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Il Pci e la crisi del 1956

p. 160-176


Texte intégral

Oltre gli steccati

1Quando Stalin morì, la notte del 5 marzo 1953, il Partito comunista era alla vigilia della storica vittoria contro la legge truffa. Si preparava alla battaglia elettorale contro la Democrazia cristiana cercando di fare fronte al mondo che stava cambiando. Ma certamente non si aspettava il tornado che stava per abbattersi sul mito dello stalinismo sovietico. Giuliano Nenni e Palmiro Togliatti andarono a Mosca ai solenni funerali di Stato alla guida di una delegazione socialista e comunista, mentre a Roma al Teatro Valle deputati dei due partiti commemoravano il padre della Russia sovietica.

2Nella Direzione del Partito che si era tenuta in febbraio il segretario Togliatti aveva avvertito che la Dc aveva già cominciato a organizzarsi e a svolgere il suo lavoro di coinvolgimento verso ogni elettore. Il Partito avrebbe dovuto impostare le elezioni non solo su un piano propagandistico ma anche dedicandosi a obiettivi concreti come il diritto di sciopero, i salari, le pensioni. Scioperare infatti era ancora un rischio personale per i possibili scontri con la polizia e per le conseguenze sul posto di lavoro. Il 20 gennaio c’era stato un grande sciopero generale contro la legge truffa, promosso dalla Cgil: c’era stata una partecipazione di massa ma la polizia era intervenuta con gli idranti e gli sfollagente contro i manifestanti: tanti erano rimasti contusi tra cui il deputato Pietro Ingrao direttore de «l’Unità». Oltre trecento furono fermati dalla polizia Inoltre la Fiat aveva annunciato sanzioni disciplinari contro gli operai che avevano partecipato allo sciopero1.

3Alcuni dirigenti del Pci cominciavano a rendersi conto che il solo scontro ideologico non poteva più essere sufficiente a coinvolgere le masse desiderose di migliorare concretamente la loro vita quotidiana. Togliatti ribadiva comunque: «La lotta contro la legge truffa ha ricevuto dal centro un inusitato rilievo» e dunque occorreva «Inserire nella propaganda e nella polemica le realizzazioni sovietiche e dei paesi di democrazia popolare. Presentarsi come un grande movimento di massa e popolare capace di risolvere tutti i problemi nazionali». La battaglia andava combattuta senza esclusione di colpi coinvolgendo anche gli indipendenti e i socialisti con delle loro liste autonome. Nei tanti interventi che erano seguiti: Giorgio Amendola, Velio Spano, Giancarlo Pajetta, si avvertiva la preoccupazione per l’esito incerto della battaglia. Solo Giuseppe Di Vittorio sembrava convinto della vittoria per la capacità del Partito e del sindacato di orientare «masse notevoli», soprattutto «evitando frizioni con le altre forze democratiche, le prospettive elettorali sono buone»2. La legge elettorale era stata poi approvata il 29 marzo 1953 al termine di una seduta molto burrascosa durante la quale l’opposizione aveva abbandonato l’aula senza votare. Tuttavia, nonostante il clima incandescente generato dal colpo di coda della Democrazia cristiana ancora convinta di avere la maggioranza assoluta, nel Paese si stava facendo strada il confronto.

4Nel mondo uscito dalla seconda guerra mondiale la frattura ideologica tra le masse aveva diviso l’Italia in due parti distinte, che si fronteggiavano da opposti estremismi. Ma alla metà degli anni Cinquanta la nebbia che offuscava pesantemente gli orizzonti aveva cominciato a diradarsi lasciando intravedere una realtà che si andava progressivamente distendendo. Nell’immediato dopoguerra c’era stata la necessità contingente di fronteggiarsi e contarsi che aveva spaccato, l’Europa, l’Italia, le città e le famiglie. Poi l’avvio del dialogo, cominciato proprio con la morte di Stalin, aveva progressivamente rasserenato gli animi, portando i singoli a seguire le inclinazioni personali piuttosto che i dogmi delle religioni politiche. Ma il processo era stato molto lento occupando tutti gli anni Cinquanta tra balzi in avanti e ritorni indietro.

5La Chiesa e il Partito comunista temevano più di tutti il crollo degli steccati, perché la fine delle ideologie avrebbe portato alla secolarizzazione e alla disgregazione delle masse, con l’esplosione degli individualismi. I soggetti non più coinvolti in un gruppo, avrebbero preteso una rappresentanza diversa, sganciata dalle appartenenze collettive che erano state facilmente distinguibili e orientabili. Ma soprattutto temevano la perdita di identità tra il Partito e gli individui che avrebbe portato fatalmente a una massiccia uscita dalle appartenenze politiche e a una diaspora degli iscritti.

