La crisi di Suez: ottobre-novembre 1956
p. 77-93
Texte intégral
1Questo intervento si occuperà della cosiddetta “crisi” o “guerra” di Suez del 1956 soprattutto dal punto di vista dell’Egitto e del suo leader del tempo, Gamal Abdel Nasser (‘Abd al-Nasir). L’evento in sé è ampiamente noto, per cui l’articolo potrebbe ridursi a una mera cronaca commentata. Cercherò invece di pormi da un punto di osservazione più specifico e potenzialmente più originale: quello del pensiero politico di Nasser. Ciò risulta ai miei occhi tanto più opportuno quanto più nel 2018 è caduto (per altro passando pressoché inosservato) il centenario della nascita del presidente (ra’is) egiziano. È naturalmente innanzi tutto necessario ricostruire la storia della crisi e le sue ricadute più importanti.
2La guerra combattuta nell’ottobre-novembre 1956 tra, da una parte, l’Egitto di Nasser e, dall’altra, l’alleanza tripartita Gran Bretagna-Francia-Israele è stata variamente denominata. La gran parte della storiografia la indica come “seconda guerra arabo-israeliana” dopo la prima del 1948, ma la definizione è impropria, sia perché, da parte araba, fu combattuta dal solo Egitto, sia perché, oltre a Israele, vi parteciparono due potenze europee, Gran Bretagna e Francia, non coinvolte invece negli altri quattro conflitti diretti tra sionisti e stati arabi. Nei manuali scolastici egiziani si parla francamente di “aggressione tripartita”: e di fatto lo fu. Personalmente preferisco qui la più anodina, ma in qualche modo corrispondente all’oggetto del contendere, “crisi di Suez”. Certamente, la prima guerra arabo-israeliana del 1948 rimane un orizzonte di riferimento, ma le circostanze della guerra del 1956 non sono legate soltanto al conflitto tra ebrei sionisti e palestinesi per la Terra Santa. Anzi, questa motivazione è in realtà sostanzialmente marginale. Piuttosto, per comprenderne in profondità il significato è necessario considerare anche gli sviluppi del contesto internazionale e specificatamente del contesto egiziano.
3Per quanto possa sembrare remoto rispetto al 1956, il biennio 1916-1917 fu altrettanto – e forse ancor di più – spartiacque per la storia del Medio Oriente, e dunque deve essere ricordato per i suoi effetti a lunghissima distanza1. Nel 1916-1917 si ebbero infatti gli accordi Sykes-Picot e la cosiddetta “dichiarazione Balfour”. Gli accordi Sykes-Picot prefigurarono la successiva spartizione mandataria della Mezzaluna fertile (la grande Siria assegnata alla Francia, che ne separò due entità distinte, la Siria propriamente detta e il Libano; gli attuali Israele/Palestina, Giordania e Iraq assegnati alla Gran Bretagna). La “dichiarazione Balfour” fu il lasciapassare grazie a cui le organizzazioni sioniste incominciarono le “ondate migratorie” (aliya) in Palestina. Entrambi questi fatti costituirono la base su cui si costruì lo stato moderno in Medio Oriente2, con la nascita, appunto, nel tempo, di cinque nuovi stati-nazione: Siria, Libano, Giordania, Israele e Iraq. La crisi di Suez è un tassello dell’affermazione dello stato moderno in Medio Oriente, segnatamente, per quel che ci interessa, dello stato egiziano, anzi di quella “nazione” egiziana che proprio nel 1956 divenne interamente e autenticamente indipendente3.
4Per quanto riguarda il contesto internazionale coevo, il 1955 era stato un anno decisivo. Nel pieno della guerra fredda, infatti, nel 1955 si era stipulato il cosiddetto “Patto di Baghdad” e, soprattutto, si era tenuta la Conferenza di Bandung. Il “Patto di Baghdad” fu firmato inizialmente da Turchia e Iraq, cui poi si aggiunsero l’Iran e il Pakistan, e fu promosso dalla Gran Bretagna che contava in tal modo di poter conservare una qualche influenza nel Medio Oriente dopo aver perso quasi tutto il suo impero in seguito alla seconda guerra mondiale. Si trattava inoltre di stringere il cordone sanitario che avrebbe isolato l’Unione Sovietica circondandola di paesi filoccidentali ed anticomunisti. Il Patto di Baghdad attizzò però le rivalità all’interno del mondo arabo e latamente islamico: l’Egitto di Nasser, infatti, rifiutò di aderirvi a causa della nuova politica terzomondista abbracciata dal leader egiziano. Tale politica faceva riferimento alle nuove prospettive aperte dalla Conferenza di Bandung durante la quale, come ben noto, nacque il cosiddetto movimento dei «non-allineati», patrocinato da personalità quali l’indonesiano Sukarno, lo jugoslavo Tito, l’indiano Nehru e il cinese Zhou Enlai. A Bandung, Nasser trovò ascolto e simpatia (divenne intimo sodale soprattutto di Tito) e si entusiasmò per il progetto di costituire una terza forza di popoli emergenti che avrebbe dovuto interporsi tra le superpotenze protagoniste della guerra fredda e combattere il neo-colonialismo.
