La Cgil e lo «strappo» di Giuseppe Di Vittorio
p. 211-226
Texte intégral
1Nel presente saggio, che analizza il cosiddetto «caso Di Vittorio» scoppiato all’interno del mondo comunista durante gli eventi ungheresi dell’autunno 1956, si ricostruiscono tre passaggi importanti: innanzitutto il comunicato ufficiale della Confederazione Generale Italiana del Lavoro del 27 ottobre; quindi i lavori della Direzione del Pci, svoltisi il 30 ottobre; e infine il comizio tenuto dal Segretario generale della Cgil Giuseppe Di Vittorio a Livorno il 4 novembre. In questo modo, attraverso l’esame dei tre avvenimenti, considerati cruciali sia dalla gran parte degli osservatori del tempo, sia successivamente dagli storici, verranno affrontati altrettanti temi, tutti di grande rilevanza: i rapporti tra le correnti politiche all’interno della Cgil; i rapporti tra la Cgil e il Partito Comunista Italiano; e, infine, la cultura politica della Cgil.
2L’intera vicenda è stata ampiamente studiata e dunque risulta piuttosto nota1. A tale proposito l’utilizzo del termine «strappo», presente nel titolo del saggio, appare appropriato. Infatti, in estrema sintesi, di fronte alla rivolta popolare di Budapest, la Cgil espresse una condanna severa e inequivocabile, differenziandosi largamente dal Pci, il quale decise conseguentemente di “processare” al suo interno il leader sindacale; è vero che alla fine non si arrivò a una rottura esplicita, ma si trattò certamente di una lacerazione profonda, di quelle che segnano in modo indelebile un’intera storia.
Nel mondo complesso della Cgil
3Il comunicato della Cgil colpisce ancora oggi per la chiarezza delle posizioni:
La Segreteria della Cgil, di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria, sicura di interpretare il sentimento comune dei lavoratori italiani, esprime il suo profondo cordoglio per i caduti nei conflitti che hanno insanguinato il paese.
La Segreteria confederale ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica ed economica, che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari.
Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico sono possibili soltanto con il consenso e la partecipazione attiva della classe e delle masse popolari, garanzia della più ampia affermazione del diritto di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale.
L’evolversi positivo della situazione in Polonia ha dimostrato che soltanto sulla via dello sviluppo democratico si realizza un legame effettivo vivente e creatore fra le masse lavoratrici e lo Stato popolare.
La Cgil si augura che cessi al più presto in Ungheria lo spargimento di sangue e che la Nazione Ungherese trovi in una rinnovata concordia la forza per superare la drammatica crisi attuale, isolando così gli elementi reazionari che in questa crisi si sono inseriti col proposito di ristabilire un regime di sfruttamento e di oppressione. In pari tempo, la Cgil, fedele al principio del non intervento di uno Stato negli affari interni di un altro Stato, deplora che sia stato richiesto e si sia verificato in Ungheria l’intervento di truppe straniere.
Di fronte ai tragici fatti di Ungheria e alla giustificata commozione che hanno suscitato nel popolo italiano, forze reazionarie tentano di inscenare speculazioni miranti a perpetuare la divisione tra i lavoratori, a creare disorientamento nelle loro file, a ingenerare sfiducia verso le loro organizzazioni per indebolirne la capacità di azione a difesa dei loro interessi economici e sociali.
La Cgil chiama i lavoratori italiani a respingere decisamente queste speculazioni e a portare avanti il processo unitario in corso nel Paese, per il trionfo dei comuni ideali di progresso sociale, di libertà e di pace2.
Dunque, insieme al «profondo cordoglio per i caduti», ma anche all’invito ad isolare «gli elementi reazionari […] inseriti nella crisi», la dichiarazione della Cgil deplorava «l’intervento di truppe straniere»; ma, soprattutto, la Confederazione ravvisava in quei «luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo».
4Di fronte alla durezza della condanna da parte sindacale, la prima domanda da porsi riguarda le modalità che portarono a quel comunicato. Chi lo elaborò? Quali erano gli obiettivi dei suoi estensori? Le testimonianze, a tale proposito, non sono univoche.
