Il Manifesto dei 101. Abbozzo prosopografico
p. 177-190
Texte intégral
1In un discorso tenuto a Napoli a pochi mesi dalla morte, Palmiro Togliatti rievoca così la stagione della “diaspora” degli intellettuali dal suo partito:
Vi ricordate che cosa avvenne allora? Tutti credevano che fossimo finiti, che non ci fosse più nulla da fare per noi, che fossimo ormai esclusi dalla scena politica, ridotti alla disperazione, “Signore, Signore perché ci hai tu abbandonato?”, e quindi fossimo pronti per la crocifissione […]. E invece non successe nulla di tutto questo, proprio perché in quel momento ci siamo sentiti, anche nelle difficoltà, più forti1.
Secondo le cifre ufficiali, in effetti, le “perdite” furono, tutto sommato, contenute: tra il ’56 e il ’57 non furono rinnovate trecentomila tessere (ma i reclutati furono circa centomila). Gli operai diminuirono in termini assoluti (novantamila iscritti in meno in quello stesso biennio) anche se la loro percentuale sul totale rimase stabile attorno al 40 %. Soprattutto, il Pci non registrò perdite significative sul terreno elettorale: le elezioni del 1958 confermano i voti del 1953 e nel 1963 il Pci registrerà un aumento di tre punti in percentuale. L’operazione di “conservazione” del partito ebbe dunque un sostanziale successo2.
2Il “sarcasmo appassionato” ex post di Togliatti è certo confermato dai fatti, ma non vi è dubbio che quell’anno la cultura di sinistra fu «investita fino in fondo dalla crisi dello stalinismo» e fu costretta «ad un bilancio del decennio trascorso e ad una verifica dei suoi strumenti operativi»3.
3Come è noto, il «Partito nuovo» voluto da Togliatti fin dal suo rientro in Italia dopo l’esilio sovietico aveva come obiettivo primario la creazione di una coscienza di classe condivisa e aveva fin da subito legato ad esso generazioni di intellettuali provenienti da esperienze e formazioni culturali diverse intessendo un proficuo dialogo che fino ad allora, esclusi casi isolati, non si era mai interrotto. Ebbene, quel rapporto pareva incrinarsi proprio in questo anno.
4La «quistione politica degli intellettuali»4, per usare un’espressione gramsciana, era ora al centro del dibattito; in effetti si svolsero, ancora prima della rivolta ungherese, numerose riunioni della Commissione cultura convocate da Mario Alicata (che Rossanda ebbe a definire un «domenicano, deciso ad accendere il rogo rischiando di rimanere cremato»)5 in cui si poneva il problema della libertà di azione degli intellettuali comunisti.
5Verso la fine dell’”anno spartiacque”, con la concomitanza della crisi di Suez e l’insurrezione di Budapest6, la tensione sulla scena internazionale raggiunse l’apice; in questo contesto e di fronte alla posizione ufficiale del Pci – in particolare rispetto alla rivolta ungherese – si verificò la prima sgnificativa “diaspora” dell’intellettualità vicina o organica al più grande partito comunista di Occidente.
6Espressioni di dissenso si registrano da più parti: a Roma, in particolare nella cellula comunista dell’università, composta da Alberto Caracciolo, Lucio Colletti, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Alberto Merola, Paolo Santi, per fare i nomi più noti; sempre a Roma, tra i redattori di «Paese Sera», dirigenti come Natoli e Lombardo Radice; a Milano: e qui possiamo fare i nomi di Fortini, Rossanda, Occhetto […], i redattori della Feltrinelli e gli studiosi che fanno capo al suo Istituto; a Torino la cellula «Giaime Pintor» della casa editrice Einaudi redige un “appello ai comunisti” parlando di «gravi errori» commessi dalla direzione del Partito; si richiede che ne «sia sconfessato l’operato» per evitare che il Partito perda il suo «prestigio morale e politico»; manifestazioni di contrasto si verificarono anche in altre federazioni7.
7Già la sera del 27 ottobre una trentina di redattori comunisti di «Paese Sera» inviarono una lettera a Ingrao, allora direttore de «l’Unità», di aperta critica all’atteggiamento del Pci rispetto ai fatti ungheresi e al modo di trattarli della stampa di Partito, che aveva definito «sacrosanto» l’intervento sovietico e aveva definito «controrivoluzionaria» e sediziosa la rivolta ungherese.
