Il Partito Comunista Francese, lo «choc» del 1956 e il movimento comunista dell’Europa occidentale
p. 111-124
Texte intégral
1In questo saggio sarà ricostruita l’attitudine del Partito comunista francese di fronte agli avvenimenti del 1956. Sarà inoltre analizzata in una prospettiva di medio periodo l’importanza di questo anno nella strategia e nella cultura politica dei comunisti francesi. Da una parte, si tenterà di mostrare come gli eventi del 1956 si cristallizzino fino a diventare une vero e proprio nodo irrisolto, che influenza i rapporti del Pcf con il Pci e l’evoluzione complessiva del movimento comunista in Europa occidentale. Dall’altra, saranno presi in considerazione alcuni aspetti del dibattito teorico-ideologico che si sviluppa all’interno del Pcf nel periodo successivo (prima metà anni Sessanta), per mostrare il condizionamento che gli eventi del 1956 esercitano sulla cultura politica del partito.
2Il 1956 costituisce un vero e proprio spartiacque nella storia del Pcf, si realizza infatti un formidabile e drammatico intreccio di fattori che attengono alla vita interna al partito, alla situazione politica e sociale francese e che investono la dimensione internazionale (sia quella del ruolo del Pcf nel movimento comunista sia quella della collocazione della Francia nel contesto della Guerra fredda). Per questo la storiografia ha individuato in questo anno l’inizio del lento processo di erosione dell’egemonia conquistata dal Pcf all’interno della sinistra nazionale1.
3Nel febbraio 1985, durante il XXV Congresso, con il Pcf nel pieno di una crisi culturale, strategica e di consensi, il segretario generale Georges Marchais parlerà di «retard stratégique» accumulato dal partito sin dal 1956. Un ritardo che non avrebbe consentito ai comunisti di comprendere sia i mutamenti sociali e del quadro internazionale sia la crisi del socialismo reale. A partire dal 1981, Roger Martelli, studioso comunista e poi ex-comunista da sempre impegnato nella rilettura critica della storia del movimento operaio, dedica al 1956 due volumi e numerosi articoli, saggi e interventi. Oltre ai libri di Martelli un altro testo fondamentale per comprendere il rapporto del Pcf con gli avvenimenti di quest’anno sono gli atti del convegno organizzato dalla Fondation Gabriel Péri nel 2006. Queste opere costituiscono anche la base storiografica più aggiornata per gli studi sul comunismo francese nel periodo successivo2.
4Per i comunisti francesi il 1956 comincia sotto il migliore degli auspici, con la conquista del 25,7% alle elezioni legislative del 2 gennaio. Questo risultato rende ancor più concreta la prospettiva di uscire dall’isolamento in cui il Pcf era stato relegato dal 1947. Un isolamento che aveva iniziato ad allentarsi dal 1953-54, quando avevano si erano riaperti alcuni spiragli di dialogo con i socialisti della Sfio3.
5La prima pagina de «l’Humanité» del 4 gennaio 1956 apre con un Vive le Front Populaire, il 7 una vignetta illustra la Marianne staccare i vagoni di un treno. La didascalia recita: «Signori viaggiatori, si informa che per decisione del Fronte Popolare i treni con destinazione Algeria sono annullati»4. La possibilità di uscire dall’isolamento e addirittura tornare a far parte di una maggioranza parlamentare che ponga fine al conflitto algerino infonde una buona dose di ottimismo fra i militanti e nel gruppo dirigente comunista.
