Il XX Congresso: potere e società di fronte all’eredità di Stalin
p. 23-49
Texte intégral
Nikita Sergeevič! Noi, operai addetti al taglio del bosco a Verchovskij, le siamo grati per aver trovato il coraggio di dire al popolo la verità e di aver reso noti fatti che mostrano che non possiamo accordare la nostra fiducia né a Lei né al governo. Per noi Lenin è sacro, e vogliamo fare come lui ci insegnato: tutto il potere ai soviet!1
1Questa laconica missiva, trovata in tasca a un giovane operaio, prontamente arrestato dal Kgb verso la metà di aprile del 1956 nella regione di Archangel’sk, investe il nodo di fondo della destalinizzazione avviata col rapporto segreto di Chruščev al XX Congresso, riunitosi nel febbraio: il problema della legittimità del Partito e, segnatamente, dei dirigenti sovietici – tutti implicati, in misura minore o maggiore, nel terrore – a continuare a governare il Paese, mantenendo il monopolio del potere. Proprio la valenza politica della denuncia dei crimini di Stalin, strettamente connessa alla questione della colpa e della responsabilità, è a mio avviso all’origine del carattere altalenante e contraddittorio che ebbe la destalinizzazione negli anni del disgelo chruščeviano. Segnata da coraggiose avanzate e repentine ritirate, la destalinizzazione fu infatti condizionata, oltre che dalla sorda lotta in seno al gruppo dirigente e dai mutevoli equilibri al vertice, dalla tensione costante fra la volontà di contenimento del Partito, che temeva di perdere il controllo della situazione, e la spinta verso una liberalizzazione del regime che il risveglio della memoria dello stalinismo e la domanda di giustizia generavano nella società sovietica. Questo è quanto questo articolo si propone di mostrare sulla base della ricca documentazione pubblicata negli ultimi anni, che ha aperto un primo, importante spiraglio sull’impatto che ebbero le rivelazioni di Chruščev nella società. Mi limiterò in questa sede a prendere in considerazione le vicende del 1956, che permettono di mettere in luce la particolare dinamica innescata, nelle relazioni fra il potere e la società, dalla denuncia dei crimini di Stalin e il modo in cui questa dinamica si combina da una parte con le dinamiche interne al gruppo dirigente e, dall’altra, con i timori e le reazioni suscitati al Cremlino dall’andamento della destalinizzazione negli altri Paesi del blocco sovietico, in particolare in Polonia e in Ungheria, scosse fin dalla primavera da un’ondata di proteste, percepite dai dirigenti sovietici come un mero effetto della propaganda dell’imperialismo americano, il cui scopo era distruggere il socialismo.
2Il testo è suddiviso in tre parti. Nella prima si analizza il rapporto segreto, mettendone in evidenza le finalità, che consistevano nel trovare una via d’uscita al terrore che permettesse di salvare il regime. La seconda è dedicata alle reazioni che il rapporto suscitò nella società, reazioni rimaste quasi del tutto ignote fino all’apertura degli archivi seguita al naufragio dell’Urss; la terza, infine, affronterà le dinamiche che porteranno, alla fine dell’anno, a tacitare il rapporto e a restaurare l’ordine. Nelle conclusioni, ci si chiederà quanto i meccanismi che le vicende legate al rapporto Chruščev aiutino, più in generale, a individuare alcune costanti nelle lunghe durate della storia russa.
Il «rapporto segreto»: uscire dal terrore e salvare il regime
3Il rapporto segreto di Chruščev fu il risultato della ricerca, affannosa e affrettata, di una strategia che permettesse di trovare una via d’uscita dal terrore, cioè assicurare un ritorno alla legalità che ponesse fine alla dittatura, e di salvare nel contempo il regime. La storia della genesi del rapporto è ormai nota, e mi limiterò a ricordarne alcuni momenti di particolare rilievo ai fini del nostro discorso. Il gruppo dirigente sovietico venne a trovarsi, a ridosso del Congresso, a doversi barcamenare sullo stretto crinale fra l’impossibilità di tacere e il rischio che l’aprire il vaso di Pandora del terrore comportava. Inizialmente, infatti, non era stato affatto previsto di affrontare davanti alle assise del Partito la spinosa questione della pesante eredità del dittatore, come testimonia la relazione di apertura presentata da Chruščev al Presidium il 28 dicembre, in cui non vi era alcun cenno alle repressioni né alcuna critica esplicita a Stalin, ancora presentato secondo i canoni della propaganda come il grande prosecutore dell’opera di Lenin con qualche vago accenno al «culto della personalità», la formula anodina entrata in voga subito dopo la scomparsa del dittatore per indicare la tirannia2. Proprio in quei giorni, tuttavia, si accentuarono le pressioni all’interno del Partito perché venisse fatta luce sulle repressioni degli anni precedenti alla guerra, e il 31 – mancava soltanto poco più di un mese al Congresso – lo stesso Chruščev propose di costituire una commissione di inchiesta, che venne affidata a Petr Pospelov3; figura ben navigata, Pospelov era stato un alto responsabile, negli anni Trenta, della propaganda ed era stato quindi uno degli artefici del culto di Stalin (era stato fra l’altro fra gli autori del Breve corso di storia del Partito comunista (bolscevico) e dell’apologetica biografia del dittatore del 1947). Con l’intensificarsi nel corso del 1955 delle riabilitazioni delle vittime del terrore degli anni Trenta e col moltiplicarsi delle testimonianze sulla loro innocenza, diventava in effetti sempre più difficile attenersi alla comoda tesi assolutoria con cui si era addossata tutta la colpa sulla «banda di Berija», senza interrogarsi sulle responsabilità di Stalin, se non altro perché l’anima nera del dittatore non era, durante il 1937-38, alla testa della Nkvd, la potente polizia politica: Berija, che ne era stato a lungo il capo a partire dal 1939 e teneva in pugno con la paura tutti gli eredi di Stalin, era stato infatti arrestato, quindi fucilato, già nel 1953, ed era stato additato alla popolazione come il responsabile del terrore4. Le richieste di giustizia inoltrate ai dirigenti di partito dai familiari delle vittime suscitavano un disagio palpabile in seno allo stesso Presidium, dove al profondo dissenso politico sul nuovo corso, che agli occhi della vecchia guardia staliniana (Molotov, Kaganovič e Vorošilov in testa) andava sempre più assumendo il sapore di un tradimento5, veniva ad assommarsi il divaricarsi del giudizio sul dittatore scomparso – a novembre, Chruščev e Kaganovič (Molotov era assente) si erano scontrati rudemente sulle celebrazioni per l’anniversario della nascita di Stalin6. Inoltre, per quanto le riabilitazioni avvenissero in sordina e si cercasse in tutti i modi di nascondere l’entità delle repressioni – è dell’agosto del 1955 l’istruzione data al Kgb di rispondere alle richieste di notizie dei familiari dei condannati a «dieci anni senza diritto alla corrispondenza», la formula anodina usata per mascherare le esecuzioni, falsificando le date di decesso, perché risultassero morti di malattia durante la detenzione7–, il ritorno dei sopravvissuti ai lager, con i loro raccapriccianti racconti, che rimbalzavano sottovoce di bocca in bocca fra amici e conoscenti, dando vita a un’infinità di dicerie, suscitava inquietanti interrogativi. Questi, nel vuoto ideologico che si era venuto a creare – Stalin era stato avvolto dopo la scomparsa da un imbarazzato silenzio –, restavano senza risposta e alimentavano quella destalinizzazione spontanea che, brutalmente soffocata nel dopoguerra, riprendeva a travagliare, se non la società, per cui non abbiamo dati, almeno le più sensibili élites intellettuali8. Nel partito, abituato a conformarsi ligiamente alla linea data dall’alto, il silenzio su Stalin provocava un forte disorientamento: nemmeno i responsabili sapevano più cosa si dovesse pensare9. In questa situazione, le aspettative che il Congresso – il primo che si riuniva dopo la morte di Stalin – facesse infine chiarezza erano assai diffuse, anche fra i comunisti stranieri, rimasti orfani senza capire. Di questi stati d’animo ha lasciato una bellissima testimonianza, per esempio, un membro della delegazione italiana, il triestino Vittorio Vidali, nel suo Diario del XX Congresso10.
