Il 1956 e la Chiesa cattolica italiana
p. 227-240
Texte intégral
1La reazione della cultura cattolica, e in particolare delle sue voci più apertamente confessionali, alla parabola che dalle rivelazioni del XX Congresso del Pcus giunse alla repressione delle rivolte nei paesi del blocco orientale e in particolare dell’Ungheria, deve essere inquadrata in primo luogo nell’ambito di un’interpretazione critica del comunismo che era stata elaborata sul piano dottrinale nel ventennio precedente, e che era ormai pienamente acquisita come punto di riferimento imprescindibile.
2Con l’enciclica Divini Redemptoris del 19 marzo 1937, in particolare, il confronto con il regime che dava applicazione pratica e istituzionale al materialismo storico e all’odio di classe già ripetutamente condannati dal piano prettamente pastorale, secondo la strategia culminata nel tentativo di dotare la Russia di una gerarchia cattolica semiclandestina all’inizio degli anni Trenta, si spostava definitivamente a quello teorico e teologico, attraverso la condanna della dottrina comunista in quanto “anti-religione” sostitutiva di quella cattolica e fondata sulla rigorosa applicazione delle sue premesse atee e materialiste sul piano sociale. In un mondo in cui, soprattutto a seguito dell’ascesa al potere di Hitler, le cancellerie occidentali sembravano meno fredde nei confronti del governo di Mosca, e il successo della politica dei “fronti popolari” poneva le gerarchie ecclesiastiche di Paesi di radicato cattolicesimo come la Spagna e in forma diversa il Messico di fronte a una rinnovata ostilità da parte dei governi e delle loro politiche, il comunismo era stagliato sull’orizzonte morale e metafisico quasi come perfetto contrario dell’insegnamento ecclesiastico, poiché traeva origine e fondamento dall’errore tanto quanto il messaggio cattolico traeva origine dalla Verità rivelata da Dio stesso, e quindi come un assoluto negativo alla cui condanna senza appello potevano partecipare parzialmente tutti i regimi e i movimenti politici nella misura in cui vi si avvicinavano prendendo le distanze dalla retta via indicata da Roma. In questo quadro generale trovavano la loro spiegazione le preoccupazioni per le frequenti attività persecutorie direttamente o più spesso indirettamente promosse dal regime sovietico nei confronti delle Chiese costituite per avviare una loro normalizzazione, e soprattutto di quella cattolica, la più difficile da addomesticare a causa del vincolo esterno col magistero romano1.
3Una simile impalcatura di giudizi, elaborata in forma esplicita a partire dal 1935 dal Segretariato speciale sull’ateismo messo in piedi dal superiore generale della Compagina di Gesù Wlodimir Ledochowski e animato a Roma, vertice di un’ampia articolazione internazionale per la raccolta di informazioni, da padre Joseph Henri Ledit2, era risultata così efficace nel connotare il nemico comunista da essere ripresa in forma pressoché invariata dalle centrali di elaborazione più vicine alla Curia romana dopo la Seconda guerra mondiale. Tra il maggio del 1945 e l’anno successivo, in particolare, «La Civiltà Cattolica» ospitò la serie di articoli sul comunismo russo, poi raccolti in gran parte nel volume La dottrina marxista. Esposizione e discussione, destinato a numerose ristampe fino a tutti gli anni Cinquanta, redatti dallo scriptor Riccardo Lombardi, futuro conferenziere e propagandista anticomunista per la campagna elettorale in vista del 18 aprile 19483. Gli interventi ricalcavano il giudizio maturato nel decennio precedente, e accomunavano la condanna del sistema sovietico fin dalle basi teoriche al riconoscimento che il suo successo internazionale come proposta ideologica, giunto fino alle porte di Roma col successo sempre più evidente del partito di Togliatti e con la fascinazione che dopo la guerra e la resistenza esso esercitava anche tra le file del cattolicesimo organizzato, era dovuto al permanere di gravi problemi di giustizia sociale e all’incapacità dell’individualismo liberale di risolverli senza accogliere la guida dell’organicismo cristiano4.