6In realtà l’analisi del Pcf sulla crisi algerina appare piuttosto incerta: dal 1939 Thorez aveva coniato la formula dell’Algeria come «nazione in formazione» composta da diversi strati di popolazione accumulatesi nel corso della storia coloniale. Dall’inizio della crisi i comunisti francesi, pur praticando un’opposizione decisa all’utilizzo della forza militare da parte della Francia, non si erano dichiarati a favore dell’indipendenza, e in questi primi mesi del 1956 continuano a fare riferimento alla soluzione dell’Union française, tentativo di costruire una comunità simile al Commonwealth britannico. È da sottolineare inoltre, il rifiuto del Pcf di riconoscere il Fronte di Liberazione Nazionale come principale interlocutore nel movimento antimperialista algerino. Un rifiuto che, dal 1957, sarà motivo di forti contrasti con il Pci in seno al movimento comunista. Insomma, il Pcf dimostra un grave deficit di analisi sia sulla specifica situazione dell’imperialismo francese sia sui movimenti di liberazione nazionale in questa fase della guerra fredda5.
7Nei primi mesi del 1956 quindi, il partito tenta di far fronte alla crisi del colonialismo e all’indebolimento politico e isituzionale della IV Repubblica che questa crisi provoca, facendo ricorso alla sua risorsa strategica e ideologica principale: quella del frontismo.
8Per passare dall’isolamento alla partecipazione ad una maggioranza parlamentare di sinistra capace di risolvere il conflitto in Algeria, alla fine di gennaio i comunisti votano la fiducia al governo del socialista Guy Mollet e, il 12 marzo, concedono al governo i poteri speciali sulla crisi algerina.
9In continuità con la propria tradizione di cultura politica, il gruppo dirigente del Pcf unisce al recupero del paradigma frontista la conferma del suo internazionalismo di marca cominternista. Sin dal 1953- 54 la direzione non aveva mostrato grande entusiasmo per il nuovo vento che aveva iniziato a soffiare da Mosca, la coppia Maurice Thorez-Jeannette Vermeersch si era preoccupata infatti di bloccare la discussione all’interno della direzione. Durante la lotta per il potere che vede prima l’eliminazione di Berja, poi la sconfitta di Malnekov e infine il trionfo di Chruščëv, Thorez conferma la sua vicinanza a Molotov, il vecchio compagno dei tempi del Comintern.
10Dibattito nazionale concentrato attorno alla crisi algerina e alla possibilità di un governo delle sinistre e diffidenza nei confronti dei primi passi della destalinizzazione, è questo il contesto in cui Thorez, Jacques Duclos, Geroges Cogniot e Pierre Doize si recano a Mosca per partecipare a nome del Pcf al XX Congresso del Pcus, che si tiene dal 14 al 25 febbraio.
11È significativo che durante i lavori del congresso, prima della famosa sessione a porte chiuse in cui Chruščëv pronuncerà il rapporto segreto, Thorez sia l’unico, insieme al cinese Zhu De, a ribadire nel suo intervento l’attaccamento alla formula canonica del marxismo-leninismo, quella della continuità Marx-Engels-Lenin-Stalin.
12Come accade alla delegazione del Pci, anche a quella del Pcf viene concesso di leggere il rapporto segreto e di tradurlo senza prendere note scritte. Ciò accade il 25 febbraio, ma al ritorno in patria e fino al 10 maggio, i dirigenti francesi continuano a negare pubblicamente l’esistenza del documento redatto da Chruščëv. Nella seconda metà di maggio, dopo che la stampa internazionale ne ha ormai provato l’esistenza, la versione di cui prima Duclos e poi Thorez si fanno latori di fronte al Comitato centrale del partito è che il rapporto contiene una relazione dettagliata degli errori e dei meriti del defunto capo dell’Unione Sovietica e del movimento rivoluzionario mondiale. Sempre nella primavera del 1956 inoltre, Duclos e Thorez fanno acclamare ai militanti il nome di Stalin in due manifestazioni pubbliche6.
13Dopo che l’esistenza e il contenuto del rapporto è diventata di dominio pubblico, e in una situazione in cui vengono meno le speranze che il governo di Guy Mollet ponga fine al conflitto algerino e avvii una fase di nuova unità delle forze di sinistra, il gruppo dirigente del Pcf cerca di evitare ogni confronto, sia pubblico sia riservato, sulle rivelazioni di Chruščev. Durante la preparazione e il lavori del XIV Congresso, che si tiene dal 18 al 21 luglio, si ricorre all’escamotage di una discussione sul tema del controllo delle nascite e dell’aborto per evitare che il dibattito sui crimini di Stalin coinvolga la base militante7.