5Ancora nel 1955 si ebbero due avvenimenti che è necessario rammentare perché completano il quadro évenementielle in cui si collocherà la crisi di Suez. Nel febbraio, l’aviazione israeliana aveva bombardato pesantemente la striscia di Gaza (allora appartenente all’Egitto) per colpire la guerriglia palestinese colà rifugiata. Il bombardamento ebbe come “effetto collaterale” l’uccisione di una quarantina di soldati egiziani, che ovviamente irritò profondamente il popolo egiziano e Nasser. D’altro canto, il ministro dell’interno di Israele Pinhas Lavon, una creatura del leader maximo del sionismo d’allora, David Ben Gurion, per danneggiare l’Egitto, aveva organizzato una provocazione: agenti segreti israeliani, travestiti da arabi, avevano simulato attacchi contro le installazioni britanniche sul canale al fine di provocare una crisi tra Egitto e Gran Bretagna e, potenzialmente, la caduta di Nasser4. Quando la cosa divenne di dominio pubblico, provocò una grave crisi nel governo di Tel Aviv oltre a uno scandalo internazionale di cui pochi ora hanno memoria.
6Last but not least, bisogna accennare al fatto che il 1° novembre del 1954 il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) algerino aveva proclamato ufficialmente l’insurrezione contro la Francia, inaugurando quella sanguinosa guerra di indipendenza che si sarebbe conclusa solo nel 1962 con la proclamazione della repubblica d’Algeria. Le aspirazioni algerine e l’insurrezione armata erano appoggiate, ancora una volta, dall’Egitto di Nasser che sembrava rappresentare un polo alimentatore dell’instabilità che travagliava il Medio Oriente.
7Rivolgiamo dunque ora, finalmente, l’attenzione diretta all’Egitto. L’Egitto era divenuto repubblica nel 1953 in seguito ad un colpo di stato (luglio 1952) effettuato da un gruppo di ufficiali dell’esercito, gli Ufficiali Liberi. Il colonnello Gamal ‘Abd al-Nasser ne era stato l’anima. Il 1954 era poi stato l’anno decisivo per il consolidamento di Nasser che vedeva nell’esercito la, per così dire, “avanguardia cosciente” delle masse rivoluzionarie. Questa persuasione contrastava apertamente con quella del primo presidente della repubblica, Muhammad Neghib, che invece, pur essendo lui stesso un soldato, era favorevole al ritorno dei militari nelle caserme e a una normalizzazione parlamentare della rivoluzione. Il contrasto era esploso asperrimo appunto nel 1954, ma a novembre Nasser era riuscito a trionfare sui suoi oppositori: Neghib era stato defenestrato e posto agli arresti domiciliari; i Fratelli Musulmani erano stati colpiti da una durissima repressione e messi a tacere per molto tempo.
8Nasser era dunque libero di perseguire i suoi obiettivi: il terzomondismo, che lo portò ad avvicinarsi alla Cina maoista, alla Jugoslavia comunista e all’India di Nehru; e il rilancio socio-economico del paese, che abbisognava del pieno controllo e sfruttamento delle risorse nazionali. La politica “non allineata” ovviamente sollevò contro l’Egitto le ostilità dell’Occidente coinvolto nella guerra fredda contro il blocco sovietico. Il pieno controllo delle risorse nazionali contraddiceva il fatto che la Compagnia del canale di Suez, da cui passava parte ingente del commercio navale mondiale, era ancora di proprietà inglese. I lauti proventi del canale finivano cioè nelle tasche degli europei, mentre il canale era territorialmente a tutti gli effetti egiziano.
9Uno dei progetti più ambiziosi concepiti da Nasser per il rilancio socio-economico dell’Egitto era la costruzione di una grande diga ad Assuan, nell’alta valle del Nilo. La diga avrebbe consentito la creazione di un grande bacino artificiale (quello che oggi si chiama Lago Nasser) le cui acque avrebbero garantito abbondante e stabile irrigazione ai campi egiziani oltre a incalcolabile energia idroelettrica. Ma l’Egitto era troppo povero per sobbarcarsi i costi di una simile impresa. Nasser allora chiese prima agli Stati Uniti e poi al Fondo monetario internazionale i prestiti che gli servivano per finanziare la costruzione della diga, ma gli furono rifiutati. A ciò contribuirono diversi fattori, legati soprattutto alle pressioni di gruppi di interesse (dalla lobby ebraica americana, ansiosa di proteggere Israele, ai produttori di cotone inglesi, che temevano un boom dell’agricoltura egiziana). Ma la ragione principale era che americani ed europei consideravano Nasser un pericoloso sovversivo anti-occidentale.
10In realtà Nasser, già dai primi passi della sua azione politica, aveva manifestato netta avversione al comunismo, cui poi opporrà la sua personale versione di socialismo arabo. L’ultimo più autorevole biografo di Nasser ha scritto molto nettamente che «Nasser era filo-americano ed anti-comunista»5, un atteggiamento che nessuno studioso serio ha mai contestato6. Sul comunismo, per esempio, il presidente disse che non poteva essere comunista perché il comunismo era una religione, mentre lui, Nasser, aveva già la sua religione, l’Islam7.