4Il successo, alle elezioni del 1948, di una mobilitazione anticomunista retta essenzialmente su queste posizioni e su questi toni apparve agli ambienti più vicini alle gerarchie come il primo passo per dare attuazione alla pars construens comunque sottesa alla demolizione dottrinale del comunismo ateo, ovvero l’opera di «ricristianizzazione» della società, in quanto accoglimento dell’unico messaggio veramente ed efficacemente contrapposto alla minaccia «rossa». In quest’ottica può leggersi l’onda lunga della mobilitazione che vide impegnata i soggetti culturali e istituzionali di riferimento della battaglia anticomunista, da Lombardi ai Comitati civici di Luigi Gedda5: la «Crociata del grande ritorno (di tutti gli uomini a Dio)» messa in opera in occasione dell’Anno santo del 1950, e poi la «Crociata per un mondo migliore» con cui padre Lombardi accompagnò in città le elezioni amministrative romane del 1952 e l’abortita «operazione Sturzo»6, avevano appunto lo scopo di ampliare l’azione sovvenendo alla radice del problema comunista, ovvero il «rifiuto di Dio» da parte della società contemporanea, e quindi di coinvolgere nell’attività di sensibilizzazione e di partecipazione agli appuntamenti liturgici non solo le famiglie di comunisti presenti in ogni parrocchia, ma anche quelle di protestanti, “liberi pensatori”, indifferenti, massoni, coppie unite in matrimonio civile o famiglie prive di attenzione ai sacramenti dei figli. I risultati furono però da questo punto di vista piuttosto scarsi e poco duraturi, nel contesto di un generale calo di attenzione sulle iniziative da parte dei fogli di riferimento dell’opinione pubblica moderata non confessionale, dal «Corriere della Sera» al «Messaggero», che invece nel 1948 e ancora fino alla scomunica avevano costituito un importante veicolo di trasmissione dello sforzo ecclesiastico contro il comunismo7.
5Alla metà degli anni Cinquanta, questa difficoltà a “sfondare” nel discorso pubblico italiano col tentativo di ricostruire la propria egemonia socio-culturale alla luce delle nuove condizioni del tempo presente era stata ormai metabolizzata, in vario modo, dai protagonisti della stagione di mobilitazione tra la fine della guerra e l’anno santo, dal ritiro di padre Lombardi in un tentativo di rinnovamento spirituale interno alla Chiesa col suo Movimento per un mondo migliore8 al tentativo di affermazione personale di Gedda con la presidenza dell’Azione cattolica, contrassegnato da difficoltà crescenti9, il tutto segnato sullo sfondo dall’invecchiamento e dalla progressiva riduzione dell’attivismo prima assai più marcato di papa Pio XII, gigante che col suo carisma costituiva il propellente principale della campagna di «ricristianizzazione» della politica e della società10.
6Proprio all’inizio del 1956, peraltro, si ebbe un appuntamento che nei disegni originari doveva rappresentare una ulteriore consacrazione, sul piano rituale e devozionale, dello storico ruolo di barriera del cattolicesimo di fronte agli attentati all’ordine civile europeo, e quindi di riaffermazione della centralità del messaggio magisteriale nella cultura condivisa dell’occidente: la beatificazione, dopo una causa molto lunga (iniziata nel 1691) che aveva conosciuto proprio per iniziativa di Pacelli un’improvvisa accelerazione, di papa Innocenzo XI, il pontefice in carica durante il fallito assedio di Vienna da parte dei Turchi del 168311. Innocenzo, ricordava «La Civiltà Cattolica» il 18 febbraio 1956 commentando la sua ascesa alla gloria degli altari, che si era opposto alle velleità egemoniche del Re Sole nel tentativo di ristabilire l’unità d’intenti dei regni europei nella lotta contro la rinnovata spinta espansiva degli infedeli, spinto «da una considerazione superiore, spirituale […] un preciso senso di responsabilità davanti a Dio [che] gli impediva di riconoscere quei pretesi diritti che ostacolavano il normale esercizio di un’imparziale giustizia»12.
7Questi accenni riecheggiavano da lontano la posizione che negli anni precedenti la Curia romana aveva inteso prendere di fronte alle tensioni diplomatiche e militari della guerra fredda, ovvero quella di una contrapposizione al comunismo che però non si traduceva nel sostegno incondizionato alla politica internazionale statunitense, e non comportava la rinuncia delle gerarchie a farsi interpreti di un ammaestramento di valore universale irriducibile alla collocazione della Chiesa in un gioco di alleanze tra potenze terrene13, e riprendeva in modo più esplicito l’accostamento tradizionale della pubblicistica polemica e dei documenti parenetici tra minaccia sovietica e minaccia ottomana all’ordine civile occidentale derivazione diretta (di fronte a un allontanamento generale da Dio delle società sviluppate) della res publica christiana 14.