6Nell’entusiasmo per la vittoria contro la legge truffa e la sconfitta di De Gasperi, che morì poi nell’agosto del ’54, si cominciarono ad avvertire le prime difficoltà nel tesseramento: soprattutto nella sua distribuzione geografica con un aumento notevole nel meridione del Paese. Nelle elezioni del giugno ’53 il Pci ottenne il 22,6%, che era sicuramente confortante ma non sufficiente a rilanciare il partito verso una nuova politica necessaria a uscire dalle secche dell’opposizione. La proposta politica del Partito comunista appariva ancora sterile perché ostinata nella linea della lotta contro il capitalismo, e il progresso economico che tanti degli stessi iscritti sognavano per poter migliorare le loro condizioni di vita personali3. Gli iscritti erano aumentati nondimeno si avvertiva qualche segno inquietante. Pietro Secchia, uno degli uomini più attenti dell’organizzazione interna del partito, li evidenziò in Direzione nel novembre 1953. «Aumento di 26.660 iscritti… Aspetti negativi: continuiamo a regredire in alcune federazioni tra le quali Torino, Biella, Mantova. Non abbiamo migliorato la nostra posizione nelle fabbriche, malgrado alcuni successi parziali». Secchia invitava tutti a uscire dall’ambiente comunista per provare a coinvolgere i giovani di altri ambienti sociali e incitava a discutere sui metodi della direzione nel Partito comunista sovietico4.

7Certamente lucido, l’irriducibile Secchia, vicesegretario generale e, fino al ’54 responsabile dell’organizzazione e del settore propaganda, avvertì subito la meridionalizzazione del partito e il suo allontanamento dalle fabbriche. Nella prima metà degli anni Cinquanta il Pci toccò il massimo degli iscritti arrivando a superare i due milioni di aderenti. Poi Secchia fu progressivamente emarginato, prima affiancato e poi sostituito nella Direzione organizzativa da Giorgio Amendola. Nel novembre ’53 fu proprio Amendola a presentare in Direzione una relazione introduttiva sulla situazione del mezzogiorno e i compiti del Partito. In ottobre c’era stata una grave alluvione nella Calabria meridionale con centinaia di morti e ingenti danni economici. Cosciente del fatto che lo sviluppo del meridione era decisivo, accusava la Cassa per il Mezzogiorno di avere un ruolo clientelare in appoggio dei soli gruppi settentrionali favorendo così una condizione di colonizzazione piuttosto che di crescita autonoma:

I crediti sono dati a esose condizioni ai piccoli e medi industriali e in grande misura, con molte facilitazioni ai trust settentrionali, i quali monopolizzano le forniture agli enti di riforma agraria e ai Consorzi agrari. Noi insistiamo invece perché tutto sia fatto per sostenere le iniziative locali, meridionali e non quelle del grosso capitale monopolistico. Il governo in sostanza non aiuta la industrializzazione del mezzogiorno, ma la sua colonizzazione5.

Nel criticare la Cassa per il Mezzogiorno e la sua gestione clientelare Amendola chiedeva una gestione corretta della riforma: l’estensione a zone ancora escluse come l’Alta Irpinia. E lo scardinamento dei patti agrari che avrebbe minato la base elettorale monarchica sottomessa a condizioni di vita e di lavoro semi-feudali. Si batteva anche per l’attuazione dei principi costituzionali in tema di difesa dei lavoratori. Insieme ad Amendola anche Di Vittorio, guardava al processo di industrializzazione come un fatto positivo per il Mezzogiorno infatti, nel suo intervento difendeva l’attuazione della riforma agraria.

Io ho sottolineato la priorità del piano di lavoro della CGIL, l’insufficienza degli investimenti che non bastano a eliminare la disoccupazione, i limiti posti allo sviluppo dell’industrializzazione che possono venire superati con la riforma agraria, la riforma del mercato, ecc. L’aumento della produzione agricola grazie alla riforma servirà precisamente ad allargare il mercato6.

Chiaramente doveva difendersi dalle strumentalizzazioni della politica di centro-destra e dalle critiche interne che lo consideravano un riformista. Il solo fatto di approvare l’industrializzazione lo faceva considerare dai giornali borghesi come uno della Confindustria. Per chiarire la sua posizione comunicava che avrebbe fatto un articolo con Amendola. Il borghese romano Amendola e il contadino pugliese Di Vittorio avevano certamente una posizione più articolata nella Direzione del Partito. Avvertivano che il Paese stava cambiando sull’onda della «grande trasformazione» dove tutti anelavano ad uscire dalla miseria e a crescere nel loro soggettivismo identitario. Per questo cominciarono progressivamente a percepire il ritardo del Pci che invece, era ancora bloccato nei vecchi schemi della contrapposizione anticapitalistica. Comprendevano l’aspirazione degli operai verso il benessere, ma ancora non contrastavano l’immobilismo del partito chiuso dall’ideologia che lo sovrastava.