5La versione più diffusa è quella che proviene dall’area socialista. Essa è stata ricordata più volte da Piero Boni, che nel 1956 ricopriva la carica di vice segretario della Cgil: l’autore materiale del comunicato fu Giacomo Brodolini, all’epoca segretario nazionale della Confederazione, il quale, assente Fernando Santi (il più alto di grado, in quanto segretario generale aggiunto e numero uno della corrente socialista), lo presentò, insieme allo stesso Boni e a Oreste Lizzadri, a Giuseppe Di Vittorio, il quale, una volta letto il testo, dette la sua adesione convinta3. Tale lettura è confermata in parte da Oreste Lizzadri, anch’egli all’epoca dei fatti nella segreteria nazionale della Cgil: questi, nella sua testimonianza, ha sostenuto che Boni e Brodolini erano intenzionati a rendere pubblica la dichiarazione del sindacato anche senza il consenso della corrente maggioritaria, quella dei comunisti, semplicemente (ma con un atto carico di significato) come documento della componente socialista; fu lo stesso Lizzadri, dunque, a fare pressioni tanto sui suoi compagni socialisti quanto sul leader comunista, perché il testo diventasse il comunicato dell’intera Cgil4. Questa distinzione sembrerebbe essere una sfumatura, ma in realtà rivela l’esistenza di due aree nella corrente socialista: una più autonomista e vicina alle posizioni del Psi di Nenni, l’altra più unitaria e favorevole quindi al dialogo con i comunisti.
6Ebbene, rispetto a questa versione, i problemi che emergono sono due.
7Il primo nasce dalla lettura del verbale della segreteria nazionale della Cgil, redatto nella mattina del 27 ottobre, in cui risultano due assenti a causa di precedenti impegni assunti: il comunista Renato Bitossi, che si trovava a Modena, ma soprattutto Brodolini, che era a Pisa5. Proprio perché non vi sono dubbi nel considerare Brodolini l’autore materiale del comunicato, l’unica spiegazione è che esso venne redatto il giorno prima, il 26, e approvato il giorno dopo, il 27, dopo un lungo e – immaginiamo – intenso confronto all’interno del gruppo dirigente del sindacato. L’ampiezza e la laboriosità della discussione ci vengono confermate dallo stesso Di Vittorio proprio nella sua “difesa” al “processo” del 30 ottobre, durante la riunione della Direzione nazionale del Pci, quando egli sottolineò che il comunicato, naturalmente, era stato il frutto di una complessa mediazione interna alla Cgil: «abbiamo discusso per ore – disse testualmente il sindacalista di Cerignola – e abbiamo cercato di cavarcela nel modo migliore»6.
8C’è, tuttavia, una seconda questione non di poco conto e riguarda la successione cronologica degli avvenimenti, fino alla data del 27 ottobre, giorno in cui fu reso pubblico il comunicato confederale. Infatti, com’è noto la rivolta ungherese iniziò nella serata del 23; il primo intervento sovietico avvenne il giorno dopo, mentre il primo comunicato ufficiale del Pci risale al giorno 25 ottobre; quindi, ci fu un ulteriore giorno di pausa e, finalmente, il 27 uscì la dichiarazione della Cgil. Questa tempistica mostra in modo chiaro che la discussione nella Cgil andò avanti non per alcune «ore», ma per alcuni giorni, come ammise lo stesso Di Vittorio nella sua “difesa”, quando egli dichiarò di aver «lavorato per rinviare la riunione della direzione confederale»7.
9Alla luce di tali considerazioni, una prima conclusione può essere tratta: e cioè che l’iniziativa partì senza alcun dubbio dai socialisti e che essa venne fatta propria da Di Vittorio; tuttavia – ed è questo l’aspetto più rilevante – quel comunicato non esprimeva né la posizione dei socialisti, che avrebbero voluto una rottura ancora più radicale con i sovietici, né dei comunisti, che non volevano alcuna spaccatura con Mosca. Essa fu “semplicemente” la posizione della Cgil, concepita ed elaborata con una mediazione autonoma all’interno del sindacato. Di Vittorio, conoscendo bene la linea della sua corrente comunista e del suo partito, si mosse con cautela sin dall’inizio; il che, tuttavia, non oscura né sminuisce la sua personale, convinta adesione alla sostanza del comunicato: all’idea, cioè, di una rivolta popolare, nazionale e democratica, simbolo potenziale di un comunismo di stampo riformatore, che non fosse in contraddizione con l’idea dell’esistenza di diritti universali. Anzi. Di Vittorio era talmente convinto delle sue idee che, poche ore dopo, sempre il 27 ottobre, egli rilasciò a un’agenzia-stampa un’importante dichiarazione – non della Cgil, ma sua personale – nella quale, pur sorvolando sull’intervento sovietico e pur richiamando la presenza di «elementi provocatori e reazionari legati all’antico regime», ribadì il «carattere sociale» della protesta, in cui i manifestanti rivendicavano «libertà e indipendenza»8.
10E fu proprio in quel momento che iniziarono i problemi con il Pci, secondo tema del presente saggio.