11Il ra’is non era perciò incline a prendere automaticamente le parti dell’Unione Sovietica. È probabile preferisse in fondo l’Occidente, ma, convinto della necessità di trovare un equilibrio tra i contendenti della guerra fredda, non era disposto a firmare cambiali in bianco agli Stati Uniti, né tanto meno alla Gran Bretagna e alla Francia. Quando perciò gli Usa e il Fondo monetario internazionale gli rifiutarono i prestiti, fu giocoforza costretto a rivolgersi verso l’Unione Sovietica. Visto retrospettivamente si tratta di uno, e non del primo, degli infiniti errori dell’Occidente nella politica mediorientale, una politica ispirata più all’ideologia che al raziocinio: dall’isolamento di Nasser di cui stiamo discutendo, all’invasione dell’Iraq da parte di George W. Bush nel 2003, che ha destabilizzato e disgregato una delle zone più strategicamente sensibili del pianeta, passando per la chiusura totale alle rivendicazioni palestinesi dell’amministrazione Nixon-Kissinger nei primi anni Settanta, fino ad arrivare all’ondivaga, arrogante e destabilizzante politica di Donald Trump.
12Ad ogni modo, l’acquisto da parte dell’Egitto di armi dalla Cecoslovacchia, cioè ovviamente dall’Urss per mediazione cecoslovacca, sempre nel 1955, preoccupò ulteriormente l’Occidente e il “caso Nasser” divenne un vero incubo per le cancellerie europee. In Gran Bretagna si era sviluppata una vera e propria fobia nei confronti dell’Egitto e di Nasser, tanto nell’opinione pubblica quanto alla Camera dei Comuni. La politica del presidente egiziano era ritenuta una minaccia per gli interessi britannici in Medio Oriente e il mantenimento del controllo del canale di Suez diventava un punto d’onore. Dall’altra parte, in Francia, si riteneva, peraltro a ragione, che Nasser fosse il principale sostenitore della guerra di liberazione in Algeria e che, eliminato Nasser, la republique avrebbe prevalso sui rivoltosi.
13Il contesto era dunque quanto mai teso e contraddittorio. Quando Nasser, la sera del 26 luglio 1956, in un discorso ad Alessandria tra la folla esultante, annunciò la nazionalizzazione della Compagnia del canale di Suez, i nodi vennero al pettine. La nazionalizzazione era ovviamente un atto di forza inteso a risolvere la questione dei mancati finanziamenti per la costruzione della diga di Assuan, e motivato dal fatto che era tempo che le risorse del canale, confluite per un secolo nelle tasche degli occidentali, diventassero patrimonio degli egiziani. Ma quella di Nasser era una vera e propria sfida, che offendeva l’orgoglio neo-coloniale britannico e francese oltre a rappresentare un intollerabile gesto di indipendenza politica in un’epoca, l’epoca della guerra fredda, di schieramenti contrapposti. Nasser, in realtà, sottovalutò la possibile reazione di Londra e Parigi ed era probabilmente persuaso che le altre potenze sarebbero rimaste neutrali. La Francia, però, non aveva alcuna intenzione di rimanere passiva, alla luce del fatto che l’Egitto rappresentava un faro per tutti i movimenti di liberazione del mondo arabo. Nella medesima ottica deve intendersi perché leader moderati o conservatori del mondo arabo, come i sovrani sauditi o il regista della politica irachena Nuri al-Sa‘id, vedessero favorevolmente la defenestrazione o almeno l’indebolimento di Nasser.
14La “sindrome imperiale” della Francia e della Gran Bretagna è chiaramente rivelata dalle osservazioni del primo ministro francese Guy Mollet (si badi, un socialista alla testa di un governo di sinistra!):
Se abbiamo deciso di intervenire è stato per tre ragioni, riassumibili in tre parole: Algeria, Spagna, Monaco. Sull’Algeria non ho bisogno di insistere. Noi non consideriamo Nasser come l’unico motore della rivolta algerina, ma conosciamo il ruolo che egli svolge di fornitore e alleato del Fln. […] La Spagna? È proprio come la repubblica spagnola minacciata e tradita che noi vedevamo allora Israele. Nel 1936 noi socialisti avevamo troppo sofferto del non intervento per non evitare di lasciar schiacciare ancora una volta una piccola democrazia in pericolo. Gli esperti ci avevano precisato la data in cui Nasser prevedeva di distruggere Israele. […]
Monaco. Più che il colpo di Alessandria ci persuase ad agire la lettura della Filosofia della rivoluzione, quella specie di piccolo Mein Kampf. Lasciar progredire quell’avventuriero, quell’Hitler in formato ridotto era troppo rischioso. Significava sottrarsi alle proprie responsabilità8.
Le farneticanti osservazioni di Mollet, intrise di spirito imperialista, rendono bene il senso di un clima. D’altra parte, il britannico Anthony Eden, oltre a voler eliminare chi aveva osato sfidare la Gran Bretagna e l’aveva definitivamente cacciata dall’Egitto, temeva che la nazionalizzazione del canale, che avrebbe fatto perdere al suo paese cospicui introiti, potesse riflettersi negativamente sulla solidità della sterlina, già gravemente compromessa (per altro, ai Comuni l’opposizione era nettamente schierata contro il primo ministro).