8Prima della redazione del documento passato alla storia come Manifesto dei 101, la cellula universitaria romana approvò, lo stesso 27 ottobre, una mozione elaborata il giorno prima da Carlo Salinari, Lucio Colletti, Alberto Caracciolo e Piero Melograni; si tratta della bozza da cui nacque poi il Manifesto. Questo l’incipit:
L’assemblea degli assistenti e professori universitari comunisti, riunita nei giorni 26 e 27 ottobre, in seguito alle notizie sui fatti di Polonia e delle tragiche vicende dell’Ungheria, ritiene necessario formulare alcune considerazioni politiche.
Si rileva dunque
l’urgenza che il partito comunista italiano si impegni ad assolvere meglio in questo periodo, senza ritardi e senza esitazioni, alla propria funzione di orientamento e di iniziativa politica. È necessario che il nostro partito sappia in avvenire riconoscere tempestivamente la verità dei fatti politici, senza omissioni né mascheramenti né riserve di fronte alla massa degli iscritti. L’indirizzo di rinnovamento e di apertura politica manifestato dal 20° congresso del Pcus deve esserci di guida e di incitamento ad assolvere coraggiosamente a questo compito nel delicato momento di lotta che stiamo vivendo.
Quello stesso giorno, in seguito alla dichiarazione rilasciata dalla Cgil, la cellula universitaria approvò un ordine del giorno in appoggio al sindacato comunista; la Fgci di Roma scrisse il 28 ottobre direttamente a Di Vittorio, ringraziandolo per essersi espresso con “voce ferma e pubblica” e augurandosi che la sua posizione potesse presto essere assunta ufficialmente dalla Direzione e dal Partito nella sua totalità8.
9Il malcontento aveva dunque cominciato a palesarsi apertamente e in poche ore i redattori dei due documenti decisero di unirsi ad altri intellettuali come Carlo Muscetta, direttore di «Società», per allargare il movimento dei dissenzienti.
10Togliatti, venuto a conoscenza del progetto, scrisse proprio a Muscetta una lettera, datata 27 ottobre, con la quale tentava di scongiurare il pericolo:
Caro Muscetta, vedo il tuo nome su un foglietto destinato a raccogliere firme tra i compagni romani per chiedere non si comprende bene quale iniziativa immediata del nostro partito di fronte ai fatti polacchi e ungheresi. Tra i nomi – non molti – dei firmatari, solo il tuo è di un compagno col quale ho un poco di familiarità e quindi posso liberamente volgerti alcune osservazioni.
Il Segretario ribadisce come il partito non abbia esitato a porre, dopo il XX Congresso e i drammatici fatti polacchi e ungheresi, «il problema della democratizzazione dei regimi socialisti, della autonomia dei partiti, dell’abbandono del concetto del partito-guida» ecc. Egli aggiunge poi che «tanto in Polonia quanto in Ungheria è da criticare severamente il ritardo con il quale si è affrontata la situazione». È necessario, dunque «porre con chiarezza e come decisivo il problema del potere»; per il resto, conclude: «Il partito ha commesso gravi errori, le cui conseguenze sta pagando e purtroppo le pagheremo anche noi. Una posizione come quella dei socialisti, però, era per noi inammissibile».
11Il tentativo di Togliatti di contenere il dissenso non ebbe però l’esito sperato e la notte tra il 28 e il 29 ottobre, lo stesso Muscetta insieme ad altri giovani intellettuali, nella sezione comunista del quartiere Italia preparò la bozza di un documento di solidarietà al popolo ungherese, di condanna dell’intervento sovietico, e di dissenso nei confronti della dirigenza del Pci. La bozza fu poi riveduta da Lucio Colletti in casa di Luciano Cafagna; la versione definitiva fu redatta nella dimora di Giuliana Bertoni insieme allo stesso Muscetta, a Natalino Sapegno, e Renzo Vespignani9. Tra i promotori del documento sorge una sorta disparità di vedute sull’uso del Manifesto: la maggioranza vuole che venga indirizzato al Comitato centrale senza divulgarlo, altri ritengono opportuno portarlo alla redazione dell’«Unità»; altri ancora vorrebbero diffonderlo il più possibile. In una nota scritta probabilmente da Caracciolo si legge:
Si fa presente al CC del partito, con tutta la responsabilità che questo fatto comporta, che qualora non si avesse notizia al più presto che su l’Unità verrà pubblicato questo documento, i compagni firmatari saranno costretti a rivolgersi agli altri membri del partito, alle sezioni, alle cellule perché si verifichi egualmente quella larga pubblicità che è oggi divenuta indispensabile per una completa chiarezza di posizioni10.
