‘Persona’ è l’inverso di individuo? Qualche riflessione a partire da Peirce
p. 47-65
Texte intégral
Im Kampf zwischen Dir und der Welt,
sekundiere der Welt.
Franz Kafka (1918)
1In questo contributo vorrei provare a pensare la nozione e il tema della persona a partire dalla riflessione di Charles S. Peirce. L’aspetto più importante del concetto peirceano di personalità è lo sganciamento dall’individualità: una persona non è (e non può essere mai ridotta a) un individuo. Io proporrò qui una versione radicale di questa idea: persona è il contrario di individuo, e un ente è tanto più personale quanto meno è individuale.
2Una tale concezione, se ci si limitasse a enunciarla in questi termini, nonostante la sua paradossalità e la sua radicalità, non sarebbe in fondo troppo lontana da molte altre forme di pensiero del genere, che “risolvono” il ruolo dell’individuo nel suo contributo alla collettività, “affogandolo” dentro qualche Geist (la cui universalità non è mai davvero tale, ma sempre connotata rispetto a una classe, una nazione, un momento storico, ecc.) che lo trascende. Vi sono però alcune specificità dell’idea di Peirce che la rendono interessante, e che pertengono al suo modo di fare filosofia.
3La prima consiste nel fatto che “persona” è in Peirce, anzitutto, un carattere logico o semiotico (cfr. De Tienne 2005, p. 91), sicché non ha senso, in questa prospettiva, distinguere ‘persona’ (questa-o-quella-persona) ed ‘essere persona’. Detto altrimenti, con le parole dei logici, non si dà definizione estensionale della personalità: le persone non si contano (come possiamo contare – per esempio – i gorilla di montagna in libertà, per poi accorgerci che il loro numero diminuisce drasticamente, e che l’estinzione è un pericolo reale)1, ma piuttosto possiamo dire che determinati aspetti della realtà (tra cui gli esseri umani) manifestano un carattere personale in quanto si prestano a essere “letti” formalmente, a essere interpretati, in un certo modo. Per questo userò spesso l’espressione ‘persona(lità)’2: si tratta certamente di un gergo fastidioso per il lettore, ma mai quanto lo sarebbe la ripetizione continua di questa precisazione, che compio ora una volta per tutte.
4La seconda pertiene alla forma sistematica della filosofia peirceana. Il fatto che Peirce abbia elaborato una forma di filosofia che è una semiotica ha spesso portato a “schiacciare” la sua riflessione sulla semiotica com’è oggi. Invece, per comprendere quest’autore senza incappare in qualche genere di riduzionismo, bisogna tenere presente in ogni momento il forte intento sistematico3 che lo anima. Inoltre, bisogna assumere la sostanziale unità della scienza (e di logica e filosofia entro l’impresa scientifica). È un’attitudine difficile da comprendere per la scienza specialistica che conosciamo, ma del tutto naturale, per così dire, per quella del xix secolo (in cui l’interdisciplinarità era regola, e non eccezione), di cui la semiotica è per certi versi l’ultima figlia (e lo mostra soprattutto nella sua vocazione all’enciclopedismo, che la scienza sociale specialistica lesse come imperialismo).
5Insomma, la coerenza interna ed esterna costituisce un valore aggiunto in una filosofia fortemente sistematica come è quella di Peirce, tutta costruita sullo sviluppo combinatorio dell’impianto categoriale. È come dire, mutatis mutandis: ci sono singoli preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato che sono più orecchiabili, e meglio si prestano a essere ricordati – ma tutti ricevono un surplus di senso dal ricorrere riconoscibile del tema (nel caso delle fughe), e dal loro inserimento in un certo tipo di impianto generale (temperamento equabile, distinzione maggiore/minore). Così accade anche per l’idea (forse è un po’ troppo forte parlare di ‘teoria’) peirceana della persona(lità).
6Per presentarla, procederò così: dapprima mi riferirò alla sua “versione semiotica”, precoce e luminosa (ma ancora allusiva e non sufficientemente astratta), rappresentata dalla dottrina dell’uomo-segno; poi individuerò una doppia radice metafisica dell’idea di persona, rappresentata dal monismo idealistico e dal sinechismo; a quel punto, sarò nelle condizioni di presentare la tesi adombrata nel mio titolo (‘persona’ è l’inverso di ‘individuo’), mostrandone alcune conseguenze dal punto di vista morale; infine, affronterò il peculiare teismo di Peirce, che della sua idea di persona(lità) costituisce a mio avviso lo sviluppo più interessante, e uno dei meno enfatizzati da chi si accosta all’autore da un punto di vista semiotico. Non potrò sviluppare a fondo nessuno di questi temi, ma spero che l’abbozzare il percorso possa comunque aiutare a vedere la centralità della questione nell’ambito della filosofia di Peirce (e non solo), e l’interesse – non solo dal punto di vista storico-filosofico – di ulteriori ricerche4.
1. La semiotica come porta d’accesso al tema della persona(lità)
Are we shut up in a box
of flesh and blood?