Il rapporto tra la Cgil e il Pci
11La dichiarazione personale fatta da Di Vittorio, infatti, non venne pubblicata sul quotidiano del Pci «l’Unità» – a differenza di quanto avvenuto con il comunicato della Cgil – ma sull’organo del Psi, l’«Avanti!», il giorno 28. Due giorni dopo, il 30 ottobre, quando si tenne la riunione della Direzione del Partito comunista italiano, si capì il perché di questa circostanza “anomala”9. Infatti, nella relazione introduttiva, il segretario del Pci Palmiro Togliatti disse:
[…] In tutto questo travaglio si è inserita una dichiarazione di Di Vittorio dopo la mozione della Cgil. Per la mozione probabilmente c’è stato un insufficiente lavoro di chiarificazione fra i socialisti e la preoccupazione di trovare un terreno comune. La dichiarazione non è stata concordata con noi e ha aumentato il disorientamento nel partito10.
Dunque, secondo Togliatti, il comunicato della Cgil era stato un errore, che peraltro poteva essere comprensibile alla luce delle pressioni della componente socialista; ma la dichiarazione successiva del segretario confederale era stata un errore ancora più grave, quasi imperdonabile, perché essa non era stata concordata con il suo partito e si era rivelata profondamente sbagliata. Ma sulla riunione della Direzione si tornerà tra breve. Per ora restiamo sulla figura di Giuseppe Di Vittorio, sul suo comportamento di quei giorni e, più in generale, sul suo pensiero.
12Considerata a posteriori la piega che presero gli eventi, si può dire che l’«errore» compiuto da Di Vittorio – se mai venne commesso – fu quello di sottovalutare gli effetti provocati dalla sua posizione soprattutto nella base comunista, tra gli attivisti e i militanti; su questo punto, e “soltanto” su questo specifico punto, ci sarebbe stata autocritica da parte sua, già nella Direzione del Pci11.
13In breve, fu l’autorevolezza del leader della Cgil, che discendeva dalla sua straordinaria popolarità tra i lavoratori, che lo rese il protagonista della vicenda (alla fine, più degli stessi socialisti, che pure, per primi, avevano avvertito la necessità di assumere una posizione di dura condanna nei confronti dell’Urss). Di Vittorio divenne così – all’interno del mondo comunista – «l’unico punto di riferimento che la galassia del dissenso [riuscì] a trovare»12. Egli fu una sorta di leader «involontario», che non aveva alcuna intenzione di contrapporsi a Togliatti e al Pci; ma egli, proprio per la sua storia personale e per la sua immagine pubblica, per la sua «coerenza classista», fu anche il leader “naturale” dello schieramento composito che criticò apertamente, in modo insolito, il gruppo dirigente del Pci, colpevole non solo di non aver denunciato, ma di avere persino sostenuto la repressione sovietica.
14Le parole usate da Di Vittorio, tanto nel comunicato confederale quanto nella dichiarazione personale, rischiavano obiettivamente di provocare una frattura nella base comunista e nei gruppi dirigenti periferici del partito e del sindacato. Tante Camere del Lavoro, ad esempio, dalle più grandi e influenti, come quella di Milano, alle più piccole (ma altamente simboliche), come quella di Cerignola, si spaccarono a metà nei loro organismi dirigenti13. Inoltre, se la Camera del Lavoro di Livorno arrivò a proclamare da sola uno sciopero generale di quindici minuti a sostegno degli insorti, gli operai delle grandi fabbriche del «triangolo industriale», da Sesto San Giovanni a Sestri Ponente, passando per Torino, decisero di non mobilitarsi14.
15Quando poi, il 29 ottobre, il cosiddetto «manifesto dei centouno» citò espressamente il comunicato della Cgil, come un esempio autorevole della giusta posizione da assumere, esplose il «caso Di Vittorio», fino ad allora ancora (relativamente) arginato. Alcuni episodi di quei giorni sono abbastanza noti. Da Torino, ad esempio, Italo Calvino inviò il 28 ottobre a Di Vittorio un accorato telegramma nel quale era scritto: «Commosso condivido tua posizione indispensabile per salvare nostro partito et causa socialismo»15; in quei giorni, inoltre, l’agenzia Ansa presentò Di Vittorio come il candidato alternativo a Togliatti per la guida del Pci 16; il 30 ottobre poi, su «La Stampa», Vittorio Gorresio indicava il segretario della Cgil come il capo dei cosiddetti «gramsciani», i quali reclamavano il cambio al vertice del partito17. Ovviamente, da subito lo stesso Di Vittorio s’impegnò a fondo per sconfessare l’esistenza di un disegno del genere. Una sua dichiarazione, con cui smentiva seccamente queste voci, uscì infatti già il 30 ottobre, giorno della Direzione del Pci, e questa volta, a differenza della dichiarazione del 27, venne pubblicata su «l’Unità»18.
