi di idee e di confronto erano lunghi, come quelli di reciproca informazione. Un concreto anche se molto localizzato internazionalismo era dominante. Ebbi (avemmo) un unico incidente. Gli unici giovani con i quali i ragazzi e le ragazze di circa venti nazioni, compresi gli americani, si scontrarono (ci scontrammo) furono gli inglesi, un po’ più anziani di tre o quattro anni, che avevano già “servito la patria” nelle colonie ribelli – in specie in Kenia e in Rhodesia – e, seppur di nome labouristi, erano diventati razzisti aggressivi e, per qualche loro privato motivo, anti-italiani. Ma fu un caso unico, presto appianato dai pacati socialisti norvegesi.
26Tutti insieme sentivamo musica, cantavamo e dibattevamo dei grandi problemi internazionali prendendo atto dei fatti a livello planetario attraverso la radio: così, sapemmo anche dell’affondamento dell’Andrea Doria in acque americane a opera del transatlantico svedese Stockholm. Le informazioni politiche e le notizie preferivamo averle tramite i compagni norvegesi, gestori dell’organizzazione e dei lavori: tutti, compresi gli inglesi, aborrivamo l’emittente radiofonica, verosimilmente della Cia, Radio Free Europa/Radio Liberty, che trasmetteva in ventotto lingue da Monaco e da Gerona (dalla Spagna franchista), fautrice di categorico e triviale anticomunismo e antisocialismo, totalmente inattendibile ma molto sfruttata dagli ambienti più retrivi. E dedicammo a Bertold Brecht, mancato a Berlino il 14 agosto, una serata di lutto e di riflessione: non credo ci fosse nessuno, fra noi studenti, che non avesse già visto o sentito l’Opera da tre soldi.
27Suscitò grintosa disputa la nazionalizzazione del Canale di Suez voluta da Nasser alla fine di luglio, con un processo che continuò fino al novembre inoltrato: i giovani inglesi, ancora (ma non i francesi, che erano per lo più rigidi comunisti), sollevarono questioni, però unanimemente tacitate. E ci giunse la notizia del disastro belga di Marcinelle, con la morte di centotrentotto minatori italiani (su duecentosessantadue scomparsi): avemmo nell’occasione l’atto di omaggio dei socialisti locali, che invitarono credenti e non credenti a una speciale funzione di omaggio e di memoria di classe in un tempio di Oslo della Chiesa di Stato, luterana, di Norvegia, in una cerimonia sentita ed ecumenica. Tornai in Italia, sempre con auto-stop, alla fine di agosto, ritemprato fisicamente, linguisticamente e idealmente.
6. Il clima, negli ambienti e nelle sezioni socialiste, era profondamente cambiato. La società europea sembrava essere travolta da provocazioni anticomuniste, da un’artefatta polemica antistalinista e dall’assedio delle potenze coloniali (Regno Unito, Francia e Israele) contro il cammino di emancipazione intrapreso dall’Egitto e da altri Paesi, ad esempio la Tunisia, benché in modi più pacati.