Charles S. Peirce (1867)
7Come notato da De Tienne (2005, p. 98) e da vari altri, “una teoria della persona come effetto semiotico del lavoro ipotetico di rappresentazione compiuto dall’interpretante all’interno dell’esperienza” è rinvenibile già dalla prima fase della riflessione di Peirce. Rivolgiamoci dunque alle ultime pagine di Alcune conseguenze di quattro incapacità, tra le più citate del nostro autore. La trovata che apre la sezione finale del saggio5 è paradossale: Peirce immagina che le parole si rivoltino contro l’uomo (convinto, da parte sua, di poterne disporre a piacimento) per mostrargli che egli non è il loro padrone, ma che semmai – per molti versi – sono esse ad avere il dominio su di lui. Per questo le parole dicono all’uomo:
Tu non significhi niente che non ti abbiamo insegnato noi, e quindi significhi solo in quanto indirizzi qualche parola come l’interpretante del tuo pensiero. (CP 5.313 – 2003, p. 109)
8Da qui, Peirce arriva alle sue conclusioni attraverso una serie di equazioni (un modulo di pensiero caratteristico del suo stile cognitivo)6: se l’uomo è pensiero, il pensiero è segno, il linguaggio è segno (o è fatto di segni – a partire dalle parole), allora l’uomo è un segno, proprio come lo è una parola.
9D’altra parte, un segno da solo non è nulla. Il valore del segno sta nel farsi abito, perché solo una serie di segni coerenti è interpretabile. Ciò vale anche per l’uomo:
l’identità dell’uomo consiste nella coerenza fra ciò che egli fa e ciò che pensa, e la coerenza è il carattere intellegibile di una cosa: cioè il suo esprimere qualcosa. (CP 5.315 – ibid.)
10La conclusione – dell’argomento e del saggio – è una svalutazione assoluta dell’individualità, compendiata da tre versi presi da Shakespeare7: il nostro valore come persone non risiede in qualche presunta individualità inaccessibile, ma – al contrario – nella parte di noi che tutti vedono, e che tutti possono capire e imitare. Abbiamo possesso esclusivo solo degli scarti: solo i nostri difetti sono veramente nostri.
L’uomo individuale, dato che la sua esistenza separata si manifesta soltanto attraverso l’ignoranza e l’errore, nella misura in cui egli è qualcosa di scisso sia dai suoi compagni sia da ciò che essi sono destinati ad essere, è soltanto negazione. Questo è l’uomo, […] uomo orgoglioso, / più ignorante di ciò di cui ha maggior certezza, / la sua vitrea essenza. (CP 5.317 – ibid.)
11Le pagine peirceane sull’uomo-segno – al di là del loro valore per sé, e del fascino che hanno esercitato su generazioni di lettori – possono essere viste come una “porta” semiotica a un tema che è insieme più vasto e più astratto, e che, investigato fino in fondo, richiede a Peirce di trascendere la dimensione antropologica e psicologica che è, per certi versi, ancora dominante nei saggi “anticartesiani” di quegli anni. Per mostrarlo, dobbiamo entrare nella metafisica di Peirce, e fare un salto in avanti di 25-30 anni.
2. Due radici metafisiche della nozione peirceana di persona
Nor must any synechist say:
“I’m altogether me, and not at all you”.
Charles S. Peirce (1892)
12Diverse periodizzazioni sono state applicate alla lunga traiettoria intellettuale di Peirce. Ma la soglia di discontinuità più significativa si pone più o meno a due terzi della sua vita, intorno ai 50 anni, quando abbandona (per cause di forza maggiore) il suo lavoro di scienziato, e si ritira in una casa colonica di Milford, in Pennsylvania, a scrivere. Pur pressato da necessità economiche e costretto a fare una quantità enorme di lavoro intellettuale “di servizio” (recensioni, voci di enciclopedia, e così via), si ritrova in qualche modo padrone di se stesso. L’esigenza di una filosofia sistematica diviene allora più pressante – o (il che cambia poco le cose) diviene maggiore il tempo per perseguirla. Questa sorta di ritiro in sé medesimo, forzato dagli eventi e assecondato dal pensiero, produce anzitutto una maggiore attenzione al tema della metafisica: gli anni Novanta possono essere considerati come il periodo in cui esso riveste un’importanza maggiore per il padre della semiotica. All’inizio e alla fine di questa decade Peirce produce i frutti più interessanti per noi: rispettivamente, la cosmologia dei saggi su The Monist (pubblicati tra il 1891 e il 1893), e poi la dottrina della continuità nella versione presentata nelle Cambridge Conferences del febbraio-marzo 18988.
13La “serie cosmologica” del The Monist9 segna un cambiamento importante nella filosofia di Peirce (e si correla a cambiamenti importanti della sua vita, come abbiamo accennato). In essa appare la nozione matura di ‘persona’ che è oggetto di questo lavoro, nel contesto di una metafisica idealista (influenzata dalla disputa medievale sugli universali, ma anche da ricerche biologiche). In questo contesto, però, “smonterò” i due elementi, definendo dapprima la cornice idealistico-cosmologica, per lasciare la presentazione della nozione di persona(lità) alla sezione seguente.