4Tacere, in questa situazione, era quindi difficilmente possibile. E anche rischioso. Di questo i dirigenti sovietici divennero ben consapevoli al più tardi all’inizio di febbraio, come risulta dalle due sedute del Presidium del 1° e del 9 febbraio in cui si decisero le sorti di quello che sarà il rapporto segreto. A giudicare dagli scarni protocolli, le sedute furono sconvolgenti. Nella prima venne chiamato a testimoniare Rodos, che era stato responsabile dell’Ufficio istruttorio del Nkvd fin dagli anni Trenta ed era noto come uno dei più efferati torturatori11; nella seconda Pospelov diede lettura al rapporto della Commissione, da cui emergeva un quadro agghiacciante, nel complesso assai veritiero e ricco di particolari, del terrore: lo sterminio delle élites, che era stato il punto di partenza, era infatti iscritto all’interno delle operazioni di massa che erano state scatenate nel 1937-1938 contro centinaia di migliaia di «onesti cittadini sovietici» assolutamente innocenti12. Fin dalla prima delle due sedute, quando un funzionario membro della commissione, Aristov, autore, con Pospelov, della stesura del rapporto, chiese: «Compagno Chruščev, ci basta il coraggio per dire la verità?», nessuno si oppose apertamente, nonostante le palesi reticenze della vecchia guardia staliniana all’idea di affrontare il tema delle repressioni al Congresso, anche se si pensava ancora che bastasse forse aggiungere qualcosa al rapporto di apertura di Chruščev13. Fu proprio nel corso di questa seconda seduta, dopo lo shock provocato dalla relazione Pospelov, che apparve chiaro che l’enormità di quanto emerso non poteva essere affrontata a margine del rapporto di apertura, ma necessitava di un rapporto a sé. E fu allora che i rischi insiti nel tacere apparvero maggiori di quelli insiti nel parlare: come disse Bulganin dopo aver sottolineato che il cambiamento di atteggiamento dei dirigenti nei confronti di Stalin era palese agli occhi di tutti, «se non diremo niente al Congresso, diranno che abbiamo avuto paura», e Švernik, che aveva anche lui preso parte ai lavori della commissione, aggiunse che «adesso il Comitato centrale non può tacere, altrimenti sarà la piazza a parlare»14. Racconta Mjkojan, dal canto suo, di aver detto allora a Chruščev che «se non lo facciamo noi a questo congresso, e lo farà qualcun altro prima del prossimo, tutti avranno il diritto di considerarci pienamente responsabili per i crimini del passato»15: e questo faceva paura a tutti.
5La decisione di affrontare il discorso sulle repressioni al Congresso fu dunque una scelta obbligata, e per questo condivisa, dal gruppo dirigente sovietico, attento a rispettare le norme non scritte della responsabilità solidale (krugovaja poruka) – un istituto la cui storia, nella lunga durata della storia russa e sovietica, sarebbe probabilmente preziosa per capire il costituirsi di mentalità e comportamenti degli attori sociali e politici ben più delle elucubrazioni sulle peculiarità del cammino storico della Russia. Se tutti concordavano quindi che si dovesse parlare al Congresso, tutti erano altrettanto d’accordo sul fatto che la verità, così come veniva delineandosi, fosse indicibile. La relazione Pospelov, che è stata curiosamente sottovalutata dagli storici16 ed è invece un documento di primaria importanza per capire l’operazione messa in atto col rapporto segreto, indicava infatti senza mezzi termini che, se era stato Stalin, con la complicità del Politbjuro, ad orchestrare il terrore, erano direttamente coinvolti nelle repressioni non solo, ovviamente, la Nkvd, ma anche il partito a tutti i livelli e gli apparati dello Stato, a cominciare dal sistema giudiziario. Fin dalla prima delle due sedute, il primo febbraio, davanti al palesarsi della responsabilità del Politbjuro nello sterminio del gruppo dirigente eletto dal XVII Congresso, quel “congresso dei vincitori” che si era riunito nel 1934 per celebrare l’avvenuta costruzione del socialismo, Vorošilov mise le mani avanti:
Il Partito deve sapere la verità, ma bisogna presentarla come la vita lo esige. L’epoca è stata condizionata dalle circostanze […] C’è stata una parte di Stalin? Si, c’è stata. Le porcherie sono state molte, dite giusto, compagno Chruščev, ma bisogna riflettere bene, per non gettare il bambino con l’acqua sporca 17.
Chruščev, che aveva asciuttamente concluso, dopo la deposizione di Rodos, «È Stalin il colpevole!»18, convenne a sua volta che la verità andava contenuta entro limiti accettabili: «Bisogna prendere una decisione negli interessi del Partito […] Non parlare del terrore al Congresso. Bisogna abbozzare una linea – rimettere Stalin al suo posto»19. Per Chruščev, dunque, dire la verità significava denunciare la responsabilità di Stalin – e questo sarà il filo conduttore del rapporto segreto – senza però coinvolgere il partito. L’interpretazione della tragedia che si era abbattuta sul Paese venne abbozzata nella seduta seguente. Nonostante la malcelata resistenza della vecchia guardia, nessuno osò opporsi apertamente a riconoscere le colpe di Stalin; fu sul giudizio da dare sul capo scomparso che si delineò una frattura. Molotov, spalleggiato da Kaganovič e Vorošilov, che esortavano alla prudenza e a mantenere il «sangue freddo» insistette infatti per difendere i meriti di Stalin, chiedendo che fossero ricordati: come aveva già detto il 1° febbraio, era necessario «ristabilire la verità. Ma la verità è anche che sotto la guida di Stalin ha vinto il socialismo»20; quanto alle repressioni, tutti e tre sottolinearono il fatto che bisognasse tener conto delle «circostanze», e cioè della presenza di nemici che dovevano esser combattuti21. Per il terzetto, e soprattutto per Molotov, il più compromesso nelle repressioni (glielo aveva ricordato anche Mikojan il 1° febbraio), difendere Stalin equivaleva a difendere se stessi, e questa era anche la funzione che avevano le affermazioni sull’esistenza dei «nemici» – donde in seguito l’insabbiamento della riabilitazione dei vecchi bolscevichi (Bucharin, Rykov, Kamenev ecc.), affidata a una commissione presieduta appunto da Molotov. Nel corso dell’animata discussione che seguì, venne trovato un compromesso che presentava notevoli vantaggi per tutti. Si trattava di dividere l’epoca staliniana in due periodi ben distinti, prendendo come spartiacque il 1934 (Bulganin), l’anno dell’assassinio di Kirov, il prestigioso leader del partito di Leningrado presentato poi come presunto «rivale» di Stalin: fino a quel momento Stalin aveva diretto «eroicamente» la costruzione del socialismo, poi aveva usurpato il potere (Mikojan), esautorando il Comitato centrale e il Politbjuro (Pervuchin). Per quel che riguardava il terrore, bisognava limitarsi, come suggerì Suslov, che sarà il grande ideologo dell’epoca brežneviana, allo sterminio dell’élite dirigente del Partito – far luce sulla sorte dei delegati e dei membri del Comitato centrale eletto al Congresso dei vincitori era stato del resto il mandato iniziale della Commissione Pospelov. Soltanto Šepilov, allora direttore della Pravda, e Ponomarenko, il ministro della Cultura del disgelo, ricordarono lo sterminio di centinaia di migliaia di innocenti, ma le loro voci restarono isolate. Così come quella di Saburov, il vice premier, che disse che l’epoca non poteva essere divisa in due perché Stalin era uno solo, e che non si doveva parlare di «difetti», come faceva Kaganovič, ma di «crimini»22. Al termine della discussione, si decise di affidare alla Commissione Pospelov, in vista del rapporto da fare al congresso, la stesura di una nuova relazione che tenesse conto delle indicazioni emerse dalla seduta; restò in sospeso, invece, chi avrebbe dovuto leggere il rapporto: il Presidium prese tempo per riflettere23.
6Il timore che la denuncia dei crimini di Stalin suscitava fra i dirigenti sovietici e la volontà di contenerne il carattere dirompente emergono dalla seduta del Presidium del 13 febbraio, che decise di affidare a Chruščev il rapporto e di tenerlo accuratamente segreto, dandone lettura in una seduta a porte chiuse, riservata ai soli delegati sovietici, da tenersi dopo la conclusione dei lavori del Congresso24. Il risultato di questa decisione sarà l’atmosfera surreale in cui si aprirono, in una sorta di tempo sospeso, i lavori del Congresso, che provocò, a stare alle testimonianze, sconcerto e disorientamento fra i delegati25: la statua e i ritratti di Stalin erano stati tolti dalla sala, dove troneggiava solo Lenin; un imbarazzato Chruščev nominò Stalin soltanto quando, in apertura, chiese un minuto di silenzio per onorare la memoria dei dirigenti comunisti deceduti dall’ultimo Congresso: e per giunta lo mise in ordine alfabetico, fra il tedesco Gottwald e lo sconosciuto ai più Tokuda, leader dei comunisti giapponesi. Disorientati, i delegati dovettero aspettare il quarto giorno per tributare un sentito applauso all’idolo scomparso, calorosamente incensato dal comunista francese Thorez.