16Fu proprio in questo clima, ormai incandescente, che il 30 ottobre si aprì la Direzione del Pci, su cui si è scritto tanto. Un aspetto, comunque, appare piuttosto evidente e per questo è opportuno anticiparlo: leggendo i verbali dell’organismo, curati da Maria Luisa Righi, appare evidente che la riunione assunse da subito il carattere di un vero e proprio “processo interno”: non alla Cgil, ma a Di Vittorio, colpevole – consapevolmente o meno – di attentare in quel delicato frangente alla compattezza del mondo comunista e di indebolire la leadership di Togliatti19.
17Lo stesso andamento della Direzione fu eloquente. La relazione introduttiva di Togliatti somigliò molto a una requisitoria, conclusa dalla celebre frase «si sta dalla propria parte anche quando questa sbaglia»20. Quindi, dopo il duro intervento di Gian Carlo Pajetta, che chiarì subito come fosse schierato il gruppo dirigente del partito, fu la volta di una prima “difesa” da parte del sindacalista; questi provò a mediare sul piano della “forma”, ma senza cedere sulla “sostanza” della sua denuncia. Seguì una sequenza di sedici interventi, tutti severi con il segretario della Cgil. Alcuni non si limitarono alla critica politica, ma si spinsero oltre: fu il caso, ad esempio, degli interventi di Antonio Roasio («circa la posizione di Di Vittorio si tratta di ragionare col cervello e non col cuore»), Arturo Colombi («cattivo il suo metodo di fare tutto da sé») e Mauro Scoccimarro («gravissimo errore di Di Vittorio nell’aver ignorato l’esperienza storica»); non mancarono, però, alcune eccezioni, come quella di Enrico Berlinguer, il quale preferì insistere sull’«esplosione di malcontento popolare» che si era avuta in Ungheria: occorreva dunque «spiegarne le cause»21.
18Mentre i lavori della Direzione si avviavano verso la conclusione, ci fu un nuovo intervento di Di Vittorio, costretto sempre di più sulla difensiva; alcune sue frasi – «non amo l’Unione Sovietica meno degli altri compagni»; «ora condurre un’azione che modifichi nei fatti la posizione presa senza farne oggetto di scandalo» – mostravano in modo eloquente la condizione di difficoltà, se non di vero e proprio imbarazzo, in cui venne a trovarsi il leader della Cgil 22. Infine, a chiusura della riunione, ci fu la replica “gelida” di Togliatti, che liquidò la posizione presa da Di Vittorio nei giorni precedenti come «un proprio giudizio sentimentale e sommario», dichiarandosi dunque insoddisfatto delle risposte fornite. Per questo la Direzione decideva di «deplorare il commento di Di Vittorio non concordato con la direzione del partito, dopo l’errata posizione risultante dal comunicato della Cgil»23.
19In definitiva – ed è questa la seconda conclusione del presente saggio – la lacerazione politica, più che dividere la Cgil dal Pci, venne risolta soprattutto sul piano personale. Togliatti fornì un’efficace prova di machiavellismo, mostrandosi abile a drammatizzar lo scontro con il segretario della Cgil per difendere la sua leadership nel partito e nel movimento comunista (per la prima volta obiettivamente in discussione). In questo senso, risultano particolarmente convincenti le parole di Giovanni Gozzini e Renzo Martinelli, i quali hanno individuato nella reazione di Togliatti «la durezza e la cattiveria dei momenti difficili»24. Di Vittorio, dunque, in quel delicato passaggio, ancora una volta condizionato in modo determinante dai vincoli internazionali, fu una sorta di “vittima sacrificale”.
20In realtà, tuttavia, la questione era politica. Infatti, all’interno della medesima linea, finalizzata a difendere l’ideologia comunista, vi erano due posizioni diverse. Da un lato vi era quella impersonata da Togliatti, maggioritaria, ortodossa, di ispirazione leninista, basata su una ruvida realpolitik e sulla difesa strenua contro ogni nemico, esterno e interno; un’impostazione che affidava in modo indiscutibile il primato di direzione del movimento comunista al partito, sul quale occorreva riporre una fede assoluta25. Dall’altro lato vi era la posizione incarnata da Di Vittorio, minoritaria, eterodossa più che eretica, che vedeva nel partito uno strumento e mostrava una fiducia incondizionata, a volte persino ingenua, nelle classi lavoratrici o, come amava dire il segretario della Cgil, nel «popolo lavoratore»26. Nei giorni seguenti il dissenso tra le due posizioni, nonostante il lavoro svolto su entrambi i fronti per accorciare le distanze, rimase piuttosto ampio e ben visibile.