28Nel Partito Socialista, già alla fine di agosto, era accaduto un fatto sconvolgente, di cui venne valutata la gravità, specie da chi aveva cariche dirigenti o era comunque impegnato, sia da chi – come me – ammirava il socialismo scandinavo e soprattutto le sue componenti giovanili, aperte e intraprendenti. Inaspettatamente, il 28 agosto, Nenni, senza aver informato il Partito e la sua forte corrente di sinistra (i «morandiani»), nel corso delle vacanze aveva incontrato in un paesino della Savoia, Pralognan, Giuseppe Saragat, il segretario del più squalificato, corrotto e degradato raggruppamento del panorama politico nazionale, il Psdi, per discutere la riunificazione dei due partiti. Il tutto suscitò, nell’intera sinistra, un clamore enorme, che aprì la strada alla assai più tarda «riunificazione» come alle scissioni venture, ma anche alla decadenza ideale del Psi, alla sfiducia nei suoi dirigenti e a un’ostilità anti-nenniana, che caratterizzò poi tanti segmenti del socialismo, nonostante i meriti che il militante politico aveva acquisito in passato. La questione era giudicata, da noi giovani, a livello di scandalo. Mi impegnai allora con fervore, e ci dedicammo sempre più alle nostre attività non anti-sistema, ma contrarie alla classe dirigente del Paese, sia nei suoi segmenti verbosamente laico-liberali sia nella componente della Democrazia Cristiana (il termine «Balena Bianca» entrò in uso solo lustri più tardi). Restavamo però collegati con il mondo cattolico operoso nel sociale: con i suoi esponenti avevo e avevamo contatti pressoché quotidiani. L’episodio favorì l’atteggiamento di ripulsa verso le classi dirigenti italiane, nei drammatici mesi seguenti, caratterizzati dalle massicce agitazioni e rivolte in alcuni Paesi di «democrazia popolare». La prima conseguenza fu che il patto d’unità d’azione, che aveva legato Pci e Psi, durante più di tre lustri, fu tramutato all’inizio dell’ottobre in «patto di consultazione» dei due partiti, suscitando l’orrore e la disperazione per la sconfitta in me e in pressoché tutti gli esponenti giovanili della sinistra, sia socialisti, sia comunisti, sia radicali.
7. Dalla metà di ottobre ai giorni del Natale, fummo tutti presi dalle preoccupate e polemiche discussioni sulle democrazie popolari, sulla Polonia e sull’Ungheria; ma fui altrettanto occupato nelle attività universitarie e nell’Interfacoltà dell’Ateneo torinese, che seguivano vie autonome nelle dispute e nel lavoro. Si discuteva infatti dell’opportunità di unificare tutte le sinistre studentesche, da quelle liberal-progressiste a quelle socialiste a quelle comuniste, con il sostegno, anche, di alcuni esponenti della sinistra cattolica, in un unico raggruppamento. Il risultato fu l’adesione unitaria, dall’anno seguente, alla laica Ugi, della quale, con i compagni e gli amici torinesi, divenni uno degli esponenti.
29Non riprendo qui quanto è noto e studiato (spesso faziosamente o demagogicamente) sugli eventi di Polonia, conclusisi con l’elezione di Gomułka a segretario del partito polacco, e sugli avvenimenti d’Ungheria, con il passaggio da Mátyás Rákosi a Ernö Gerö a Imre Nagy a János Kádár, con il finale intervento sovietico e la lotta, o battaglia, per le strade e la conseguente fuga dal Paese di più di duecentomila fuorusciti. Ma, in parallelo, rammento le “colpe” delle potenze coloniali, Inghilterra e Francia, in sostegno a Israele, nell’aggressione all’Egitto nasseriano (fine ottobre-inizio novembre) con l’occupazione del Sinai, della zona del Canale di Suez, e il concomitante atteggiamento di condanna e di sostegno allo stesso Egitto, con motivazioni decisamente diverse, sia dell’Unione Sovietica sia degli Usa, che troncò l’ultima tradizionale impresa colonialista della storia e costrinse gli assalitori alla tregua e al ritiro dopo qualche mese. Ho citato schematicamente nomi e fatti, solo per ricordare la passione che mi e ci avvinse, nello scontro senza fine e infuocato in quei mesi, ma che continuò poi per anni.
30Per il Medio Oriente io, con tutti i compagni, non ebbi mai dubbi. Fu il neo-colonialismo di alcune potenze già «imperiali», associate al colonialismo d’insediamento di Israele, a portare il pianeta sull’orlo della terza guerra mondiale, mentre non era ancora del tutto chiarita la funzione dell’«equilibrio del terrore», che avrebbe dipoi garantito al mondo un periodo non di pace serena, ma almeno senza conflitti globalizzati fino alla caduta del muro.