14La cosmologia prende avvio dall’affermazione recisa di un monismo idealistico (cfr. CP 6.24 – 2003, pp. 343 sg.). Peirce lo enuncia in modo un po’ secco, ma trasparente: dapprima rifiuta il dualismo cartesiano tra mente e materia, e l’indipendenza tra leggi fisiche e leggi psichiche, in base al rasoio di Ockham. Posto allora a scegliere se le leggi psichiche dipendano da quelle fisiche o viceversa, opta per la seconda opzione, in base all’idea che le leggi fisiche non siano suscettibili di sviluppo, mentre quelle mentali sì (del resto, se il pensiero è segno, e il segno è sviluppo, non potrebbe essere altrimenti). Lo sviluppo della mente può talvolta arrivare a un binario morto, in cui si arresta e diviene assolutamente prevedibile; una legge fisica, secondo Peirce, non è altro che questo: un abito che non può cambiare, una possibilità di interpretazione chiusa a ogni sviluppo. Egli compendia questa idea attraverso il ricorso all’aggettivo latino effetus, che designa ciò che ha dato vita, ma non ne darà più (almeno per un certo periodo) 10: la materia è mente ormai sterile (CP 6.25). La mente che non “degeneri” in materia, invece, continuerà a svilupparsi rendendosi sempre più generale.
[…] le idee tendono a diffondersi con continuità, e a influenzarne certe altre che stanno con le prime in una peculiare relazione d’influenzabilità. (CP 6.104 – 2003, p. 1102)
15Declinata sul piano cosmologico, questa idea è esprimibile come agapasmo: il caso (cioè il tichismo, o azione della primità) e la necessità (cioè l’anancasmo, o azione della secondità) sono componenti imprescindibili dell’universo, ma il suo sviluppo è garantito solo dall’amore/agape (cioè quello che non è autocentrato, come l’eros) tra le idee.
16La seconda radice metafisica – tutt’altro che irrelata con la prima – è il sinechismo, che lo stesso Peirce definisce la chiave di volta (cfr. CP 8.257) della sua architettonica filosofica. Il sinechismo (“essere insieme”) ha la sua origine nella nozione matematica di continuità, che ricorre per tutta la produzione dell’autore, sia nel senso “ristretto” (per modo di dire…!) di problema matematico, sia come grande metafora filosofica11. Di fatto, tutta la filosofia peirceana è imbevuta di matematica e, inversamente, la sua stessa filosofia matematica non è separabile dal complesso del suo pragmaticismo, e non è riducibile a nessuna delle grandi opzioni rappresentate nel Novecento: è al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di meno12. Così avviene anche (e soprattutto) per il caso della continuità, il cui impiego filosofico – come notano Havenel (2015, p. 115) e Moore (2015, p. 135), tra gli altri – è fattore rilevante per decidere quale versione adottarne. Per comprendere appieno il valore della continuità, dobbiamo ricordare che la terzità è generalità, e la continuità è la forma più generale di terzità. Ma come la generalità può essere resa più o meno generale, la continuità può essere resa più o meno continua. L’esempio portato da Peirce nell’ultima delle Cambridge Conferences del 1898 (cfr. CP 6.185 sgg. – 2003, pp. 1173 sgg.), sebbene non rappresenti l’ultima parola di Peirce in materia13, può essere utile in ragione della sua semplicità. Peirce parte dall’atto più semplice: tracciare una linea di gesso sulla lavagna. La linea e la lavagna sono due continui: la linea è un continuo a una dimensione, la lavagna un continuo a due dimensioni. La linea trae la sua continuità dalla lavagna, e rappresenta una discontinuità rispetto a essa, dividendo la lavagna in ciò che è linea e ciò che è non-linea. Ma “dentro” la linea non vi è differenza o discontinuità14.
17Quest’idea fondamentale per cui il discreto si ottiene dal continuo, e non viceversa (cfr. Havenel 2015, p. 115) va in direzione inversa a quella oggi più accettata, detta di Cantor-Dedekind, che parte invece dai punti. Per questo Moore (2015) chiama questo approccio, definibile attraverso la proprietà della riflessività spiegata da Zalamea (2012) – per cui ogni parte riflette l’intero –, ‘pre-puntuale’: infatti i punti non possono entrare in un tale continuo, giacché non sono parte se non di se stessi. Se partiamo dunque da un continuo con dimensione n e un altro con dimensione n-1, possiamo immaginare una fuga in avanti (continui fatti di continui) e una fuga all’indietro (continui “un po’ meno continui” di quelli che discretizzano, ma pur sempre continui) senza mai un approdo in un senso e nell’altro.
18Continuità e agapasmo rappresentano insomma le due facce di una stessa medaglia, e permettono di dare corpo alla nozione di persona proprio – se mi si passa il gioco di parole – togliendole corpo. Vediamo perché.
3. La persona come sviluppo non-individuale
there is nothing which distinguishes my personal identity
except my faults and my limitations.