Il documento venne firmato, nella casa editrice Einaudi, dov’era la redazione di «Società», da decine di intellettuali in brevissimo tempo. Giuliana Bertoni, allora segretaria di redazione della rivista, chiamò al telefono la maggior parte dei firmatari, mente altri furono avvertiti direttamente dagli intellettuali più coinvolti nell’iniziativa. Melograni ad esempio, racconta di essere stato chiamato da Renzo De Felice e Sergio Bertelli, che lo convocarono in via Uffici del Vicario nella sede della rivista, invitandolo a sottoscrivere il testo.
12Nel giro di poche ore, comunque le firme si moltiplicarono. I primi tre firmatari erano i letterati Carlo Muscetta, Natalino Sapegno e Gaetano Trombatore, ai quali si aggiungevano gli universitari comunisti Alberto Caracciolo, Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Enzo Siciliano. Anche il comparto degli storici era significativo, con le firme di Paolo Spriano, Renzo De Felice, Salvatore Francesco Romano, Piero Melograni, Roberto Zapperi, Giorgio Candeloro. Vari altri studiosi e critici di altre discipline sottoscrissero il documento: Dario Puccini, Mario Socrate, Luciano Lucignani; artisti e critici d’arte come Lorenzo Vespignani e Corrado Maltese. Uomini di cinema come Elio Petri; architetti come Alberto Samonà, Piero Moroni, Edoardo Vittoria, Carlo Aymonino; medici come Luciano Angelucci e Franco Graziosi: l’artista Dario Durbè; gli storici dell’arte Carlo Bertelli e Marisa Volpi; il giurista Vezio Crisafulli11.
13Si trattava di 95 intellettuali comunisti, cui se ne aggiunsero presto altri sei. Tra i sottoscrittori del Manifesto figurano «undici fra professori ordinari, incaricati e liberi docenti di università; dodici assistenti; cinque o sei funzionari stabili di partito; quattro membri di comitato federale di partito o della gioventù; parecchi membri dirigenti di sezioni». Tra le firme più “pesanti” quella di Paolo Spriano, redattore del «Contemporaneo», al quale la lettera giunse da Mara, figlia di Muscetta.
14I punti fondamentali del Manifesto erano i seguenti:
I tragici avvenimenti d’Ungheria scuotono dolorosamente in questi giorni l’intiera opinione pubblica del paese. […] La fedeltà all’impegno assunto con l’atto di adesione al partito impone di prendere una posizione aperta. Si formulano pertanto queste considerazioni politiche:
1) I fatti d’Ungheria dimostrano che quando prevalgono resistenze, ritardi, o addirittura il proposito di contenere il processo di democratizzazione dei partiti comunisti e dei regimi sociali [sic] iniziato dal XX Congresso del Pcus, inevitabilmente si verificano profonde fratture nel popolo e nella stessa classe operaia, che il partito è impotente a superare […]. La condanna dello stalinismo è irrevocabile.
2) Dagli avvenimenti di Polonia, e soprattutto d’Ungheria scaturisce una critica a fondo, senza equivoci, dello stalinismo […]. Da mesi si tenta di minimizzare il significato del crollo del culto e del mito di Stalin, si cerca di nascondere al partito i crimini da e sotto questo dirigente, definendoli «errori» o addirittura «esagerazioni» […].
3) […] se non si vuole distorcere la realtà occorre riconoscere con coraggio che in Ungheria non si tratta di un putsch o di un movimento organizzato della reazione […] ma di un’ondata di collera che deriva dal disagio economico, da amore per la libertà e dal desiderio di costruire il socialismo secondo una propria via nazionale, nonostante la presenza di elementi reazionari.