31Sulla questione ungherese e l’intervento dell’Armata Rossa, le nostre discussioni assunsero subito un andamento bivalente, con l’interrogativo preciso: si trattava di rivoluzione o di controrivoluzione? E, nel mezzo, stava una serie di sfumature. Non fui e non fummo in grado di dare una risposta univoca, né in quel tempo né in seguito, ma tendenzialmente, pur avendo atteggiamenti critici, seguimmo la linea ufficiale del Pci e della sinistra socialista, contestate però dalla Cgil e specie da Giuseppe Di Vittorio. Si trattava di un comportamento ostico, difficile da mantenere soprattutto quando l’opinione pubblica disinformata presentava i «rivoluzionari» ungheresi quali campioni della loro e della nostra libertà. Ma cercavo, cercavamo di capire come anche si trattasse di quelli che, con linguaggio ridondante e demagogico, definivamo i «rigurgiti della reazione», costituiti dai gruppi sociali che fino al ’44 avevano appoggiato per venticinque anni il regime fascista e filonazista dell’ammiraglio Miklós Horthy, o gli antisemiti che avevano collaborato con la Gestapo nel rastrellamento di più di cinquecentomila ebrei, agnelli sacrificali della Shoah. La rivoluzione: dove stava la rivoluzione? Senz’altro, non con i notabili del latifondismo, devoti al cardinale ultra-conservatore e reazionario, József Mindszenty. Questi scappò nel novembre nell’ambasciata americana, che lo ospitò – «ospite scomodo», è stato detto – per una quindicina di anni, fino a quando la Chiesa di Roma, ormai post-conciliare e alla ricerca di nuove vie di collaborazione con l’universo delle democrazie popolari, non accettò che venisse liberato ed esiliato a Vienna. Oppure, rovesciando il discorso, era prossima agli stalinisti, che avevano incarcerato i maggiori dirigenti del partito al potere, ora finalmente liberati con Kádár in testa, per pacificare il Paese? Non salutavamo certo con gioia l’intervento dei carri armati sovietici e condannavamo l’implacabilità dei militari e la cecità politica dei dirigenti. Però ero ed eravamo certi che, con essi, stava non solo la fascia sana dei comunisti ungheresi ma la prevalenza della popolazione.
32I mesi furono fitti di contrasti accaniti. Quanti sostenevano i difensori dello Stato socialista ebbero serie difficoltà ad assecondare le loro argomentazioni. Che nondimeno vennero in qualche modo confermate, anche se con analisi critiche, dall’VIII Congresso del Pci, che si tenne a Roma alla metà di dicembre e rinsaldò la compattezza del partito, censurato, con le critiche dolorose e in parte comprensibili, dei «centouno» intellettuali, che il partito lo abbandonarono. L’unico a opporsi dall’interno del congresso fu Antonio Giolitti, deputato: abbandonò il Partito e l’anno seguente entrò nel Psi, per confluire poi nella corrente di Lombardi. Furono ragionamenti, quelli sull’immobilismo del Partito sovietico e sull’arroganza, sulla non flessibilità del suo gruppo dirigente e sul suo allontanamento dalla vita autentica delle società governate, che affascinarono noi giovani. Che però, iscritti o meno a uno dei due partiti, non vedevamo diversa alternativa: accettammo con palese favore le conclusioni finali del congresso, sulla «via italiana al socialismo» e sulle «lotte di massa» e sui temi che ci coinvolgevano, quali la politica nelle fabbriche e nelle scuole, la questione femminile, l’internazionalismo di classe.
33Anche alla luce del pensiero di alcuni acuti dirigenti del Psi – dai ricordati Foa e Basso, Panzieri e Libertini, per giungere a Emilio Lussu e ad Alcide Malagugini, a Francesco Cacciatore, a Lucio Mario Luzzatto, all’altalenante (fra centro e sinistra) Sandro Pertini – cercammo di accogliere, con spirito più libero, le conclusioni dei comunisti italiani. Noi, socialisti di sinistra, accettammo il travaglio e la volontà di salvare il patrimonio internazionale e nazionale del movimento operaio e della sinistra europea. Per quanto mi riguarda, nel 1957 mi iscrissi al Psi, nella corrente di sinistra dei «carristi», come, per parecchi anni, vennero con manifesto disprezzo definiti i militanti. Tuttavia, decenni più tardi approvai i corretti interventi di Pietro Ingrao, all’epoca direttore dell’«Unità», che ripensò all’intera questione e segnalò i seri errori del Pci nel ’5611: qui non posso usare anche il plurale, «condividemmo», perché noi, «giovani» del ’56, seguimmo dipoi vie distinte.