8Tale paragone tra i due periodi storici, oltretutto, era stato promosso nelle settimane immediatamente precedenti dal concorrere di altre commemorazioni solenni, quale il terzo centenario della difesa per intervento della vergine del santuario di Częstochowa. In tale occasione, il 13 gennaio, Pio XII inviò una lettera autografa all’episcopato polacco che si concludeva con un riferimento preciso alle persecuzioni nei confronti della porzione di cattolicesimo ormai identificata da alcuni anni come «chiesa del silenzio»15, ricondotte al tronco originario della violenza antireligiosa dell’ateismo sovietico, aggravata dalla presenza cattolica più nutrita e culturalmente più significativa nei nuovi paesi di democrazia popolare rispetto alla Russia e dal tentativo di dare origine a un associazionismo cattolico addomesticato, probabilmente causa scatenante, questa, della decisione di procedere alla scomunica del luglio 1949:
Dalla memoria di quell’eccezionale favore siate confortati nei mali dai quali la patria vostra è al presente afflitta, sebbene senza sua colpa, e si alimenti in voi la speranza che non potrà mancare la salvezza, se una fede ferma in mezzo alle avversità e non scossa da alcuna contrarietà resterà a presidio della vostra dignità e della vostra perseveranza16.
In quest’ottica, appare chiaro che le rivelazioni del XX Congresso sui crimini di Stalin, pur importanti per il modo obliquo in cui giungevano direttamente dal sancta sanctorum comunista, non rappresentavano agli occhi della critica anticomunista confessionale né un’acquisizione che mutasse le posizioni ormai consolidate, né tantomeno lo spunto per un inizio di rivalutazione del regime di Mosca e della sua possibilità di allontanarsi dalle sue radici (per riprendere la definizione della Divini Redemptoris) «intrinsecamente perverse». Nel commento a caldo affidato dalla «Civiltà cattolica» il 17 marzo a padre Fiorello Cavalli, una delle firme di punta delle riflessioni sociali del quindicinale gesuita, si chiariva che da un lato la verità dei crimini di Stalin «non aveva […] bisogno dei paladini levatisi con tanto ritardo e mossi a parzialmente affermarla da più di un basso interesse, quando essa, seppur mutila, era riuscita a sfuggire alle maglie della tirannide», tra l’altro grazie alle denunce delle gerarchie locali e del mondo cattolico in generale; dall’altro, la denuncia chruscioviana non aveva certo trovato i giusti interpreti:
Da chi è costituita la schiera dei Nathan, raccoltasi per la condanna di Stalin e per rinnovare ai popoli dell’Urss le lusinghe della terra promessa […]? Nessuno di costoro è venuto dall’esilio o da un dignitoso isolamento con il quale abbiano separato le proprie responsabilità da quelle del despota imperante. Tutti, al contrario, sono reduci dal baccanale delle esaltazioni adulatrici […]. Per tacere, costoro hanno atteso l’ora della sua morte, mai prima interrompendo quel coro per una sola parola di ammonimento o di protesta17.
Solo contando «sulla forza bruta del regime all’interno e sulla credulità dei comunisti stranieri», chiosava l’anonima Cronaca contemporanea del numero successivo, i leader sovietici potevano sperare che non fosse loro chiesto conto di un comportamento così ignobile18.