Charles S. Peirce (1898)
19Il concetto maturo di persona(lità) risulta dall’acquisizione della prospettiva cosmologica e sinechistica. Ma se vogliamo tornare per un attimo alla prospettiva semiotica (che non per questo risulta “tradita” o messa da parte, come abbiamo visto da De Tienne 2005), potremmo dire che il soggetto è mente in quanto interprete di segni, e persona in quanto segno egli stesso. In ogni caso, la base di tutto è l’opposizione tra persona e individuo, e l’idea che la definizione principale di ogni carattere personale sta nel suo essere potenzialmente condiviso, e non irriducibilmente individuale.
20Iniziamo dalla pars destruens. Abbiamo già visto le formulazioni di Peirce risalenti al 1868 in cui l’individualità era presentata sostanzialmente come un disvalore. Quelle forse più simili e più radicali nel presentare “una concezione non fondativa, ma privativa del self” (Colapietro 2005, p. 48) risalgono a un testo degli anni 1898, Filosofia e condotta di vita, che inaugura le Cambridge Conferences, nelle quali si presenta la dottrina della continuità che ho appena (brevemente) esposto. Si tratta di una lezione particolare, che per Atkins (2016, p. 6) rappresenta in assoluto il testo più controverso e dibattuto di Peirce. Sappiamo che egli aggiunse questa prima conferenza sotto insistenza di William James, che temeva che il ciclo di lezioni incentrato sul tema della continuità risultasse troppo astratto per il pubblico previsto, e chiese all’amico di fare riferimento a vitally important topics (cfr. Brent 1998, pp. 262 sgg.). L’atteggiamento paradossale che domina questa conferenza rappresenta inoltre una risposta diretta a The Will to Believe dello stesso James (cfr. Atkins 2016, cap. 1), uscita da poco, in cui però si trovavano varie affermazioni che Peirce non poteva avallare15.
21Partendo da una critica dell’intellettualismo etico introdotto nella filosofia attica al tempo di Socrate, e contrapponendola alla tradizione ionica di una filosofia scientifica (che da Talete va fino ad Aristotele) ben attenta a preservare la separazione tra filosofia scientifica e condotta di vita16, Peirce arriva dunque a una discussione sul tema della condotta, in cui si pongono in primo piano alcuni aspetti relati alla nozione di persona, e in particolare la nozione di ‘sentimento’ (sentiment – da non confondersi con feeling!), che è forse la principale della sua filosofia pratica.
Il nostro più profondo sentimento emette il verdetto della nostra insignificanza. L’analisi psicologica mostra che non vi è nulla che distingua la mia identità personale eccetto i miei errori e le mie limitazioni – oppure, se volete, il mio cieco volere, che è mio supremo sforzo annullare. (CP 1.673 – 2003, p. 1201)
22I sentimenti sono definiti da Savan (1981, p. 331) come “enduring system of emotions”, e potremmo dunque assimilarli ad abiti di primità17. Il portato immediato, antropologico, del primato del sentiment è l’affermazione di una morale anti-eroica: se la condotta è dettata dal sentimento (e come tale assimilabile agli istinti animali), rinunciare all’egoismo non è una cosa particolarmente notevole. Ogni uomo che sia uomo, componente a pieno titolo della propria specie, deve essere morale, e porre al primo posto il bene di tutti:
Negli animali in cui gli istinti sono più visibili, essi presentano la caratteristica di essere diretti principalmente, se non del tutto, alla preservazione della specie e di beneficiare pochissimo l’individuo. […] È un dato di fatto che tale istinto ci stimola, in tutte le crisi vitali, a considerare le nostre vite individuali come piccole faccende. Fare questo non è uno straordinario vertice di virtù: è la caratteristica di ogni uomo o donna che non sia disprezzabile. (CP 1.639 – 2003, p. 1191 s.)
23Il legame tra i temi di questa prima conferenza e quelli delle seguenti è meno estrinseco di quanto si possa pensare a prima vista. La svalutazione dell’individualità, se dal punto di vista teorico è una conseguenza della dottrina della continuità, da un altro punto di vista ha un valore propedeutico per l’uditorio di Peirce: seppure non sia possibile a chi ascolta entrare nei dettagli tecnico-matematici della continuità, il sentimento della pochezza del nostro io individuale è una porta che non sostituisce un approccio scientifico (e non va confuso con esso), ma aiuta a trovare una forma di comprensione.
24Veniamo ora invece alla definizione di persona(lità), che (come quella di segno, e tante altre in Peirce) è astratta e potente. Come l’idea matura di continuità, essa è legata alla legge della mente, e anzi ne è una conseguenza diretta – infatti la ritroviamo proprio nel saggio in cui la legge è enunciata (e che risale, ricordiamolo, al 1892).
La personalità è una forma di coordinazione o connessione di idee. […] una connessione di idee è essa stessa un’idea generale e un’idea generale è un feeling vivente. […] Questa personalità, come ogni idea generale, non è una cosa che si può apprendere in un istante. Deve essere vissuta nel tempo, e nessun tempo finito può contenerla in tutta la sua pienezza. […]
La parola coordinazione, pero, implica un po’ più [dell’autocoscienza immediata]: implica un’armonia teleologica delle idee. E nel caso della personalità questa teleologia è più che il perseguimento volontario di un fine predeterminato: è una teleologia in evoluzione. Questo è il carattere personale. Un’idea generale, vivente e cosciente in questo istante, determina già atti nel futuro in una misura di cui ora non è cosciente. Questo riferimento al futuro è un elemento essenziale della personalità.