14Così, nella primavera-estate Thorez conferma la sua ostilità al nuovo corso crusceviano; le note private del segretario generale mostrano il disappunto di fronte ad un gruppo dirigente sovietico che finge di non esser stato a conoscenza dei metodi di Stalin8. Non si tratta, nel caso del segretario generale del Pcf, di perplessità come quelle espresse da Togliatti e altri sulla superficialità e la personalizzazione della critica crusceviana allo stalinismo, che non affronta i problemi profondi del socialismo e non riesce a sciogliere i nodi irrisolti della strategia del movimento comunista internazionale. Piuttosto quello dei francesi è un atteggiamento analogo a quello di Mao Tse Tung, volto a difendere i presupposti del marxismo-leninismo contro l’opportunismo e il revisionismo incarnato dalla triade Gomułka-Togliatti-Tito9.
15In sostanza il Pcf mantiene salda la sua impostazione tradizionale basata su due capisaldi: relativi margini di autonomia nazionale, che con il disgelo possono tradursi in un rilancio della strategia frontista, e internazionalismo tutto ideologico, basato sulla centralità dello Stato-guida e sul classico discorso antimperialista incapace di cogliere le nuove forme e la funzione dei movimenti di liberazione.
16La rivolta degli operai polacchi di Poznań del 28 e 30 giugno e la drammatica crisi ungherese spingono la direzione del partito francese a rafforzare la linea conservatrice. Negli avvenimenti polacchi ed ungheresi i dirigenti del Pcf trovano la giustificazione della loro resistenza alla destalinizzazione e un’altra ragione per rinnovare la loro ostilità al revisionismo sia nel partito che nel movimento comunista internazionale. I francesi sono ancor più decisi degli italiani nel sostenere l’intervento militare in Ungheria. Il problema delle cosiddette “disfunzioni del socialismo” alla base della , ccrisi è totalmente assente sia nel discorso ufficiale sia nel dibattito interno. Per il Pcf la rivolta popolare è il risultato di un’azione controrivoluzionaria dell’Occidente resa possibile dall’abbassamento della guardia da parte dei comunisti10.
17Durante la crisi la direzione del Pcf si sforza di limitare gli effetti delle proteste e delle manifestazioni di dissenso da parte di numerosi intellettuali. A rendere più agevole quest’opera di normalizzazione intervengo due avvenimenti: l’aggravarsi della situazione Algerina e la crisi di Suez, che fra l’altro è legata alla vicenda della colonia nord africana.
18In una situazione in cui sfumano le speranze di ricostituzione dell’unità delle sinistre, il Pcf ritira la fiducia al governo di Guy Mollet. Così, il declino dell’imperialismo coloniale francese svolge anche una funzione di distrazione nel dibattito interno al Pcf. A questo va ad aggiungersi la forte ondata anticomunista che segue gli interventi militari sovietici in Ungheria, che in Francia raggiunge il suo apice con l’assalto alla sede del Comitato centrale del partito e dell’«Humanité» da parte di gruppi di destra. Essa permette al Pcf di recuperare l’attitudine della “fortezza assediata”, di richiamare tutti i militanti alla difesa del partito, spegnendo in questo modo ogni discussione e dissenso interno11.
19Se il 1956 si apre con una ventata di ottimismo rispetto alla possibilità di uscire dall’isolamento, esso si chiuderà in una situazione opposta, con un Pcf di nuovo marginalizzato nello spazio politico nazionale e incapace di cogliere le dinamiche della doppia crisi dell’imperialismo francese e del movimento comunista a egemonia sovietica.