15Con un antistorico rigurgito di grandeur, dunque, la Gran Bretagna e la Francia decisero di aggredire l’Egitto. A loro si aggregò Israele, e questa decisione deve essere motivata. Ci sono più fattori da considerare. Da una parte, lo stato ebraico era desideroso di impadronirsi dei giacimenti petroliferi del Sinai, ma questa era certamente la ragione meno urgente. Più sostanziali apparivano la prospettiva sia di eliminazione di un leader arabo in ascesa che si era schierato apertamente a favore dei palestinesi dopo la nakba del 1948 (la striscia di Gaza da dove operavano gruppi guerriglieri, si è già detto, era allora parte dell’Egitto), sia di scatenare una guerra preventiva che gli strateghi dello stato ebraico avevano progettato da anni. Il progetto strategico era quello che è stato denominato “muro di ferro”, cui, almeno a quel tempo, aderiva la gran parte dei vertici militari e politici israeliani: con gli arabi l’unica via praticabile era quella dell’uso della forza9. I massimi dirigenti israeliani, tra cui Ben Gurion e Moshe Dayan, accarezzavano da tempo l’intenzione di colpire preventivamente l’Egitto, il più forte paese arabo, per eliminare una presunta fonte di pericolo. Secondariamente, desideravano distogliere le attenzioni della Gran Bretagna dalla Mezzaluna Fertile e dai tentativi dei sovrani hashemiti di costituire un asse Iraq-Giordania, che avrebbe avuto la benedizione di Londra ma che sarebbe stato potenzialmente pericoloso per Israele.
16La concertazione tra le tre potenze, Gran Bretagna, Francia e Israele portò, il 29 ottobre 1956, all’invasione israeliana del Sinai. L’esercito con la stella di Davide (Tsahal) marciò speditamente verso il canale di Suez. Gran Bretagna e Francia finsero di presentare un ultimatum per costringere le parti ad arrestarsi e, al prevedibile rifiuto di Nasser, passarono all’attacco. Il 31 ottobre l’aviazione franco-britannica bombardò gli aeroporti egiziani e i sobborghi del Cairo. Il 5 novembre le truppe coalizzate europee sbarcarono a Porto Said e procedettero velocemente verso sud lungo il canale in direzione delle città di Suez e di Ismailiyya.
17Il disastro incombeva, la caduta di Nasser sembrava imminente e inevitabile. Ma in realtà l’opinione pubblica mondiale, rappresentata all’Onu, dimostrò subito grande ostilità nei confronti della guerra e condannò l’aggressione tripartita all’Egitto. L’Unione Sovietica minacciò un intervento nucleare. Anche gli Stati Uniti, allora presieduti da Dwight Eisenhower, si defilarono; ed anche questa decisione deve essere motivata. A metà degli anni Cinquanta, la politica statunitense in Medio Oriente era in parte diversa da quella cui siamo stati abituati dalla guerra dei sei giorni (giugno 1967) in poi, cioè una politica (salvo brevi fasi) di univoco e ininterrotto, preconcetto, schieramento a favore di Israele. Gli Stati Uniti, da una parte, si presentavano, almeno esteriormente, ancora come non interessati a interventi neo-imperialisti in Africa e Asia, e dunque come potenzialmente favorevoli a uno sviluppo endogeno e libero dei nuovi stati che stavano emergendo dalle lotte di liberazione anti-coloniali; dall’altra, le amministrazioni repubblicane degli anni Cinquanta coltivavano una politica di maggiore equidistanza tra Israele e gli stati arabi. Perciò, gli Usa videro nell’azione franco-britannica e israeliana un motivo di grave turbativa della delicata situazione strategica del Medio Oriente in cui miravano, in prospettiva, a svolgere un ruolo più attivo e determinante, ma senza la zavorra delle velleità franco-britanniche. Come ha detto Marco Mariano in questo stesso convegno si trattava anche di evitare che l’avventurismo anglo-franco-israeliano coagulasse un risentimento anti-occidentale nei paesi arabi, potenzialmente pericoloso per gli equilibri della guerra fredda.
18Colpite dalla condanna dell’Onu, ma soprattutto dall’ostilità degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, la Gran Bretagna e la Francia rimasero isolate e furono costrette ad accettare il cessate il fuoco e a ritirare le loro truppe. Israele oppose maggiore resistenza, ma alla fine anch’esso, nei primi mesi del 1957, abbandonò il Sinai e Gaza. Nell’aprile 1957 il canale fu riaperto alla navigazione e, contrariamente alle aspettative degli occidentali, gli egiziani si rivelarono perfettamente in grado di gestirne il traffico e di pilotare le navi. I proventi del canale costituirono da allora in poi, insieme al turismo e allo sfruttamento del petrolio del Sinai, una delle voci principali dell’economia nazionale.