9Poche settimane più tardi, in una serie di articoli aperta il 21 aprile, padre Alessio Floridi, sacerdote di rito bizantino e principale voce della «Civiltà cattolica» e in generale della cultura di curia sull’Urss dopo il diradamento dei contributi di padre Lombardi, diede una veste più sistematica a queste prese di posizione, sostenendo che dietro il netto e improvviso rifiuto del passato staliniano si nascondeva la necessità, per l’establishment comunista, di trovare un capro espiatorio di fronte al fallimento di quarant’anni di durissimo sforzo rivoluzionario, in cui a fronte di sacrifici immani e persecuzioni terribili il miraggio della società senza classi e della soddisfazione universale del bisogno attraverso la messa in opera delle capacità di ciascuno risultava irraggiungibile:
Ieri era Stalin a mandare alla fucilazione i kulaki e i deviazionisti perché “impedivano” il progresso del comunismo. Oggi sono i “fedeli discepoli” d’una volta che pensano di sanare ogni cosa addebitando un cumulo di errori e di scelleraggini al proprio maestro19,
concludeva Floridi, offrendo una lettura dei fatti che la pubblicazione americana del rapporto segreto, agli inizi di giugno, non faceva che rafforzare20. E alla rivendicazione della giustezza della condanna complessiva e senza appello dell’esperienza sovietica si univa l’esaltazione dei primi tentativi di sollevazione nei paesi satelliti, in una evidente contrapposizione tra i vertici dei partiti filosovietici (anche italiani), che si perdevano in un assurdo rimpallo di responsabilità col defunto vožd, e i popoli, naturalmente cristiani e ispirati da quella giustizia loro negata, che non perdevano tempo a far sentire il loro scontento:
Mentre in Occidente si passava il tempo a discutere sul significato della campagna antistaliniana, promossa dai successori del tiranno […], i polacchi esprimevano i veri sentimenti di un popolo, soggiogato dai russi e affamato per servire l’imperialismo sovietico. […] I polacchi di Poznan, ribellandosi, dimostrarono al mondo a quale stato di esasperazione conduce la schiavitù comunista21.
A partire dalla fine di ottobre, quello impostato da Floridi fu l’atteggiamento che caratterizzò le ben più solenni prese di posizione del pontefice di fronte ai fatti ungheresi: le brevi encicliche Luctuosissimi Eventus del 28 ottobre22, Laetamur Admodum del primo novembre23 e Datis Nuperrime del 5 novembre24, e il radiomessaggio del 10 novembre a invocazione della pace e della «giusta libertà»25. Alla condanna di quella di Budapest come di ogni ingiusta violenza, per la quale si stigmatizzava l’inerzia degli altri paesi del mondo, incapaci di superare la natura intricata dei giochi di alleanze e di equilibri per una causa superiore, si univa la rivendicazione dell’anima intrinsecamente cattolica del popolo ungherese protagonista della sollevazione, ben simboleggiata dal giubilo per la liberazione del suo più autorevole e popolare pastore, l’arcivescovo di Esztergom cardinale József Mindszenty, prigioniero del regime dal 1949.
10Questo riferimento, diretto e nel contempo generico, al popolo, alla fede avita e alla sua volontà espressa nelle coraggiose mobilitazioni, celava però un disagio che si sarebbe meglio compreso in seguito, e si affermava quasi come artificio retorico per bypassare un giudizio compiuto sui vertici organizzativi e sulle figure ispiratrici della protesta. Anche nei commenti giornalistici successivi, infatti, il peso delle iniziative riformatrici di Imre Nagy e l’emergere della dissidenza interna erano ignorati, o pressoché cancellati dall’attenzione alla rivolta popolare ritenuta spontanea e destinata quasi a sommergere ogni tentativo di darle una precisa piattaforma politica.
11In questo modo si cercava, nel caso specifico, di affrontare la sostanziale assenza di una matrice chiaramente individuabile come confessionale nella promozione dell’opposizione all’aggressione sovietica, e in generale si esprimeva la crescente consapevolezza, nelle voci più vicine al magistero romano, della necessità di affrontare una situazione ben più complessa di quella che i trionfalismi per il successo nelle mobilitazioni anticomuniste avevano lasciato intendere. Proprio alla metà degli anni Cinquanta, non casualmente, i più autorevoli pensatori sociali di area confessionale si stavano orientando con sempre maggiore convinzione su quello che l’autorevole analista di tematiche sociali padre Antonio Messineo, sulla «Civiltà Cattolica», definiva «il progressismo contemporaneo»26, e che poi si sarebbe affermato nella pubblicistica d’area col termine di «laicismo», ovvero quel vario complesso di tendenze accomunabili dal rifiuto aperto o sottaciuto dell’insegnamento costituito dal magistero e dalla tradizione apostolica interpretata dalle gerarchie ecclesiastiche, o quantomeno dal tentativo di farne a meno per la soluzione delle questioni sociali e morali dell’attualità, percepite erroneamente come inedite e quindi bisognose di una trattazione svincolata dagli assetti del passato27.