Se i fini di una persona fossero già esplicitati non resterebbe spazio per lo sviluppo, la crescita, la vita e, di conseguenza, non ci sarebbe personalità. Il semplice portare a termine propositi predeterminati è meccanico. (CP 6.155-7 – 2003, p. 1119)
25La persona(lità) è dunque – in accordo con la legge della mente – mente che si sviluppa, che esibisce insieme coerenza e innovazione. Questo carattere, però, non è legato a nessuna cosa in particolare. Ci possono essere, ad esempio, persone sovraindividuali:
Ci deve essere qualcosa come una coscienza personale nei gruppi di uomini che sono in comunione intima e intensamente simpatetica. […] L’esprit de corps, il sentimento nazionale, la simpatia, non sono pure metafore. Nessuno di noi può pienamente comprendere che cosa siano le menti delle corporazioni, non più di quanto una delle mie cellule cerebrali possa sapere ciò che l’intero cervello stia pensando.” (CP 6.271 – 2003, p. 1141 s.)
26E inversamente, niente impedisce che due (o più) personalità si annidino nel medesimo corpo:
L’idea di una seconda personalità, il che equivale a dire la seconda personalità stessa, entra nel campo della coscienza diretta della prima persona, ed è immediatamente percepita come il suo ego, benché con minor forza.” (CP 6.160 – 2003, p. 1120)
27L’unico aspetto fondamentale è che la coerenza esibita dalle persona(lità) non sia meccanica e predeterminata: un fiume che scorre e si scava il proprio letto esibisce un abito mentale (cfr. CP 5.492) ma non un carattere personale. La necessità – il grande nemico di Peirce nei saggi cosmologici – equivale al perseguimento di fini immutabili, e stabiliti una volta per tutte. La coerenza genuina che definisce la persona(lità) implica invece che si possa (e a volte si debba) cambiare idea. Questa ci sembra una caratteristica sensata quando parliamo di uomini, mentre ci appare straniante se parliamo di Dio (che pure è – o dovrebbe essere – una persona). Eppure, per Peirce, è proprio così.
4. Sul carattere personale di Dio
The word ‘God’ […]
is the definable proper name.
Charles S. Peirce (1908)
28Il teismo di Peirce non andrebbe considerato come una debolezza personale, o come una semplice concessione all’ambiente in cui egli si era formato: al contrario, si tratta di un aspetto del suo pensiero che non solo è coerente con gli altri, ma che compendia per certi versi il suo sistema filosofico. Non è questo il luogo per mostrarlo in esteso18, ma mi limiterò a mettere brevemente in rilievo gli aspetti connessi alla nozione di persona, e che mi portano a radicalizzare l’idea dell’opposizione tra persona e individuo.
29Come è noto, la “prova” peirceana della realtà di Dio (non della sua esistenza, come vedremo fra poco) è abbastanza particolare, e più simile a una ricetta di cucina che a un teorema di geometria19. Si tratta di un invito alla pratica quotidiana del musement, il libero gioco dell’immaginazione che si oppone al pensiero scientifico: laddove, infatti, quest’ultimo è vincolato alla catena abduzione-deduzione-induzione (faccio un’ipotesi, ne traggo tutte le conseguenze, verifico se queste conseguenze si danno), il musement consiste, all’inverso, nello scacciare qualsiasi ipotesi a mano a mano ch’essa si presenti, e nel lasciar correre l’immaginazione senza regole. Se, praticando correttamente e costantemente questo gioco, il pensiero di una divinità si presenterà invariabilmente, allora ciò significherà che si tratta di un ente necessario (come oggetto di pensiero)20. Se Laplace, rispondendo a Napoleone, aveva detto di non aver bisogno di Dio come ipotesi, Peirce risponde(rebbe) che la realtà di Dio risiede esattamente nel non essere strumentale, nell’affacciarsi inevitabilmente al pensiero nonostante non serva a niente (o a niente di particolare, per essere più precisi). Un modo in cui egli esprime questo carattere è dicendo che si tratta dell’unico nome proprio21 necessario: un uno che è il tutto (e non possono esservene altri).
30La realtà di Dio è dunque tutta mentale: è terzità di terzità, (matematicamente, il continuo dei continui: cfr. Havenel 2015, pp. 109 sg.). Ma se l’esistenza è secondità, e la divinità è terzità completamente dispiegata, ciò implica che Dio non deve esistere. L’idea che l’esistenza sia una perfezione, cardine delle prove dell’esistenza divina, da Anselmo d’Aosta a Gödel, è rifiutata da Peirce: «Sarebbe feticismo dire che Dio esiste» (CP 6.495). Tutto ciò che esiste influisce, al modo della secondità, su altri esistenti, ma non è suscettibile di generalizzazione infinita: per questo, nel sistema peirceano, un Dio esistente sarebbe imperfetto (sarebbe una cosa).