Nel Manifesto, si faceva anche riferimento al comunicato emesso dalla segreteria della Cgil, che deplorando l’intervento sovietico decretava «la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di direzione politica» che determinavano «il distacco fra dirigenti e masse popolari»12 compromettendo anche «la realizzazione della via italiana al socialismo». In conclusione, si auspicava che
già da ora e poi nell’imminente congresso, avvenga un rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del partito. […] si ritiene indispensabile che queste posizioni vengano conosciute e dibattute da tutto il partito, e se ne domanda pertanto la integrale e immediata pubblicazione su «l’Unità»13 […].
La lettera fu consegnata nel tardo pomeriggio del 29 ottobre alla sede sede del Comitato centrale e alla direzione dell’«Unità», dove «gli emissari dei “centouno”» furono ricevuti da Giancarlo Pajetta, Pietro Ingrao e Alfredo Reichlin e «aspramente redarguiti»14.
15Racconta Colletti in un’intervista rilasciata 45 anni dopo, che Pajetta cominciò un po’ a deriderli per la loro ingenuità e disse loro: «Ma che credete, che la politica si faccia con le buone intenzioni? Ma allora la Polonia… ma voi credete che la Lituania, l’Estonia, la Lettonia, che tutto questo sia avvenuto con il consenso? Rendetevi conto che la politica contiene un elemento di realismo, di forza, che è insopprimibile»15. In quelle stesse ore, l’Ansa e la radio diramavano alcuni stralci della lettera. Nella stessa intervista già menzionata, Colletti sostiene che fu Muscetta a contravvenire all’impegno preso di non rendere pubblica la lettera. La versione non è confermata da Giuliana Bertoni, che – intervistata a sua volta – mantenne riserbo assoluto su chi l’avesse trasmessa. Sergio Bertelli, in una testimonianza resa nello stesso 2001, disse:
Dopo aver scritto il manifesto in casa di Giuliana Bertoni […] facemmo il giuramento di non far trapelare la notizia al di fuori del partito, ma, come tutte le congiure…. come io e mio fratello usciamo dalla riunione, filiamo all’Ansa e consegniamo il testo del manifesto»16.
La ricostruzione si complica ulteriormente se si considera la testimonianza di Luciano Cafagna, che ha sostenuto che fu Muscetta, d’accordo con lui, a far pubblicare la lettera. E aggiunge che è possibile che «sia lui e Muscetta, sia i fratelli Bertelli avessero avuto la stessa idea»17, ignari gli uni delle intenzioni degli altri. Ancora Muscetta, nel suo libro di memorie, scrive: «Io ero tra coloro che volevano appunto la pubblicazione della lettera anche nella stampa borghese, ove fosse necessario. E mi adoperai in questo senso»18.
16Il 30 ottobre «l’Unità» riportò in terza pagina una dichiarazione di alcuni intellettuali firmatari che, pur non rinnegandone i contenuti, dichiararono di non avere mai voluto che la protesta travalicasse i confini del partito. In quattordici aderirono a questa dichiarazione: Carlo Aymonino, Carlo Del Guercio, Giuliana Bertoni, Luciano Cafagna, Nicola di Cagno, Giovanni Malatesta, Adriana Martelli, Elio Petri, Dario Puccini, Salvatore Francesco Romano, Mario Socrate, Paolo Spriano, Renzo Vespignani, Edoardo Vittoria.
17Quello stesso giorno (in cui le forze anglo-francesi sbarcano a Suez), la Direzione del Pci espone in un documento i «limiti di liceità» nella discussione tra comunisti19:
La direzione ritiene legittimo e non sorprendente che vi siano nel partito compagni che esprimono i loro giudizi critici e le loro preoccupazioni, in parte dettate dalla gravità stessa degli avvenimenti. La discussione deve aver luogo nelle forme e sedi normali di partito, respingendo qualsiasi tentativo di farla degenerare in azione di discredito del partito stesso20.
In realtà, appare evidente che la maggior parte dei firmatari del documento, non intendeva affatto nuocere al partito; essi ritenevano, perlopiù, che l’iniziativa potesse aprire una stagione di dialogo e di dibattito; la dura reazione di Togliatti e dei maggiori dirigenti, causò reazioni molto diverse tra i firmatari.