La cultura sindacale e politica della Cgil
21Nei primi giorni di novembre, infatti, mentre la situazione internazionale precipitava, con l’inasprirsi della situazione ungherese, l’attacco anglo-franco-israeliano nel Canale di Suez e la nuova invasione sovietica (questa volta risolutiva), Di Vittorio visse nuovi momenti di tensione politica e di amarezza personale, persino di umana disperazione. Particolarmente significativo, a tale proposito, è l’episodio raccontato da Antonio Giolitti, il quale, nella sua autobiografia Lettere a Marta, ha ricordato di aver visto il segretario della Cgil versare lacrime di frustrazione e di rabbia contro quei regimi dittatoriali che ormai, in privato, definiva «sanguinari», guidati da «una banda di assassini»27.
22In tale situazione, ormai provato, pressato su diversi fronti e chiaramente avversato dai principali esponenti del Pci, Di Vittorio (il quale – è bene ricordarlo – era uscito da pochi mesi da una fase di lunga convalescenza e continuava a soffrire di problemi di cuore) rinunciò coscientemente a combattere una battaglia aperta; nel prendere tale decisione egli fu mosso soprattutto dalla preoccupazione di non rompere con il suo partito, evitando di continuare ad alimentare i malumori di chi lo aveva sostenuto nelle complesse vicende sindacali degli anni Quaranta e Cinquanta, segnati dal crescente isolamento della Cgil nelle fabbriche e nella società28.
23La “resa dei conti” fu probabilmente la convocazione nella sede centrale del partito, a Botteghe oscure, del gruppo dirigente della cellula comunista di Corso Italia (sede della Cgil), da poco guidata da Bruno Trentin, all’epoca giovane ricercatore dell’Ufficio studi confederale, eletto al posto di Giovanni Parodi; secondo la testimonianza di Trentin, nella riunione, svoltasi nei primi giorni di novembre e presieduta in modo aperto e disponibile da Luigi Longo, si registrò un nuovo attacco veemente contro Di Vittorio, espresso soprattutto da parte di Giorgio Amendola e Mario Alicata, i quali, in accordo con Togliatti, imposero di fatto al segretario della Cgil di chiarire pubblicamente la sua posizione, ponendolo probabilmente – scrive Trentin – «di fronte ad un aut aut drammatico»29.
24In tale quadro si colloca l’ultimo episodio di quelle giornate così intense e dolorose: il comizio effettuato dal segretario della Cgil a Livorno il 4 novembre, interpretato da diversi commentatori, e anche da alcuni studiosi, come l’autocritica di Di Vittorio, la sua «resa dignitosa», per usare le parole di Antonio Carioti30. In realtà, non fu una “marcia indietro”, poiché si trattò, a ben vedere, del tentativo estremo di attenuare lo scontro con il Pci, di ridurre il conflitto tra il partito e il sindacato, utilizzando il massimo della cautela possibile e mostrandosi leale in nome dell’unità dei comunisti31. Così, dopo il secondo intervento sovietico, effettuato proprio all’alba del 4 novembre, non fu emesso da parte della Cgil un nuovo comunicato. Nel Direttivo confederale del 20-21 novembre, invece, il sindacato approvò un documento che escludeva l’obbligo di esprimersi su «questioni o avvenimenti nazionali o internazionali, di carattere prettamente politico», ove ci fosse un contrasto palese tra le componenti32.
25Nell’immediato, dunque, Di Vittorio fu costretto a indietreggiare rispetto alle prime posizioni espresse in merito alla vicenda ungherese, senza mai smentire, però, il senso di quelle parole così esplicite e severe. Inoltre, passato il momento più esasperato dello scontro politico, già nelle settimane successive egli riuscì a incassare un importante successo su un tema cui teneva molto e sul quale stava lavorando da anni. Infatti, nell’VIII Congresso nazionale del Pci, tenuto a Roma dall’8 al 14 dicembre 1956, fu approvata la cancellazione “storica” della cosiddetta «cinghia di trasmissione», un principio cardine dell’ideologia leninista che limitava ampiamente l’autonomia del sindacato nei confronti del partito. Gli eventi del «terribile ’56», iniziati a febbraio con il XX Congresso del Pcus e la denuncia dei crimini di Stalin, passati attraverso la rivolta degli operai polacchi a Poznań e conclusi con la drammatica repressione sovietica in Ungheria, alla fine produssero effetti vistosi, non solo sul piano ideologico e politico, ma anche a livello sindacale. In estrema sintesi, se non doveva più esistere a livello generale uno «Stato-guida» e un «partito-guida», allora neanche in Italia il partito poteva considerarsi al di sopra del sindacato33.
26La correzione di rotta era significativa; se già da tempo, infatti, la politica rivendicativa della Confederazione si era mossa in modo autonomo rispetto ai partiti della sinistra (come dimostravano alcune rilevanti battaglie intraprese dalla Cgil, dal Piano del Lavoro alla Cassa per il Mezzogiorno, dallo Statuto dei diritti dei lavoratori al Piano Vanoni), la stessa cosa non poteva dirsi a proposito della politica organizzativa (la cosiddetta «politica dei quadri»), sulla quale sia il Pci che il Psi (per quanto in misura minore) continuavano a mantenere una notevole influenza. Dunque, gli avvenimenti del 1956 accelerarono i cambiamenti in corso e la questione dirimente dell’autonomia sindacale ne uscì rafforzata34.