31Il carattere evolutivo della metafisica e della cosmologia di Peirce impone però che questa terzità dispiegata, continuo dei continui, uno-tutto, non sia sempre uguale a sé stessa. Il Dio peirceano non è un uno parmenideo, ma cambia. È teleologia in evoluzione, e insieme limite pensabile di questa teleologia. La metafora matematica con cui questo viene rappresentato è quella dell’iperbole, curva in sviluppo continuo che ha un inizio e una fine solo ideali (cfr. CP. 6.581). L’alfa e l’omega dell’Apocalisse, dunque, possono essere visti come simbolo di questo inizio e questa fine ideali, presupposti necessari ma non attingibili22, il primo e il secondo assoluti da cui la terzità dispiegata prende origine (cfr. Orange 1984, pp. 42 sgg., Raposa 1989, pp. 79 sg.).
32Quelle che ho appena esposto, d’altra parte, non sono altro che le caratteristiche della nozione di persona, semplicemente generalizzate e portate al loro limite. Come Dio è il limite del mondo, dunque, la persona-Dio è il limite della nozione di persona, pensabile (e necessario), ma non attingibile dalle persone-che-siamo. Dire che una persona è un’immagine di Dio, allora, significa dire che esibisce una teleologia in evoluzione, e una possibilità indefinita di generalizzazione (giacché essere perfettibile è la sola forma di perfezione), che tende a svincolarsi da ogni necessità e dal legame con la secondità. Significa, per chi possiede questo carattere, essere più che sé stesso – per quanto l’uomo lo possa essere – e aprirsi a tutto ciò che è sviluppo, a volte inaspettato ma ragionevole, nel mondo23. Non è poco.
5. Conclusioni
33Le pagine sull’uomo-segno – a rileggerle nel contesto generale – presentano già in nuce (o in atto) i principali caratteri della teoria peirceana della persona(lità): ciò che conta è un’associazione coerente di idee, suscettibile di essere interpretata e integrata con altre associazioni coerenti di idee, e per questo l’individualità è da considerarsi un male, la radice di ciò che osta alla propagazione progressiva delle idee buone. La forza di quella metafora sta anzitutto nel valore di presa di coscienza, di appello immediato inserito in una dimensione antropologica – e infatti le pagine sulla persona(lità) degli anni Novanta, non meno paradossali, non sortiscono quello stesso effetto.
34Ma se ci limitassimo a trasporre in teoria quanto si dice lì, ne risulterebbe una posizione simile a quella della memetica nel senso di Dawkins24: come i geni si servono degli organismi per proliferare, i memi si servono delle menti singole (o meglio, dei cervelli degli individui) per diffondersi25. Ma nella prospettiva dawkinsiana vi sono due aspetti che a Peirce sarebbero piaciuti poco: il primo è l’interpretazione ristretta dello struggle for life darwiniano – contro cui egli si scaglia più volte, specialmente quando prende la forma del cosiddetto “darwinismo sociale”26 – e il secondo è l’idea che gli organismi siano semplici agenti inconsapevoli di questa diffusione e di questa lotta.
35La concezione matura della persona(lità), e il suo esito teistico, non assolvono dunque soltanto a un compito di architettonica intellettuale, ma rivestono un’immensa portata morale e interpellano il singolo in maniera non immediata, ma potente: se combattere contro ciò che vi è in me di individuale, e collaborare allo sviluppo coerente del pensiero, è scelta consapevole e autocontrollata, allora ciò equivale a farsi collaboratore (o complice) della creazione (cfr. CP 6.289; Orange 1984, p. 45; Barrena 2015, pp. 148 sgg.) – che è per Peirce, come abbiamo visto, uno sviluppo progressivo senza inizio né fine. Lungi dall’essere annullati, il valore e la responsabilità del singolo ne risultano rinforzati al massimo grado.
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Notes de bas de page
1 Cfr. De Tienne (2005, p. 101): «Solo un esame superficiale e disattento ci potrebbe portare a concepire la persona come un’entità singolare numerabile. Secoli di abiti, essenzialmente linguistici, ci hanno rafforzato in questa opinione» (lo stesso Peirce, qualche volta, soggiace a tali abiti: cfr. per esempio il testo in R 403 citato in quella stessa pagina).
2 Questa espressione si riferisce sostanzialmente a ciò che De Tienne (2005, pp. 102, 108) chiama “quasi-persona”.
3 A partire dal riconoscimento di tale intento ho costruito la mia presentazione di Peirce (Fadda 2013), cui rimando il lettore meno familiare con l’autore. Altre introduzioni italiane sono Proni (1993) e Fabbrichesi (1993) e Maddalena (2015), che offre anche una sezione antologica. Sugli aspetti biografici cfr. Brent (1998).
4 Il tema non è nuovo per gli specialisti di Peirce: ricognizioni generali – almeno a partire da Colapietro (1989) – sono state tentate più volte, e vari contributi importanti, in lingua italiana, si trovano in Calcaterra (2005). Tra questi, particolarmente rilevante è il già citato saggio di De Tienne (2005), che assumerò come principale termine di confronto nella prima parte di questo scritto. Quando si tratterà invece, nei paragrafi successivi, di esplorare le relazioni con la nozione di sentimento come base della filosofia pratica peirceana, e con la versione di teismo da Peirce propugnata, il principale riferimento per la discussione sarà Atkins (2016), dedicato a questi temi. Le implicazioni più vaste dell’idea peirceana di persona sono relativamente poco note (o quantomeno, meno considerate) dal pubblico più vasto di chi si occupa di semiotica e/o di filosofia; su alcune di esse ho provato a ragionare in (Fadda 2014a, 2014b, 2018).