18Nelle poche settimane che precedevano l’apertura dei lavori dell’VIII Congresso – che in qualche modo rappresenta l’apice dello scontro tra intellettuali e partito – Togliatti mantenne la linea “dura” ribadendo in più occasioni che «molti degli intellettuali che oggi scrivono protestando sono stati nei Paesi di nuova democrazia e non hanno mai fatto una critica» e aggiunge che per «costruire il socialismo ci vogliono sacrifici e anche restrizioni che debbono essere comprese e accettate dalle masse». La libertà non può essere al di sopra delle riforme economiche.
19Conservò dunque la posizione, resa celebre dall’espressione da lui usata nella riunione della Direzione del Pci successiva al primo intervento sovietico: «Non possiamo accettare questo scagliarsi contro tutto e contro tutti. Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia»21.
20L’VIII Congresso del Partito ebbe luogo a Roma, al palazzo dei congressi dell’Eur dall’8 al 14 dicembre. Tutti, eterodossi e ortodossi, si aspettavano molto da questa occasione. Ricordo qui esclusivamente l’intervento di Antonio Giolitti, che pur non avendo firmato il Manifesto, nel suo discorso riprende i motivi di critica degli intellettuali dichiarando apertamente il proprio dissenso di fronte ad una platea incredula, disapprovando la posizione assunta dal Pci, mettendo in discussione il carattere democratico dell’Urss e dei regimi socialisti aggiungendo che «le libertà democratiche – anche nelle loro forme istituzionali di divisione dei poteri, garanzie formali, di rappresentanza parlamentare – non sono borghesi, ma sono elementi indispensabili per costruire la società socialista nel nostro paese»22. Conclude il suo intervento formulando la precisa richiesta di un’«effettiva libertà di opinione e di discussione in seno al partito nell’ambito del centralismo democratico» e «piena autonomia di giudizio e di azione nei rapporti con gli altri partiti su scala internazionale»23. La fuoriuscita di Giolitti, che si dimise dal mandato parlamentare e abbandonò il Pci, fu una delle più significative, sia per il ruolo che aveva all’interno del Partito, sia per la stima di cui godeva presso lo stesso Togliatti.
21Fecero seguito, nei mesi successivi, quelle di Muscetta, Cantimori, Italo Calvino, De Felice e molti altri. I primi firmatari ad allontanarsi dal Pci furono, il 1° gennaio del 1957 Natalino Sapegno e Gaetano Trombatore, Vezio Crisafulli, Domenico Purificato, Leoncillo Leopardi e Claudio Longo.
22Venne espulso dal partito Eugenio Reale. Italo Calvino ne uscirà il 1° agosto con una lettera nella quale conferma però la propria fedeltà agli ideali della democrazia progressiva.
23Si può sostenere che in questa ultima “resa dei conti” fu Togliatti ad avere la meglio, confermandosi leader indiscusso del partito:
Vi è una forma particolare dell’anticomunismo, che talora matura nei circoli intellettuali, e contro il quale pure vogliamo mettere in guardia. Lo vorrei chiamare anticomunismo paternalistico, per quell’aspetto che vuol prendere quasi di protettore e mentore di noi stessi contro gli errori e le debolezze nostre, nelle quali, quando le elencano, non trovi più altro, però, che la calunnia consueta, esposta con un po’ più di ipocrisia untuosa. E alla fine viene fuori l’attacco al marxismo, anzi ai marxisti, che sono sempre in ritardo, e che ora dovrebbero andare a scuola, non della realtà e della esperienza delle loro lotte, che questi nuovi mentori non hanno per lo più mai vissuto, ma di una nuova specie di critici velleitari, dalle cui parole nulla esce né di costruttivo né di robusto. Invece di darsi la pena di studiare e capire il contenuto nazionale di tutta la nostra politica ci ammanniscono lunghi discorsi sullo «Stato guida», e nemmeno si accorgono che stanno rimasticando il pane ammuffito di Gedda, di Scelba, e peggio ancora. Tal sia di loro. Noi non respingiamo, anzi salutiamo e accogliamo qualsiasi invito a una discussione oggettiva, amichevole. Siamo pronti ad andare a scuola da chiunque abbia qualcosa da insegnarci. Non respingiamo nessun insegnamento. Abbiamo molto appreso da uomini di scienza e di cultura, i quali ci hanno aiutato, con ricerche loro autonome, ad approfondire i temi della storia del nostro Paese e delle sue correnti intellettuali e anche elementi della nostra dottrina. Ma questo paternalismo che ricalca le logore strade delle crociate anticomuniste non sappiamo a chi e a cosa possa servire. Purtroppo, qualcosa di analogo servì, in Ungheria, a far dimenticare la linea di demarcazione tra la causa nostra e quella dei nemici della classe operaia24.
