Il 1956: un anno spartiacque?
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Texte intégral
1Come ogni momento di riflessione coincidente con un anniversario, anche questo convegno costituisce un’occasione per interrogarci su come cambi nel tempo la prospettiva storiografica con cui si guarda a un avvenimento o a un processo. Un fortunato libretto di Luciano Canfora, uscito per la prima volta nel 2008 e ripubblicato quest’anno, definisce il 1956 «l’anno spartiacque»1. E questa definizione è ripresa nel titolo che gli organizzatori mi hanno proposto per questa relazione di apertura: un titolo che ho accettato, anche perché era opportunamente accompagnato da un punto interrogativo. Che il 1956 rappresenti un anno di grande importanza nella storia del Novecento è infatti fuori dubbio2. Ma se per spartiacque intendiamo anche una data periodizzante, una di quelle in cui si condensano in un unico precipitato la fine di uno o più processi storici e l’inizio di altri di segno diverso, allora l’affermazione è più discutibile, e in ogni caso va precisata e articolata per ciascuno dei temi che il convegno si appresta ad affrontare.
2Il compito che mi sono dato è di tenere insieme questi temi nelle loro reciproche connessioni. Al centro del mio discorso, non sempre con lo stesso rilievo, saranno quindi almeno cinque scenari, sui quali l’anno spartiacque produce effetti profondi e in qualche modo irreversibili. Questi scenari sono, nell’ordine in cui ne tratterò, l’Unione Sovietica, i paesi che si definivano di “democrazia popolare”, la vicenda delle relazioni internazionali intrecciata con quella della decolonizzazione, il comunismo del Novecento, e infine il sistema politico italiano e, al suo interno, il travaglio della sinistra, cioè dei partiti comunista e socialista.
3Parlare dell’Unione Sovietica significa entrare subito nel cuore degli avvenimenti che fanno del 1956 un anno memorabile, e cioè parlare del XX Congresso. In realtà nella patria del socialismo la vera cesura c’era già stata, ed era stata la morte di Stalin nel 1953. Le riabilitazioni e il ritorno dei detenuti dal Gulag divennero il simbolo di una svolta. La destalinizzazione, che di fatto cominciò allora, non fu il frutto di un disegno coerente di cambiamento dall’alto. Gli storici la vedono come un processo empirico e contorto, che si intrecciò con la lotta di successione a Stalin e che fu segnata dai limiti culturali e politici dei dirigenti sovietici. In questa prima fase fu Malenkov che diede voce alle due idee-forza probabilmente più significative del cambiamento, la promozione dei consumi e la coscienza che una terza guerra mondiale avrebbe soltanto distrutto l’umanità e non favorito il socialismo. Ma Malenkov non aveva la determinazione necessaria a condurre la battaglia decisiva e probabilmente non gli giovò lo stigma di erede che lo stesso Stalin gli aveva cucito addosso. Così fu Chruščev che si affermò come una sorta di primus inter pares nella direzione collegiale3.
4Il suo “rapporto segreto” al XX Congresso nel febbraio 1956 innescò una catena di eventi destinati a uscire di controllo. La scelta fatta da Chruščev ha spesso destato interrogativi circa le sue intenzioni e la sua capacità di previsione4. In realtà egli fu spinto sì da considerazioni legate alla lotta per il potere (mettere fuori gioco la vecchia guardia stalinista), ma anche dalle motivazioni possiamo dire morali che rivendicò ultime nelle sue memorie: «Per tre anni fummo incapaci di rompere con il passato, di mostrare il coraggio e la determinazione di alzare il velo e vedere tutto ciò che era stato nascosto circa gli arresti, i processi, l’arbitrio, le esecuzioni […] era come se non potessimo liberarci dal controllo di Stalin anche dopo la sua morte»5. In altre parole, Chruščev considerava la sua denuncia di Stalin anche un riscatto dovuto dalle complicità che lo avevano coinvolto e un atto di catarsi individuale e collettiva. Sotto questo profilo, egli non intese semplicemente affermare la propria leadership, ma anche restituire legittimità al potere e dignità ai cittadini sovietici traumatizzati dal terrore. Lo fece con una certa consapevolezza del rischio che si assumeva, e da questo punto di vista il giudizio sprezzante che venne dato da Concetto Marchesi (con il famoso paragone tra Tiberio che aveva avuto come storico della sua tirannia Tacito e Stalin che si era dovuto accontentare di Chruščev)6 è, oltre che poco pertinente sul piano storico, perché Tacito non era il successore di Tiberio, ingiusto e non meritato.
5Il fatto è che Chruščev sfidò i rischi che sapeva di correre perché era ancora fermamente convinto della superiorità del socialismo sovietico sul capitalismo liberale. Lo stesso schema concettuale del “rapporto segreto”, il “ritorno a Lenin” come visione di un’età dell’oro oscurata ma non cancellata da Stalin, rifletteva questa fiducia. Ma agitare il mito di Lenin significava, al tempo stesso, autorizzare l’idea della destalinizzazione come rilancio di una democrazia di massa e partecipata, persino di una libertà sociale, anche se si trattava di qualcosa che poteva essere immaginato, ma non era in realtà mai esistito. La destalinizzazione finì così per innescare un processo difficilmente controllabile di critica, dissenso e ribellione nelle società di tipo sovietico.