34A posteriori, propongo una testimonianza letteraria. Ho letto di recente l’intenso romanzo del 1969, Via Katalin, della scrittrice ungherese, esponente del dissenso ma accogliente le libertà assicurate da Kádár (tradotto soltanto nel 2008), Magda Szabó (1917-2007), indiscutibilmente la più significativa autrice ungherese del Novecento12. Presenta con emozione e lucida condivisione la storia di alcune famiglie, ebree e non, negli anni Venti-Sessanta. Per quanto concerne le vicende del ’56 e la «grande fuga» dal Paese, mostra – anzi, dimostra – come un nucleo consistente dei fuggiaschi ed esuli fosse proprio costituito dai peggiori stalinisti, cioè da coloro che avevano deformato i princìpi della solidarietà comunista e avevano dominato con la forza e i soprusi nell’Ungheria di Rákosi. E temevano il ritorno alle libertà, garantito, dopo il travaglio e la sconfitta della controrivoluzione, proprio dal comunismo aperto di Kádár.
35Devo confessare che la vita universitaria scorreva, nonostante tutto, in modo normale e che, a eccezione della rottura stratificata con i fascisti, pure normali erano le relazioni politiche e individuali fra i giovani di diversa opinione, che magari si accapigliavano verbalmente, ma poi andavano insieme al bar o al caffè (erano poche le pizzerie e pochissime le birrerie), o al cineclub o semplicemente al cinema o a teatro. Non a caso, in quell’autunno e primo inverno del ’56 vidi tre fra i migliori film degli anni Cinquanta e Sessanta: il drammatico e sentimentale film russo (sull’onda del disgelo), Il quarantunesimo, di Chukhraj, su momenti anche intimi della rivoluzione del ’17; il delicatissimo film giapponese di Ichikawa, l’Arpa birmana, apologo sulla pace e sulla crudeltà della guerra (molto lodato a Venezia); la pellicola realista di Pietro Germi, Il ferroviere (invero criticato da una frazione delle sinistre), sulla condizione dell’Italia e del lavoro nel dopoguerra, ma anche sulla fatica del vivere e sull’infelicità umana.
8. A Melbourne si chiusero i giochi olimpici (le XVI Olimpiadi) il 18 dicembre. Di nuovo, non fui in grado di seguirle compiutamente, a causa dei molti impegni e dell’accennata mancanza casalinga del televisore. Il medagliere fu vinto dall’Unione Sovietica, seguita dagli Usa. Terza fu l’Australia, padrona di casa. L’Italia ebbe un ottimo piazzamento, fu quinta (con otto medaglie d’oro). Non tifai più per l’Unione Sovietica, ma per l’Ungheria di Kádár (anche senza Kádár, era stata seconda, dopo la Germania, nei campionati del mondo di calcio del 1954), che – con popolazione di pochi milioni di abitanti e con tutto il putiferio sull’abbattimento della rivoluzione, o controrivoluzione? – conseguì il quarto posto, con ventisei medaglie (nove d’oro, dieci d’argento, sette di bronzo). La rivoluzione stava dunque, anche nel caso dello sport, dalla parte dei giovani, atlete e atleti, che avevano tenuto alto il vessillo del popolo ungherese e della repubblica, a dispetto dello sfacelo, dei lutti e del chiasso infernale creati in tutto il pianeta attorno a essi.