12Se il paradigma teologico-politico, teologico-morale e pastorale presentato in precedenza, e riassumibile come «Ledit-Lombardi», riduceva di fatto ogni allontanamento da Dio alla partecipazione dell’assoluto abisso di errore rappresentato dal comunismo, dopo il sostanziale insuccesso del tentativo di imbastire sulla contrapposizione al comunismo la resa dei conti con tutte le incipienti tendenze secolarizzatrici della società italiana in trasformazione la tematizzazione iniziò a mostrare un maggiore sforzo di distinzione e accuratezza. Il campanello d’allarme fondamentale, da questo punto di vista, era stata l’intensa discussione nell’opinione pubblica della proposta di legge sul «piccolo divorzio» avanzata dal deputato socialista Luigi Renato Sansone a fine 195428. Pur senza essere mai messa in agenda ai lavori della Camera, la proposta fece emergere la maturità con cui la società era pronta a confrontarsi con ritardi nei diritti civili ormai non più tollerabili in un regime di democrazia liberale e pluralista stabile e consolidato, e agli occhi degli ambienti di Curia, se affiancata all’attivismo di Fanfani nell’offrire basi di consenso autonome al voto democratico-cristiano con lo sviluppo delle strutture territoriali del partito e il loro svincolamento dall’ausilio dell’Azione cattolica29, poteva aprire la strada a una nuova centralità del Partito socialista fondata anche su preoccupanti accenti di modernizzazione laicizzatrice dell’Italia cattolica30.
13In conclusione, la rivendicazione della ragione sulla condanna assoluta del sistema comunista di fronte ai fatti d’Ungheria, accompagnata per apparente paradosso dalla difficoltà a lasciarsi ai toni trionfalistici di altre vittorie morali sul proprio nemico principale, è la spia di una transizione in corso nel discorso cattolico sul comunismo. L’idea che attaccare l’ateismo materialista applicato nella sua forma più completa fosse il sicuro punto di partenza per correggere tutte le forme culturali derivanti da un meno completo e convinto allontanamento da Dio e dal suo insegnamento, e che quindi il successo dell’anticomunismo fosse il prodromo a una conversione della società in via di secolarizzazione, si faceva sempre meno solida di fronte a un “laicismo” che si mostrava sempre più coriaceo e anche sempre più solido sia sul piano dei referenti culturali, sia su quello della capacità di mobilitazione sociale, persino nell’Italia, paese storicamente prediletto dal pontefice. Lo sviluppo di questo atteggiamento segnerà profondamente, in termini molto diversi, l’elaborazione dottrinale attorno alle gerarchie. Si andrà infatti dalla pastorale collettiva dell’episcopato italiano al clero del 25 marzo 1960, frutto di un lavoro e di un dibattito triennale, incentrata sulla questione del “laicismo” nella società italiana e attenta appunto a inquadrarlo in termini diversi dal consenso al comunismo, seppur sempre collegati dalla stessa matrice culturale di fiancheggiamento più o meno consapevole dell’ateismo31, alle posizioni sul problema comunista discusse al Concilio, laddove i regimi della Russia e dell’Europa centro-orientale iniziarono ad essere considerati, anche grazie al discreto contributo delle delegazioni di quei Paesi, come contesti particolarmente autoritari e oppressivi in cui lavorare per costruire e mantenere spazi di culto e di azione pastorale e sociale comunque difficili da coltivare anche in situazioni apparentemente più aperte e accoglienti, piuttosto che come “buchi neri” della verità la cui condanna assoluta bastava ad assolvere l’istituzione ecclesiastica da ogni menda32. Da qui, possiamo dire, nascerà molta della Chiesa degli anni di Giovanni XXIII e di Paolo VI, e in questi termini possono essere meglio comprese e contestualizzate tanto le aperture dottrinali del «nuovo corso» degli anni Sessanta, quanto lo sforzo diplomatico dell’östpolitik vaticana.