19Le conseguenze della guerra di Suez sono state importanti e vanno ricordate in dettaglio. L’umiliazione del “vecchio” colonialismo franco-britannico è in fondo la meno significativa: dopo tutto, il processo di fondazione di nuove compagini statali e nazionali in Asia e Africa era ormai irreversibile, e la pretesa delle antiche metropoli colonialiste di rallentarlo o porlo sotto tutela era mero wishful thinking. Piuttosto, la guerra rilanciò e consolidò la figura di Nasser come leader incontrastato del mondo arabo e dell’Egitto come fer-de-lance del terzomondismo. Naturalmente, l’Egitto non sarebbe riuscito a resistere da solo alla spallata militare, ma quella che poteva essere una disfatta si trasformò per Nasser e il suo paese in uno straordinario successo politico e di immagine. Tale successo, innanzi tutto, catalizzò i fermenti di unità araba, assai vivi dopo la seconda guerra mondiale e soprattutto negli anni Cinquanta, che si erano già concretizzati nella formazione di un partito socialista panarabo, il Ba‘th, attivo sia in Siria sia in Iraq, portando infine alla costituzione dell’effimera Repubblica araba unita (Rau, 1958-1961) tra la stessa Siria e l’Egitto nasseriano.
20In secondo luogo, la crisi di Suez, unita ai più sopra ricordati bombardamenti di Gaza e al caso Lavon del 1955, modificò profondamente la percezione che Nasser aveva di Israele. Come ha scritto Aburish:
Secondo Khaled Mohieddin, «Nasser non chiuse mai la porta alla pace [con Israele]; la lasciò sempre aperta. Era pronto a contattare [gli israeliani] sull’argomento». Mohieddin parlava dei primi tempi e ovviamente sottolineava il fatto che Nasser aveva sempre creduto possibile la pace con Israele. La figlia di Nasser, Hodà, comunque, ha contestato le affermazioni di Mohieddin e ha dichiarato: «Mio padre sapeva che gli israeliani non volevano la pace, per cui decise che era impossibile tentare di arrivarvi. L’unica volta che egli accettò una proposta di pace fu al fine di rendere manifesta l’ipocrisia di Israele». Il figlio più giovane di Nasser, ‘Abd al-Hakim, ha fornito una terza, più complicata spiegazione riferendo di come l’ex ministro degli esteri britannico Anthony Nutting, colui che aveva firmato l’accordo per l’evacuazione delle forze inglesi da Suez, una volta avesse detto al primo ministro israeliano David Ben Gurion di avere buone notizie per lui. Nasser era più preoccupato di migliorare lo standard di vita del popolo egiziano che di fare la guerra a Israele. Ben Gurion lanciò un’occhiata a Nutting e disse: «E voi le chiamate buone notizie?»10.
La risposta, se il colloquio è vero, è significativa. Ben Gurion, dall’alto del suo prestigio, era il capofila dei “falchi” israeliani, insieme ai generali Moshe Dayan e Yitzhak Rabin, che premevano per una guerra preventiva contro l’Egitto. Nasser, che in precedenza non aveva affatto chiuso la porta a possibili intese di pace, si arroccò in una posizione via via più intransigente nei confronti di Israele, ormai percepito come nemico irriducibile del mondo arabo.
21In questo quadro criticamente ricostruito, possiamo tornare a Guy Mollet e sviluppare un’analisi a partire dal suo bilioso riferimento alla Filosofia della rivoluzione di Nasser, definita, come si ricorderà, un Mein Kampf in miniatura.
22Cosa contiene innanzi tutto la Filosofia della rivoluzione?11. Nasser non era certo un filosofo, né lo millanta. Il primo capitolo della Filosofia della rivoluzione si apre proprio ammettendo che non si tratta di filosofia. Si tratta piuttosto di una riflessione auto-chiarificatrice in cui il rivoluzionario Nasser, ormai giunto al potere, conforta in primo luogo sé stesso sui motivi della sua azione politica, finalizzata a un rinascimento dell’Egitto cui si rivolgeva il suo cuore di acceso nazionalista. Il libello occupa tuttavia un posto non secondario tanto dal punto di vista della teorizzazione del panarabismo, quanto dal punto di vista della definizione dei rapporti tra le masse egiziane e il loro leader come venivano prefigurandosi nel pensiero del presidente.
23Per quanto ci riguarda, lasciando da parte le questioni relative alla teoria della rivoluzione militare, è importante ricordare, con una citazione ampia estrapolata dalla terza parte dello scritto, le due principali dottrine internazionaliste formulate da Nasser:
Se il tempo ci impone il suo svolgimento, lo spazio ci impone la sua realtà. Ecco perché è importante il luogo che noi occupiamo … Ma qual è questo luogo?
La capitale in cui viviamo? No. Il nostro paese, racchiuso nei suoi confini? No. È passato il tempo dell’isolamento.
A volte, seduto alla mia scrivania, assorto nelle mie meditazioni, mi domando: “Qual è il nostro compito in questo mondo agitato? E come lo dobbiamo svolgere?”.
Se esamino gli avvenimenti che ci riguardano, delimito le regioni che saranno il campo della nostra azione, dello spiegamento di tutte le nostre energie …
Possiamo ignorare i popoli arabi che ci circondano, che formano con noi un blocco compatto e che hanno la nostra stessa storia e i nostri stessi interessi?