6Anche nelle democrazie popolari i primi cambiamenti erano cominciati già dopo la morte di Stalin. Il XX Congresso impresse però loro una direzione e soprattutto un’accelerazione diversa a seconda del terreno, dell’ambiente nazionale, della situazione politica ed economica in cui i suoi effetti si propagarono. Uno storico inglese, Richard Crampton, ha sottolineato giustamente che nel fermento che investì tutti indistintamente i “paesi satelliti” agivano cinque fattori: il primo, comune a tutti, era il disorientamento dei partiti al potere, ai vertici come alla base; gli altri quattro erano nell’ordine una intelligencija insoddisfatta; una classe operaia e contadina scontenta per il basso tenore di vita; un leadership di partito di ricambio in attesa tra le quinte, e un nazionalismo tanto più vivo quanto più alimentato da sentimenti anti-russi7.
7Solo là dove questi fattori si combinarono tutti alla massima potenza l’effetto fu dirompente.
8Lasciando da parte la Jugoslavia, che è un caso a sé, e dove comunque il riconoscimento degli errori e dei crimini di Stalin aveva il sapore di un risarcimento per il partito che aveva avuto l’ardire di sfidarlo, soltanto in Albania i quattro ultimi fattori indicati mancavano del tutto, e quindi l’accoglienza riservata alla svolta che si delineava fu meno che tiepida8. Anche in Romania la destalinizzazione quasi non lasciò tracce. In Bulgaria i cambiamenti furono in superficie maggiori, ma tutta la direzione del partito fu concorde nell’opporsi a correzioni radicali di linea. Rivendicazioni di autonomia e di maggiore democrazia si manifestarono anche in Cecoslovacchia e in Germania orientale, dove vi fu – in nome della restaurazione della “legalità socialista” – appena un certo allentamento della pressione durissima esercita negli ultimi anni dall’apparato del partito e della polizia sulla società civile. Probabilmente, a Berlino Est come a Praga i gruppi dirigenti in carica si sentivano ancora sufficientemente forti, non privi di un certo grado di consenso di massa dovuto anche alle misure economiche che avevano adottato per migliorare le condizioni materiali della popolazione; e, fatto altrettanto importante, erano relativamente uniti al loro interno9.
9La pressione per un’effettiva democratizzazione era invece assai più forte in Ungheria e in Polonia, dove era sostenuta da un movimento di opinione pubblica molto più consistente, e soprattutto animato da più radicali sentimenti anti-russi. La caratteristica principale della situazione polacca era una mobilitazione che coinvolgeva anche la base del partito, con il collegamento sempre più stretto fra i circoli intellettuali e settori consistenti della classe operaia, che puntavano all’istituzione di consigli di fabbrica come organi di autogestione, sul modello jugoslavo; il partito restava malgrado tutto il canale attraverso il quale le spinte al rinnovamento si esprimevano e potevano trovare sbocco. Fu per questo che, dopo la sanguinosa repressione dei moti operai a Poznań in estate, esso riuscì a non lasciarsi sfuggire di mano la situazione e trovò al suo interno una soluzione di compromesso alla crisi, con il ritorno al potere di Gomułka10.
10L’evoluzione degli avvenimenti in Ungheria presenta notevoli analogie con il caso polacco, ma ancor più significative differenze. Imre Nagy, l’uomo designato nel 1953 da Mosca per pilotare un cambiamento di rotta nella politica economica e nel ristabilimento della legalità, fu poi lasciato soccombere dai suoi sponsor nella lotta ingaggiata contro lo stalinista Rakosi, venne escluso dal Politburo e poi espulso dal partito. La notizia dell’esito della crisi polacca, con il ritorno di Gomułka al potere, fece precipitare un equilibrio sempre più instabile. Una dimostrazione di solidarietà con i polacchi, il 23 ottobre, si trasformò in una grande manifestazione popolare che chiedeva il ritorno a capo del governo di Imre Nagy e la condanna di chi aveva violato la legalità durante la dittatura, ma anche il ritiro delle truppe d’occupazione sovietiche e libere elezioni11.
11Per un certo tempo, la crisi polacca parve a Mosca più preoccupante di quella ungherese. Chruščev si recò segretamente a Varsavia il 19 ottobre ed ebbe un incontro molto teso con Gomułka. L’esito pacifico del negoziato sulla Polonia fu alla fine favorito dall’aggravarsi della situazione in Ungheria, e al tempo stesso, scongiurando un impegno su due fronti, consentì di aprire l’opzione dell’intervento armato a Budapest. Sin dalla notte del 23 ottobre, con la sola opposizione di Mikojan, il Politbjuro autorizzò l’invio a Budapest di truppe sovietiche presenti sul territorio ungherese. Molti vedono questo intervento come un passo fatale, perché trasformò un’insubordinazione pacifica di massa in una rivolta violenta. Tuttavia per una settimana diverse opzioni rimasero in campo, come sta a dimostrare il dualismo tra i due inviati di Mosca, Mikojan e Suslov. Tali opzioni riflettevano i dilemmi e le ambivalenze della destalinizzazione.