7Il rapporto segreto venne preparato da Chruščev, come è noto, durante i lavori del congresso utilizzando il canovaccio della seconda relazione della Commissione Pospelov, in cui non restava nulla del rigore e dell’asprezza del testo originario, soprattutto per quel che riguardava le operazioni di terrore di massa26. Vi aggiunse anche molto del suo, soprattutto sulla guerra, come mostra la trascrizione della dettatura; il testo, epurato dei passaggi più emotivi e colloquiali, venne poi approvato dal Presidium27. Fin dal titolo, Sul culto della personalità e le sue conseguenze, il rapporto indicava entro quali limiti andava contenuta la pur coraggiosa denuncia dei crimini di Stalin – un termine, questo, usato del resto malvolentieri. In sostanza, Chruščev sosteneva che Stalin, di cui sottolineava, richiamandosi all’autorità di Lenin, la capricciosità e la mancanza di scrupoli, avesse usurpato il potere, accumulando nelle sue mani un potere smisurato, basato sul culto della personalità, di cui sottolineava l’irriducibile estraneità al marxismo. Impadronitosi del potere assoluto, Stalin lo aveva utilizzato per far regnare la paura e l’arbitrio più totale nel Paese, eliminando tutti coloro che bollava come nemici, sterminati nelle repressioni degli anni Trenta e del dopoguerra. Nel denunciare il terrore, Chruščev si limitava tuttavia, come era stato concordato, alle repressioni che avevano colpito le élites in tutti i settori, a cominciare dal partito (e, in particolare, dal destino di delegati ed eletti del XVII Congresso), passando invece sotto silenzio il terrore di massa che si era abbattuto in modo indiscriminato sulla società ed era stato largamente documentato da Pospelov nel suo rapporto originario. Chruščev denunciava con particolare veemenza anche le responsabilità di Stalin nella disastrosa condotta militare nei primi due anni di guerra, demolendo così il mito del Generalissimo, che era diventato nel dopoguerra la componente predominante del culto di Stalin.
8Con il rapporto segreto, Chruščev compiva quindi una duplice operazione. Da una parte dissociava Stalin, presentato come un despota paranoico assetato di potere personale, dal Partito, scaricando sul solo dittatore la responsabilità delle tragedie vissute dal Paese col Terrore e la guerra. Assolto da ogni responsabilità, da artefice della carneficina il Partito si trasformava quindi nella prima vittima del dittatore – da qui l’insistenza sul destino dei delegati e degli organi dirigenti eletti dal XVII Congresso, incarnazione simbolica del Partito inteso come organo collettivo di direzione della società – e conservava quindi intatta la legittimità a governare il Paese, secondo quanto postulato dalla dottrina bolscevica. In questa rilegittimazione del partito, il tema del ritorno a Lenin, di cui, come era stato deciso dal Presidium su suggerimento della Commissione Pospelov, erano stati distribuiti ai delegati il Testamento e alcuni altri scritti che non figuravano nelle opere complete edite sotto Stalin, aveva un ruolo cruciale, perché permetteva al tempo di stesso di dissociare Stalin da Lenin e di ristabilire una continuità ideale fra il padre fondatore e il partito: il Partito, avanguardia delle masse e depositario dell’eredità leninista, era infatti, per Chruščev, il vero artefice della costruzione del socialismo in Urss e della vittoria sul nazismo. Stalin non era affatto il grande prosecutore dell’opera intrapresa da Lenin con la rivoluzione, come si incaponiva a sostenere Molotov28, ma aveva segnato una profonda discontinuità, che ora il Partito si apprestava a risanare, restaurando i principi leniniani traditi dal dittatore. Da questo punto di vista, il rapporto segreto e i documenti leniniani si completavano a vicenda. Limitare il problema dello stalinismo – un termine che avrà diritto di cittadinanza in Urss solo con Gorbačev – alla figura di Stalin, che aveva usurpato il potere esautorando il Partito, permetteva quindi a Chruščev di legittimare la politica seguita dal gruppo dirigente sovietico dopo la morte del tiranno per ricondurre il Paese sulla retta via: restaurare il potere del Partito, ristabilendo il principio della direzione collegiale e le norme di funzionamento interno, senza mettere in discussione il sistema. D’altra parte, la scelta dell’assassinio di Kirov come punto di partenza della «perversione» del socialismo, seppur aveva una parziale giustificazione nella legislazione speciale contro il terrorismo allora adottata in cui si riconosceva l’origine del terrore, permetteva a Chruščev di affermare che fino a quel momento il Partito, sotto la direzione dello stesso Stalin, aveva portato a termine con successo la costruzione del socialismo, trionfalmente celebrata dal Congresso dei vincitori all’inizio del 1934. Le repressioni che avevano accompagnato la «grande svolta» staliniana del 1929, la tragedia della collettivizzazione, la violenza sociale che aveva segnato l’industrializzazione forzata, l’annientamento delle opposizioni in seno al Partito venivano così giustificate in nome di quelle ferree leggi della storia di cui il Partito era il portatore. Questa lettura postulava che sul corpo «sano» del socialismo si fosse innescata, nella seconda metà degli anni Trenta, la variabile impazzita di Stalin. Questo era il senso della riduzione dello stalinismo al semplice problema del culto della personalità, che implicava l’idea che bastasse che il Partito se ne liberasse, tornando alla collegialità leniniana, perché la società sovietica potesse riprendere la sua marcia trionfante verso il comunismo, in cui probabilmente Chruščev fu l’ultimo dei dirigenti sovietici a credere davvero.
La società di fronte al rapporto segreto
9Nonostante tutte le precauzioni, la denuncia dei crimini di Stalin, anche in forma così edulcorata, faceva paura ai dirigenti sovietici, che temevano le reazioni all’interno dello stesso Partito – donde la decisione di non aprire gli interventi dopo il rapporto di Chruščev e di demandare a un futuro plenum sull’ideologia (che non si terrà mai) di tirarne le conclusioni– e ancor più quelle della società. Ancora una volta il gruppo dirigente sovietico si trovava a barcamenarsi sullo stretto crinale fra i rischi che la divulgazione del rapporto implicava per la legittimità del regime e i rischi insiti invece nel mantenere il rapporto assolutamente segreto. Se infatti divulgarlo significava esporsi al rischio che le reazioni della società travalicassero quanto il Cremlino era disposto ad accettare, tenerlo segreto significava mettersi in balia delle voci, che in una società pre-Gutenberg quale era quella sovietica avevano già cominciato a circolare ed erano ben difficili da controllare: si pensi se non altro ai fatti di Tbilisi, dove l’idolatria di Stalin, nativo della Georgia, era particolarmente forte e dove la rivelazione dei crimini del dittatore assunse il sapore di un tradimento del nuovo gruppo dirigente, sfociando in una rivolta sedata soltanto con l’intervento delle truppe29. Senza contare i delicati equilibri interni al gruppo dirigente, sempre più diviso al suo interno. La divulgazione consolidava infatti le posizioni di Chruščev, che col rapporto aveva legato i suoi destini alla denuncia di Stalin e alla destalinizzazione, sia all’interno del Partito che del Paese – basterà ricordare che anche la Achmatova si definirà una chruščevka, una seguace di Chruščev. Il silenzio rafforzava, invece, le posizioni della vecchia guardia staliniana, che, per il suo diretto coinvolgimento nel terrore, aveva più difficoltà a scrollarsi di dosso il peso della responsabilità e agitava lo spauracchio degli effetti che l’ammissione del terrore poteva avere per la stabilità del regime. In un certo senso, le repressioni divennero una sorta di materiale compromissorio che avrebbe potuto essere usato per metterla fuori gioco, come avverrà al plenum del luglio del 1957, dove l’aspro scontro politico sulla via da seguire scivolerà in secondo piano rispetto alla resa dei conti per il passato30. Chruščev d’altronde era ben consapevole della situazione, ed è probabile che sia stato lui stesso a lasciare intendere ai dirigenti del Partito polacco, durante la visita a Varsavia a marzo, di non esser contrario a far uscire il rapporto31. A render ancora più incandescente l’atmosfera c’era l’ondata di proteste in Polonia e in Ungheria, percepita dai dirigenti sovietici come mero effetto della propaganda dell’imperialismo americano, pronto ad approfittare della fase critica che l’Urss attraversava per sferrare il colpo decisivo al socialismo sovietico.
10Il risultato fu la decisione piuttosto barocca di pubblicare il rapporto unicamente ad uso interno, ma di renderne ampiamente noto il contenuto attraverso le assemblee di partito, presto aperte a tutti i simpatizzanti32. Una scelta, questa, che denotava la volontà di tener sotto controllo e contenere le reazioni che la denuncia dei crimini di Stalin suscitava.