Possiamo ignorare la presenza del continente africano in cui viviamo per volere del destino, e in cui, sempre per volere del destino, si è sviluppata una lotta per il suo avvenire, di cui, volenti o nolenti, subiremo le conseguenze?
Possiamo ignorare la presenza del mondo musulmano, legato a noi dalla religione e dalla storia? Il destino è inesorabile.
La civiltà musulmana e l’eredità islamica minacciate dai Mongoli ormai padroni delle antiche capitali dell’Islam non vennero inutilmente difese dall’Egitto, che respinse l’invasione mongola ad ‘Ayn Jalût.
[…] Non vi è dubbio che la sfera araba è la più importante e la più stretta a noi. Essa si è mescolata con noi nella storia. Noi abbiamo subito le stesse prove e attraversato le stesse crisi e, quando cademmo sotto gli zoccoli dei conquistatori, anch’essa si trovava sotto la stessa oppressione. Questa sfera si è mescolata con noi anche per la religione; i centri dell’irradiamento religioso si sono spostati nelle sue capitali dalla Mecca a Kufa e poi al Cairo. […] Riguardo alla seconda sfera, quella del continente africano, dirò che noi non possiamo, neanche se volessimo, restare appartati dalla spaventevole lotta che si svolge nelle profondità dell’Africa tra cinque milioni di bianchi e duecento milioni di africani. Non possiamo appartarci per la ragione evidente che noi siamo in Africa. […] La terza sfera, la sfera islamica, si estende oltre i continenti e gli oceani, unendo popoli dalla stessa fede. La mia fiducia nell’efficacia positiva del rafforzamento del baluardo musulmano tra tutti i musulmani si è corroborata allorché andai con la missione diplomatica egiziana nel regno arabo saudita.
[…]
Quando tento di comprendere la nostra forza, non posso perdere di vista i tre elementi principali sui quali essa riposa. Il primo è che noi siamo un agglomerato di popoli vicini, intimamente connessi da legami materiali e morali. Di più: i nostri popoli [arabi] hanno un proprio carattere e una propria civiltà che già fu la culla delle tre grandi religioni [monoteiste], fattore che non potrà essere trascurato nella concezione di un mondo stabile, organizzato pacificamente. Il secondo elemento è il nostro territorio [egiziano] stesso, con la sua posizione sulla carta geografica, che ne fa un nodo strategico di altissima importanza, dato che l’Egitto è il crocevia delle vie di trasporto mondiali. Resta il terzo elemento, quello del petrolio, sangue della civiltà e del progresso. Le grandi industrie e i mezzi di comunicazione terrestri, marittimi e aerei, le armi, gli aeroplani, i sottomarini, tutte queste cose non potrebbero esistere senza il petrolio.
[…]
Quanto al continente africano, dirò semplicemente che in nessun modo possiamo restare ai margini dell’orribile sanguinosa lotta che attualmente si combatte nel centro dell’Africa, tra 5 milioni di bianchi e 200 milioni di neri. Non possiamo farlo per il semplice fatto che siamo in Africa. Tutti i popoli del continente faranno convergere su di noi i loro sguardi, su di noi che siamo i custodi della porta settentrionale di questo continente e il suo trait d’union con il mondo esterno. Ci è dunque impossibile rinunciare alle nostre responsabilità di aiuto e di assistenza né di abbandonare lo scopo di estendere la nostra civiltà, sia pure nel cuore della foresta vergine. Resta poi una questione importante, quella del Nilo, arteria vitale della nostra patria e le cui sorgenti si trovano nel centro dell’Africa.
È evidente che il continente africano sia attualmente teatro di un significativo fermento e che l’uomo bianco, rappresentante di numerosi stati europei, si sforzi di spartirselo. Noi non possiamo disinteressarci della sua sorte. Come vorrei vedere il giorno in cui si creasse al Cairo un grande Istituto africano che si assumesse il compito di svelare i differenti aspetti del continente, di inculcare nei nostri spiriti il sentimento nazionale africano, di contribuire al risveglio e alla prosperità dei popoli di questo continente!
Resta la terza zona, quella che si estende attraverso l’immensità dei continenti e degli oceani; la zona della comunità religiosa il cui centro è La Mecca. Al mio arrivo in Arabia Saudita per presentare, alla testa della delegazione egiziana, le nostre condoglianze per la scomparsa del grande re12, mi sono reso conto della portata che potrebbe avere il consolidamento del legame che unisce i popoli musulmani.
Piamente raccolto davanti alla Kaaba, sentivo i miei pensieri abbracciare tutti i paesi che portano l’impronta dell’Islam, e mi dicevo: “La nostra concezione del pellegrinaggio deve cambiare. La visita alla Kaaba non deve più essere solo il biglietto d’entrata del Paradiso, né un tentativo ingenuo di comperare il perdono divino. Il pellegrinaggio può avere una forza politica enorme. La stampa mondiale dovrà interessarsene, non sotto il punto di vista dei riti e delle tradizioni, ma considerandolo come un congresso politico periodico, che riunisce ogni anno i dirigenti degli stati islamici, gli uomini che fanno opinione, gli ulema, gli scrittori, i commercianti, i capitani d’industria, così come la gioventù, allo scopo di studiare le grandi linee di una politica comune a tutte le nazioni musulmane”.