5 CP 5.313-317 (= 2003, pp. 108 sgg.). Adopero l’abbreviazione consueta e il consueto sistema di citazione per volumi e paragrafi dei Collected Papers (Peirce 1931-58) per comodità, nonostante le pecche filologiche dell’antologia, che hanno portato alcuni specialisti a ritenerla inutilizzabile. Le traduzioni italiane, ove presenti, sono tratte da Peirce (2003).
6 In virtù del principio logico-semiotico espresso dalla massima nota notae est nota rei ipsius (Cfr. Bellucci 2017, pp. 42 e passim).
7 Shakespeare (1603, vv. 117, 119-120). Il riferimento all’essenza vitrea ritornerà – non a caso – come titolo in uno dei saggi cosmologici che vedremo nel paragrafo seguente, nel cui contesto nasce l’idea peirceana di persona(lità).
8 È uso individuare diverse fasi del pensiero di Peirce a partire da serie di articoli (per es.i cosiddetti “saggi anticartesiani” del 1868-9, cui si è accennato sopra), o conferenze (per es.le Harvard Lectures della primavera del 1903). Questo modo di procedere nella ricostruzione storica non è dettato solo da esigenze di comodità, ma corrisponde in effetti a un modo di lavorare dello stesso autore (in qualche modo, sono libri che non vogliono, o non sanno, diventare tali). Sulle diverse versioni della dottrina della continuità cfr. sotto n. 13.
9 The Architecture of Theories (gennaio 1891); The Doctrine of Necessity Examined (aprile 1892); The Law of Mind (luglio 1892); Man’s Glassy Essence (ottobre 1892); Evolutionary Love (gennaio 1893); Reply to the Necessitarians (luglio 1893). Traduzioni italiane in Peirce (2003, pp. 333-350, 1071-1168).
10 Effetus è utilizzato in latino per designare il bestiame che ha appena figliato, ma anche, per traslato, i campi lasciati a maggese, e anche un corpo vecchio e incapace di azione. L’etica della terminologia di Peirce (cfr. CP 2.219-26 – 2003, p. 1284), che lo spingeva a creare termini brutti, ma efficaci e impermeabili a un’estensione semantica “selvaggia” (cfr. CP 5.414), e talvolta perfino a intervenire sui sistemi di suffissazione, non andava disgiunta da una certa raffinatezza lessicale.
11 Sulle implicazioni diffuse del sinechismo nella filosofia di Peirce cfr. Parker (1998).
12 Pietarinen (2010) mostra come il pensiero di Peirce mostri analogie locali, ma anche incompatibilità, con varie posizioni espresse nel xx secolo, ma si sottrae a una comparazione complessiva per le sue peculiarità, a partire dalla scelta delle nozioni di base (per es.‘collezione’ o ‘moltitudine’). Per una presentazione agile e rigorosa della filosofia della matematica del Novecento cfr. Cellucci (2007).
13 Sull’evoluzione delle ricerche di Peirce sulla nozione matematica di continuo cfr. Havenel (2008, 2015). Le cinque fasi individuate da questo autore sono: antinominalistica (fino al 1884), cantoriana (fino al 1892), infinitesimale (fino al 1897); supermultitudinaria (fino al 1907), e infine topologica. L’esempio appartiene dunque all’esordio della quarta fase, che, con l’introduzione di un continuum dimensionale (si veda infra) è quella fondamentale per la cosmologia evolutiva (cfr. Havenel 2015, p. 119). Sebbene la concezione topologica sia ancora più radicale (e più funzionale dal punto di vista filosofico), credo anch’io, come Moore (2015, p. 128 n.1) che la concezione “matura” nel suo complesso – quella in cui Peirce prende la via opposta rispetto a Cantor – sia innescata proprio da La legge della mente (e dunque da fattori non riducibili a quelli meramente matematici).
14 L’esempio anticipa la costruzione dei grafi esistenziali, in cui il continuo di ordine superiore (foglio di asserzione) è lo sfondo su cui si staglia l’identità, rappresentata da una linea (ma quella linea è a sua volta un continuo).
15 Questo non significa, naturalmente, che non vi siano, nell’ambito della filosofia pratica, alcune premesse condivise tra Peirce e James (e nell’ambito della tradizione, pragmatista in generale) – prima tra tutte la svalutazione del primato della coscienza a favore di quello dell’esperienza: cfr. Fabbrichesi (2014).