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Sitografia
Notes de bas de page
1 Come confermano contributi d’insieme recenti come Cheneaux (2011), su queste linee di tendenza e su questi sviluppi restano validi anche alla prova della documentazione emersa nell’ultimo decennio dal materiale archivistico vaticano relativo al pontificato di papa Ratti riferimenti classici come Rhodes (1975), Wenger (1981), e Aa. Vv. (1996).
2 L’esperienza del Segretariato speciale sull’ateismo e della sua rivista «Lettres de Rome sur l’Athéisme Moderne», che tra 1935 e 1939 rappresentò il riferimento principale per la tematizzazione del nemico comunista negli ambienti ecclesiastici, fino all’impegno di Joseph Ledit e della sua redazione alla composizione della Divini Redemptoris, era conosciuta fino a non molto tempo fa quasi solo grazie allo sforzo memorialistico di uno dei più stretti collaboratori di Ledit, raccolto in Muckermann (1973). Ora, anche in seguito all’apertura alla consultazione degli archivi vaticani per gli anni del pontificato di Pio XI, disponibili i primi frutti di indagine archivistica e storiografica su tale contesto, in particolare F. Frangioni, L’Urss e la propaganda contro la religione. Per una definizione dell’anticomunismo nella Santa Sede degli anni Trenta, in Guasco - Perin (2010), pp. 299-322, e G. Chamedes, The Vatican, Nazi-Fascism, and the Making of Transnational Anticommunism in the 1930s, in «Journal of Contemporary History», LI (2016), pp. 261-90.
3 La prima edizione del volume è del 1947. Mi sono occupato in modo più specifico della produzione di padre Lombardi di questi anni nel mio Gli interventi di padre Lombardi su Civiltà cattolica, in «Quaderno di Storia Contemporanea», XXXVIII (2005), pp. 75-92.
4 Oltre al mio Gli interventi di padre Lombardi appena citato, per una ricostruzione di questo contesto rinvio a G. Petracchi, Russofilia e Russofobia: mito e antimito dell’Urss in Italia, 1943-1948, in «Storia contemporanea», XIX (1988), pp. 225-47, e a G. Miccoli, Cattolici e comunisti nel secondo dopoguerra. Memoria storica, ideologia e lotta politica, in Id., Neppi Modona - Pombeni (2001), pp. 31-87.
5 Sulla sua figura cfr. ora Preziosi (2014), volume collettaneo che presenta le più recenti acquisizioni rese possibile dall’apertura alla consultazione delle carte del suo archivio personale presso l’Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia “Paolo VI” (Isacem) di Roma.
6 Cfr. D’Angelo (2002).
7 Per ulteriori spunti su questa valutazione, rinvio al mio Il cattolicesimo organizzato in Italia 1945-1953. Successo dell’anticomunismo, fallimento dell’egemonia, in «Italia contemporanea», CCLVIII (2010), pp. 7-25.
8 Sull’evoluzione spirituale del padre gesuita, oltre alla classica biografia Zizola (1990), cfr. anche R. Sani, Roma cattolica: una idea per un rinnovamento su scala mondiale. La mobilitazione di padre Lombardi, in «Humanitas», XL (1985), pp. 59-87. Lo stesso autore ha poi ripreso e sviluppato gran parte di questi temi in Sani (1986).
9 Sulle difficoltà che Gedda incontrò nella gestione disciplinare dell’Azione cattolica durante la sua presidenza restano fonti emblematiche, pur nella loro parzialità, le inchieste di taglio giornalistico e pamphlettistico compite da Carlo Falconi (specialmente Falconi 1958), e la ricostruzione di uno dei protagonisti insieme a Carlo Carretto della crisi dei movimenti organizzati giovanili di fronte alla svolta autoritaria e conservatrice dell’azione cattolica, Mario Rossi (Rossi 1975).
10 Su di lui è disponibile oggi la biografia Ventresca (2013), sicuramente ricca di spunti non banali per comprendere la portata globale dell’ecclesiologia di papa Pacelli ma non sempre accuratissima sul versante della Chiesa italiana, per la quale restano ancora imprescindibili i due volumi collettanei Riccardi (1985) e Riccardi (1986).
11 Sul significato politico della beatificazione, cfr. anche alcuni cenni in A. Riccardi, Governo e “profezia” nel pontificato di Pio XII, in Riccardi (1985), in particolare pp. 85-92.