Tutti coloro che firmarono il Manifesto per «reazione morale», avevano una storia, una mentalità e anche un’attitudine di vivere il proprio impegno politico assai diversi. Alcuni, come Melograni, Bertelli, Chiarini e De Felice avevano cominciato a nutrire forti dubbi nei confronti della dirigenza del Pci già dal 1953. Altri, come Alberto Caracciolo e Lucio Colletti, avevano una solida preparazione marxista e avevano vissuto, insieme a Tronti, De Caro e Asor Rosa, esperienze politiche importanti. All’interno del gruppo dei firmatari vi erano insomma legami di amicizia, collaborazione. Molte erano le coppie sposate, come Caracciolo e Giuliana D’Amelio, Carlo Del Guercio e Giuliana Bertoni, Luciano Cafagna e Aurora Jatosti, Adriana Martelli e Nicola Di Cagno, Francesco Sirugo e Giovanna Luccardi, Luciano Angelucci e Marisa Mibelli, Franco Paparo e Laura Frontali.
24Quello che sembra emergere chiaramente è che tutti coloro che avevano sottoscritto il documento, lo fecero nella convinzione di poter avviare un’azione all’interno del Partito e non al di fuori da esso.
25Sarebbe interessante seguire il percorso individuale di tutti i fuoriusciti, ma ovviamente non è possibile in questa sede. Molti di loro contribuirono a dare vita, negli anni successivi, ad una stagione culturalmente intensa e appassionata. Per iniziativa di Giolitti, nacque la rivista «Passato e Presente». Fabrizio Onofri diede vita a «Tempi Moderni». Eugenio Reale fu direttore di «Corrispondenza Socialista». Tommaso Chiaretti diresse «Città aperta». Intanto, anche se in fasi diverse, molti di essi si iscrissero al Psi: è il caso di Antonio Giolitti, Cafagna, Muscetta, Giuseppe Carbone, Asor Rosa, Paolo Moroni, Tronti, Caracciolo, Giuliana D’Amelio e altri.
26Nell’avvicinamento al partito di Nenni, un ruolo di attrazione importante fu svolto da Raniero Panzieri. È il caso, per esempio di Asor Rosa e Carlo Muscetta. Con Panzieri, entrambi collaborarono alla realizzazione di un supplemento scientifico-letterario della rivista «Mondo Operaio». Il focus era proprio l’autonomia degli intellettuali; non per caso l’editoriale del primo numero, firmato da Asor Rosa, si intitolava Punto e a capo:
Scegliendo l’esercizio di una effettiva autonomia culturale nel campo socialista, crediamo di dover chiarire, a chi ne avesse bisogno, che ciò non significa autonomia dei bisogni, interessi e problemi delle classi lavoratici, né autonomia dalla tradizione rivoluzionaria del pensiero marxista. Siamo antidogmatici, d’accordo: per chi pesa o tenta di pensare, unico dogma è la critica. […]. Le professioni di principi senza uno studio della realtà e senza una lotta legata a consapevoli posizioni classiste, sono comodissimo per il quieto vivere, per evitare di attaccarsi al concreto e di affrontare gli avversari, cioè ogni verifica nella pratica della validità dei principi, l’unico modo per sconsacrarli e riconquistarli all’uomo e al presente25
Analogo percorso di Umberto Coldagelli, che frequentò i gruppi di «Classe Operaia» e «Quaderni rossi» fino a rientrare poi nel Pci subito dopo il ’68, come Asor Rosa.