27Da questo punto di vista, allargando fugacemente lo sguardo oltre i limiti temporali considerati nel presente saggio, appare abbastanza evidente il nesso tra le vicende ungheresi del 1956 e la successiva scelta effettuata dalla Cgil nel 1957, di fronte alla nascita della Comunità Economica Europea, quando essa si smarcò dalle posizioni di ostinata chiusura del Pci, dichiarandosi disponibile a confrontarsi sulle opportunità, oltre che sulle problematiche poste dal processo d’integrazione europea35. Inoltre, dopo aver interrotto da subito i rapporti con il sindacato ungherese di regime, durante il V congresso della Federazione Sindacale Mondiale (Fsm), svoltosi a Mosca nel dicembre 1961, la Cgil avviò all’interno dell’organismo internazionale un aspro braccio di ferro con i rappresentanti sovietici e i loro fedeli alleati, che sarebbe culminato alcuni anni dopo con la condanna dell’invasione di Praga del 1968 e con l’ingresso nella Confederazione Europea dei Sindacati (Ces) nel 197436.
28In sintesi, l’analisi degli avvenimenti politici e sindacali del 1956 consolida l’immagine di una Cgil avviata, pur tra limiti e incertezze, sulla strada della piena maturità sindacale, grazie alla ricerca continua e all’elaborazione costante di una propria politica autonoma. Inoltre, la ricostruzione storica di tali eventi ribadisce, una volta di più, il ruolo tanto importante quanto originale giocato da Giuseppe Di Vittorio nella politica italiana (ma anche in quella internazionale, in qualità di presidente della Fsm). Il leader della Cgil, infatti, agiva all’interno del campo comunista, così come nel mondo del sindacato e delle istituzioni, mostrando caratteristiche e qualità peculiari, evidenti nel corso di tutta la sua lunga segreteria, ma che gli eventi ungheresi finirono per esaltare.
29Infatti, come ha scritto in modo efficace uno dei suoi “allievi” più importanti, Bruno Trentin, Di Vittorio fu il teorico e l’esponente più autorevole di una specifica cultura sindacale, che ha rappresentato uno degli esempi più alti di azione politica svolta in Italia37. Secondo tale lettura, Di Vittorio fu innanzitutto tra i più tenaci oppositori della cosiddetta «autonomia del politico», un’impostazione fortemente radicata nella sinistra italiana (ma non solo), che Trentin definiva «autoreferenziale», fondata sul primato dei partiti, sulla subalternità delle lotte sociali e sul ruolo secondario del sindacato, in quanto considerato un soggetto per sua natura incapace di avere una visione generale. Al contrario Di Vittorio, sin dai tempi in cui, nella Puglia d’inizio Novecento, militava nelle file del sindacalismo rivoluzionario, lavorò in modo infaticabile per difendere, allargare e sviluppare l’autonomia culturale e progettuale del sindacato; egli, dunque, lottò sempre a fondo contro l’impostazione tradizionale della Seconda Internazionale, ripresa e accentuata poi anche dalla Terza Internazionale, che vedeva il gruppo dirigente del partito come un’avanguardia, in grado di elaborare e dettare la linea politica a una base considerata perennemente immatura. Il «merito storico» di Di Vittorio – questa era la conclusione di Trentin – è stato quello «di avere avviato la rottura delle liturgie del leninismo, anche grazie a un’acuta percezione della complessità del processo sociale»; e di aver spinto «il sindacalismo confederale in una dimensione politica», impegnato non solo sul terreno fondamentale delle rivendicazioni economiche ma anche nella difesa delle libertà fondamentali e nell’ampliamento della sfera dei diritti38.
30Per questi motivi occorre considerare Giuseppe Di Vittorio ben più di un semplice sindacalista, ma tout court come un politico; e certamente come uno dei protagonisti principali della storia politica e sociale del Novecento.
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Notes de bas de page
1 Cfr. Agosti (2011); Id. (1999), pp. 215-21; Ghezzi (2007); Gozzini - Martinelli (1998), pp. 572-638; Pistillo (1977), pp. 299-341; Pons (2012), pp. 264-79; Righi (1996).
2 Il testo della dichiarazione è quello ufficiale, contenuto nel comunicato dell’Ufficio stampa della Cgil, datato 27 ottobre 1956; il documento è conservato presso l’Archivio storico della Cgil nazionale, Segreteria, Verbali (consultabile anche all’indirizzo http://151.1.148.212/cgil/AJAXAttachment.ashx?resource=cgilcongenealogia/pdf/001751.pdf). Il corsivo è mio.