12I negoziati per una soluzione politica non furono una mera operazione di facciata. Il compromesso raggiunto con Nagy il 30 ottobre, basato sul ritiro delle truppe sovietiche, il riconoscimento del carattere popolare della protesta e l’affermazione della sovranità ungherese, mostrava il volto migliore della destalinizzazione. Tuttavia il compromesso era fragile e ambiguo. Mosca poteva accettare un pluralismo sociale sottoposto al regime monopartitico, non un autentico pluralismo politico, e poteva riconoscere una forma di sovranità socialista soltanto entro il Patto di Varsavia.
13Nei convulsi eventi che portarono a rovesciare il compromesso del 30 ottobre in sole ventiquattr’ore, giocò il ruolo decisivo la paura di una perdita di controllo interno e internazionale. Chruščev ritenne che Nagy non garantisse gli interessi sovietici al pari di Gomułka. Dinanzi al Politbjuro, mostrò forte apprensione per la coincidenza tra le confuse notizie di una crescente destabilizzazione in Ungheria e l’intervento anglo-francese a Suez contro il governo di Nasser, che aveva deciso la nazionalizzazione del Canale. Il fantasma di una offensiva delle forze imperialistiche, potenzialmente in grado di sfociare in una guerra contro l’Urss, era un’ossessione per lui come per tutti gli altri leader cresciuti all’ombra di Stalin. Questo fantasma era condiviso da tutti i principali leader del comunismo internazionale, che infatti (da Tito a Togliatti a Mao Ze dong) ritrovarono temporaneamente la loro unità proprio dinanzi all’invasione dell’Ungheria12.
14Questo ci porta ad affrontare l’impatto degli avvenimenti del 1956 nel sistema delle relazioni internazionali, cioè nel contesto della guerra fredda. Quando si aprì il XX Congresso, si stava in realtà già vivendo una fase di transizione – la cosiddetta “prima distensione” – caratterizzata da diverse novità. Intanto si assisteva ad un’evoluzione nel confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica: l’elezione di Eisenhower alla presidenza americana nel novembre del 1952, con la promessa di una nuova politica estera, e l’attivismo della diplomazia sovietica dopo la morte di Stalin in nome della difesa della pace aprivano uno scenario nuovo, nel quale spiccava la cessazione delle ostilità in Corea pochi mesi dopo la morte di Stalin. Per la prima volta dalla fine del conflitto mondiale non era più l’alleanza occidentale tripartita tra Stati Uniti, Francia e Inghilterra a dettare l’agenda della politica internazionale, ma l’Unione sovietica assumeva con decisione l’iniziativa. In secondo luogo stava emergendo in modo sempre più prepotente la spinta alla decolonizzazione. Nel 1954 la Francia aveva dovuto abbandonare con le ossa rotte l’Indocina e pochi mesi dopo si era trovata a fronteggiare l’esplosione dell’insurrezione armata in Algeria. Gli imperi coloniali scricchiolavano vistosamente e le due superpotenze si apprestavano a contendersi l’influenza sui loro resti con l’intenzione di esercitarla in forme diverse dalla dominazione diretta, ma si trovavano anche a fare i conti con la novità segnata dalla conferenza di Bandung del 1955, cioè con la decisione dei più importanti paesi di nuova indipendenza di non allinearsi all’uno o all’altro dei campi della guerra fredda13.
15È in questo contesto che matura la crisi che sfocerà nelle convulse giornate dell’intervento anglo-francese a Suez, proprio nei giorni in cui precipita la fase finale della tragedia ungherese. È indubbio che esista un rapporto diretto fra le due vicende: Francia e Inghilterra forzano i tempi del loro fallimentare blitz militare cercando di approfittare del ginepraio in cui l’Urss si è ingarbugliata in Ungheria, e l’Urss rompe gli indugi e dà il via al secondo intervento, quello che provocherà 3000 morti, per lanciare un segnale alle potenze occidentali, e contando sul fatto che Suez alzi una cortina fumogena tale da attutire gli effetti di Budapest. La sorpresa viene dagli Stati Uniti, che si dissociano dall’intervento in Egitto e di fatto impongono attraverso il voto dell’Assemblea dell’onu il ritiro delle truppe anglo-francesi14.