8Nel 1954 anche Enrico Berlinguer aveva percepito i primi segni del cambiamento, manifestato attraverso la secolarizzazione, che aveva cominciato ad allontanare i giovani dalle direttive della Chiesa e avrebbe portato anche al loro distacco dal Partito comunista. Anche se la sua era più che altro una analisi politica, stava cominciando a percepire i primi segni della trasformazione. In una riunione della Direzione, dedicata alla crisi della Democrazia Cristiana, si parlava della fine dell’identità ideologica nella base democristiana. Su questo tema Arturo Colombi e Antonio Roasio, fra i più sordi alle istanze del mutamento, richiedevano un maggior impegno del Pci per accelerare la divaricazione tra le masse e il vertice e accentuare così le contraddizioni interne alla Dc, senza comprendere che la stessa disaffezione avrebbe presto investito anche il Pci. Si ostinavano in qualche modo a pensare che fosse sufficiente un maggiore lavoro politico per attrarre i giovani cattolici dentro il Partito comunista.

9Mentre il Paese era scosso da scontri con la polizia, incidenti sul lavoro e disastri ambientali, il Pci continuava a interrogarsi sul suo futuro politico. A febbraio quattro persone erano state uccise in uno scontro con la polizia vicino Catania durante una manifestazione di protesta contro l’aumento dell’acqua; a maggio vicino Grosseto erano morte quarantadue persone in una miniera di lignite; in ottobre una violenta alluvione nella zona di Salerno aveva travolto trecento persone. Berlinguer invece cercava di capire cosa stava accadendo tra la Chiesa e la sua base: i giovani e le donne.

Tra la gioventù cattolica la crisi trova le sue punte più acute e continua a svilupparsi. Le gerarchie cattoliche manovrano abilmente lasciando discutere, ma ciò allarga la ricerca di nuovi indirizzi. Il fatto che 10 milioni di italiani hanno votato contro le indicazioni della Chiesa è molto discusso. Si chiede di separare nettamente la religione dalla politica. Attenuazione dell’anticomunismo e aumento della polemica contro i ricchi7.

Nel 1954 Berlinguer era un giovane emergente del partito: eletto nel 1946 nel Comitato Centrale, aveva organizzato la Federazione giovanile, aveva visitato l’Unione Sovietica incontrando Stalin, ed era stato segretario della Federazione Mondiale della Gioventù democratica. In quel periodo non aveva incarichi precisi, pur avendo ancora una certa influenza nella Fgci che per altro aveva subito un consistente calo di iscritti.

10Di fatto cominciò a percepire che non si trattava solo di un fenomeno politico, ma delle prime manifestazioni di un processo di deideologizzazione delle masse che stava investendo tutti i partiti e tutte le religioni politiche. Del resto anche Secchia aveva riconosciuto che quello che stava accadendo non era il risultato di una influenza diretta dei comunisti. Per il resto le discussioni interne al Pci risultavano fortemente condizionate da un’ottica esclusivamente politica. Dove prevaleva la convinzione che la crisi degli iscritti e dei giovani fosse un fatto solo della Democrazia cristiana che poteva essere sfruttato per rafforzare il Pci. Anche nell’intervento conclusivo di Pajetta si percepiva la stessa fede immutata nella forza della propaganda, nella convinzione che la crisi democristiana fosse un effetto diretto della politica comunista. Sarebbe bastata un’azione congiunta della periferia supportata dall’attività di ogni sezione, e dei militanti di base per far crollare i partiti borghesi. In pratica era convinto che sarebbe bastata una piccola spallata per mettere in crisi tutta la Democrazia cristiana.

11Alla vigilia del crollo del sistema staliniano, e del conseguente vacillare di tutto il sistema comunista la convinzione dei dirigenti del partito appariva decisamente incrollabile. Nella Direzione del 6 aprile 1954 Luigi Longo doveva riconoscere che esistevano ormai alcuni elementi concreti di distensione che andavano oltre il controllo diretto del partito.

Lineamenti di una effettiva politica di distensione e di progresso sociale. Compiti del partito sul fronte della pace e del lavoro. Perché il fermento all’interno della d.c. non ha portato a conseguenze politiche. Esistono sbarramenti ideologici e organizzativi oltre i quali non riusciamo ad andare8.