3 La testimonianza di Piero Boni è in Ghezzi (2007), pp. 73-76.
4 La testimonianza di Lizzadri è in Pistillo (1977), p. 330.
5 Si veda la nota 2.
6 Righi (1996), p. 238.
7 Ivi, p. 222.
8 La dichiarazione di Giuseppe Di Vittorio all’agenzia Spe è in Pistillo (2007), pp. 51-52. Questo il testo integrale della dichiarazione: «In ordine al comunicato emesso oggi dalla segreteria della Cgil sui fatti di Ungheria, che tanto hanno commosso i lavoratori e la pubblica opinione, credo di poter aggiungere che gli avvenimenti hanno assunto un carattere di così tragica gravità che essi segnano una svolta di portata storica. A mio giudizio sbagliano coloro i quali sperano che dalla rivolta tuttora in corso, purtroppo, possa risultare il ripristino del regime capitalistico e semifeudale che ha dominato l’Ungheria per molti decenni. È un fatto che tutti i proclami e le rivendicazioni dei ribelli, conosciuti attraverso le comunicazioni ufficiali di radio Budapest, sono di carattere sociale e rivendicano libertà e indipendenza. Da ciò si può desumere chiaramente che – ad eccezione di elementi provocatori e reazionari legati all’antico regime – non ci sono forze di popolo che richiedono il ritorno del capitalismo o del regime di terrore fascista di Horthy. Condivido quindi pienamente l’augurio espresso dalla segreteria della Cgil che anche in Ungheria il popolo possa trovare, in una rinnovata concordia nazionale, la forza per andare avanti sulla strada del socialismo». Il corsivo è mio.
9 Gozzini - Martinelli (1998), pp. 594-97.
10 Righi (1996), p. 220. Il corsivo è mio.
11 «Togliatti ha parlato della difesa della propria parte. Non ho mai sostenuto la legittimità dell’insurrezione. Giusta la critica che non l’abbiamo condannata. Non vi abbiamo pensato»: ivi, p. 238.
12 Gozzini - Martinelli (1998), p. 592.
13 Pistillo (1977), pp. 333-35.
14 Gozzini - Martinelli (1998), p. 591. Sul caso degli operai di Sesto San Giovanni si veda Agosti (2011), p. 357.
15 Si può vedere la riproduzione del telegramma di Calvino in Loreto (2017), p. 148; nella stessa pagina è riprodotta anche la seguente lettera, su carta intestata dell’Istituto Gramsci di Roma, indirizzata alla Cgil e datata anch’essa 28 ottobre 1956: «Cari compagni, noi partecipanti al Convegno sul Mercato del lavoro e l’imponibile in agricoltura, abbiamo letto e pienamente condiviso la dichiarazione della Segreteria della Cgil sugli avvenimenti di Ungheria, nonché il commento che il compagno Di Vittorio ha voluto aggiungere ad essa. Ci felicitiamo con tali iniziative e vi salutiamo fraternamente». Seguivano tredici firme, tra le quali quelle di Rosario Villari e Renato Zangheri.
16 Gozzini - Martinelli (1998), p. 593.
17 V. Gorresio, La “base” accusa duramente Togliatti e reclama subito una nuova direzione, in «La Nuova Stampa», 30 ottobre 1956, p. 7; nell’articolo Gorresio faceva anche i nomi di alcuni dei componenti del presunto gruppo che sosteneva Di Vittorio: tra questi vi erano gli onorevoli Bruno Corbi, Antonio Giolitti, Fausto Gullo, Concetto Marchesi e Umberto Terracini, e il sindaco di Bologna Giuseppe Dozza. Cfr. Pistillo (2007), p. 73.
18 Gozzini - Martinelli (1998), pp. 593-94. Questa la smentita di Di Vittorio: «La voce messa in circolazione con tanta leggerezza non ha neppure l’ombra di un fondamento e la giudico assurda. Fra l’altro, questa “voce” lascerebbe supporre una mia opposizione a Togliatti, che non esiste affatto. A mio avviso l’onorevole Togliatti per tutte le alte qualità di cultura, di esperienza e di equilibrio politico – che tutti gli riconoscono – è l’uomo che più di ogni altro è in grado di garantire una giusta direzione d’un grande partito di massa qual è il Pci».