27Molti altri firmatari ridussero invece radicalmente ogni forma di attivismo politico: è il caso di Carlo Del Guercio, che si dedicò esclusivamente al suo lavoro di fisico, o di Giuliano De Marsanich, artista e fondatore, a Roma, della storica Galleria don Chisciotte.
28Concludendo si può senz’altro sostenere che l’Ungheria sia stata, come ha dichiarato uno dei firmatari che pure non uscirono dal Partito (mi riferisco a Tullio Seppilli), una data «periodizzante» dal punto di vista dei rapporti tra intellettuali e partito, nonché dal passaggio dal V all’VIII Congresso, ossia dal «marxismo alle differenti declinazioni del marxismo»26.
29In questo tentativo di “ricucire la ferita” con gli intellettuali, faceva da sfondo il richiamo a Gramsci, la cui opera costituiva «uno dei più luminosi esempi», più volte portata a conferma della «necessità di una lotta sempre più intensa per quella unità della cultura che è alle radici del marxismo».
30Di nuovo il Pci puntava sugli intellettuali: in questo quadro, una funzione di sempre maggior rilievo doveva essere assegnata all’Istituto Gramsci, sorto nel 1950, che doveva divenire un «centro di elaborazione e di diffusione della cultura marxistica in Italia».
31Non a caso, uno dei primi impegni dell’Istituto, fu l’organizzazione del convegno internazionale di studi gramsciani (che si tenne a Roma i primi giorni di gennaio del 1958) in occasione del ventennale della morte di Gramsci, che infatti riunì intellettuali di tutte le aree democratiche; gli inviti furono estesi a decine di studiosi, fra cui Guido Calogero, Norberto Bobbio, Delio Cantimori, compresi coloro che si erano allontanati dal Pci. Aveva inizio una fase nuova della complessa storia del rapporto tra il Partito e il mondo della cultura. Pur con vistose cicatrici, il corpo comunista, lentamente, si rianimò, e riprese a muoversi, in un tragitto che l’avrebbe allontanato via via da Mosca.
32In fondo, per dirla con Ernesto Ragionieri, intellettuale organico, e grande storico, l’«anno indimenticabile […] ci ha fatto tutti più maturi, se non ancora adulti»27.
Bibliographie
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Vacca, Giuseppe (1977), Quale democrazia. Problemi della democrazia di transizione, De Donato, Bari.
Notes de bas de page
1 Cfr. Ajello (1997), p. 428; in «Rinascita», 22 gennaio 1966.
2 Flores - Gallerano (1992), pp. 117-18.
3 Vacca (1978), p. ix.
4 Cfr. G. Vacca, La «quistione politica degli intellettuali» e la teoria marxista dello Stato in Gramsci, compreso ora in Id. (1977), pp. 99-140.
5 Ajello (1997), p. 414.
6 Cfr., in questo volume, in particolare i saggi di M. Congiu, L’Ungheria: rivoluzione democratica o controrivoluzione. Un dibattito ancora in corso e di M. Campanini, La crisi di Suez: ottobre-novembre 1956, infra, pp. 50-60 e 77-93
7 Höbel (2006), p. 35: i testi della cellula Giaime Pintor di Torino e la Lettera dei 101, sono ora qui riprodotti in Appendice rispettivamente alle pp. 121-22 e 123-26.