11Nonostante tutte le precauzioni, le reazioni del pubblico suscitarono fin dal primo momento un forte allarme nel Partito, come mostra la ricca documentazione pubblicata negli ultimi anni sullo svolgimento delle assemblee. Le minuziose relazioni redatte dai funzionari di partito sulle discussioni mettono infatti in luce uno spaccato inedito del modo in cui la società accolse il mea culpa del regime. Per la loro stessa natura e per la fonte da cui emanano – cioè gli apparati di partito addetti alla propaganda e alla sorveglianza del rispetto dell’ideologia ufficiale, formatisi nella piena accettazione dei valori staliniani e ora timorosi di essere travolti dal cambiamento –, questi rapporti non consentono naturalmente di misurare la diffusione degli umori critici registrati, ma rivelano l’allarme suscitato dagli effetti della denuncia dei crimini di Stalin, che andavano ben oltre ciò che il Partito era disposto a tollerare.
12Quel che preoccupava il Partito non era tanto l’ondata di rigetto, liberatoria e iconoclasta, del dittatore, di cui sono testimonianza le notizie sulle pagine strappate dei libri e sui ritratti di Stalin stracciati, spesso dati alle fiamme, sulle statue e i monumenti vandalizzati, nonché sulle restituzioni di decorazioni con la sua effige e via dicendo33. Puntigliosamente registrati, questi atti suscitavano, sì, una spesso malcelata disapprovazione, che traspare, per esempio, dall’insistere sul fatto che si trattasse di «casi isolati», locuzione d’uso in tutte le sue varianti per circoscrivere le opinioni sgradevoli senza mettere in discussione l’operato degli apparati di propaganda: sono, per esempio, «comunisti isolati» che chiedono di togliere Stalin dal Mausoleo (una richiesta che torna spesso) – e persino di punirlo con la damnatio memoriae. Questa disapprovazione era dovuta in parte anche all’inusitata «spontaneità» del processo, fonte di gravi difficoltà per gli zelanti funzionari del Partito, che non sapevano come reagire. Il disorientamento degli apparati di propaganda emerge del resto chiaramente dall’insistente richiesta a Mosca di istruzioni: che fare dei ritratti di Stalin e delle sue opere? Quali considerare ancora valide? Cosa rispondere alle domande incalzanti su quando sarebbero stati tolti i ritratti del dittatore, quando ne sarebbe stato tolto il nome dagli innumerevoli luoghi che lo portavano e quando, infine, il suo corpo imbalsamato sarebbe stato tolto dal Mausoleo? Come spiegare quel che era successo?34 Richieste insistenti, che sembravano riecheggiare le voci lontane dei sacerdoti che nel 1917, dopo il crollo dello zarismo, si levavano da tutti gli angoli della Russia profonda per chiedere al patriarcato istruzioni sul che fare dei ritratti dello zar portati avanti nelle processioni, per chi pregare Dio durante la messa, ora che lo zar non c’era più35.
13Ad allarmare il Partito era soprattutto il fatto che la critica di Stalin andava spesso ben al di là degli stretti limiti imposti dal rapporto segreto e investiva le responsabilità dei vertici del Partito, mettendo in discussione il sistema stesso. Da un capo all’altro dell’Urss rimbalzavano, come un coro sommesso, gli stessi interrogativi insistenti: come era stata possibile una tale tragedia? Come si poteva credere che Stalin fosse il solo colpevole? Dove guardava, allora, il Politbjuro? E dov’erano, quando il dittatore era vivo, i dirigenti del Partito, che oggi avevano trovato il coraggio di parlare? Perché lo avevano osannato per trent’anni? Perché non avevano parlato prima? Perché non avevano fatto niente? Non dovevano ora assumersi anche loro la loro responsabilità e magari dimettersi? Perché il rapporto non era stato discusso al Congresso? Non serviva forse un congresso straordinario per rifondare il Partito, rinnovando i dirigenti? Dov’erano le garanzie che il passato non si ripetesse? Saliva dalla società anche una domanda di giustizia: che Stalin venisse processato (nonché escluso dal Partito!), che pagasse chi si era macchiato le mani di sangue innocente, che le vittime fossero riabilitate pubblicamente, e non solo alla chetichella36 – una richiesta, questa, che resterà senza risposta fino alla perestrojka.
14Preoccupavano il Partito, in particolare, le discussioni negli ambienti intellettuali e studenteschi, da sempre temuti come la peste e monitorati con particolare attenzione. Era soprattutto in questi ambienti, infatti, che la fragilità delle spiegazioni offerte dalla teoria del culto della personalità per spiegare le tragedie vissute dal Paese provocava maggiore insoddisfazione37 e spingeva ad andare oltre, varcando con facilità i limiti consentiti. Non solo, infatti, ci si chiedeva se i vecchi bolscevichi mandati al macello da Stalin come «nemici del popolo» – Bucharin, Trockij, Kamenev, Zinov’ev – non fossero vittime innocenti, se la politica alternativa che proponevano non avrebbe imposto un tributo di sangue meno elevato al Paese per costruire il socialismo38: già questa riabilitazione delle opposizioni, davanti alla quale si era fermato lo stesso Chruščev, metteva in discussione il diritto degli eredi, che proprio con la sconfitta della «vecchia guardia» e i suoi seguaci erano stati promossi ai vertici del potere39, a continuare a dirigere il paese. Ma c’era ben di più. L’idea, che torna con una certa frequenza, che Stalin fosse un tiranno più feroce di Ivan il Terribile – forse anche, in una singolare inversione, il risultato della propaganda che fin dal finire degli anni Trenta, e soprattutto durante la guerra, ne aveva magnificato il ruolo nella storia russa (si pensi alle vicende del film di Ejzenštejn, ma non solo) –, che il terrore che aveva fatto regnare facesse impallidire perfino l’Inquisizione, che le repressioni zariste prima della rivoluzione, stigmatizzate dalla storia ufficiale, fossero, a confronto, ben poca cosa e, soprattutto, l’idea che si fosse instaurato un regime dispotico e feudale, con una casta di privilegiati – il Partito – che aveva ridotto in stato di schiavitù la popolazione, e in primo luogo i contadini, si potevano difficilmente conciliare con la visione chruščeviana di un Paese in cui, nonostante tutto, aveva trionfato il socialismo40. A meno di non considerare invece che proprio quello fosse il socialismo, un’idea, questa, che sarà all’origine del progressivo distacco dell’intelligencija dai valori socialisti e dello stesso dissenso. Stati d’animo di questo genere erano diffusi persino in quel sancta sanctorum dell’ortodossia che avrebbe dovuto essere l’Accademia di Scienze sociali presso il Comitato centrale, dove si era apertamente negata la natura socialista del regime. Boris Kedrov, figlio di un vecchio bolscevico ucciso nelle repressioni, sostenne infatti che il regime poggiava su una casta di dignitari, la nomenklatura, che schiacciava la popolazione per difendere i propri privilegi, e su uno smisurato apparato propagandistico: non era quindi socialismo, ma il risultato della degenerazione di un sistema che si sarebbe voluto socialista. Seppur nessuno osava nominare Trockij, il nemico per eccellenza, era facile riconoscerne il lascito. E per giunta, con sommo disappunto degli addetti al rispetto dell’ideologia, nessuno si era levato per protestare contro questa critica radicale41. A stare ai rapporti, non sembra, più in generale, che fossero frequenti i casi in cui Stalin veniva difeso. L’idea di una subitanea conversione del Paese appare difficilmente credibile; è più probabile che, davanti all’enormità dei fatti rivelata da Chruščev, chi aveva creduto ciecamente nel mito del padre del popolo, così come chi era maggiormente compromesso col regime (ed erano milioni!), preferisse tacere, senza esporsi42.
15Dalle critiche radicali alla dittatura staliniana, che mettevano in discussione tutto il gruppo dirigente, scaturivano le richieste di una liberalizzazione del regime, che era quello che più temeva il Partito. Il caso più noto, che permette di cogliere tutte le implicazioni che aveva la denuncia del terrore e del regime staliniano, è quello dell’organizzazione del Partito del laboratorio di fisica nucleare dell’Accademia delle Scienze, dove alcuni giovani ricercatori avevano contestato alla fine di marzo senza tanti peli sulla lingua il rapporto di Chruščev. Capofila dei contestatori era Jurij Orlov, che era un frontovik, un ex combattente (aveva aderito al Partito durante la guerra), e sarà poi una personalità di primo piano del dissenso. Per Orlov, in Unione sovietica c’era sì il socialismo, ma non la democrazia: era un regime di servitù, dove lo «spirito di schiavitù» regnava sovrano pure nel Partito. Quel che serviva era la democratizzazione del Paese, con la libertà di stampa in primo luogo (gli attacchi alla pratica di soffocare le radio straniere tornano con una certa frequenza). Orlov, che rivolgendosi all’uomo della Sicurezza aveva persino osato chiedere, con una certa sfacciataggine, se ora si poteva parlare o si veniva repressi, fu sostenuto da altri giovani ricercatori, sotto lo sguardo benevolo degli studiosi più anziani che cercarono di difenderli dall’ira dei guardiani dell’ortodossia – ma senza successo, come si vedrà più avanti43. Va notato, però, che nessuno dei giovani ricercatori rifiutava, allora, i valori del socialismo e del comunismo, né prendeva a modello l’Occidente capitalista: chiedevano però un cambiamento radicale e si ribellavano all’ipocrisia della propaganda, che, ora come ai tempi di Stalin, dipingeva un mondo inesistente, e chiedevano la libertà, perché senza libertà non ci poteva essere nemmeno il socialismo. «È necessaria la democratizzazione piena della nostra vita: il socialismo ci sarà quado avremo la certezza che si può vivere senza doversi guardare continuamente intorno», disse Orlov, dopo aver constatato che «per quel che riguarda le cose principali, nel nostro partito tutto è rimasto come prima: il vecchio spirito di servilismo, il nostro apparato statale e di partito è invaso da gente di tal sorta. La stampa è piena di arrivisti e di gente che attacca l’asino dove vuole il padrone»44.