16 Meno corretto mi pare opporre tradizione “greca” e “macedone”, come fa Atkins (2016, p. 23).
17 Cfr. anche Hookway (1997, p. 216 «…a stable system of emotional attitudes»), e Acosta (2019), che riconosce anche la possibilità di educare i sentimenti (come avviene, appunto, con gli abiti) in ragione della loro natura di sistemi logici di emozioni. Non si tratta però di una posizione universalmente condivisa tra i commentatori. In particolare, Atkins (2016, p. 54) afferma che «characterizing sentiments as habits is not quite accurate», perché «[f]or Peirce, sentiments are feelings and feelings are Firsts». Per l’autore, i sentimenti sarebbero dunque meri feelings, primità semplici, colte semplicemente nel loro essere innescate da abiti (istinti o abituazioni molto precoci) e nella loro funzione locale di causazione del comportamento («conscious effectuation» – ivi, p. 55). Questa definizione mi sembra mal conciliabile con quella di Savan (pure accolta dall’autore), nonché con il fatto che lo stesso Atkins in altre parti del testo (cfr. per esempio pp. 66, 75) caratterizza i sentiments come generalizzazioni.
18 Saggi pionieristici in questo campo sono Orange (1984) e Raposa (1989). Discussioni di dettaglio sugli argomenti di Peirce in favore del teismo si trovano in Atkins (2016; cfr. infra). Sul legame tra la dimensione teologica e quella estetica nel pensiero di Peirce cfr. Barrena (2017).
19 A Neglected Argument for the Reality of God, 1908 (CP 6.452-85 – 2003, pp. 1233-1254). L’analisi di questo saggio condotta da Atkins (2016, pp. 85 sgg.) parte da due presupposti a mio avviso non sufficientemente argomentati: 1) il testo ha uno scopo più modesto di quello dichiarato: si tratta solo di difendere la plausibilità di un’ipotesi divina ottenuta con corsi di pensiero non formali/controllati; 2) l’idea che la divinità non può essere un esistente (per cui cfr. sotto) non è pertinente al ragionamento sviluppato da Peirce (ivi, p. 114). Sulla prima ho motivi di dissentire (si veda la nota seguente); quanto alla seconda, sono interessato alle conseguenze di questa idea non nel contesto di quello scritto, ma in relazione alla definizione di una nozione di persona (che in quel testo non è posta a tema).
20 Di fatto, nonostante l’origine religiosa, il tema del musement è stato sviluppato in contesti diversi, e innanzitutto nei testi dedicati alla semiotica della detection, da Eco & Sebeok (1983) in poi. Atkins (2016, pp. 88 sgg.) tende a considerare il ricorso al musement puramente esemplificativo: esso sarebbe per lui solo uno dei corsi di pensiero che possono portare ad apprezzare la plausibilità di un’ipotesi divina. Questo mi appare come una forzatura del dettato di Peirce (CP. 6.462), che si riferisce sì a «wonderfully different ways of thinking», ma sempre all’interno del musement. Per conto mio, è invece proprio la natura specifica del musement (la determinazione nel “lasciar correre” il pensiero senza entrare nel circuito abduzione-deduzione-induzione tipico dell’inquiry) ciò che dovrebbe far propendere per l’idea che si tratta davvero di un argomento per la “realtà” di Dio: un ente non esistente, che si presenta però come ipotesi «irresistible» (CP 6.480), per quanto non provata e non provabile scientificamente, e che raccomanda un certo tipo di ideale e di condotta.
21 CP 6.542. Nel considerare questa definizione, dobbiamo tenere a mente che il nome proprio non è (se non secondariamente) il nome che pertiene a una cosa, e solo a quella, ma nella tradizione grammaticale e logica è anzitutto “ciò che propriamente è nome” (onoma kyrion). Dire che ‘Dio’ è l’unico nome proprio definibile significa, dunque, che la sua unicità non è contingente (come nel caso del sole, che è un nome comune ma diventa di fatto il nome d’unica entità) ma necessaria: c’è necessariamente una divinità, e solo una, e questa divinità deve avere un nome in senso proprio.
22 Se torniamo alla metafora della continuità vista sopra, essi corrisponderebbero alla discontinuità assoluta e alla continuità non ulteriormente generalizzabile.
23 Cfr. Havenel (2015, p. 109): «We can now see the connection Peirce found between his conception of continuity and spirituality; with the idea that there is between each one of us and the Creator, a real continuity» La “ragionevolezza ragionevole” (reasonable reasonableness) è individuata da Peirce (cfr. CP 5.121) come oggetto proprio della metafisica, e in qualche modo è una definizione di Dio, inteso come terzità assoluta.
24 Cfr. Dawkins (1976, cap. 11). L’accezione oggi più diffusa di ‘meme’, com’è noto, deriva in larga misura da questa, ma ha assunto un significato più ristretto (così come, p. es., ‘annegare’ passò a significare “uccidere per acqua” e poi “morire per acqua” dal significato più generale di “dare la morte”: cfr. Saussure 1922, p. 93, da cui traggo l’esempio, con modifiche).
25 Credo che De Tienne (2005, p. 99) abbia in mente anche un pericolo di questo genere, quando precisa che la concezione peirceana «non [equivale a] dire che Peirce riduca l’ego a un mero luogo dove si manifesta un continuo simbolico. Una persona non può ridursi a un luogo di espressione semiotica. Se un simile luogo esiste, si tratta di un organismo vivente».
26 Cfr. CP 6.294, in cui Peirce oppone il «Gospel of greed» del darwinismo sociale al vangelo cristiano.
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