8 F. Loreto, La Cgil e lo “strappo” di Giuseppe Di Vittorio, infra, pp. 211-226.
9 Meliadò (2006), p. 6.
10 Ibidem.
11 Seguivano le firme di Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, Gaetano Trombatore, Sergio Bertelli, Gastone Bollino, Gaspare Campagna, Luciano Cafagna, Giuseppe Carbone, Lucio Colletti, Carlo Cicerchia, Giuliana Bertoni, Francesco Cagnetti, Aurora Jatosti, Carlo Del Guercio, Carlo Bertelli, Paola Bollino, Piero Moroni, Adriana Martelli, Nicola Di Cagno, Elio Petri, Enzo Siciliano, Mario Milici, Mario Tronti, Enrico Piccinini, Fulvio Fazio, Umberto Coldagelli, Gaspare De Caro, Duccio Cavalieri, Paolo Santi, Franca Colajanni, Guglielmo Cedrino, Antonio Maccanico, Pina della Verde, Francesco Fasoli, Giovanna Luccardi, Dina Jovine Bertoni, Giuliana D’Amelio, Renzo De Felice, Gianfranco Ferretti, Alberto Caracciolo, Carmelo Fragomeni, Luigi Occhionero, Paolo Basevi, Antonio Calabrese, Emilio Vuolo, Roberto Zapperi, Maria Teresa Lanza, Marisa Mibelli, Mario Socrate, Luciano Lucignani, Lorenzo Vespignani, Dario Durbè, Giuliano De Marsanich, Giuseppina Grassi, Alberto Samonà, Gustavo Fratini, Giuseppe Samonà, Gernando Petracchi, Dario Puccini, Luciano Angelucci, Franco Graziosi, Laura Frontali, Giancarlo Fasano, Carlo Franzinetti, Daniele Amati, Tullio Seppilli, Liliana Bonaccini, Bianca Saletti, Maurizio Tiriticco, Diana Crispo, Mirella Canocchi, Edoardo Vittoria, Enrico Pannunzio, Carlo Aymonino, Carlo Chiarini, Dino Di Virgilio, Andreina Canocchi, Alberto Asor Rosa, Dali Brusolin, Giovanni Malatesta, Corrado Maltese, Giorgio Candeloro, Mara Muscetta, Piero Melograni, Nerina Righetti, Aldo Bollino, Lila Amodio, Paolo Spriano, Marisa Volpi, Carlo Polidori, Renato Lusena, Vezio Crisafulli, Bruno Fontana, Salvatore Francesco Romano, Maria Clara Tiriticco, Franco Paparo, Francesco Sirugo.
12 Il comunicato della Segreteria della Cgil recava la data del 26 ottobre 1956. Di Vittorio, confermò tale posizione diventando, accanto a Giolitti, «il punto di riferimento dei dissenzienti» (Höbel 2006, p. 36). Cfr. anche Guerra - Trentin (1997).
13 Höbel (2006), pp. 123-25.
14 Ajello (1997), p. 405.
15 Cfr. Meliadò (2006), p. 69.
16 Ibidem.
17 Ivi, p. 70.
18 Muscetta(1992), p. 122.
19 Ajello (1997), p. 400.
20 «L’Unità», 31 ottobre 1956.
21 Righi (2006), p. 221.
22 Vittoria (2014), p. 239.
23 Ibid.
24 Togliatti (1963), p. 58.
25 Muscetta (1992), p. 10.
26 Il tempo dell’impegno: intellettuali e Partito comunista nel Dopoguerra; intervista a Tullio Seppilli, a cura di S. Alimenti e D. Parbuono, in «Historia Magistra», n. 19 (2015), p. 88.
27 Vittoria (2014), p. 275.
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Dottoressa di ricerca in Studi Politici (Università di Torino). Coordina la Redazione centrale di «Historia Magistra» ed è Segretaria di redazione di «Gramsciana. Rivista internazionale di studi su Antonio Gramsci». Componente del Comitato Scientifico della Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci (Torino) e del Comitato Scientifico del Centro Studi Piero Calamandrei (Jesi). Ha pubblicato Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra (Bruno Mondadori 2011); ha curato numerosi volumi, tra cui, Aspettando il Sessantotto. Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968 (Accademia University Press 2017).
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Inchiesta su Gramsci
Quaderni scomparsi, abiure, conversioni, tradimenti: leggende o verità?
Angelo d'Orsi (éd.)
2014
Aspettando il Sessantotto
Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968
Chiarotto Francesca (dir.)
2017
Sfumature di rosso
La Rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento
Marco Di Maggio (dir.)
2017
Il trauma di Caporetto
Storia, letteratura e arti
Francesca Belviso, Maria Pia De Paulis et Alessandro Giacone (dir.)
2018
1918-2018. Cento anni della Grande Guerra in Italia
Maria Pia De Paulis et Francesca Belviso (dir.)
2020
Contratto o rivoluzione!
L’Autunno caldo tra operaismo e storiografia
Marie Thirion, Elisa Santalena et Christophe Mileschi (dir.)
2021