20Fino al 1956, forte della solidità del suo radicamento nelle classi popolari, il Pcf aveva compensato la sua debolezza strategica e culturale gestendo pragmaticamente un doppio discorso: da una parte la tematica del pacifismo e dell’indipendenza nazionale contro l’imperialismo americano e la minaccia del revanscismo tedesco ancorate alla vecchia cultura giacobina del popolo sovrano, dall’altra l’attaccamento incondizionato all’Unione Sovietica di Stalin12.
21I mutamenti del quadro internazionale e quelli sociali e culturali della Francia di fine anni Cinquanta, la crisi del colonialismo e della IV Repubblica, la violenta denuncia di Stalin da parte di Chruščëv perturbano profondamente quest’equilibrio costruito sin dagli anni Trenta. Nella visione angusta della maggioranza dei dirigenti del Pcf, la critica dello stalinismo avrebbe implicato il rischio di dar ragione a chi, come il socialista Léon Blum, al momento della scissione del Partito socialista e della nascita del partito nel 1920, aveva evocato i pericoli del rigore bolscevico e del modello rivoluzionario basato sulla dittatura del proletariato. Per il Pcf molto più che per il Pci quindi, ciò che inizia ad incrinarsi nel 1956, è l’insieme degli elementi identitari che determinano la capacità egemonica del partito sulle classi popolari. Queste prime avvisaglie della precarietà della propria forza rendono ancor più grave il deficit di cultura teorica e di analisi strategica fino a determinare un atteggiamento di chiusura, ostile alla destalinizzazione e incapace di cogliere l’apertura di una nuova fase.
22Minacciato nei suoi equilibri fondamentali (al nuovo isolamento della fine del 1956 si aggiungerà nel 1958 la fine della IV Repubblica, il trionfale ritorno di De Gaulle al potere e la perdita di un terzo dell’elettorato), dal 1956 al 1962 il Pcf cerca di proteggersi attraverso il ripiego identitario. Si tratta di un’attitudine opposta a quella del Pci, dove Togliatti si impegna in una graduale, anche se parziale, ridefinizione dell’identità del partito e soprattutto – come scrive Aldo Agosti – da ultimo grande dirigente internazionalista acquisisce la consapevolezza dell’inizio di un processo di frantumazione del movimento comunista13. Togliatti coglie la dinamica di quello che è stato definito il «processo di erosione culturale e simbolica del comunismo nato nel 1917»14, un processo che precede il crollo del socialismo reale come sistema economico e statuale. La proposta di policentrismo elaborata dal segretario del Pci fra il 1956 e il 1964 diviene quindi un tentativo di rilanciare l’internazionalismo. A partire dal 1960-61, la rottura sino-sovietica renderà ancor più necessaria quest’ipotesi di ridefinizione-rifondazione15.
23A cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta infatti, si profila nei fatti l’esistenza di diversi centri regionali nel movimento comunista, quello sovietico (che secondo Togliatti sarebbe rimasto il principale), quello cinese, influente in Asia ma anche in America Latina e in Africa, e potenzialmente un terzo centro, nell’Europa Occidentale16. La componente del movimento comunista dell’Europa capitalistica avrebbe dovuto essere costruita sulla base della convergenza strategica fra i Pc italiano e francese, a partire dal rispetto delle autonomie e delle specificità. In questa cornice, il segretario del Pci coglie l’importanza della collaborazione con le forze della sinistra non comunista e della costruzione di un rapporto privilegiato e in completa autonomia dei comunisti occidentali con i movimenti di liberazione nazionale. La priorità attribuita alla dimensione europea e al rapporto con i movimenti di liberazione infatti, non solo avrebbe condotto al rinnovamento della cultura politica del comunismo europeo, ma avrebbe anche favorito una maggiore emancipazione della strategia dei Pc occidentali dagli interessi della politica sovietica.