Allo stesso tempo Celeste Negarville cominciava a far presente che occorreva collaborare anche con le altre forze politiche. «Nella lotta contro la Ced legarsi alle personalità socialdemocratiche, cattoliche, ecc. che presero posizione contro la bomba atomica. Clima di terrore tra molti d.c. per la bomba atomica: denunciare la posizione dei capi d.c.». Al termine della discussione le conclusioni di Togliatti apparivano tranquillizzanti fiduciose nella continua crescita del Pci. «Per quanto riguarda il partito mettere al centro i problemi del suo collegamento con le masse. Inserire in questo quadro le critiche al funzionamento interno. Il nostro fronte elettorale è in continuo tranquillo miglioramento. Le condizioni favorevoli al nostro sviluppo permangono»9.

I marginali della politica: donne, giovani e operai

12L’urgenza delle trasformazioni sociali, le difficoltà con il mondo operaio, la disaffezione dei giovani e delle donne, spinsero il Pci a tentare una riorganizzazione interna nel senso di un rinnovamento del sistema organizzativo e di uno svecchiamento dei quadri dirigenti. Nel gennaio 1955 si tenne a Roma la IV Conferenza nazionale di organizzazione che escluse Secchia dalla Segreteria inserendo al suo posto alcuni volti nuovi, come Amendola, Colombi e Pajetta. Secchia poi venne anche destituito da responsabile dell’organizzazione sostituito da Amendola. Ma soprattutto la Fiom nelle elezioni del ’55 perse per la prima volta il controllo delle commissioni interne alla Fiat dando il via a uno scontro durissimo tra il segretario Cgil Di Vittorio e i vertici del Pci. Nelle elezioni tenute in marzo, la Fiom dimezzò i suoi consensi passando dal 63,2% al 36,7% ottenendo solo cinquantacinque seggi invece dei cento che aveva. Mentre la Cisl conquistò novantatré seggi arrivando così alla maggioranza assoluta. La gloriosa Fiom che dall’inizio del Novecento guidava la maggioranza degli operai italiani aveva perso il controllo: accusata di eccessivo ideologismo dai lavoratori, di dirigismo, di sudditanza al Pci e, infine, di non interpretare le aspirazioni al benessere dei lavoratori.

13Alla metà degli anni Cinquanta, oltre al problema dei giovani e degli operai esplose prepotentemente anche la questione delle donne. Una Direzione del 1955 fu dedicata al Lavoro femminile con una relazione di Lina Fibbi, partigiana fondatrice dei Gruppi di difesa della donna e poi segretaria della Federazione degli operai tessili della Cgil. Per l’occasione furono invitate anche Nilde Iotti, Maria Antonietta Macciocchi direttrice di «Noi Donne», Rina Picolato della Commissione femminile nazionale della Cgil, Maria Maddalena Rossi presidente dell’Unione Donne Italiane, Giglia Tedesco Tatò della presidenza Udi, Luciana Viviani della Commissione femminile del Pci. L’unica donna che faceva parte della Direzione era Rita Montagnana che, se pure già lasciata da Togliatti, continuò ad avere un ruolo ufficiale fino alla fine degli anni Cinquanta. Teresa Noce che ne faceva parte era stata esclusa nel ’54 perché si era risentita del fatto che Longo l’anno precedente aveva ottenuto l’annullamento del matrimonio presentando un documento con una sua firma falsa10. Nilde Iotti vi entrò solo all’inizio degli anni Sessanta.

14Nella sua relazione Fibbi evidenziava i difetti della propaganda comunista che non aveva fatto nessuna battaglia concreta per le donne.

Difetti della nostra azione tra le donne. La maggioranza delle nostre impostazioni sono rimaste finora sul terreno della propaganda e si tratta di passare adesso alla realizzazione di alcune questioni concrete (legge per il salario uguale a uguale lavoro, pensione alle casalinghe, difesa della dignità e della libertà delle lavoratrici sul posto di lavoro, ecc.). Vi sono dei compagni che ritengono prematura la lotta per la legge sull’uguale salario e bisogna arrivare a un chiarimento11.