16Da tutto questo esce una situazione in parte nuova: da un lato una stabilizzazione del conflitto bipolare – con l’Europa (occidentale ed orientale) sottoposta, seppur a livelli e con modalità differenti, al primato delle due superpotenze – dall’altro una diversificazione della guerra fredda su più scenari, con un suo allargamento all’emisfero Sud del mondo. L’esito complessivo delle giornate drammatiche comprese fra il 30 ottobre e il 7 novembre 1956 fu quello di congelare la guerra fredda in Europa, attraverso una tacita intesa fra le due superpotenze sull’intangibilità dei confini di Yalta: paradossalmente si trattava da parte degli Stati Uniti, proprio nei giorni cui Eisenhower veniva rieletto presidente, di un abbandono della dottrina del roll back cara al repubblicano Foster Dulles e di un ritorno, almeno nel vecchio continente, alla dottrina del containment enunciata dal democratico Kennan15. Questo indirizzo strategico resse fino al momento in cui il blocco sovietico finì per implodere, almeno altrettanto per le sue difficoltà interne che per le pressioni esterne. D’altra parte con la vittoria di Nasser in Egitto – vittoria soprattutto politica, perché sul piano militare l’attacco israeliano ebbe successo anche prima dell’intervento anglo-francese – si consolidava definitivamente la dimensione anti-imperialista del movimento nazionale e anticoloniale, che avrebbe a lungo creato molti più problemi agli Stati Uniti che all’Unione Sovietica. Vale la pena di ricordare – a questo proposito – che meno di un mese dopo la doppia crisi di Suez e dell’Ungheria sbarcarono sulle coste della provincia orientale di Cuba gli 82 ribelli che diedero inizio alla guerriglia contro il dittatore Batista16. Quell’impresa era guidata da un gruppo di rivoluzionari che non erano comunisti, e che anzi incontrarono la diffidenza se non l’ostilità del Partito comunista cubano, legato a filo doppio con Mosca: ma appena sei anni dopo la Cuba di Castro e Che Guevara divenne lo scenario in cui la guerra fredda fu più vicina a trasformarsi in una guerra nucleare.
17Quale impatto ebbe il 1956 nella storia del comunismo del Novecento? Fu, senza dubbio, un impatto rilevante, nel senso che nulla dopo di allora fu più come prima17. Lo choc prodotto dal XX Congresso fu drammatico. Lo fu all’interno dell’Unione sovietica, dove pure la portata degli orrori della dittatura staliniana era ben conosciuta all’intera popolazione. Lo fu, lo abbiamo visto, per i partiti comunisti al potere nei paesi “satelliti”. Basti citare, al riguardo, quanto annota nel suo diario Veljko Mičunovic, ambasciatore jugoslavo all’Onu, che partecipò alla riunione dei più alti dirigenti della Lega dei comunisti jugoslavi con Chruščev e Malenkov la notte fra il 2 e il 3 novembre:
È davvero tempo di guerra. E sarà anche peggio, perché è guerra mossa dal “primo e più grande paese socialista” contro i cittadini di un “paese socialista fratello”, nonché membro del campo socialista . Anche questo accade, per la prima volta nella storia del socialismo!18
Ma l’impatto fu più devastante ancora per i militanti comunisti di tutto il mondo, perché, se in Urss e nelle democrazie popolari, eccetto naturalmente l’Ungheria, aveva almeno significato un miglioramento nelle condizioni materiali di vita, per loro non fece che intaccare e talvolta mandare in frantumi un intero universo simbolico. Nelle sue memorie, Anni interessanti, Eric Hobsbawm cinquant’anni dopo rievocava quel punto di svolta con emozione ancora trasparente:
perfino dopo quasi mezzo secolo sento quasi un nodo in gola quando ricordo la tensione quasi intollerabile nella quale vivemmo, mese dopo mese, gli interminabili momenti, prima di decidere che cosa dire e fare, da cui sembravano dipendere le nostre vite future, gli amici che si stringevano insieme o si affrontavano apertamente come avversari, la sensazione di rotolare, senza volerlo ma in modo irreversibile, lungo la china verso l’impatto finale19.
Questi sentimenti furono comuni a moltissimi militanti comunisti, non importa se di piccoli partiti, come era in fondo quello britannico, o di grandi partiti di massa, come quello francese e quello italiano.
18Quando al trauma prodotto dalle rivelazioni sugli orrori dello stalinismo si sommò quello provocato dall’intervento sovietico in Ungheria, fu come se un secondo squarcio si aprisse in una tela ancora robusta di certezze e di valori consolidati: e, comunque se ne uscisse, restò un rovello, una fonte inesauribile di interrogativi, di recriminazioni, di autentiche sofferenze. La profondità della traccia che si impresse allora nella memoria collettiva risulta evidente – per limitarsi al solo caso italiano – anche dall’uso del lessico: un saggio assai noto di Pietro Ingrao scritto nel 1971 s’intitola L’indimenticabile 1956; e aggettivi consimili sono spesso associati a quell’anno nella memorialistica, ma anche nella saggistica comunista: «terribile» per Amendola, «inaudito» per Spriano, «memorabile» per Adriano Guerra, e via dicendo.