24Per queste ragioni l’ultimo Togliatti cerca insistentemente una collaborazione organica con il Pcf. Nonostante gli sforzi però, negli otto anni che intercorrono fra il XX Congresso del Pcus e la destituzione di Chruščëv, oltre a consumarsi la fine dell’unità del movimento comunista, emergono anche le profonde differenze fra italiani e francesi. Differenze che dipendono dalla specificità del rapporto culturale e politico che i due partiti intrattengono con il centro moscovita e dalla specificità del loro ruolo e funzione nel movimento operaio e nello spazio politico nazionale17.
25In questo senso è opportuno sottolineare che l’ostilità sovietica ai tentativi del Pci di favorire un processo di riforma del movimento comunista ha due ragioni principali: la prima è che una riorganizzazione ispirata al principio del policentrismo avrebbe lasciato spazio ad una crescita dell’influenza cinese sul comunismo asiatico e comunque messo in discussione la funzione del movimento come strumento della politica estera di Mosca. La seconda ragione è che, nel discorso togliattiano, il policentrismo implica necessariamente il riconoscimento delle vie nazionali come presupposto della politica dei partiti comunisti e come principio regolatore dei rapporti fra di essi. Una volta accettato quindi, il portato di autonomia del policentrismo avrebbe potuto influenzare i gruppi dirigenti dell’Europa Orientale, mettendo in discussione la strategia di stabilizzazione del blocco socialista del Pcus dopo la rivolta ungherese. Per questo i sovietici, ma anche i tedeschi della Rdt non mancano di far pressione sul Pcf affinché si impegni a limitare, se non a sabotare, i progetti dei comunisti italiani. Allo stesso tempo il Pcf, proprio a partire dal ripiego identitario effettuato dal 1956 in poi, teme un’egemonia italiana sul comunismo dell’Europa occidentale18.
26Nel 1963-64, per mancanza del necessario appoggio del Pcf, fallisce dunque il tentativo togliattiano di costituzione di un centro autonomo del comunismo occidentale. Gradualmente i sovietici concedono agli italiani di utilizzare il principio dell’unità nella diversità per regolare la loro adesione al movimento e ridefinire il profilo ideologico del comunismo italiano. Il Pci si attesta da questo momento su un riformismo di basso profilo nel movimento comunista, e pur senza rinunciare ai rapporti con gli altri Pc – sovietico e francese in primis – esso comincia a guardare sempre più al di fuori del mondo comunista come singolo partito e non, sarebbe stata cosa diversa, come rappresentate di un centro occidentale del comunismo19.
27Come accaduto in altre fasi critiche della storia del movimento comunista, e come accadrà in quelle dei decenni successivi, gli avvenimenti del 1956 e il loro sviluppi sono alla base di un’ulteriore nazionalizzazione del comunismo. Una nazionalizzazione che, per i partiti al di fuori del blocco sovietico, vede prevalere sempre più le singole specificità a discapito della capacità egemoniche del comunismo come movimento transnazionale. Per queste ragioni dal 1956 in poi l’attitudine e la crisi del Pcf sono uno dei principali fattori condizionati sia della politica estera sia dell’evoluzione complessiva dell’internazionalismo del Pci.
28Accanto alla questione della strategia nazionale e internazionale, fra gli effetti degli avvenimenti del 1956 sul Pcf c’è sicuramente un terremoto culturale e ideologico. I processi di decolonizzazione, con il disfacimento dell’impero coloniale francese, che vede i suoi ultimi atti nella crisi di Suez e nella guerra d’Algeria, le rivelazioni del XX Congresso e la fine della IV Repubblica producono la crisi del marxismo dottrinario e la rottura degli equilibri che regolavano il rapporto fra intellettuali comunisti e non comunisti.