Vorrei che queste masse fossero raccolte, ma forti; senza ambizioni, ma attive; sottomesse a Dio, ma timorose dell’avversario; sognatrici di un’altra vita, ma coscienti della missione che devono compiere sulla Terra. Mi ricordo di aver confidato qualcuno di questi pensieri a sua Maestà il re Sa‘ud. “Questo è effettivamente il vero motivo del pellegrinaggio, mi rispose, in verità non saprei immaginarne un altro”. Quando penso che vi sono 80 milioni di musulmani in Indonesia, 50 milioni in Cina, molti milioni in Malesia, nel Siam e il Birmania, 100 milioni circa in Pakistan, più di 100 milioni nel Medio Oriente, 40 milioni in Unione Sovietica e diversi milioni in altri paesi lontani, quando immagino, dicevo, queste centinaia di milioni di anime unite dal vincolo di una stessa fede, la mia certezza nella possibilità di una solidarietà che unisca tutti i musulmani diventa sempre più grande.
La teoria dei “tre cerchi” è ben nota13: l’Egitto si trovava al crocevia di tre mondi, quello arabo, africano e islamico, e dunque poteva ambire ad essere la guida di tutti e tre. D’altro canto, vi era una originale interpretazione politica del dovere religioso islamico del pellegrinaggio a Mecca. Il pellegrinaggio doveva diventare l’appuntamento annuale in cui le forze alternative, terzomondiste, dell’arabismo e dell’Islam convergevano per opporre fronte unito all’imperialismo.
24Non deve stupire che la leadership di Nasser sul mondo arabo si sia ammantata di toni, almeno esteriormente, “religiosi”. Già al Congresso generale arabo-islamico, tenuto al Cairo nell’agosto 195314, Nasser aveva esaltato la forza e le meraviglie della fede, con accenti che richiamavano la storia e la tradizione islamiche più classiche. Nemico della religione si ergeva, invece, il colonialismo (isti‘mar), che, nell’ottica di Nasser, non aveva vinto sui popoli arabi per sua «virtù», ma grazie alla divisione e alla debolezza degli stessi arabi, incapaci di formare un fronte unico che di per sé sarebbe invincibile. «Quando gli arabi e i musulmani si sono arresi alla viltà e alla tirannia», scriveva il presidente, «l’ira di Dio si è scatenata e la sua luce ha incominciato ad abbandonarci, poiché noi abbiamo lasciato la via della verità e della cooperazione sulla via di Dio, la via della sopportazione (sabr) e della lotta (jihad)».
25Nasser accusava esplicitamente le classi dirigenti arabe dell’epoca liberale, anteriore alla seconda guerra mondiale, di essere le principali colpevoli, a causa della loro ipocrisia e disonestà, dei mali che avevano travolto i loro popoli: «Il colonialismo non si è retto sulla potenza delle armi e della violenza, poiché sapeva che armi e violenza nulla possono contro la determinazione di un popolo profondamente persuaso dei suoi diritti alla libertà, e profondamente convinto della sua forza. Il colonialismo si è retto sulla disonestà e sull’ipocrisia diffuse tra gli stessi arabi». È un giudizio nettamente politico, nonostante la retorica sulla determinazione e consapevolezza rivoluzionaria delle masse, che condannava tutta un’esperienza di pseudo-occidentalizzazione e che, certamente, partiva da una meditata considerazione storica sulle vicende egiziane.
26Proseguiva Nasser:
O arabi! O musulmani! Se volete il riscatto, sacrificatevi come un tempo si sono sacrificati i vostri avi all’epoca delle Crociate! Allora gli arabi – musulmani e cristiani allo stesso modo –, hanno difeso la loro libertà e il loro onore, mentre la stella dell’arabismo si offuscava a causa dell’attività dei malvagi.
O arabi! Se desiderate la vittoria, dovete ritornare a Dio, dovete lottare senza posa contro l’occupazione coloniale che si è imposta nelle vostre terre… O arabi! Non temete l’aggressività e la forza del colonialismo poiché Dio è ben più potente di ogni atto di forza compiuto a torto. “Quelli cui dice la gente: ‘S’adunano i nemici per perdervi, temeteli!’, tali discorsi non fanno che accrescerne la fede e rispondono: ‘Ci basta Dio, ed è buon protettore’” (Corano, 3,173).
Io giuro su Dio che l’Egitto, da cui proviene la voce della libertà e della verità, e che ha snudato la spada per difendere l’arabismo e l’Islam, si è ripromesso…di rafforzare la sua alleanza con gli altri popoli arabi, al fine di realizzare tra di essi una cooperazione (ta‘âwun) attiva in ogni specie di ambiti e al fine di consolidare l’unità (jami‘a) di tutti gli stati arabi affinché essi diventino gli strumenti al servizio dei loro popoli, l’uno all’altro consociati.
Come si vede, Nasser dosava sapientemente lo stimolo all’orgoglio nazionale arabo con il richiamo al valore della fede – senza perdere di vista il fatto che non tutti gli arabi sono musulmani. Nelle sue parole, l’Egitto si proponeva con tutta evidenza come il polo catalizzatore delle forze antimperialistiche e riformatrici di tutto il mondo arabo mediorientale, ricco di una tradizione storica che ha avuto nell’Islam l’ideale ispiratore, ma che era ancora capace di superare, in nome dell’arabismo, i confini di stato, e finanche di religione.