16La documentazione attualmente disponibile non consente di valutare la diffusione di questi stati d’animo anche soltanto negli ambienti intellettuali e studenteschi, e ancor meno nell’insieme del corpo sociale. È possibile che fra i ceti popolari le rivelazioni di Chruščev venissero accolte con maggiore indifferenza45. Per chi aveva sperimentato sulla propria pelle la violenza sociale del regime staliniano nel dopoguerra – la stragrande maggioranza della popolazione concentrazionaria alla morte di Stalin era costituita non da politici (appena il venti per cento), ma da uomini comuni colpiti dalla draconiana legislazione sulla disciplina del lavoro, sui «furti» della proprietà socialista e via dicendo46 –, le ammissioni di Chruščev dovevano apparire troppo lontane e distanti dalla verità. Giocava probabilmente anche il senso di estraneazione rispetto al potere, riassunto nell’antica contrapposizione “noi-loro”: Chruščev, avendo scelto di parlare solo delle élite – e del Partito in primo luogo –, e cioè di “loro”, senza toccare il terrore di massa, aveva finito per escludere il grosso della popolazione dal processo avviato.
Il Partito davanti alla reazione della società: l’instaurarsi della dinamica repressiva
17Le richieste, per quanto caute, di una liberalizzazione del regime che scaturivano dalla denuncia dello stalinismo innescarono immediatamente la reazione del Partito, a tutti i livelli. Il malcontento degli apparati, timorosi di esser travolti, emerge chiaramente dai rapporti, che fin dalla metà di marzo, davanti all’ondata di critiche, insistevano puntigliosamente nel sottolineare allarmati gli «interventi politicamente immaturi, diffamatori e ostili», «demagogici», gli «eccessi, le comparazioni e le contrapposizioni scorrette» che avevano luogo durante le discussioni47. Questo allarme, forse esagerato, offriva agli apparati l’occasione per chiedere al Partito di prendere provvedimenti, trovando ascolto in quanti ai vertici erano contrari alla divulgazione del rapporto Chruščev. Il caso della già ricordata organizzazione del Partito del laboratorio di fisica nucleare dell’Accademia delle Scienze permette di cogliere con precisione la dinamica innescata dal radicalismo delle critiche emerse durante la discussione. La prima riunione, il 23 marzo, durante la quale intervennero Orlov e gli altri, si concluse senza che venisse adottata alcuna risoluzione, che fu rinviata a una successiva riunione, perché la discussione, a quanto emerge dalla laconicità del resoconto, non portò a un’approvazione della richiesta, caldeggiata dal Partito, di condannare gli eretici. Per riprendere in mano la situazione e ottenere la condanna voluta, il 24 mattina la sezione politica dell’organizzazione del partito si mise al lavoro di buona lena. Il primo passo fu ricostruire, col maggior numero di dettagli possibili, gli interventi dissonanti di Orlov e dei suoi compagni: a tal fine, la sezione politica, dopo essersi consultata con i superiori, convocò gli iscritti uno per uno, facendo pressione perché alla riunione successiva, convocata per due giorni dopo, il 26, prendessero la parola contro i «seri errori politici» commessi dagli incauti giovinotti… Qualcuno si prestò a sottostare a questa pratica umiliante, ma molti intervennero per difendere appassionatamente gli accusati; allora scese in campo in persona il responsabile della Direzione politica dell’esercito da cui l’istituto, che si occupava appunto di nucleare, dipendeva; ma i tempi stavano cambiando, e il suo intervento venne addirittura interrotto dalle urla di alcuni scienziati. Chiamati ad ammettere i propri errori, Orlov e gli altri non solo rifiutarono di farlo, ma rincararono la dose. La risoluzione di condanna raccolse tuttavia solo due voti in più di quella assolutoria; venne sdegnosamente respinta, senza metterla ai voti, la proposta degli scienziati di affidare la risoluzione alla sola riunione di partito dei settori scientifici, che avrebbe valso presumibilmente agli eretici l’assoluzione, poiché nessun uomo di scienza aveva accettato di condannarli in pubblico. In effetti, come ammette il rapporto, la risoluzione era passata grazie ai voti degli amministrativi e gli scienziati avevano fatto di tutto per ottenerne l’annullamento, o perché condividevano, almeno in parte, quanto detto, o perché consideravano più importante difendere la libertà dei giovani contestatori – cose entrambi inaccettabili per il Partito. Forte della vittoria riportata, il capo della Sezione politica dispose quindi l’esclusione degli eretici dal Partito e il loro licenziamento (il laconico commento è assai eloquente: «non si possono lasciare nel laboratorio, perché si sentiranno degli «eroi» e continueranno a sobillare i colleghi»); dispose ugualmente una sanzione (un richiamo, il biasimo) per chi aveva osato difenderli. L’incidente fu inoltre il pretesto per sciogliere la cellula dei settori scientifici e fonderla con quella dei settori amministrativi, ben più malleabili e disposti, per convinzione o per comodo, a seguire la linea data48. E la vicenda non si chiuse lì. I guardiani dell’ortodossia ottennero l’intervento del Presidium del Comitato centrale, che il 5 aprile stigmatizzò «gli interventi di elementi antisovietici» nella discussione sul rapporto e approvò la purga dell’organizzazione49. La Pravda scese in campo per stigmatizzare gli «eccessi» nella denuncia di Stalin, mettendo in guardia dalle «espressioni insane», sintomo del cedimento alla «propaganda nemica»50. Veniva così a rinsaldarsi il nesso fra il nemico interno, che chiedeva libertà e democrazia, e il nemico esterno, che con la propaganda – la radio (la Bbc, Radio Liberty), pericoloso veicolo del contagio occidentale che molti chiedevano di poter ascoltare in pace – sobillava la ribellione in Urss e nei Paesi satelliti, dove il fermento non cessava di aumentare. Questo nesso, che era uno dei topos della propaganda staliniana, veniva rianimato tanto più facilmente perché era sin dalle origini profondamente radicato nella cultura politica bolscevica, che, profondamente segnata dall’esperienza della prima guerra mondiale e della guerra civile, tendeva a leggere ogni forma di opposizione, protesta o dissenso come il risultato delle macchinazioni di forze avverse, eterodirette, il cui scopo finale era l’abbattimento del socialismo sovietico. E questa visione, che ovviamente delegittimava ogni forma di opposizione o dissenso, faceva tanto più facilmente presa perché traeva nutrimento da immaginari ben più antichi, di matrice anche religiosa, in cui era profondamente radicata l’idea dell’eterna lotta fra le forze del bene e le oscure forze del male, che per celare la loro “vera” natura assumevano sembianze ingannatorie e seducenti.