29Dopo che, dal 1947 in poi, il Pcf aveva aderito incondizionatamente alla teoria delle due scienze di Ždanov, dalla metà degli anni Cinquanta gli intellettuali comunisti francesi iniziano a interloquire con le posizioni teoriche e filosofiche provenienti da ambiti esterni al mondo comunista, frutto anche delle ricerche sulle trasformazioni avvenute in seno alla classe operaia. Il XV Congresso del 1959 vede la creazione del Centre d’études et recherches marxistes (Cerm). Nel definire gli obbiettivi del Centro, Maurice Thorez ufficializza la fine della contrapposizione fra «scienza borghese» e «scienza proletaria» che aveva contraddistinto gli anni Cinquanta e riconosce l’utilità dei lavori scientifici degli specialisti non comunisti20. Al Cerm è assegnato il compito di sviluppare la produzione teorica e la formazione degli intellettuali comunisti sotto la guida e lo stimolo del partito, per superare i limiti dell’attività individuale e la mera ripetizione delle vecchie formule. Nelle parole di Thorez, però, l’attività del Centro e, in generale, il lavoro scientifico e l’«assimilazione critica dei lavori degli specialisti» sono una necessità per la battaglia ideologica, e non il necessario fondamento della strategia del partito: non si tratta di rinsaldare il legame fra produzione teorica ed elaborazione strategica, di rafforzare il partito come intellettuale collettivo, ma solamente di favorire la lotta «contro le idee ostili al materialismo dialettico»; la discussione sulla linea del partito rimane appannaggio di una ristretta cerchia di membri del gruppo dirigente, intellettuali di origine operaia formatisi nel marxismo dottrinario della bolscevizzazione, dello stalinismo e della guerra fredda.
30In questo modo il gruppo dirigente cerca di circoscrivere la libertà di confronto alle questioni artistiche e letterarie e di confinare la critica dello stalinismo nel recinto delle questioni filosofiche e dei problemi della cultura. In questo quadro si struttura il tentativo di reintegrare pienamente la cultura comunista nell’ambito nazionale affermando la sua dimensione umanistica. Un progetto che, tuttavia, non si svolge senza contrasti; per esempio, il 10 gennaio 1961, Lucien Sève, filosofo e responsabile culturale della potente Federazione di Marsiglia, invia una nota personale alla redazione di «Les Cahiers du communisme» nella quale constata che il riconoscimento del «fondo di verità» depositato nelle altri correnti filosofiche per come esso viene definito da un altro intellettuale, Roger Garaudy, all’epoca il solo intellettuale di estrazione accademica a far dell’Ufficio politico del partito, significa far scivolare il marxismo in un «opportunisme doctrinal genéralisé». La posizione di Sève, condivisa anche da numerosi membri della redazione della rivista «La Nouvelle Critique», non vuole tanto salvaguardare la purezza del dogma staliniano, quanto piuttosto favorire lo sviluppo della riflessione teorica e filosofica sul pensiero di Marx che vada oltre le esigenze della contingenza politica21. Lo scontro fra Sève e Garaudy, che si allargherà presto a Luis Aragon, Althusser e a tutto il mondo della cultura comunista francese, mostra il processo di diversificazione degli indirizzi teorici e culturali dopo il crollo del monolitismo degli anni cinquanta. Di fronte a questa situazione, il gruppo dirigente del partito si trova a dover scegliere se continuare ad usare l’elaborazione teorica e ideologica come mezzo di propaganda oppure – in una situazione di difficoltà politica che ha messo in luce gravi debolezze strategiche come quella che si apre dopo 1956 – se avviare un processo di autoriforma «intellettuale e morale» del comunismo francese.
31A partire dalla fine degli anni Cinquanta, il gruppo dirigente interviene nel dibattito teorico non più per dettare la linea bensì per definire il perimetro in cui il confronto e il lavoro degli intellettuali comunisti possono svolgersi senza produrre deviazioni: si tratta di fissare i punti fermi della lotta alle tendenze «opportunistiche» (che vogliono approfondire i risvolti politici dello stalinismo e che guardano con favore alle posizioni del Pci) e a quelle «settarie» (identificate con le tesi dei cinesi). Le categorie di «opportunismo», «revisionismo», «settarismo» o «dogmatismo» sono confermate nella funzione di paradigmi interpretativi di ogni posizione teorica o tesi filosofica, il che dimostra che la liberalizzazione tanto ostentata non basta a svincolare il Pcf dalla gabbia dottrinaria degli anni Cinquanta. Va da sé che quest’esercizio grossolanamente classificatorio seguirà le oscillazioni della politica del partito, determinate sia dalle tensioni che attraversano il movimento comunista sia dal tentativo di rilanciare la dinamica unitaria.