27Queste scelte dovevano definitivamente allontanare Nasser dal campo occidentale, verso cui inclinava in realtà per natura, essendo rigorosamente anti-comunista come abbiamo detto, per rivolgersi a est, verso l’Unione Sovietica. Dalla guerra di Suez, insomma, non solo il Medio Oriente, ma tutto l’equilibrio geopolitico internazionale uscirono profondamente trasformati, e gli effetti si videro negli anni Sessanta e Settanta, quando cominciò la prematura e precoce disgregazione del mondo arabo appena costituito.
28L’eredità del nasserismo è stata comunque di grande momento nel mondo arabo-islamico, ma, in senso più ampio, in tutto il processo di decolonizzazione e di liberazione dei popoli del cosiddetto Terzo e Quarto Mondo. Del resto, questa eredità non è stata isolata e asettica rispetto alle correnti islamiche, come dimostra il carattere certamente islamico – e socialista – di almeno parte importante della rivoluzione algerina15 o, addirittura, il richiamo a un “socialismo islamico” dei Fratelli Musulmani16. Nonostante le storture che l’hanno accompagnata, l’azione politica di Nasser, da questo punto di vista, è risultata largamente positiva, e ha contribuito all’emergere e all’affermarsi di nuove realtà statuali e politiche, quella algerina e yemenita in primo luogo, ma anche indirettamente quella libica.
Bibliographie
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Qala al-Ra’is: Majmu‘a Khutab wa Ahadith al-Ra’is Gamal ‘Abd al-Nasir (Ha detto il Presidente: raccolta di affermazioni e discorsi di Nasser), Cairo, Dar al-Hilal.
Notes de bas de page
1 Si veda almeno il Dossier a mia cura: 1916-2016: come cambia il Medio Oriente cento anni dopo gli accordi Sykes-Picot in Campanini (2016), pp. 81-92. Sulla storia contemporanea dei paesi arabi cfr. ancora Campanini (2017) e Guazzone (2018).
2 Cfr. Owen (2005).
3 Formalmente l’Egitto era diventato una monarchia indipendente nel 1922, ma era rimasto in realtà legato a doppio filo all’ex-potenza coloniale, la Gran Bretagna, che dettava legge sulla sua politica estera, ma anche interna relativa alla sicurezza. Anche la rivoluzione degli Ufficiali Liberi nel 1952 non può essere considerata il vero momento della liberazione, che si concretizzò definitivamente appunto nel 1956 con la nazionalizzazione del canale di Suez e la definitiva espulsione di ogni residuo “straniero” dal paese. Per la storia contemporanea dell’Egitto fino a Mubarak, e in particolare sull’età nasseriana, mi permetto di rinviare a Campanini (2018).
4 Cfr. la narrazione in Aburish (2004), p. 60 e ss. La biografia di Aburish è la più autorevole delle ultime e più aggiornate. Recentemente ha riflettuto in senso ampio sul periodo nasseriano Gerges (2018).
5 Aburish (2004), p. 57.
6 Si veda anche Lacouture (1972), p. 339 e passim.
7 Cfr. Daumal - Leroy (1970), pp. 164-65.
8 Citato in Lacouture (1972), pp. 164-65.
9 Cfr. Shlaim (2003).
10 Aburish (2004), p. 60.
11 Nasser (2003); il ministero egiziano dell’informazione aveva pubblicato diverse versioni in più lingue del pamphlet e qui si usa quella catalogata K Var 2343 della biblioteca Sormani di Milano.
12 Allude alla morte del re saudita ‘Abd al-‘Aziz Ibn Sa‘ud, scomparso nel 1953.
13 Cfr. già Calchi Novati (1983).
14 Si veda il discorso riportato in Qala al-Ra’is: Majmu‘a Khutab wa Ahadith al-Ra’is Gamal ‘Abd al-Nasir (Ha detto il Presidente: raccolta di affermazioni e discorsi di Nasser), pp. 64-69.
15 Cfr. già Calchi Novati (1969).
16 Cfr. M. Campanini, Il socialismo dell’Islam: Mustafà al-Siba‘i e il nasserismo, in Atti del Convgno di SeSaMO Migrazioni. Idee, culture e identità in Medio Oriente e Nord Africa, a cura di M. Ruocco, in «Meridione – Nord e Sud del Mondo», III, n. 1-2, 2003, pp. 186-203.
Auteur
(†) – Professore associato, ha insegnato nelle università Orientale di Napoli e di Trento. Attualmente è Accademico dell’Ambrosiana di Milano e professore a contratto allo IUSS Pavia e al S. Raffaele di Milano. Ha pubblicato quarantanove libri tra cui Philosophical Perspectives on Modern Qur’anic Exegesis (Equinox 2016). Negli ultimi anni ha riproposto la Storia del Medio Oriente Contemporaneo (il Mulino 2019, sesta edizione) e la nuova edizione completamente rinnovata della Politica nell’Islam. Una interpretazione (il Mulino 2019).
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