18Per quanto fosse un primo, serio avvertimento, la condanna di Orlov e dei suoi compagni fu certo un deterrente51, ma non servì a frenare la discussione, che anzi andò radicalizzandosi; forni anche ai conservatori, però, un’arma per costringere Chruščev e i suoi sostenitori a scendere a più miti consigli. La vicenda sembrava infatti dar ragione a quanti nel Partito si erano opposti alla denuncia dei crimini staliniani e ancor più alla sua divulgazione. Quello stesso 5 aprile, questi ottennero, su pressione di Molotov, che non venisse resa pubblica la decisione di procedere alla spedita liberazione dei prigionieri politici ingiustamente condannati che ancora languivano nei campi, da realizzare con la creazione di commissioni plenipotenziarie del Presidium del Soviet Supremo che rivedevano i casi direttamente nei luoghi di detenzione; Chruščev, favorevole alla pubblicazione, fu costretto a fare marcia indietro52. Fra le molteplici implicazioni di questa decisione, vi fu non solo il fatto che la domanda di giustizia che saliva dalla società rimase inevasa, approfondendo il solco che separava governanti e governanti e compromettendo la già fragile relazione di fiducia che l’ammissione delle responsabilità per il terrore avrebbe potuto portare a ricomporre, il che favorì l’ulteriore radicalizzazione delle posizioni. Il fatto che la riabilitazione delle vittime della dittatura venisse fatta in sordina compromise, più in generale, il processo di elaborazione collettiva della tragedia vissuta dal Paese, con un grave pregiudizio per il futuro. A questa prima frenata ne seguirono nelle settimane successive altre in crescendo. Il 13 aprile, venne raggiunto un compromesso salomonico sui ritratti da esporre per il primo maggio: Stalin venne ufficialmente tolto, ma i manifestanti furono lasciati liberi di decidere da sé53. Alla fine di aprile, Molotov e Kaganovič rifiutarono di approvare il progetto di storia del Partito destinato a sostituire il Breve Corso, perché non rendeva giustizia ai meriti di Stalin54. A maggio, il Presidium si spaccò sull’ordine del giorno del Comitato centrale che avrebbe dovuto ufficializzare e render pubblico il rapporto segreto. La relazione sull’argomento di Šepilov, il direttore della Prvada favorevole, come si ricorderà, alla divulgazione di quanto appreso, non venne approvata; Malenkov, schieratosi con la vecchia guardia (era fra l’altro implicato nell’affare di Leningrado, che aveva portato nel dopoguerra alla decapitazione del gruppo dirigente cittadino, sospettato di una fedeltà non totale al dittatore), commentò sprezzante che la risoluzione proposta non era che una mera ripetizione di quanto già detto al Congresso. Il 1° giugno, infine, si decise di rinviare la convocazione delle contestate assise del Partito all’autunno55. Rinviato un’altra volta a dicembre, il Plenum sull’ideologia non si terrà mai. Alla fine di giugno, mentre le agitazioni in Polonia e in Ungheria mettevano a nudo gli effetti destabilizzanti che la denuncia dello stalinismo aveva anche nei Paesi del blocco socialista (a Poznań la protesta operaia venne stroncata dall’esercito, lasciando sul terreno almeno 50 morti), Chruščev, lui stesso sconcertato, fu costretto ad accettare la ritirata: a nome del Comitato centrale, il Presidium adottò la risoluzione «Sul superamento del culto della personalità e le sue conseguenze», che snaturava totalmente il rapporto segreto secondo i voleri dei suoi oppositori. La risoluzione, che avrà un’importanza capitale, perché resterà fino alla perestrojka l’interpretazione ufficiale – e normativa – dello stalinismo, fissava i limiti all’interno dei quali la denuncia del passato era ammessa: riconosceva i meriti di Stalin nella costruzione del socialismo e riduceva a semplici «errori», per quanto «seri» e «inaccettabili», i crimini di cui il dittatore si era macchiato, sorvolando discretamente sui dettagli delle repressioni di massa, appena accennate e imputate allusivamente, come ormai era consueto, alla banda di Berija, bollato come un traditore al soldo dell’imperialismo. Il testo riaffermava solennemente la natura socialista dell’Urss (i tentativi di metterla in discussione erano solo frutto della «campagna diffamatoria» orchestrata dalla borghesia imperialista) ed esaltava il ruolo del «nucleo leninista» del Partito nella direzione del Paese. Quanto alla corresponsabilità, erano tutti assolti, perché semplicemente prima della morte di Stalin «non sapevano nulla»56. A metà luglio, una lettera segretissima del Comitato centrale a tutte le organizzazioni metteva al bando ogni discussione sul rapporto segreto, denunciando gli «interventi contro il partito», che, «col pretesto di condannare il culto della personalità», «calunniavano» il sistema sovietico, e chiedeva l’epurazione degli eretici57. Statue e ritratti di Stalin restarono al loro posto.
19Nemmeno questo richiamo all’ordine, che venne accompagnato da una stretta all’interno del Partito, procedendo all’espulsione o al biasimo di chi si lasciava andare a critiche non ortodosse58, riuscì tuttavia a frenare le energie liberate dal rapporto Chruščev. Dopo l’estate, andò intensificandosi il fermento di studenti, ricercatori e insegnanti nelle università e negli istituti, soprattutto a Mosca, Leningrado e nelle capitali delle repubbliche; sottraendosi al controllo del Partito i giovani intellettuali, attenti a quanto avveniva in Polonia e in Ungheria, si attivavano, dando vita a circoli e club di discussione, animati spesso dalla volontà di trovar la via per dar vita a un socialismo libero dall’eredità di Stalin (è il caso, per esempio, dei giovani storici dell’università di Mosca riuniti intorno a Lev Krasnopevcev)59. Sarà in questa atmosfera effervescente che si forgerà quella generazione di «figli del XX Congresso» o šestidesjatniki, per i quali la rottura radicale con l’eredità dello stalinismo diventerà un dovere morale ancor prima che politico – sarà da questa generazione che nascerà il dissenso e che verranno gli artefici della perestrojka, a partire da Michail Gorbačev. Al fermento giovanile si aggiungeva la fronda dell’intelligencija, che traeva alimento dal rinnovamento letterario permesso dall’allentarsi della censura: basterà ricordare il successo di Opinione personale, di Danil Granin, e, soprattutto, di Non di solo pane, di Vladimir Dudincev, entrambi pubblicati su Novyj mir, che ebbe in quei mesi, e poi negli anni successivi, un ruolo di primo piano nel portare avanti la battaglia per la destalinizzazione. L’enorme interesse suscitato del romanzo di Dudincev, che metteva in causa non un singolo, ma il sistema staliniano in sé, incarnato da un’onnipotente casta di burocrati, è testimoniato dalle numerosissime lettere inviate alla redazione, che mostrano l’importanza del testo nel cristallizzarsi, se non di un’opinione pubblica, di uno spirito pubblico che premeva per radicalizzare la destalinizzazione60. Questo fermento giovanile e intellettuale esasperava le apprensioni del Partito e della Sicurezza, che erano ossessionati dal fantasma del circolo Pethofi, il foyer intellettuale della ribellione ungherese di cui temevano come la peste il contagio. A novembre, dopo il ristabilimento dell’ordine in Polonia e lo schiacciamento nel sangue dell’insurrezione di Budapest, a Mosca venne soffocata la prima, breve primavera che il rapporto segreto aveva suscitato. Il seguito è noto. Costretti a una penosa autocritica, gli scrittori furono chiamati ad allinearsi e a firmare una lettera di sostegno all’intervento in Ungheria; soltanto in pochi rifiutarono. La letteratura venne ricondotta all’ordine; il romanzo di Dudincev venne addirittura tolto dalle biblioteche. Per stroncare la fronda studentesca, si tornò a ricorrere alle repressioni. Un’ondata di arresti colpì i giovani intellettuali; cacciati dalle università, molti vennero condannati a lunghe pene detentive61. A dicembre, una nuova lettera del Comitato centrale esortò le organizzazioni del Partito a portare avanti una lotta senza quartiere «per stroncare le sortite provocatorie degli elementi antisovietici», condannando duramente quanti, prendendo spunto dalla discussione sul culto della personalità, «richiamo all’ordine generale e sferzava le organizzazioni del Partito, accusate di non aver dato prova di vigilanza e fermezza62. Era un invito esplicito a passare alle misure forti.
20Fra la fine del 1956 e il 1957 la denuncia di Stalin venne messa quindi in sordina. Soltanto nell’estate del 1957, dopo il fallimento del tentativo di destituire Chruščev capeggiato dalla vecchia guardia staliniana, la cappa di piombo che sembrava di nuovo scesa sul Paese – molti temevano un ritorno al regime staliniano – si allenterà, permettendo alla società sovietica di iniziare a ricomporre i frammenti della memoria mutilata della dittatura. Ma bisognerà aspettare la perestrojka di Gorbačev perché la denuncia dei crimini staliniani possa essere fatta nella sua completezza e il difficile processo di democratizzazione del paese possa essere intrapreso.
Conclusioni
21Per riassumere, il rapporto segreto innesca una catena di azioni e reazioni che finiscono per sfociare nella brusca frenata di giugno, prima, e in quella più aspra della fine dell’anno, poi. La diffusione del rapporto suscita infatti una spinta alla liberalizzazione nella società che, per quanto limitata, allarma il Partito, consolidando la posizione dei conservatori raccolti attorno alla vecchia guardia staliniana, che in estate ottengono una prima battuta d’arresto. Il fermento studentesco e intellettuale dei mesi successivi, unito all’ondata di proteste in Polonia e Ungheria, che vengono percepite dal gruppo dirigente sovietico come mero effetto della propaganda dell’imperialismo americano, volto a destabilizzare l’Europa orientale per distruggere il socialismo, esasperano il timor panico della società, consustanziale fin dalle origini al regime, consolidando ulteriormente i conservatori. Lo scarso effetto dei primi tentativi di contenimento (richiami all’ordine), unito al timore del «contagio» della contestazione in Polonia e in Ungheria, esacerba l’ossessione del Partito di perdere il controllo della situazione; davanti all’impossibilità di rimettere il genio nella bottiglia, la tentazione di ricorrere alla forza acquista sempre più terreno: in autunno, dopo lo schiacciamento di Budapest in rivolta, l’ondata repressiva mette fine alla prima breve primavera di Chruščev.