12 A. Martini S.J., Papa Innocenzo XI verso gli onori degli altari, in «La Civiltà Cattolica», CVII, 2536, 18 febbraio 1956, pp. 379-80.
13 Sul punto, risultò particolarmente indicativa la scelta della Santa sede di non accogliere l’invito della Casa Bianca a prendere parte simbolicamente alla spedizione in Corea, anche a costo di rendere tesi i rapporti tra papa Pio XII e il presidente Truman (sulla vicenda cfr. specialmente Di Nolfo 1978). Dopo che, in riferimento a questi eventi e alle polemiche che da varie parti erano seguite, nel radiomessaggio natalizio del 1950 (pubblicato sull’«Osservatore Romano» del 24-25 dicembre) il pontefice definì «summa iniuria […] l’accusa di volere la guerra e di collaborare a tal fine con Potenze “imperialiste”», e di fronte alla «frattura» internazionale auspicò una soluzione «nel segno della concordia e della pace», la redazione del «Messaggero» interpretò quanto accaduto con l’ipotesi in base alla quale l’«alleanza» tra il Vaticano e la «comunità atlantica […] contro il “comunismo ateo”» era per la Chiesa cattolica «qualcosa che valeva per la pace, non per la guerra» (così nell’editoriale La politica mondiale della Santa sede, del 5 gennaio 1951), attirandosi una secca smentita da parte dell’«Osservatore» del 9 gennaio 1951. Per ulteriori osservazioni rinvio a Kent (2002).
14 Sul punto, cfr. l’elaborazione proposta da S. Lener S.J. in una serie di scritti raccolti da «La Civiltà Cattolica» tra il 1948 e 1949, e incentrata sull’idea che il conflitto che animava la guerra fredda non fosse quello tra due potenze rivali, ma rappresentasse caso mai l’eversione del blocco comunista alle comuni norme di convivenza internazionale che il mondo aveva ereditato dalla comunità cristiana medievale e fatto propri sulla base dei principi cristiani di difesa della pace e della giustizia: cfr. in particolare Struttura bolscevica del blocco orientale, in «La Civiltà Cattolica», XCIX, 2354, 17 luglio 1948, pp. 143-59; Dinamica del bolscevismo sul piano mondiale, in «La Civiltà Cattolica», XCIX, 2356, 21 agosto 1948 pp. 354-73; Il bolscevismo e l’essenza cristiana degli ordinamenti occidentali, in «La Civiltà Cattolica», XCIX, 2358, 18 settembre 1948, pp. 588-601; Crisi e degenerazione del bolscevismo russo, in «La Civiltà Cattolica», C, 2379, 6 agosto 1949, pp. 275-86, e C, 2380, 20 agosto 1949, p. 361-70. Su questo materiale cfr. anche L. Manetti, «La Civiltà Cattolica» e l’adesione italiana al Patto atlantico, in Di Nolfo - Rainero - Vigezzi (1990), pp. 407-408. Considerazioni generali più compiute sono presentate anche da Cellini (2017).
15 L’espressione, destinata a una enorme diffusione che la rese tipica della polemica sulle repressioni anticristiane dei regimi comunisti, iniziò a essere rilevabile con frequenza in seguito a un passaggio del già citato radiomessaggio natalizio con cui Pio XII chiudeva l’anno santo del 1950: «A tutti questi confessori di Cristo, che portano ingiustamente visibili o invisibili catene, che soffrono contumelia nel nome di Gesù (Act., 5,41), in questa fine dell’Anno Santo, inviamo il Nostro commosso, grato e paterno saluto. Possa esso giungere sino a loro, varcando le mura delle loro prigioni, i fili spinati dei campi di concentramento e di lavoro forzato, laggiù, in quelle lontane regioni, impenetrabili agli sguardi della umanità libera, sulle quali un velo di silenzio è disteso, che non varrà però a impedire il giudizio finale di Dio, né il verdetto imparziale della storia».
16 Pio XII, lettera autografa Gloriosam Reginam, in «L’Osservatore Romano», 13 gennaio 1956.
17 F. Cavalli S.J., Al XX° Congresso del Partito comunista sovietico, in «La Civiltà Cattolica», CVII, 2538, 17 marzo 1956, pp. 653-55.