19Se però guardiamo in modo più ravvicinato ai due eventi che resero il ’56 indimenticabile – che sono appunto il rapporto segreto e la repressione nel sangue della insurrezione ungherese – siamo indotti a un’analisi più differenziata. Le rivelazioni di Chruščev irrompono in uno scenario che si sta già trasformando, sia in Italia che in Francia. All’inizio dell’anno c’erano state le elezioni in Francia, e il Pcf aveva riportato un notevole successo: il governo presieduto dal socialista Guy Mollet aveva beneficiato inizialmente della astensione dei comunisti20. Parallelamente, in Italia, i deputati comunisti e socialisti, per la prima volta dal 1947, si erano astenuti sulla fiducia al governo Segni presentatosi alla Camera il 25 febbraio dopo il rimpasto seguito alla morte del ministro Ezio Vanoni21. Erano gli effetti interni, ancora incerti, della “prima distensione” a cui ho prima accennato. In un simile contesto, si può dire in generale che, anche se vi furono differenze notevoli fra il Pcf e il Pci, i due maggiori partiti dell’Occidente non poterono fare a meno di percepire l’impatto delle rivelazioni di Chruščev come una minaccia alla propria compattezza ideologica e come un ostacolo al rilancio dell’elaborazione sulle “vie nazionali” cui il rapporto “pubblico” aveva ridato via libera. Questo è vero soprattutto per l’Italia: in maggio dovevano tenersi le elezioni amministrative, il che spiega la iniziale riluttanza di Togliatti persino ad ammettere l’esistenza del rapporto segreto, fino a quando voci assai più critiche si levarono anche nel Comitato centrale, e un vivace dibattito si aprì a partire dalla primavera sulla stampa del Pci. Quando il testo completo del rapporto segreto fu divulgato, Togliatti rilasciò la sua famosa intervista alla rivista «Nuovi Argomenti» in cui sforzava di andare oltre la denuncia del “culto della personalità” di Stalin individuandone le origini nelle disfunzioni del rapporto tra Stato e partito, e tentava di governare gli effetti della crisi dosando sapientemente riaffermazioni di continuità e aperture rinnovatrici22.
20Questa gestione indubbiamente abile non impedì che il partito fosse scosso da un’ondata di disorientamento profonda. Le ricerche che sono state fatte nel corso degli ultimi decenni, anche se riguardano campioni relativamente limitati, permettono di far luce sull’insieme articolato e contraddittorio di reazioni emotive e di comportamenti che interessarono il Partito comunista, dalla sua direzione fino al compagno di base della sezione e al diffusore dell’«Unità», passando attraverso i suoi quadri intermedi e soprattutto coinvolgendo la diffusa galassia di intellettuali che vi militavano attivamente o lo fiancheggiavano come simpatizzanti.
21La rappresentazione più ricorrente dell’eco del rapporto segreto al XX Congresso è quella dello choc traumatico. Salvatore Cacciapuoti, segretario della federazione napoletana del Pci e delegato a quella assise del partito sovietico, lo esprime in un impeto di sincerità: quando, nella cerimonia di apertura del congresso, sente nominare Stalin solo in un anodino elenco di membri del Comitato centrale recentemente deceduti, ricorda di essersi lasciato sfuggire un lapidario «‘a faccia do c…!»23. Con diversa ma non minore efficacia il racconto di Giorgio Amendola ci restituisce la stessa sensazione di vuoto improvviso:
Crollava un mito che ci aveva tutti dominati, il mito di Stalin. La battaglia si svolgeva nell’intimo della coscienza di ciascuno di noi, che era stato staliniano. Crollava uno degli elementi della nostra formazione. Ognuno reagiva come poteva: chi cercando di analizzare l’origine di certi fatti, chi imprecando, ma c’era veramente qualcosa che scuoteva tutti profondamente24.
Se dai dirigenti e dai quadri intermedi si passa alla base operaia e contadina del partito (che era allora il nerbo della sua forza numerica), non mancano tracce che lasciano intendere un trauma non meno forte. Le ricognizioni compiute da Andrea Colasio e da Giovanni Taurasi sui verbali delle riunioni di un certo numero di sezioni comuniste rispettivamente di Padova e Venezia e del modenese nella primavera del 1956 dimostrando che l’emozione fu forte anche nel rank and file del partito, tanto, per esempio, da far esclamare al compagno Reschiglian: «Se il socialismo ci deve costare tanto, io rinuncio. […] io metto in dubbio il rapporto Chruščev, se è vero mi chiudo in casa»25. In termini simili si esprimeva Mario Cadalora, segretario del circolo culturale Formiggini di Modena:
Vi dico sinceramente che se non credessi fermamente nel socialismo come l’unica oggi, forza liberatrice dei popoli dallo sfruttamento, nel socialismo come il sistema migliore per l’avvenire dei popoli, non sarei qui a parlarvi dopo quello che è successo26.
Il secondo choc, quello dei “fatti d’Ungheria” – come si continuerà per anni e anni a dire con un eufemismo in cui il sostantivo asettico, “fatti”, cerca di evitare i termini sia di “rivoluzione” e “insurrezione”, sia di “controrivoluzione” – determina una reazione diversa. L’emozione, naturalmente, è grande, e quando il Pci sceglie inequivocabilmente di stare “da una parte della barricata”, la ferita che si apre è profonda. In generale si ha l’impressione che l’effetto sia duplice e di segno opposto. Da un lato molti militanti se ne vanno dal partito, per lo più silenziosamente. Dall’altro si assiste a un ricompattamento e un arroccamento della base comunista intorno al gruppo dirigente. Come, in misura perfino maggiore, in Francia, così anche in Italia si scatenò allora una virulenta ondata anticomunista. Le sedi delle sezioni o delle redazioni dell’«Unità» furono fatte oggetto di manifestazioni minacciose27. Dilagò una nuova ondata di anticomunismo viscerale.