22La storia del rapporto segreto permette quindi di mettere a fuoco uno dei meccanismi centrali della destalinizzazione chruščeviana, e, più in generale, della storia sovietica, ben radicato nelle lunghe durate della storia russa, come si può ancor oggi osservare: si tratta di quella particolare dinamica relazionale fra il potere e la società innescata dalla paura che quest’ultima suscita quando, all’allentarsi del controllo, agisce con una sia pur minima libertà, che viene immediatamente percepita come minacciosa per l’ordine sociale, il che provoca una reazione difensiva repressiva. Questa dinamica, di cui la figura del «nemico interno», nelle sue molteplici varianti, è l’incarnazione, è esasperata dall’interazione, reale o immaginaria, con un mondo esterno ostile, che rinfocola il complesso antico della «fortezza assediata» e alimenta il radicalizzarsi della reazione repressiva di un potere autoritario, sì, ma intrinsecamente debole, perché carente di legittimità e di consenso.
Bibliographie
Afanas’ev Iouri N. - Ferro, Marc (1989) (cura), 50 idées qui ébranlent le monde. Dictionnaire de la glasnost’, Payot, Paris.
Ajmermacher, Karl (2002) (cura), Doklad N.S. Chruščeva o kul’te ličnosti Stalina na XX s’’ezde KPSS. Dokumenty, Rosspen, Moskva.
Aksjutin, Jurij (2010), Chruščevskaja “ottepel’” i obščestvennye nastroenija v SSSR v 1953-1956 gg., Rosspen, Moskva.
Artizov, Andrej - Sigačev, Jurij e al. (2000) (cura), Reabilitacija: kak eto bylo. Dokumenty prezidiuma CK KPSS i drugie materialy. Mart 1953-fevral’ 1956, I e II vol., MFD, Moskva.
Chlevnjuk, Oleg (2016), Stalin/. Biografia di un dittatore, Mondadori, Milano.
Chlevnjuk, Oleg - Gorlickij, Joram (2004), Cholodnyj mir. Stalin i zaveršenie stalinskoj diktatury, Rosspen, Moskva.
Dobson, Miriam (2014), Cholodnoe leto Chruščeva. Vozvraščency iz GULAGa. Prestupnost’ i trudnaja sud’ba reform posle Stalina, Rosspen, Moskva.
Fil’cer, David (2011), Sovetskie rabočie i pozdnj stalinizm. Rabočija klass i vosstanovlenie stalinskoj sistemy posle okončanija Vtoroj miravo vojny, Rosspen, Moskva.
Firsov, Boris M. (2010) (cura), Raznomyslie v Sssr i Rossii (1945-2008), Evropejskij universitet, S.Peterburg.
Fursenko, Aleksandr A. (2003) (cura), Presidium CK KPSS 1954-1961. Tom 1. Černovye protokol’nye zapisi zasedanij. Stenogrammy, Rosspen, Moskva.
Kolonickij, Boris I. (2001), Simvoly vlasti i bor’ba za vlast’. K izučeniju političeskoj kul’tury rossijskoj revoljucii 1917 goda, Dmitrij Bulanin, Sankt Peterburg.
Kovaleva, Natal’ja e al. (1998) (cura), Molotov, Malenkov, Kaganovič. 1957. Stenogramma ijun’skogo plenuma CK KPSS i drugie dokumenty, MFD, Moskva.
Kozlov, Vladimir A. (1999), Massovye bezporjadki v Sssr pri Chruščeve i Brežneva, Sibirskij Chronograf, Novosibirsk.
Kulakov, A.A. - Sacharov N. (2007) (cura), Obščestvo i vlast’- Rossijskaja provincia. Tom IV. 1953 g.-1965 g., Čast’ 1. Regional’naja vlast’ i realizacija politiki ‘ottepeli’, Institut Rossijskoj istorii RAN, Moskva-Nižnij Novgorod.
Lazarev, Lazar’ I. (2005), Zapiski požilogo čeloveka. Kniga vospominanij, Vremija stranic, Moskva.
Lejbovič, Oleg (2008), V gorode M. Očerki social’noj povsednevnosti sovetskoj provincii, Rosspen, Moskva.
Mikojan, Anastas (1999), Tak bylo. Razmyšlenija o minuvšem, Vagrjus, Moskva.
Naumov, V., Sigaev, Ju (1999) (cura), Lavrentii Berija. 1953. Stenogramma ijul’skogo plenuma CK KPSS i drugie dokumenty, MFD, Moskva.
Petrov, Nikita (2011), Palači. Oni vypolnjali zakazy Stalina, Novaja Gazeta, Moskva.
Taubman, Uil’jam (2005), Chruščev, Molodaja Gvardija, Moskva (ed. or.: Khrushev: the Man and His Era, W.W. Norton & Co., New York, London 2003).
Tvardovskij, Aleksandr, Gefter, Michail (2006), XX vek. Gologrammy poeta i istorika, Novyj Chronograf, Moskva.
Vidali, Vittorio (1974), Diario del XX Congresso, Vangelista editore, Milano.
Žemkova, Elena et al. (2014) (cura), Pravo perepiski, Memorial, Moskva.
Zubkova, Elena Ju. (1993), Obščestvo i reformy. 1945-1964, Moskva, Rossija Molodaja.
Zubok, Vladislav (2011), Neudavšaja imperija. Sovetskij Sojuz v cholodnoj vojne ot Stalina do Gorbačeva, Rosspen, Moskva.
Notes de bas de page
1 Aksjutin (2010), pp. 219-20.
2 Ivi, pp. 191-92. Per una ricostruzione dettagliata, mi si consenta di rinviare al mio L’eredità difficile. Uscire dal terrore e salvare il regime: il XX Congresso e la destalinizzazione di Chruščev, in «Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa», XXX (2015).
3 Fursenko (2003), pp. 79-80; Artizov - Sigačev (2000), pp. 296, 410.
4 Naumov, Sigaev (1999). Sul ruolo di Berija alla morte di Stalin, si veda, in italiano, Chlevnjuk (2016).
5 Si veda, per esempio, l’aspra discussione sulla relazione di Chruščev alla riunione del Presidium del 30 gennaio 1956: Fursenko (2003), pp. 88-95. Al plenum di luglio 1957, Chruščev verrà accusato di essere fautore di una neo-Nep e di deviazionismo di destra: Kovaleva (1998), pp. 521, 527, 541.
6 Fursenko (2003), pp. 56-57.
7 Artizov - Sigačev (2000), vol., pp. 179, 254-55; Žemkova (2014), pp. 8-19.
8 Si veda, per es., M. Gefter, Déstalinisation, in Afanas’ev - Ferro (1989), p. 371; Tvardovskij, Gefter (2006), pp. 143, 219, 341 e passim; Lazarev (2005), pp. 325 e ss. Servirebbero studi più dettagliati per misurare l’importanza e la diffusione nella società di questo fenomeno.
9 Zubkova (1993).
10 Vidali (1974).
11 Su Rodos, si veda Petrov (2011), pp. 139-50.
12 Fursenko (2003), pp. 99-103. Il rapporto, custodito per decenni nella massima sicurezza, è stato pubblicato in Artizov - Sigačev (2000), pp. 317-48.
13 A. Fursenko (2003), pp. 95-97.
14 Ivi, pp. 100, 102. Luogotenente di Stalin, Bulganin era, all’epoca, capo di Stato; Švernik era il leader dei sindacati e si occuperà in seguito delle riabilitazioni.
15 Mikojan (1999), p. 591.
16 Il rapporto è ora pubblicato in Artizov - Sigačev (2000), pp. 317-48. Curiosamente, non ne parla nemmeno Uil’jam Taubman, autore di una pregevole biografia di Chruščev, v. Taubman (2005).
17 Fursenko (2003), vol. I, p. 96. Il corsivo è mio.
18 Ivi, p. 95.
19 Ivi, p. 97.
20 Ibidem.
21 I tre furono attaccati frontalmente da Aristov («Non sono d’accordo con quel che c’è in comune nelle posizioni di Molotov, Kaganovič e Vorošilov, e cioè “non bisogna parlare”») e da Saburov («Molotov, Kaganovič e Vorošilov hanno una posizione sbagliata, sono ipocriti») (ivi, p. 102).
22 Ivi, p. 102.
23 Fursenko (2003), I vol., p. 103.
24 Ivi, pp. 104-106, e Fursenko (2003), vol. 2, pp. 198-99; Artizov - Sigačev (2000), I vol., pp. 352-53. La data qui indicata, il 9 febbraio, è sbagliata, come risulta anche dalla numerazione dei protocolli.