Come chiariva la segretaria dei tessili, tutte le donne erano favorevoli, anche le cattoliche che soprattutto rivendicavano la pensione alle casalinghe, su cui i comunisti erano assai diffidenti: perché mal sopportavano la figura della donna di casa. Fibbi fra l’altro parlava anche di un maggior attivismo del movimento cattolico femminile in tutti i campi, soprattutto sui diritti delle donne. Affermava che il Pci stava perdendo terreno tra le donne denunciando un crollo delle iscrizioni all’Udi e del tesseramento nel partito perché «manca un movimento femminile organizzato». Nel complesso una relazione abbastanza chiara sulla crisi del movimento femminile. Erano seguiti molti interventi da Li Causi a Amendola, da D’Onofrio a Grieco. Amendola chiedeva di coinvolgere di più le donne nella vita politica del partito anche in compiti non femminili, D’Onofrio criticava un certo spontaneismo delle donne, come pure dei giovani, chiedendo alle donne di impegnarsi prima contro la miseria e poi per l’emancipazione.

15Nel contrasto tra organizzazione e spontaneismo, tra unitarietà e separatezza emergeva già la contrapposizione di fondo che divise poi – alla fine degli anni Sessanta – il movimento femminista dal Partito comunista e da tutti i partiti. Il primato della lotta per l’emancipazione, che qui appariva appena accennato, esplose con violenza dividendo le donne dalla politica. Ma qui veniva anticipato dalle donne comuniste che si sentivano ancora escluse. Prima Macciocchi «la linea dell’emancipazione della donna ci è espressa nella ricerca di azioni e iniziative particolari che hanno portato a un certo distacco dalla lotta generale», che già anticipava il tema della separatezza e poi Picolato rivendicavano l’importanza di una Conferenza, aperta a tutte le donne, sui loro problemi.

La Conferenza dovrà parlare a tutte le donne italiane e spiegar loro come porre il problema dell’emancipazione non più sul solo terreno della propaganda, ma delle realizzazioni. Alcuni problemi precisi. La massa delle donne è composta di lavoratrici e di mogli di lavoratori. Di qui il problema dell’eguale salario a eguale lavoro e della dignità e libertà del posto di lavoro12.

Di fronte a queste pressanti richieste di autonomia la Direzione continuava ossessivamente con il richiamo all’organizzazione e al primato del partito nel coinvolgimento delle donne. Come faceva Longo che affermava ancora che «la preparazione della Conferenza è un compito del partito», con ciò liquidando la precoce aspettativa di libertà delle donne comuniste13.

Il XX Congresso

16In questo clima di crescente difficoltà del Partito comunista italiano, stretto tra le conquiste dello sviluppo economico e le aspirazioni dei diritti di tutti, si abbatté il ciclone della denuncia dei crimini di Stalin e delle sue colpe, avvenuta al XX Congresso del Pcus14. Dal 14 al 25 febbraio ’56 il segretario Nikita Sergeevic Chruščev aveva per la prima volta osato criticare l’operato del padre della patria15. Tutto si era svolto a porte chiuse e avrebbe dovuto rimanere segreto, Togliatti ne prese visione quasi subito ma nel Comitato centrale che si tenne a marzo mantenne una posizione molto cauta e reticente. Anche in Direzione minimizzò le conseguenze e gli effetti del rapporto. Comparvero le prime indiscrezioni sulla stampa americana e poi anche su quella italiana, ma si trattava di notizie confuse e vaghe. In aprile alla Conferenza nazionale del Pci Togliatti continuò a essere vago nonostante le domande pressanti di Amendola e Pajetta. Anche se, sempre in aprile, lo scioglimento del Cominform, l’Ufficio per lo scambio delle informazioni dei partiti comunisti, nato nel 1947, non poté più essere negato né sottaciuto.

17Il Pci cominciò progressivamente a rendersi conto dell’effetto dirompente della caduta del mito di Stalin sul fondamento ideologico dell’identità comunista e annaspò cercando di reagire al colpo. Nella riunione di maggio della Direzione, assente Togliatti, nessuno si nascose più la gravità del problema legato alla fine del segretario del Pcus, e la discussione fu accesa e complessa. Longo denunciò una notevole freddezza nella campagna elettorale, confermata da Amendola che invitava a «uscire dalla grana del XX Congresso del Pcus con il minimo di danni possibile». Berlinguer invitava a utilizzare gli aspetti positivi, decisamente più duro Ingrao che addebitava la eccessiva timidezza dei comunisti al XX Congresso: «Si pensava che il movimento comunista era infallibile. Un giorno abbiamo detto che ciò non era esatto, spezzando una mentalità. Ora grande parte dei compagni sta passando a un altro modo di concepire le cose, e non è facile». Occorreva ripensare molte cose rispetto al ruolo del partito in Italia e a livello internazionale. La campagna elettorale per le amministrative del maggio 1956 appariva molto impegnativa, perché il partito sembrava sbandato. Venuta meno la fede nell’Unione Sovietica, la gente non «sa chiaramente cosa darà il voto ai comunisti». Mentre Umberto Terracini, avvertiva che «le decisioni del Congresso, le critiche a Stalin, il rinvio dell’approfondimento ulteriore, diminuisce l’interesse, l’immediatezza e l’efficacia»16. Anche «l’Unità» appariva indecisa. Il responsabile per la Sardegna Velio Spano percepiva che c’era desiderio di conoscere il nostro passato, mentre l’ala «dura», per voce di Giancarlo Pajetta, esortava a «non dire nulla che turbi l’elettore e che poi dobbiamo rimangiarci», spalleggiato da Colombi, che chiedeva comunque di «valorizzare Stalin perché egli è legato a tutto il nostro passato»17.