22Nel 1956 il ricordo della contrapposizione frontale del 18 aprile di otto anni prima era ancora vivo, alimentato per anni sui due fronti da una battaglia propagandistica senza esclusione di colpi, con la mitologia dei «piani K» e con le mostre sulla «Chiesa del silenzio» da un lato, con l’esaltazione acritica del paradiso sovietico e delle democrazie popolari, fino al plauso incondizionato ai processi farsa di Budapest e di Praga dall’ altro. Per certi aspetti sul nostro paese il ’56 agisce come sale su una piaga ancora aperta, torna ad allargare una frattura che accennava a ricomporsi con i primi timidi segni di disgelo anche in politica interna (l’elezione di Gronchi alla Presidenza della Repubblica, e la già ricordata astensione delle sinistre sulla fiducia al governo Segni), e gli eventi ungheresi dell’ ottobre-novembre scatenano un’ondata emotiva profonda. Le trasmissioni radio da Budapest, con i concitati appelli in una lingua incomprensibile e il crepitio delle mitragliatrici sullo sfondo; le immagini della «Settimana Incom» e dei primi avventurosi filmati apparsi in televisione, con gli insorti in armi che fronteggiano i carri armati sovietici; le drammatiche corrispondenze di giornalisti come Montanelli e Jacoviello che, pur lontanissimi nel modo di interpretare gli eventi, ne sanno rendere quasi visivamente la drammatica intensità: tutto ciò è rimasto impresso, sia pure con segno opposto, nella memoria di molti italiani. Non bisogna dimenticare che sono, dopo la fine della seconda guerra mondiale, le prime immagini e le prime cronache di un conflitto armato nel cuore dell’Europa, molto più vicine e più minacciose di quelle della guerra di Corea.
23Il ricordo di quel clima fattosi di nuovo arroventato e ostile ci viene restituito di nuovo in modo colorito, non senza una punta di stizzoso risentimento contro l’eccesso di zelo di alcuni compagni intellettuali, nella ricostruzione di Salvatore Cacciapuoti:
Incominciò l’agitazione con più virulenza: alcuni non si contenevano più. Non erano più capaci di autocontrollo. Diventarono «profughi ungheresi» nel loro atteggiamento, il volto marcato, come se avessero avuto dei parenti stretti fucilati in Ungheria. E questo, mentre le chiese erano parate a lutto, ai preti venivano i calli alle ginocchia, i fascisti facevano cortei e tentavano l’assalto alle nostre sedi28.
Il ricordo di Cacciapuoti dà voce a uno stato d’animo che sembra diffuso abbastanza largamente nelle fabbriche. Ricorda un operaio di Sesto San Giovanni:
Gli operai non fecero nessuna protesta perché la Russia era intervenuta in Ungheria, anzi plaudirono. […] Questo è avvenuto alla Falck come in tutti gli altri stabilimenti di Sesto. Dicevano: guai se la Russia non fosse entrata in Ungheria, perché era una rivoluzione organizzata e preparata dal capitalismo europeo e americano con la Cia29.
Senza dubbio quella che Danilo Montaldi ha chiamato «la rappresentazione mitica e popolare del culto della forza, sempre presente nella mitologia delle classi povere nei periodi di riflusso»30, interagisce con la reazione emotiva alla crociata anticomunista che si scatena nell’Italia del ’56. Un militante di base fra i tanti, in questo caso non operaio ma studente, ricorda come proprio le manifestazioni anticomuniste che dilagavano nelle scuole della sua città – Bergamo – lo indussero a maturare la scelta dell’iscrizione al partito31. E Giorgio Amendola, che abbiamo visto ricostruire in modo così problematico il trauma del XX Congresso, rievoca poi nello stesso scritto un comizio a Torino, la sera prima del secondo intervento armato sovietico, quando la sua richiesta all’Urss di non lasciare «trionfare la controrivoluzione in Ungheria» fu seguita da «un enorme, interminabile applauso»32.
24Naturalmente, è bene guardarsi dalle eccessive generalizzazioni. Anche alla base del Pci vi furono reazioni di sdegno. Il Comitato della sezione Rinascita di Modena rifiutò di affiggere il manifesto della federazione che giustificava la repressione dell’insurrezione ungherese e lamentò la mancanza di obiettività e democrazia interna al partito, chiedendo “più senso critico, meno paura di denunciare i propri errori anche e soprattutto quando questi sono a noi svantaggiosi”33. La sezione centro del comune di Vignola, a poche ore dall’ingresso a Budapest dei carri armati sovietici, chiese un atteggiamento più critico da parte della Direzione del partito tale da garantire un efficace orientamento delle masse popolari su una base di un indirizzo politico più autonomo nei confronti dell’Unione Sovietica”34. Nel 1957, il Pci registrava 200.000 iscritti in meno dell’anno precedente, e non erano certo tutti intellettuali e “compagni di strada”. La componente operaia risultò dunque particolarmente segnata dal 1956 e la sua percentuale nel corpo del partito si ridusse in modo evidente. Il dissenso maturò soprattutto in ambito sindacale, tanto che la posizione di Di Vittorio, che si era unito alla segreteria della Cgil nella condanna del primo intervento, emerse come la «punta più autorevole di un dissenso i cui episodi si moltiplicano nella confusione del momento»35.