18 «La Civiltà Cattolica», CVII, 2539, 7 aprile 1956, p. 111.
19 U.A. Floridi, La logica di Chruščev, in «La Civiltà Cattolica», CVII, 2540, 21 aprile 1956, p. 133.
20 Si veda ad esempio quanto scritto in proposito nella Cronaca contemporanea della «Civiltà Cattolica» del 21 luglio 1956 (CVII, 2545, p. 106): «Dopo la lettura del rapporto sembra incredibile che si debba prendere sul serio gente che discute ancora di simili aberrazioni: Togliatti che si limita a chiamare “errori” i delitti di Stalin e Nenni che trova solo ora il coraggio di dubitare dei processi moscoviti. I misfatti di Stalin furono molto più gravi di quelli elencati da Chruščëv e furono il frutto del regime comunista e non del culto della personalità. Nel documento, infatti, viene condannato l’abuso della violenza, mai il principio del suo impiego».
21 Cronaca contemporanea, in «La Civiltà Cattolica», CVII, 2546, 21 luglio 1956, p. 215.
22 Cfr. https://www.vatican.va/content/pius-xii/en/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_28101956_luctuosissimi-eventus.html.
23 Cfr. https://www.vatican.va/content/pius-xii/en/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_30091943_divino-afflante-spiritu.html.
24 Cfr. https://www.vatican.va/content/pius-xii/it/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_05111956_datis-nuperrime.html.
25 Cfr. https://www.vatican.va/content/pius-xii/it/speeches/1956.html.
26 Così si intitolava l’articolo dello scriptor gesuita pubblicato in «La Civiltà Cattolica» CVII, 2537, 3 marzo 1956, pp. 494-506.
27 Lo studio di riferimento su questo amplissimo tema, peraltro incomprensibile senza un approccio di lungo periodo, è Menozzi (1993).
28 Cfr., in proposito, S. Lener S.J., Sul cosiddetto “piccolo divorzio”, in «La Civiltà Cattolica», CVII, 2533, 7 gennaio 1956, pp. 19-33.
29 In proposito, cfr. l’evoluzione presentata in Malgeri (1989).
30 Non è un caso che, in vista del VI Congresso nazionale della Democrazia cristiana del 14-18 ottobre 1956, «L’Osservatore Romano» pubblicasse nel giro di pochi giorni (rispettivamente il 29 settembre e il 14 ottobre) due editoriali con lo stesso titolo, Cattolici e socialisti, in cui ribadiva perentoriamente sulla base delle encicliche Rerum Novarum e Quadragesimo Anno «che il socialismo non solo era contrario alla religione ma anche ad un retto ordine sociale», così da condannare sul nascere qualsiasi voce di una possibile apertura a una collaborazione tra partito cattolico e Psi. Per un quadro delle evoluzioni successive, cfr. M. Al Kalak, I vescovi italiani e l’“apertura a sinistra”. Scontri e conflitti all’ombra del pericolo laicista (1957-1960), in Alimenti - Chiarotto (2013), pp. 393-408.
31 Sul documento dei vescovi italiani, sulla sua genesi e sulla sua ricezione sostanzialmente limitata agli ambienti interni alle gerarchie ecclesiastiche, cfr. M. Al Kalak, “Questa eresia odierna che si chiama laicismo”. La lettera collettiva dell’episcopato italiano al clero (25 marzo 1960), in «Rivista di storia del cristianesimo», VII (2010), 2, pp. 509-31.
32 Sulla trattazione del problema comunista in sede conciliare cfr. G. Turbanti, Le riflessioni sul comunismo nel concilio Vaticano II, in V. Ferrone (2003), pp. 153-83.
Auteur
Professore associato di Storia dell’educazione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Nelle sue ricerche si occupa di storia intellettuale e delle istituzioni culturali, di pedagogia di partito nell’Italia repubblicana e delle culture politiche anticomuniste nel Novecento. È autore, tra l’altro, di Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana (1945-1953) (Rubbettino 2010), pubblicato in una versione aggiornata in inglese col titolo Communism and Anti-Communism in Cold-War Italy. Language, Symbols, and Myths (Manchester University Press 2018), e di Una biografia intellettuale di Mario Einaudi. Cultura e politica da sponda a sponda (Olschki 2016).
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