19 Righi (1996), pp. 217-40.
20 Ivi, p. 221. Lo stesso giorno peraltro – ma questo lo si sarebbe saputo molto tempo dopo – Togliatti inviò a Mosca una lettera in cui indicava proprio Di Vittorio come il capo dell’opposizione interna «revisionista». Il documento, proveniente dagli archivi di Mosca, fu pubblicato per la prima volta da «La Stampa» nel 1996: G. Chiesa, Togliatti. Compagni russi l’Ungheria è un pericolo, in «La Stampa», 11 settembre 1996. Su tale episodio si veda la testimonianza di Bruno Trentin – in Ghezzi (2007), pp. 55-64 – il quale non ha esitato a definire la lettera una «denuncia di carattere delatorio» (ivi, p. 58).
21 Ivi, rispettivamente alle pp. 225, 234, 237 e 235.
22 Ivi, p. 238.
23 Ivi, pp. 239-240.
24 Gozzini - Martinelli (1998), p. 599.
25 Cfr. Agosti (2003), pp. 450-56.
26 Cfr. Di Vittorio (2007).
27 Giolitti (1992), pp. 99-100.
28 Pepe (1996), pp. 129 ss.; cfr. Craveri (1977).
29 Guerra - Trentin (1997), pp. 205-206. Cfr. Trentin (1995), pp. 185-86.
30 Si veda l’intervento di Carioti nel volume curato da Ghezzi (2007), p. 82. Cfr. Carioti (2004).
31 Un ampio stralcio dell’intervento di Livorno è in Pistillo (1977), pp. 335-36. «Gli avvenimenti di Ungheria – disse Di Vittorio in quella occasione – contengono una serie di grandi insegnamenti per i lavoratori di tutti i paesi. Il primo ed il più importante è quello di non lasciarsi ingannare dal nemico, di non permettere la disgregazione delle proprie organizzazioni, ancora e sempre, di essere uniti. […] Il secondo insegnamento capitale, che dobbiamo trarre, è quello di una democratizzazione profonda dei poteri popolari e di tutte le organizzazioni proletarie e democratiche, per evitare la burocratizzazione e i distacchi così profondi tra i dirigenti e la base».
32 La risoluzione del Comitato direttivo della Cgil (Roma, 20-21 novembre 1956), in AsCgil, Comitato Direttivo, Verbali 1956, anche in http://151.1.148.212/cgil/AJAXAttachment.ashx?resource=cgilcongenealogia/pdf/001265.pdf, pp. 89-91.
33 Gozzini - Martinelli (1998), pp. 618-33, in particolare pp. 619-23. Inoltre, occorre ricordare che alla fine del congresso, nonostante il parere contrario di molti dirigenti, Togliatti volle mantenere ugualmente Di Vittorio nella Direzione del Pci. Infatti, come ha notato Michele Pistillo, anche in presenza di un dissidio tra i due (più latente in estate di fronte ai fatti di Poznań, più esplicito in autunno di fronte ai fatti di Budapest), tra il capo del Pci e il capo della Cgil rimase fino all’ultimo istante una «sintonia di fondo», basata sulla stima e sul rispetto reciproco: cfr. Pistillo (2007).
34 F. Loreto, Il sindacalismo nell’Italia repubblicana: organizzazioni, politiche, culture, in «Democrazia e Diritto», n. 3-4, p. 181. Cfr. Guerra - Trentin (1997).
35 Cfr. Cruciani (2007); Del Biondo (2007).
36 P. Iuso, La dimensione internazionale, in Pepe - Iuso - Misiani (2001), pp. 221-43.
37 Trentin in Ghezzi (2007), pp. 55-64. La testimonianza di Trentin, scritta in forma di appunti nell’estate del 2006, in vista di un convegno organizzato per il successivo autunno dalla Fondazione Di Vittorio a cinquant’anni dagli eventi ungheresi, rappresenta l’ultimo scritto del sindacalista; infatti, poco tempo dopo egli subì un incidente dal quale non si sarebbe più ripreso, fino alla morte avvenuta nel 2007. In questo senso, il testo appare ancora di più una sorta di “testamento politico” di Trentin, con il quale egli rende omaggio a colui che può essere considerato, senza dubbio, il suo “maestro”.
38 Ivi, p. 62.
Auteur
Professore associato di Storia contemporanea presso l’Università di Torino. È presidente della Società Italiana di Storia del Lavoro (SISLav) e direttore di “Lavori in corso. Studi e ricerche di storia del lavoro”, la collana editoriale della Società; inoltre, è membro del Consiglio di Direzione della rivista “Historia magistra” e del Comitato scientifico (sezione storia) della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del movimento operaio e sindacale, tra i quali L’unità sindacale (1968-1972). Culture organizzative e rivendicative a confront (Ediesse 2009); e Sindacalismi, sindacalismo. La rappresentanza del lavoro in Italia nel primo Novecento: culture, figure, politiche (1900-1914) (Ediesse 2015). Ha curato il volume di Lucien Febvre Lavoro e storia. Scritti e lezioni (1909-1948) (Donzelli 2020).
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