25Ma fu sul sistema politico italiano che l’impatto del 1956 fu più determinante e quasi immediatamente avvertibile: perché, sopravvissuta da noi assai più a lungo che in altri paesi l’unità d’azione fra comunisti e socialisti, è proprio in quell’anno che essa si incrina, e prende avvio il lento e travagliato processo di integrazione-omologazione del Partito socialista in una maggioranza di governo e di una generale dislocazione degli equilibri politici, bloccati da quasi un decennio sulla contrapposizione centrismo-frontismo.
26Su questo tema si è scritto molto, e non occorrerà ritornarvi qui, anche per ragioni di tempo. Non è inutile però una puntualizzazione. Ricondurre la divisione che da allora e fino al 1964 segnerà la vita interna del partito socialista alla contrapposizione fra una maggioranza che condannò l’intervento sovietico e una minoranza di “carristi” che l’approvò è fuorviante: anche la sinistra del Psi espresse la sua riprovazione e ciò che spaccò il partito fu soprattutto, più ancora che l’esigenza di ripensare il rapporto con il Pci, il riavvicinamento di Nenni e di quelli che si chiameranno “autonomisti” ai socialdemocratici di Saragat36. Ancora più importante è ricordare che una serie di importanti ricerche fiorite nell’ultimo decennio ha messo in luce molto bene come questo travaglio si accompagni fin dal 1953 a una straordinaria vivacità di dibattito nella composita galassia del socialismo italiano37. Fu in effetti soprattutto in questa galassia che lo scossone causato dal rapporto segreto venne a sommare i suoi effetti con un lavorio intenso di ricerca che da tempo si interrogava sulle trasformazioni della società italiana. Di questo processo sopravvisse alla fine soprattutto l’aspetto del cambio di schieramento, e la ricchezza dell’elaborazione intellettuale, visibile ancora nella discussione programmatica che accompagnò i primi passi del centro-sinistra, andò appannandosi, ma ciò non toglie nulla al suo rilievo.
27Del resto, nemmeno i comunisti, nonostante il forte ritardo accumulato, erano rimasti del tutto estranei a questo sforzo di ripensare la realtà in termini nuovi. Pietro Ingrao, parlando dell’“indimenticabile 1956”, allargava il proprio sguardo retrospettivo a una realtà più complessa e articolata, e parlava di «doppia crisi […]: quella che riguardava l’atteggiamento verso il terremoto dell’Est; e quella che riguardava la posizione da assumere di fronte […] al neocapitalismo italiano», per concludere, a proposito del dissenso degli intellettuali: «non sono convinto che quel dissenso provocò al partito solo perdite e guai. Fu un passaggio necessario e anche fecondo»38. Il supplemento culturale di «Rinascita», «Il Contemporaneo», ospitò già nel 1955 un confronto non rituale di posizioni, che si rinnovò poi sull’«Unità» quando, a partire da primavera, vennero pubblicati regolarmente gli interventi precongressuali39.
28Cerco ora di tirare brevemente le fila del mio discorso, riprendendo l’interrogativo che sollevavo all’inizio. Fino a che punto il 1956 è stato uno spartiacque? Cominciando dall’ultimo dei temi che ho affrontato, direi che lo fu sicuramente per il nostro sistema politico, per il dislocamento degli equilibri politici che mise in moto e che si sarebbe assestato a partire dal 1961, per rimanere sostanzialmente immutato fino alla fine della guerra fredda. Per quanto riguarda la storia dell’Unione Sovietica e delle democrazie popolari, tenderei invece a retrodatare la cesura al 1953 o, semmai, a posticiparla al 1968, perché solo allora maturarono irreversibilmente le condizioni che determinarono l’impossibilità di riformare dall’interno i sistemi di tipo sovietico. Anche per quello che si è chiamato il movimento comunista internazionale, forse non è il 1956 l’anno decisivo di svolta, perché ben più gravidi di conseguenze per la sua unità sono, di nuovo, il 1968, ma prima ancora il biennio 1960-1961, quando si consuma la rottura fra Unione Sovietica e Repubblica popolare cinese. Più rilevante mi sembra l’importanza di quella data per la storia delle relazioni internazionali, con il congelamento della guerra fredda in Europa di cui ho parlato, reso chiaro dall’evidenza che gli Stati Uniti, al di là della retorica sul “mondo libero”, non sarebbero mai intervenuti nel cortile di casa dell’altra superpotenza. Ma a questo congelamento in Europa corrispose l’intreccio che si fece sempre più stretto della guerra fredda stessa con i conflitti regionali e con gli strascichi della decolonizzazione in Asia e in Africa. Da questo punto di vista, chissà che l’evento di quell’anno memorabile che più incide ancora nella nostra vita di cittadini del 2016 non sia lo scacco finale del colonialismo europeo a Suez, con l’impulso che diede ai movimenti nazionali dagli incerti contorni politici ed ideologici, e il groviglio di contraddizioni irrisolte che comportò il loro irrompere sulla scena della storia mondiale.