32Nel corso degli anni Sessanta il Pcf sembra riuscire a superare la crisi prodotta dagli avvenimenti del 1956; il gruppo dirigente avvia un processo di «aggiornamento» (un termine mutuato nel dibattito comunista dell’epoca dal Concilio Vaticano II), che mira a una stabilizzazione interna e una ridefinizione strategica dopo la crisi del modello staliniano degli anni della guerra fredda. L’obbiettivo principale è una più efficace integrazione nella mutata realtà politica e socio-culturale francese, lasciando, come si è visto, le questioni di ordine internazionale prive di una effettiva elaborazione strategica. Nonostante la riduzione di iscritti, il Pcf riesce a interrompere e in parte a recuperare il brusco calo di consensi innescato dalla crisi della IV Repubblica, pur non riuscendo mai a tornare sui livelli precedenti il 1958. Dalla metà degli anni Sessanta, in Francia la conquista del governo da parte di una coalizione di forze popolari apparirà un’ipotesi concreta, soprattutto dopo la candidatura unitaria di François Mitterrand alle presidenziali del 1965, che costringe al secondo turno un Generale De Gaulle giunto all’apice del suo successo.
33Per uscire dalla crisi del 1956-1958 quindi, i comunisti francesi ricorrono ad una prospettiva frontista finalizzata alla conquista del governo nazionale. Pur restando, perlomeno fino alla fine degli anni Sessanta, i principali soggetti dell’opposizione politica e sociale essi non svolgono però questo ruolo in un contesto analogo a quello della Liberazione e del primo dopoguerra, quando detenevano una sostanziale egemonia dei movimenti di lotta e nella sinistra nazionale. Dal 1966-67 infatti, la galassia socialista si avvierà all’unificazione sotto la leadership carismatica di Mitterrand e inizierà ad affermarsi alla sinistra del Pcf l’attività di formazioni eterogenee, che nascono e si rafforzano nel fermento sociale e culturale determinato dallo sviluppo del neocapitalismo, dalla crisi dello stalinismo e dal progredire del processo di decolonizzazione. Questi due fenomeni (riunificazione della galassia socialista e crescita di movimenti e soggetti a sinistra del partito comunista) sono espressione, sul piano politico e ideologico, dei mutamenti sociali, economici e del quadro internazionale affiorati a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta e dei quali l’anno 1956 aveva rappresentato l’irruzione simultanea e traumatica. Per quanto riguarda il Pcf, essi fanno vacillare l’equilibrio raggiunto attraverso il recupero e l’aggiornamento del paradigma frontista e, a più riprese nel ventennio che va dal tentativo di assettamento dei primi anni Sessanta alla crisi degli anni Ottanta, faranno emergere, in maniera sempre più drammatica, i nodi irrisolti emersi nel fatidico 1956.
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Notes de bas de page
1 Per una rassegna storiografica sul comunismo francese, in una chiave comparata e incrociata con il caso italiano, si veda M. Di Maggio - G. Sorgonà, Nazionale e internazionale. Itinerari della storiografia sul comunismo. I casi italiano e francese, in «Historia Magistra», n. 16/2014, pp. 102-15.
2 Martelli (1981); Id., (2006); Aa. Vv. (2007).
3 R. Martelli, D. Neirick, M. Lazar, S. Wolikow, 1956: que commemore-t-on? Problématiques et enjeux historiographiques, in Le Parti communsite français et l’année (2007), pp. 49-42 (intervento di S. Wolikow).