25 Taubman (2005), pp. 298-99; per una vivace testimonianza si veda anche, in italiano, Vidali (1974), pp. 23-48.
26 Artizov - Sigačev (2000), I. vol., pp. 353-64.
27 Si veda la documentazione pubblicata in ivi, pp. 353-78. Nel testo dettato, per esempio, Chruščev aveva definito Stalin «samodur», termine usato per indicare una persona dotata di scarsa intelligenza ma che agisce con arbitrio assoluto a scapito del buon senso senza che nessuno possa fermarla.
28 Al plenum del luglio 1957, Molotov rimbeccherà a Chruščev di aver tolto dalla relazione al congresso, senza il benestare del Presidium, la frase che riconosceva la grandezza di Stalin, facendo passare di soppiatto la nuova linea, che si riassumeva nel «fare soltanto il processo a Stalin» (Kovaleva 1998), pp. 130-31.
29 Su Tblisi, si veda Kozlov (1999), pp. 155-83. A stare ai lacunosi e laconici resoconti delle sedute del Presidium dell’inizio di marzo, sembrerebbe che proprio i fatti di Tblisi abbiano spinto i dirigenti sovietici a divulgare il rapporto, declassificato da segretissimo a ne dlja pecati.
30 Kovaleva (1998).
31 Taubman (2005), pp. 312-13.
32 Ajmermacher (2002), p. 253.
33 Si veda, per es., Artizov - Sigačev (2000), II vol., pp. 23, 39, 47; Ajmermacher (2002), pp. 417, 434, 467, 469, 484. Cfr. anche Dobson (2014), pp. 113-14.
34 Si veda, per es., Artizov - Sigačev (2000), II vol., pp. 23, 39, 51; Ajmermacher (2002), pp. 412-13, 419.
35 Kolonickij (2001), pp. 60-61.
36 Si veda, per es. Artizov - Sigačev (2000), II vol., pp. 39,47, 49, 50, 51, 54 e passim; Ajmermacher (2002), pp. 450 e passim. Si vedano anche gli esempi cit. in Dobson (2014), pp. 102-107. Come è noto, pochissimi responsabili del terrore verranno puniti: si veda, per es., ivi., pp. 107-108; Artizov - Sigačev (2000), II vol., p. 365.
37 Si veda, per esempio, il documentato resoconto fatto da Anna Pankratova sui suoi incontri a Leningrado in Ajmermacher (2002) pp. 432-48.
38 Si veda, per es., Artizov - Sigačev (2000), II vol., p. 23.
39 Questo era stato il destino dello stesso Chruščev: si veda Taubman (2005).
40 Si veda, per es. Artizov - Sigačev (2000), II vol., pp. 47 e passim. L’idea che il dispotismo di Stalin fosse superiore a quello zarista è espressa anche da un colonnello dell’esercito (ivi, p. 35): sarebbe prezioso avere maggiori informazioni sugli stati d’animo nelle forze armate.
41 Sull’Accademia, si veda Artizov - Sigačev (2000), II vol., pp. 41-43.
42 Questo emerge anche dalle lettere sconcertate inviate ai giornali: Dobson (2014), pp. 108-22.
43 Artizov - Sigačev (2000), II vol., p. 57; Ajmermacher (2002), pp. 448-62.
44 Ajmermacher (2002), p. 451 c.m.
45 Si vedano, per esempio, i resoconti delle assemblee nelle province: L. P. Gordeeva, ’Kul’t ličnosti’: reabilitacija, popytki demokratizacija žizni, in Kulakov - Sacharov (2007), pp. 294-98 e passim. Si veda anche lo studio su Perm’ di Lejbovič (2008).
46 Chlevnjuk, Gorlickij (2004), pp. 152-53; Fil’cer (2011).
47 Artizov - Sigačev (2000), II vol., pp. 47, 49.
48 Ajmermacher (2002), pp. 448-62.
49 Ivi, pp. 448-463; Artizov - Sigačev (2000), II vol., pp. 52-57, 63-65.
50 N. A. Barsukov, Oborotnaja storona ottepeli, in «Kentavr», 1993/4, pp. 135, 138.
51 L’autore di una lettera anonima scrive per esempio: «Sono membro del Partito da 28 anni e mi scuso di non aver firmato la lettera di mio pugno, ma mi sono ricordato del laboratorio di fisica nucleare» (Ajmermacher 2002, p. 571).
52 Fursenko (2003), I vol., pp. 118-19 e II, pp. 221-22, 942; Artizov - Sigačev (2000), II vol., pp. 33, 43-44, 58, 792. È da notare che le vittime erano imputate all’«attività criminale della banda di Berija» e non a Stalin, che non veniva nominato. La decisione di accelerare la liberazione dei detenuti era stata presa l’8 marzo dal Presidium (Fursenko 2003, I vol., pp. 112, 939 e vol. II, pp. 221-22).
53 Fursenko (2003), I vol., pp. 121 e vol. II, pp. 226, 944.
54 Fursenko (2003), I vol., pp. 124-25. La decisione di farlo era stata presa il 27 marzo: ivi, II vol., pp. 265-72.
55 Fursenko (2003), I vol., pp. 136, 139, 943 e vol. II, p. 309; Ajmermacher (2002), pp. 387-88, 325-342. Il rapporto preparato da Žukov sulle repressioni nell’esercito, che investiva anche la guerra, non vedrà mai la luce (ivi, pp. 309-23). Probabilmente tuttavia questo sarà alla base del suo intervento al Plenum del giugno 1957, una durissima requisitoria contro i rimini di Stalin e le responsabilità dirette dei suoi luogotenenti, Molotov e Kaganovič (Kovaleva 1998, pp. 33-42).
56 Ajmermacher (2002), pp. 353-68. Nel testo veniva attaccato anche Togliatti, per aver osato parlare, nell’intervista a Nuovi argomenti, di una certa «degenerazione» dell’Urss (ivi, p. 364).
57 Ivi, pp. 378-85. Uno degli esempi citati era proprio la vicenda del laboratorio di fisica nucleare; la lettera stigmatizzava, in particolare, il fatto che un terzo dei comunisti (gli scienziati) si fosse rifiutato di condannare i ribelli.
58 Si vedano, per esempio, i resoconti delle riunioni di luglio-agosto in Ajmermacher (2002), pp. 549-51, 588-89 e passim.
59 Zubkova (1993), pp. 137-45; Zubok (2011), pp. 243-46; O. Žuravlev, Studenty, naučnaja innovacija i političeskaja funkcija Komsomola: fizfak MGU 1950-1960 gody, in Firsov (2010).
60 Zubkova (1993), pp. 151-53; M. R. Zezina, Šokovaja terapija: ot 1953-go k 1956 godu, in «Otečestvennaja istorija», 1995/2, p. 131.
61 Zubok (2001), pp. 243-249; R. Pimenov, Vospominanija, in «Pamjat’. Istoričeskij sbornik», III, Paris, 1980; “Delo” molodych istorikov (1957-1958), in «Voprosy istorii», 1994/4. Secondo alcune testimonianze, nel 1957-58 c’erano nei campi molti giovani komsomol’cy che avevano preso troppo alla lettera l’invito di purificare il leninismo dall’eredità dello stalinismo (ivi, p. 124). In effetti nel corso della prima metà del 1958 le condanne per «attività antisovietica» aumentarono considerevolmente (N. A. Barsukov, Oborotnaja storona ottepel cit., pp. 140-41).
62 Artizov - Sigačev (2000), II vol., pp. II, 208-14.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Il 1956
Ce livre est diffusé en accès ouvert freemium. L’accès à la lecture en ligne est disponible. L’accès aux versions PDF et ePub est réservé aux bibliothèques l’ayant acquis. Vous pouvez vous connecter à votre bibliothèque à l’adresse suivante : https://0-freemium-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/oebooks
Si vous avez des questions, vous pouvez nous écrire à access[at]openedition.org
Il 1956
Vérifiez si votre bibliothèque a déjà acquis ce livre : authentifiez-vous à OpenEdition Freemium for Books.
Vous pouvez suggérer à votre bibliothèque d’acquérir un ou plusieurs livres publiés sur OpenEdition Books. N’hésitez pas à lui indiquer nos coordonnées : access[at]openedition.org
Vous pouvez également nous indiquer, à l’aide du formulaire suivant, les coordonnées de votre bibliothèque afin que nous la contactions pour lui suggérer l’achat de ce livre. Les champs suivis de (*) sont obligatoires.
Veuillez, s’il vous plaît, remplir tous les champs.
La syntaxe de l’email est incorrecte.
Référence numérique du chapitre
Format
Référence numérique du livre
Format
1 / 3