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1 Canfora (2016)
2 Flores (1996); Panaccione (2006); L. Casalino, Il 1956, in Agosti (2000), pp. 759-65; La grande svolta. Una discussione storica, in «Giano», XVIII, 2006, n. 54 (interventi di A. Agosti, B. Bongiovanni, L. Cortesi, E. Masi, A. Panaccione).
3 Boffa (1979), pp. 502-22; Graziosi (2008), pp. 178-200; Guerra (1986); Filtzer (1993); Mc Auley (1995).
4 Il XX Congresso del Pcus (1988); M. Ferretti, L’eredità difficile. Uscire dal terrore e salvare il regime: il rapporto segreto di Kruscev al XX Congresso e la destalinizzazione, in «Annali della Fondazione Ugo La Malfa», XXX, 2015 (d’ora in poi Annali Fulm), Unicopli, Milano 2016, pp. 42-81.
5 Kruscev (1970), p. 365.
6 Intervento all’VIII Congresso del PCI in Marchesi (1974), p. 114.
7 Crampton (1995), p. 283.
8 E. Mëhilli, Defying De-Stalinization: Albania’s 1956, in «Journal of Cold War Studies», 2011, n. 4, pp. 4-56.
9 Brzezinski (1975), pp. 197-335; Fejtö (1971), pp. 73-116; Applebaum (2012).
10 Mink (2015), pp. 247-64; Machcewicz (2009); C. Tonini, Il lungo ’56 polacco, in «Annali Fulm», 2015, pp. 136-49.
11 Argentieri - Gianotti (1986); Argentieri (1996); Dalos (2006); Gati (2006); Lendvai (2008); C. Békés, The Hungarian Revolution and International Politicis, in «Annali Fulm», 2015, pp. 23-41.
12 Pons (2012), p. 274; M. Kramer, New Evidence on Soviet Decision-Making and the 1956 Polish and Hungarian crises, in «Cold War International History Prject Bulletin», nn. 8-9, 1996-1997, pp. 358-84.
13 Romero (2009), pp. 111-49; Gaddis (1997), pp. 163-88.
14 Smith (ed.) (2008); Louis - Owen (1989); e soprattutto P. Wulzer, Sessant’anni dopo Suez. Il dibattito storiografico sulla crisi e le sue conseguenze, in «Annali Fulm», 2015, pp. 81-103.
15 L. Borhi, Rollback, Liberation, Containment or Inaction. US Policy and Eastern Europe in the 1950s, in «Journal of Cold War studies», 1999, n. 3, pp. 67-110.
16 B. Calandra, Lo sbarco del Granma e la rivoluzione cubana, in «Annali Fulm», 2015 pp. 150-63.
17 Brown (2009), pp. 227-92; Pons (2012), pp. 279-94; S. Radchenko, 1956, in Smith (2014), pp. 140-55.
18 Mičunovič (1979), p. 142
19 Hobsbawm (2002), pp. 229-30.
20 Courtois - Lazar (2000) pp. 299-310; Martelli (2006).
21 Gozzini - Martinelli (1998), p. 388.
22 Agosti (1996), pp. 434-69, G. Gozzini, Il PCI nel 1956, in «Annali Fulm», 2015, pp. 172-96.
23 Cacciapuoti (1972), p. 144.
24 Amendola (1978), pp. 140-41.
25 A. Colasio, L’organizzazione del PCI e la crisi del ’56, in Groppo - Riccamboni (1987), p. 92.
26 G. Taurasi, La protesta taciuta. I comunisti modenesi e la repressione ungherese, in «Italia contemporanea», giugno 2007, n. 247, p. 290.
27 Lajolo (1981), p. 255.
28 Cacciapuoti (1972), p. 168.
29 Crespi (1979), p. 71
30 D. Montaldi, Cremona. XX Congresso e oltre, dattiloscritto inedito cit. in M.Flores - N.Gallerano, La politica, in «Problemi del socialismo», gennaio-aprile 1987, n. 10, p. 22, (numero speciale Il ’56 e la sinistra italiana. un’occasione mancata?).
31 Colorni (1979) testimonianza di Alberto Campagnato, pp. 139-40.
32 Amendola (1978), p. 135.
33 G. Taurasi, La protesta taciuta cit., p. 292.
34 Ibidem.
35 Ajello (1979), p. 401.
36 Agosti (2013) e Mattera (2004).
37 Scroccu (2011); Nencioni (2014), e soprattutto Scotti (2011).
38 Ingrao (1990), pp. 92-93.
39 Vacca (1978).
Auteur
Professore emerito di Storia contemporanea all’Università di Torino. Si è occupato soprattutto della storia del movimento socialista e comunista, italiano e internazionale. Tra i suoi lavori: Togliatti (Utet 2003, trad. inglese 2008); Il partito mondiale della rivoluzione. Saggi sul comunismo e l’Internazionale (Unicopli 2009); Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano (Laterza 2013). Ha curato e diretto una Enciclopedia della sinistra europea (Editori Riuniti 2000). È stato tra i fondatori della rivista «Passato e Presente» e membro del suo Comitato scientifico.
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