18In sostanza, prevalse la tesi di minimizzare, perché la critica a Stalin avrebbe portato troppo avanti nel dibattito sul comunismo. Del resto il Pci era stretto in una spiacevole situazione fra un’opinione pubblica che voleva sapere e il Pcus che era pronto a censurare qualsiasi cedimento. Ma la pubblicazione del rapporto sul «New York Times» il 4 giugno – e quindi l’ammissione di tutto a livello mondiale – fece precipitare gli eventi. Nel tentativo di chiarire Togliatti pubblicò la famosa intervista su «Nuovi Argomenti», nella quale cercava di spiegare gli errori staliniani come una «degenerazione burocratica» della società sovietica, ma al contempo affermando che non si doveva buttare a mare tutto il passato18.

19L’intervista fu decisamente criticata, tanto che lo stesso Chruščev inviò una lettera al Pci stigmatizzando alcuni passaggi di Togliatti. Pur comprendendo le difficoltà del Pci e il tono generale dell’intervista il segretario del Pcus non poteva essere d’accordo con tutto: soprattutto l’affermazione sulla «degenerazione burocratica» e altri «errori di ordine generale». A voi è ben noto, aggiungeva, che «la tesi sulla degenerazione della società sovietica mina la fiducia dei lavoratori nella superiorità dell’ordinamento socialista in generale e che questa tesi è sempre stata attivamente sfruttata dai nemici del nostro partito»19.

20Inoltre, la questione della degenerazione della società sovietica, era sbagliata. «Non vi è nessun fondamento per porre una questione simile», perché la «sostanza del regime socialista non andò perduta»20.

21La lettera di accusa fu resa pubblica molti anni dopo ma pesò sulla solidità del Pci. Per discolparsi dall’accusa di essere dei controrivoluzionari i comunisti italiani mandarono in Unione Sovietica una delegazione composta da tre membri della direzione, il “duro” Pajetta, il togliattiano di “destra” Negarville e quello di “sinistra” Giacomo Pellegrini. Lo scopo era quello di avere un colloquio diretto e un reciproco chiarimento. I tre dovevano spiegare che «la personalità di Stalin aveva, anche in Italia delle proporzioni gigantesche sia nella coscienza dei comunisti militanti, sia nell’istinto delle masse», che il comunismo italiano era stato costruito in misura notevole sul culto della personalità di Stalin, «che in questa esaltazione veniva fuori senza alcuna ombra e senza alcun demerito» come un uomo che non aveva mai sbagliato. Di conseguenza la «distruzione della personalità di Stalin» non poteva che generare nel partito e fra le masse un profondo smarrimento. Per risolvere questa difficoltà ed uscirne dignitosamente anche nei confronti dell’opinione pubblica occidentale, Togliatti aveva dovuto dire che non si trattava «di un male che investiva e distruggeva il regime socialista fondato sui soviet, ma di parziali degenerazioni degli organi di questo regime»21.

22Si inaugurava così una nuova fase, che se da una parte accentuava la via autonoma del partito italiano, dall’altra ne rinforzava l’atteggiamento difensivo, innescata dalla convulsa vicenda del XX Congresso. Il Pci rinserrava le sue fila stringendosi nella metà del mondo nella quale si sentiva parte integrante22. Con l’invio della delegazione a Mosca i compagni italiani cercavano di far capire ai sovietici le loro difficoltà, perché nella società occidentale era assai arduo affermare un’idea e poi negarla, pensando che le masse avrebbero seguito docilmente i vari cambiamenti senza obiettare. Il compagno Boris Nikolaevic Ponomarev, che per primo ricevette gli italiani, fece presente che la parola «degenerazione è una formula trotzkista» ed espresse un certo rammarico per il fatto che Togliatti non si fosse consultato con loro prima di pubblicare l’intervista23. Inoltre, la delegazione italiana implorava i sovietici di non continuare con altre rivelazioni sullo «stalinismo», perché sarebbe stato assai difficile giustificarle agli occhi dell’opinione pubblica occidentale. Non fu facile convincere i sovietici della buona fede degli italiani. Dopo varie riunioni con Ponomarev, la delegazione incontrò tutto il Presidium a un banchetto dove intervenne anche Chruščev. Quest’ultimo, dopo un brindisi su Tito, passò a Nenni, sul quale fu molto critico, affermando che ormai intendeva andare per un’altra strada. Infine, Chruščev si riferì direttamente a Togliatti e, dopo averne intessuto le lodi, fece vibrare il fendente, affermando che «il suo giudizio non si poteva accettare e che i compagni italiani non erano d’accordo con lui». Pajetta ribadì la posizione degli italiani, ma Vjaceslav Michailovic Molotov respinse le spiegazioni, affermando che sul giudizio di Togliatti era «impossibile la discussione».