4 A. Ruscio, Les communistes français et la guerre d’Algerie, 1956, in Aa. Vv. (2007), p. 79 e ss.
5 Ruscio (2005); Dazy (1990); M. Galeazzi, Le Pci et le Pcf et le luttes anticoloniales (1955-1975), in M. Di Maggio (cura), Histoires croisées du communisme italien et français, dossier monografico dei «Cahiers d’Histoire. Revue d’histoire critique», nn. 112-113, luglio-dicembre 2010, pp. 77-99.
6 R. Martelli, Le Pcf et le Pci face à Khroutchev (1953-1964), in M. Di Maggio (cura), Histoires croisées du communisme italien et français cit., pp. 51 ss.
7 Martelli (2006), pp. 39 e sgg; S. Fayolle, Le débat sur le birth control: une simple diversion? in Aa. Vv. (2007), pp. 105 e ss.
8 S. Kleya’nsky, Le parti communiste français et l’intervention soviétique en Hongrie, in Aa. Vv. (2007), pp. 95 e ss.
9 R. Martelli, Le Pcf et le Pci face à Khroutchev cit., p. 50 e ss.
10 Ibidem.
11 M. Di Maggio, L’evoluzione del Partito Comunista Francese attraverso il dibattito interno e il ruolo degli intellettuali (1961-1973). Tesi di dottorato, “Sapienza” Università di Roma- Université de Bourgogne, a.a. 2008-2009, Annesso I. Interviste e testimonianze, p. 99 e ss.
12 Martelli, Le Pcf et le Pci face à Khroutchev cit., pp. 53-54.
13 Agosti (1995).
14 Pons (2012), p. 149 e ss.
15 Spagnolo (2007), pp 33-36 e 136-44; M. Di Maggio, Pci, Pcf et la notion de “centre”. Enjeux stratégiques et questions identitaires des Pc de l’Europe occidentale in Id. (cura), Histoires croisées cit., pp. 27-29.
16 Marcou (1980) p. 42.
17 Per un’analisi sistematica di differenze e interazioni tra i due grandi PC dell’Europa occidentale mi permetto di rimandare a Di Maggio (2014).
18 Id., Il Partito comunista francese, il movimento comunista e i fondamenti della “via francese al socialismo”, in «Studi Storici», n. 4, ottobre-dicembre 2007, pp. 1091-118; Bracke (2008).
19 M. Di Donato, Il rapporto con la socialdemocrazia tedesca nella politica internazionale del Pci di Luigi Longo (1964-1969), in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 2, 2001, pp. 145 e ss.
20 «Intervention de Maurice Thorez au nom du Comité central au XV Congrès du Pcf», in Leroy (1972), p. 37.
21 Per una ricostruzione sistematica del dibattito teorico-culturale interno e attorno al Pcf come punto di vista specifico per analizzare la crisi dell’egemonia comunista nella sinistra francese mi permetto di rimandare a Di Maggio (2013).
Auteur
Ricercatore in Storia contemporanea presso Sapienza Università di Roma. Specialista di storia del movimento operaio in Europa Occidentale, fra le sue pubblicazioni Les intellectuels et la stratégie communiste. Une crise d’hégémonie (1958-1981) (Les Éditions Sociales 2013), Alla Ricerca della Terza Via al Socialismo. I Pc italiano e francese nella crisi del comunismo (1964-1984) (Edizioni Scientifiche italiane 2014); The Rise and Fall of Communist Parties in France and Italy. Entangled Historical Approaches (Palgrave Macmillan 2021); con Françoise Blum, Gabriele Siracusano e Serge Wolikow, ha curato il volume Les partis communistes occidentaux et l’Afrique. Une histoire mineure? (Hémisphères 2021). Ha curato il volume Sfumature di Rosso. La Rivoluzione Russa nella politica italiana del Novecento (Accademia University Press 2017).
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