36Nell’opinione mia e di tanti altri giovani della sinistra, lo stalinismo era stato sconfitto, il socialismo libero «alla Kádár» stava vincendo. Lo sport proponeva un esempio e un modello. Questo lo credevo all’epoca. Ancora lo penso oggi, vegliardo, con nostalgia del passato della sinistra internazionale e nazionale. Ma, anche, resto realista e fiducioso, ieri come adesso, nella forza dei diritti umani, nell’eguaglianza e nei movimenti di classe. Nel nostro tempo, è forse ridotta numericamente l’epica classe operaia del miracolo industriale, ancor più lontana è quella dell’età di Marx: ma restano e si battono per il cambiamento le gramsciane classi subalterne d’oggi.
Bibliographie
Bianciardi, Luciano (1957), Il lavoro culturale, Feltrinelli, Milano.
Canfora, Luciano (2016), Il 1956. L’anno spartiacque, Sellerio, Palermo.
Szabó, Magda (2008), Via Katalin, Einaudi, Torino.
Togliatti, Palmiro (1984), Opere, Editori Riuniti, Roma.
Notes de bas de page
1 Uno scritto di “memorie” non dovrebbe avere note; invece, nel testo ho dovuto aggiungere alcuni dati chiarificatori. Sono in tanti ad aver parlato e a parlare del ’56 come di “anno spartiacque”. Richiamo solo il volumetto di Canfora (2016).
2 Il Cudi, con l’auspicio di Togliatti e la “resistenza” di Enrico Berlinguer, segretario pro tempore della Fgci, fu sciolto nel 1957, e gli studenti confluirono (confluimmo) nell’Ugi. Che però non aveva nulla a che fare con la volgare tradizione della goliardia nazionale.
3 I due romanzi, di successo internazionale, che più influenzarono l’opinione pubblica, anche italiana, comparvero negli anni seguenti: Il dottor Zivago, pubblicato in anteprima mondiale nel ’57 da Feltrinelli, di Boris Pasternak (nel ’58 fu Premio Nobel), e Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, edito postumo nel 1958 sempre da Feltrinelli.
4 La polizia (Ps, allora, Pubblica Sicurezza, poi Polizia di Stato) fu riorganizzata a partire dal febbraio 1947 alla metà del’53 dal ministro degli Interni, poi presidente del consiglio, democristiano accesamente anticomunista, Mario Scelba, donde il comune appellativo di “scelberi”, o “celerini” (la “Celere”, reparto della polizia), usato abitualmente per i poliziotti, soprattutto per quelli addestrati che venivano fatti intervenire nelle agitazioni sociali e sindacali.
5 I “rozzi” e “analfabeti” comunisti, nell’opinione della borghesia destrorsa: la figura deforme e farsesca del “trinaricciuto” fu inventata alla fine degli anni Quaranta dal settimanale satirico, a forte diffusione, della destra estrema, «Il Candido».
6 La dizione – lo scoprii decenni più tardi – aveva tutt’altra origine e arrivava da Lenin.
7 Dal nome del grintoso e potente sen. Joseph McCarthy, che nei primi anni Cinquanta infierì contro gli intellettuali americani, giudicati essere, in massa, “comunisti”.
8 All’epoca, sulla stampa il nome era scritto consuetamente “Krusciov”.
9 Intervista a P. Togliatti, 9 domande sullo stalinismo, in «Nuovi Argomenti», maggio-giugno 1956, ora Togliatti (1984), VI, pp. 125 ss.
10 Bianciardi (1957).
11 Cfr. l’intervista, di B. Gravagnuolo, a P. Ingrao, 1956, I miei errori nel nome di Lenin, in «l’Unità», 3 marzo 2006.
12 Magda Szabó (2008).
Auteur
(†) – Professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Torino. Tra i maggiori studiosi del pensiero di Marx ed Engels, si è occupato soprattutto della storia del socialismo e del comunismo ottocentesco in Italia e Germania, pubblicando oltre 20 monografie, una trentina di curatele e diverse centinaia di articoli e saggi, tradotti in molte lingue. Componente dei comitati scientifici di numerose riviste, tra le quali «Historia Magistra». È stato direttore scientifico della Fondazione Luigi Firpo, membro della Fondazione Luigi Einaudi e Presidente della Società italiana degli Storici delle dottrine politiche.
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