23Finalmente si arrivò all’incontro ufficiale con Chruščev: in tale circostanza il Segretario affermò che il culto di Stalin era talmente profondo che era stata necessaria un’azione decisa per distruggerlo.

Non dovete dimenticare che Stalin era considerato dal nostro popolo una specie di semidio. Durante i suoi funerali ci sono state oltre 100 persone soffocate alla Sala delle colonne; c’era gente che pregava, donne che restarono tutta la notte inginocchiate vicino alla salma. Questo dimostra l’immensa popolarità di Stalin. Ma c’è l’altro lato della medaglia: ci sono i delitti di Stalin contro il Partito e contro i compagni. Per distruggere il mito di Stalin bisognava dunque denunciare e condannare questi delitti24.

L’impressione finale della delegazione italiana fu che il viaggio era stato positivo, nel senso che era stato ricucito un pericoloso dissidio, pur se i sovietici rimanevano critici sulla famosa intervista e in genere sulla posizione del Pci. Al fondo, tuttavia, gli italiani conservarono serie riserve sulla effettiva democrazia interna esistente nel partito e nel Paese anche dopo la liquidazione del mito di Stalin. Né l’VIII Congresso del Pci celebrato nel dicembre 1956, poteva in alcun modo chiarire tali problemi. Togliatti cercò di eludere tutte le questioni relative allo stalinismo, concentrandosi sulla ricerca della via italiana e democratica al socialismo25.

24Il crollo delle iscrizioni verificatosi tra il 1956 e il 1958 la dice lunga su quanto la fine del culto di Stalin e i successivi “fatti del ’56” avessero influito sulla identità ideologica del Partito Comunista Italiano. Dai 2.035.353 aderenti nel 1956, che ne facevano il più forte partito italiano, il Pci scese a 1.242.640 nel 1958.26 Il brusco ridimensionamento lo portava allo stesso livello della Dc che, con uno sforzo organizzativo imponente, era riuscita, nel corso degli anni Cinquanta a raggiungere 1.356.054 iscritti27. Tuttavia questo non fu sufficiente ad aprire gli occhi dei dirigenti del Partito comunista, che apparivano preoccupati dal desiderio di mantenere dei buoni rapporti con Mosca e di garantire in Italia una facciata apparentemente unitaria e priva di conflitti interni. Le tante crisi individuali, i tanti ripensamenti, furono liquidati senza eccezioni come tentativi controrivoluzionari di minare la marcia verso il socialismo.

25In questa seconda metà degli anni Cinquanta il Pci rinserrò ancora di più le fila di quanti erano rimasti, accentuò il culto della personalità di Togliatti, si rinchiuse nell’isolamento dell’unico partito rimasto a difendere la causa del socialismo e riconfermò il dirigismo centralista con cui era diretto. Paradossalmente, la morte di Stalin non portò a una progressiva distensione nei rapporti con gli altri partiti e con la società italiana, ma piuttosto all’arroccamento e alla chiusura nell’esasperata difesa dei valori del comunismo. Il contraccolpo dopo l’VIII Congresso fu molto duro, la fronda degli intellettuali si allargò agli operai, diventando un’emorragia. Tra i tanti che se ne andarono molti nomi della cultura italiana, da Carlo Muscetta a Eugenio Reale, a Vezio Crisafulli, e più tardi, Antonio Giolitti28. Il “centrista” Amendola non si nascose dietro facili giustificazioni.

Ha influito inoltre la riduzione degli apparati e l’incertezza negli stessi compagni degli apparati, stanchezza per i lavori congressuali; compagni esauriti e pieni di debiti a fine anno. Tendenza degli elementi migliori a fuggire dagli apparati; mentre restano aggrappati agli apparati gli elementi più deboli29.

Quasi in un gioco di parole: l’unica cosa che restava al partito erano gli apparati. Davanti a questa immagine desolante, Togliatti cercava di spronare i compagni a un maggiore attivismo, eludendo il fatto che i problemi fossero ben altri della «attività di propaganda». Né valeva demonizzare l’azione del clero che sembrava frenare l’adesione delle donne, giacché queste erano, insieme ai giovani, le più deluse. Ma la situazione non era rosea neanche nelle fabbriche come alla Fiat, dove gli attivisti stavano scendendo. Anche Amendola dovette riconoscere che quella dei comunisti era una «debole attività» ed era sempre più difficile coinvolgere i giovani30. Il problema era che solo alcuni dei dirigenti comunisti sembravano rendersi conto delle nuove aspettative che stavano emergendo nel Paese. O meglio essi cominciavano ad avere percezione dei grandi processi di trasformazione, ma non potevano ammetterlo pena la sconfessione delle più nere previsioni fatte dal comunismo.

26Stava venendo meno l’identità stessa del partito ma i dirigenti sembravano incapaci di comprenderlo.

Bibliographie

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Vacca, Giuseppe (1978) (cura), Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956. Un’antologia di scritti del “Contemporaneo”, Editori Riuniti, Roma.

Notes de bas de page

1 A. Höbel, Le culture comuniste, in Chiarotto (2017), pp. 116-17. Cfr., in questo volume, A. Höbel, Le «tempeste internazionali» e il rilancio della via italiana: Togliatti e il Pci, pp. 127-59.

2 Interventi di P. Togliatti e G. Di Vittorio, in Fondazione Gramsci (Roma), Archivio del Partito Comunista Italiano, Verbali delle riunioni della Direzione, n. 3, 12 febbraio 1953, pp. 2, 6. (D’ora in avanti APC, Direzione).

3 Colarizi (1996), p. 203.

4 Intervento di P. Secchia, APC, Direzione, n. 15, 5 novembre 1953, pp. 15-16.

5 Intervento di G. Amendola, 27 novembre 1953, APC, Direzione, n. 16, p. 2.

6 Intervento di G. Di Vittorio, ivi, p. 6.

7 Intervento di E. Berlinguer, APC, Direzione, n. 3, 4 febbraio 1954, p. 11.

8 Intervento di L. Longo, APC, Direzione, n. 6, 6 aprile 1954, p. 2.

9 Intervento di C. Negarville, e P. Togliatti, ivi, pp. 3, 7.

10 Noce (1974).

11 L. Fibbi, Lavoro femminile, relazione introduttiva, APC, Direzione, n. 14, 1° luglio 1955, p. 1.

12 Intervento di R. Picolato, ivi, p. 7.

13 Intervento di M. A. Macciocchi, L. Longo, ivi, pp. 5 -12.

14 P. Pombeni, I partiti e la politica dal 1948 al 1963, in Sabbatucci-Vidotto (1997), pp. 183-95.

15 Caredda (1995), pp. 168-78.

16 Intervento di G. Amendola, P. Ingrao, U. Terracini, APC, Direzione, n. 5, 9 maggio 1956, pp. 2 -7.

17 Interventi di V. Spano e G. Pajetta e A. Colombi, ivi, pp. 9- 12.

18 P. Togliatti, 9 domande sullo stalinismo, intervista, in «Nuovi Argomenti», n. 20, maggio-giugno 1956.

19 Lettera del Segretario del Comitato centrale del Pcus, Al Comitato centrale del Partito Comunista Italiano, APC, Documenti riservati ai membri della Direzione, n. 17, 30 giugno 1956, p. 3.

20 Ivi, p. 4.

21 Relazione della delegazione Pajetta, Negarville, Pellegrini alla Direzione del Partito, APC, Documenti riservati ai membri della Direzione, n. 17, 18 luglio 1956, pp. 3-4.

22 Gozzini - Martinelli (1998), pp. 546-47.

23 Relazione della delegazione, ivi, p. 9.

24 Ivi, pp. 11-15.

25 Rapporto di Palmiro Togliatti, VIII Congresso, 8-14 dicembre 1956, in Cecchi (1977), p. 154.

26 Andamento iscrizioni Pci, APC, Direzione, n. 1, 17 gennaio 1958.

27 Malgeri (1988), p. 19.

28 Vacca (1978), pp. xxvi e ss. Cfr., in questo volume, i contributi di F. Loreto e F. Chiarotto, rispettivamente alle pp. 211-26 e 177-90.

29 Intervento di G. Amendola, APC, Direzione, n. 4, 22 novembre 1957, p. 14.

30 Intervento di P. Togliatti, G. Amendola, APC, Direzione, n. 7, 8 maggio 1957, p. 1-5.

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